[725,1] La forza {creatrice}
dell'animo appartenente alla immaginazione, è esclusivamente propria degli
antichi. Dopo che l'uomo è divenuto stabilmente infelice, e, che peggio è, l'ha
conosciuto,
726 e così ha realizzata e confermata la sua
infelicità; inoltre dopo ch'egli ha conosciuto se stesso e le cose, tanto più
addentro che non doveva, e dopo che il mondo è divenuto filosofo,
l'immaginazione veramente forte, verde, feconda, creatrice, fruttuosa, non è più
propria se non de' fanciulli, o al più de' poco esperti e poco istruiti, che son
fuori del nostro caso. L'animo del poeta o scrittore ancorchè nato pieno di
entusiasmo di genio e di fantasia, non si piega più alla creazione delle
immagini, se non di mala voglia, e contro la sottentrata o vogliamo dire la
rinnuovata natura sua. Quando vi si pieghi, vi si piega ex
instituto, ἐπιτηδές, per forza di volontà, non d'inclinazione, per
forza estrinseca alla facoltà immaginativa, e non intima sua. La forza di un tal
animo ogni volta che si abbandona all'entusiasmo (il che non è più così
frequente) si rivolge all'affetto,
727 al sentimento,
alla malinconia, al dolore. Un Omero, un
Ariosto non sono per li nostri
tempi, nè, credo, per gli avvenire. Quindi molto e giudiziosamente e
naturalmente le altre nazioni hanno rivolto il nervo e il forte e il principale
della poesia dalla immaginazione all'affetto, cangiamento necessario, e
derivante per se stesso dal cangiamento dell'uomo. Così accadde
proporzionatamente anche {ai} latini, eccetto Ovidio. E anche
l'italia ne' principii della sua poesia, cioè quando
ebbe veri poeti, Dante, il Petrarca, il Tasso, (eccetto l'Ariosto) sentì e seguì questo cangiamento, anzi ne diede l'esempio
alle altre nazioni. Perchè dunque ora torna indietro? Vorrei che anche i tempi
ritornassero indietro. Ma la nostra infelicità, e la cognizione che abbiamo, e
non dovremmo aver, delle cose, in vece di scemare, si accresce. Che smania è
questa dunque di voler fare quello stesso che facevano i nostri avoli, quando
noi siamo così mutati? di ripugnare alla natura delle cose? di voler fingere una
728 facoltà che non abbiamo, o abbiamo perduta, cioè
l'andamento delle cose ce l'ha renduta infruttuosa e sterile, e inabile a
creare? di voler essere Omeri, in tanta
diversità di tempi? Facciamo dunque quello che si faceva ai tempi di Omero, viviamo in quello stesso modo,
ignoriamo quello che allora s'ignorava, proviamoci a quelle fatiche a quegli
esercizi corporali che si usavano in quei tempi. E se tutto questo ci è
impossibile, impariamo che insieme colla vita e col corpo, è cambiato anche
l'animo, e che la mutazione di questo è un effetto necessario, perpetuo, e
immancabile della mutazione di quelli. Diranno che gl'italiani sono per clima e
natura più immaginosi delle altre nazioni, e che perciò la facoltà creatrice
della immaginativa, ancorchè quasi spenta negli altri, vive in loro. Vorrei che
così fosse, come sento in me dalla fanciullezza e dalla prima giovanezza in poi,
e vedo negli
729 altri, anche ne' poeti più riputati,
che questo non è vero. Se anche gli stranieri l'affermano, o s'ingannano, come
in cose lontane, e come il lontano suol parere bellissimo o notabilissimo;
ovvero intendono solamente di parlare in proporzione degli altri popoli, non mai
nè assolutamente, nè in comparazione degli antichi, perchè anche l'immaginativa
italiana, in vigore dell'andamento universale delle cose umane, è illanguidita e
spossata in maniera, che per quel che spetta al creare, non ha quasi più se non
quella disposizione che gli deriva dalla volontà e dal comando dell'uomo, non da
sua propria ed intrinseca virtù, ed inclinazione.
[1449,1] Non solo i contemporanei p. e. di Omero, sentivano e gustavano la di lui semplicità ben
meno di noi, come ho detto altrove p. 1420, ma lo stesso Omero non si accorgeva di esser semplice,
non credè non cercò di esser pregevole per questo, non sentì non conobbe
pienamente il pregio e il gusto della semplicità (nè in genere, nè della sua
propria): come si può vedere in quei soverchi epiteti ec. ed altri ornamenti
ch'egli profonde fuor di luogo, come fanno i fanciulli
1450 quando cominciano a comporre, e si studiano e stiman pregio
dell'opera tutto il contrario della semplicità, cioè l'esser manierati, ornati
ec. Segni di un'arte bambina, la quale infanzia dell'arte produceva
insaputamente la semplicità, e volutamente questi piccoli difetti in ordine alla
stessa semplicità; difetti che un'arte più matura ha saputo facilmente evitare
cercando la semplicità, la quale però non ha mai più potuto conseguire. Così
dico dell'Ariosto ec. de' cui difetti
ho parlato ne' miei primi pensieri pp. 4-5 , ed altrove p. 700. Così dei
trecentisti manieratissimi, e scioccamente carichi di ornamenti in molte cose,
benchè, per indole naturale,
semplicissimi ec. (4. Agos. 1821.).
[1789,1] Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perchè
destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse. Così in quella
divina stanza
dell'Ariosto (1. 65.)
Quale stordito e stupido aratore,
Poi ch'è passato il fulmine, si leva
Di là dove l'altissimo fragore
Presso a gli uccisi buoi steso l'aveva,
Che mira senza fronde e senza onore
Il pin che di lontan veder soleva;
Tal si levò il Pagano a piè rimaso,
Angelica presente al duro caso. *
Dove l'effetto delle parole di lontano si unisce a quello del soleva, parola di significato egualmente vasto per la copia delle rimembranze che contiene. Togliete queste due parole ed idee; l'effetto di quel verso si perde, e si scema se togliete l'una delle delle due. (25. Sett. 1821.).
Quale stordito e stupido aratore,
Poi ch'è passato il fulmine, si leva
Di là dove l'altissimo fragore
Presso a gli uccisi buoi steso l'aveva,
Che mira senza fronde e senza onore
Il pin che di lontan veder soleva;
Tal si levò il Pagano a piè rimaso,
Angelica presente al duro caso. *
Dove l'effetto delle parole di lontano si unisce a quello del soleva, parola di significato egualmente vasto per la copia delle rimembranze che contiene. Togliete queste due parole ed idee; l'effetto di quel verso si perde, e si scema se togliete l'una delle delle due. (25. Sett. 1821.).
[3413,1]
3413
Alla p. 2841.
Sperone Speroni nell'Orazione in morte del Cardinal Bembo, quinta
delle Orazioni sue stampate in
Ven. 1596. pag. 144-5 poco innanzi il mezzo
dell'orazione suddetta.. I
medesimi verbi colla stessa construtione
*
(p. 145.)
usa il volgar
poeta,
*
(il poeta italiano) che suole usar l'oratore; onde non pur è lunge da
quell'errore, ove spesse fiate veggiamo incorrere i Greci, et
qualche volta i Latini, cioè a dire, che egli si paia di favellare
in un'altra lingua, che non è quella dell'oratore; anzi i più lodati
Toscani all'hora sperano di parlar bene nelle lor prose, et par quasi, che sene vantino, quando al modo, che
da' Poeti è tenuto hanno affettato di ragionare. Et chi questo non
crede, vada egli a leggere il Decameron del Boccaccio, terzo lume di questa
lingua, et troveravvi per entro cento versi di Dante così intieri, come li fece la sua
comedia.
*
{#1. V. p. 3561.} Non parrebbe da queste parole che
l'italia non avesse lingua propriamente
3414 poetica, o certo ben poco distinta dalla prosaica?
E non è d'altronde manifesto ch'ella ha una lingua poetica più distinta dalla
prosaica che non è quella di forse niun'altra lingua vivente, e certo più che
non è quella de' Latini, in quanto si vede che noi, imparato che abbiamo ad
intendere la prosa latina, intendiamo con poco più studio la poesia, {+(lo studio che ci vuole, e il divario tra
il linguaggio della poesia latina e
della prosa, consiste principalmente nella diversità di molta parte delle
trasposizioni, ossia nell'ordine e costruzione delle parole, ch'in parte è
diversa)} ma uno straniero non perciò ch'egli ottimamente intendesse
la nostra moderna lingua prosaica, intenderebbe senza molto apposito studio la
poetica? Tant'è. Nello stesso cinquecento, l'italia non
aveva ancora una lingua che fosse formalmente poetica, cioè la diversità del
linguaggio tra i poeti e gli oratori, non era per anche se non lieve, e male o
insufficientemente determinata. Gli scrittori prosaici che componevano con
istudio e con presunzione di bello stile, si accostavano alla lingua del Boccaccio e de' trecentisti, e questa era
similissima alla lingua poetica, perchè la lingua poetica del 300. era quasi una
colla prosaica. Gli scrittori poetici che scostandosi dalla lingua del 300,
volevano
3415 accostarsi a quella del loro secolo,
davano in uno stile familiare, bellissimo bensì, ma poco diverso da quel della
prosa. Testimonio l'Orlando dell'Ariosto e l'Eneide del Caro, i quali, a quello togliendo le
rime, a questa la misura {+(oltre le
immagini e la qualità de' concetti ec.)} in che eccedono o di che
mancano che non sieno una bellissima ed elegantissima prosa? E paragonando il
poema del Tasso (scritto nella {{propria}} lingua del suo tempo) colle prose eleganti di
quell'età, poco divario vi si potrà scoprire quanto alla lingua. Di più i poeti
italiani del 500. furono soliti (massime i lirici, che sono i più) di modellarsi
sullo stile di Petrarca e di Dante. Il carattere di questo stile {riuscì ed è} necessariamente familiare, come ho detto
altrove pp. 1808-10
pp.
2542-44
pp. 2639-42
pp. 2836-41. Seguendo
questo carattere, o che i poeti del 500 l'esprimessero nella stessa lingua di
que' due, come moltissimi faceano, o nella lingua del 500, come altri; doveano
necessariamente dare al loro stile un carattere di familiare e poco diverso da
quel della prosa. E così generalmente accadde. (Il linguaggio del Casa non è familiare, ed è molto
3416 più distinto dal prosaico, e così il suo stile.
Ciò perchè ne' suoi versi egli non si propose il carattere nè del Petrarca nè di Dante, ma un suo proprio. E quindi quanto il carattere
del suo linguaggio e stile poetico è distinto da quel della prosa, tanto egli è
ancora diverso da quello {+del linguaggio
e stile} sì di Dante e Petrarca, sì degli altri lirici, e poeti
quali si vogliano, del suo tempo.). La Coltivazione, le Api ec. sono {ben sovente}
bella prosa misurata {+quanto al
linguaggio, ed allo stile eziandio: e ciò quantunque l'uno e l'altro poema
sieno imitazioni, e l'Api nient'altro quasi che traduzione,
delle georgiche, il
capo d'opera dello stile il più poetico e il più separato dal familiare, dal
volgo, dal prosaico. Similmente si può discorrere dell'Eneide del Caro.}
[3976,1] Non è propria de' tempi nostri altra poesia che la
malinconica, nè altro tuono di poesia che questo, sopra qualunque subbietto ella
possa essere. Se v'ha oggi qualche vero poeta, se questo sente mai veramente
qualche ispirazione di poesia, e va poetando seco stesso, o prende a scrivere
sopra qualunque soggetto, da qualunque causa nasca detta ispirazione, essa è
certamente malinconica, e il tuono che il poeta piglia naturalmente o seco
stesso o con gli altri nel seguir questa inspirazione (e senza inspirazione non
v'è poesia degna di questo nome) è il malinconico. Qualunque sia l'abito, la
natura, le circostanze ec. del poeta, pur ch'ei sia di nazione civile, così gli
accade, e come a lui così a un altro che non avrà di comune con lui se non
questo solo. ec. Fra gli antichi avveniva tutto il contrario. Il tuono naturale
che rendeva la loro cetra era quello della gioia o della forza {+della solennità} ec. La poesia loro
era tutta vestita a festa, anche, in certo modo, quando il subbietto l'obbligava
ad esser trista. Che vuol dir ciò? O che gli antichi avevano meno sventure reali
di noi, (e questo non è forse vero), o che meno le sentivano e meno le
conoscevano, il che viene a esser lo stesso, e a dare il medesimo risultato,
cioè che gli antichi erano dunque meno infelici de' moderni. E tra gli antichi
metto anche, proporzionatamente, l'Ariosto ec. (12. Dec. 1823.).
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