Tasso.
Tasso.
462,1 700-2 727 803-4 1178,fine 2999,1 3095,2 3173,1 3415 3525,3 3590,1 3768,1 3884,1 4160,10[462,1] Chiunque conosce intimamente il Tasso, se non riporrà lo scrittore o il poeta fra i
sommi, porrà certo l'uomo fra i primi, e forse nel primo luogo del suo
tempo.
[700,1] Del resto quello ch'io dico della perfezione di stile
nei cinquecentisti si deve intendere dei prosatori, non dei poeti. Anzi io mi
maraviglio come quella tanta gravità e dignità che risplende ne' prosatori, si
cerchi invano in quasi tutti i poeti di quel secolo, e bene spesso anche negli
ottimi. I difetti dello stile poetico di quel secolo, anche negli ottimi, sono
infiniti, massime la ridondanza, gli epiteti, i sinonimi accumulati (al
contrario delle prose) ec. lasciando i più essenziali difetti di arguzie,
insipidezze ec. anche nell'Ariosto e
nel Tasso. E non è dubbio che Dante e Petrarca (sebbene non senza gran difetti di stile) furono nello stile
più vicini alla
701 perfezione che i cinquecentisti, e
così lo stile poetico del trecento (riguardo a questi due poeti) è superiore al
cinquecento: (tanto è vero che la poesia migliore è la più antica, all'opposto
della prosa, dove l'arte può aver più luogo). E dal trecento in poi lo stil
poetico {italiano} non è stato richiamato agli antichi
esemplari, massime latini, nè ridotto a una forma perfetta e finita, prima del
Parini e del Monti. V. gli altri miei pensieri in questo proposito
p.
10
pp.
59-60. Parlo però del stile poetico, perchè nel resto se si eccettuano
quanto agli affetti il Metastasio e
l'Alfieri (il quale però fu
piuttosto filosofo che poeta), quanto ad alcune (e di rado nuove) immagini il
Parini e il Monti (i quali sono piuttosto letterati di finissimo
giudizio, che poeti); l'italia dal cinquecento in poi non
solo non ha guadagnato in poesia, ma ha avuto solamente
702 versi senza poesia. Anzi la vera {poetica} facoltà creatrice, {sia quella del cuore
o quella della immaginativa,} si può dire che dal cinquecento in qua
non si sia più veduta in italia; e che un uomo degno del
nome di poeta (se non forse il Metastasio) non sia nato in italia dopo il
Tasso. (27. Feb.
1821.).
[725,1] La forza {creatrice}
dell'animo appartenente alla immaginazione, è esclusivamente propria degli
antichi. Dopo che l'uomo è divenuto stabilmente infelice, e, che peggio è, l'ha
conosciuto,
726 e così ha realizzata e confermata la sua
infelicità; inoltre dopo ch'egli ha conosciuto se stesso e le cose, tanto più
addentro che non doveva, e dopo che il mondo è divenuto filosofo,
l'immaginazione veramente forte, verde, feconda, creatrice, fruttuosa, non è più
propria se non de' fanciulli, o al più de' poco esperti e poco istruiti, che son
fuori del nostro caso. L'animo del poeta o scrittore ancorchè nato pieno di
entusiasmo di genio e di fantasia, non si piega più alla creazione delle
immagini, se non di mala voglia, e contro la sottentrata o vogliamo dire la
rinnuovata natura sua. Quando vi si pieghi, vi si piega ex
instituto, ἐπιτηδές, per forza di volontà, non d'inclinazione, per
forza estrinseca alla facoltà immaginativa, e non intima sua. La forza di un tal
animo ogni volta che si abbandona all'entusiasmo (il che non è più così
frequente) si rivolge all'affetto,
727 al sentimento,
alla malinconia, al dolore. Un Omero, un
Ariosto non sono per li nostri
tempi, nè, credo, per gli avvenire. Quindi molto e giudiziosamente e
naturalmente le altre nazioni hanno rivolto il nervo e il forte e il principale
della poesia dalla immaginazione all'affetto, cangiamento necessario, e
derivante per se stesso dal cangiamento dell'uomo. Così accadde
proporzionatamente anche {ai} latini, eccetto Ovidio. E anche
l'italia ne' principii della sua poesia, cioè quando
ebbe veri poeti, Dante, il Petrarca, il Tasso, (eccetto l'Ariosto) sentì e seguì questo cangiamento, anzi ne diede l'esempio
alle altre nazioni. Perchè dunque ora torna indietro? Vorrei che anche i tempi
ritornassero indietro. Ma la nostra infelicità, e la cognizione che abbiamo, e
non dovremmo aver, delle cose, in vece di scemare, si accresce. Che smania è
questa dunque di voler fare quello stesso che facevano i nostri avoli, quando
noi siamo così mutati? di ripugnare alla natura delle cose? di voler fingere una
728 facoltà che non abbiamo, o abbiamo perduta, cioè
l'andamento delle cose ce l'ha renduta infruttuosa e sterile, e inabile a
creare? di voler essere Omeri, in tanta
diversità di tempi? Facciamo dunque quello che si faceva ai tempi di Omero, viviamo in quello stesso modo,
ignoriamo quello che allora s'ignorava, proviamoci a quelle fatiche a quegli
esercizi corporali che si usavano in quei tempi. E se tutto questo ci è
impossibile, impariamo che insieme colla vita e col corpo, è cambiato anche
l'animo, e che la mutazione di questo è un effetto necessario, perpetuo, e
immancabile della mutazione di quelli. Diranno che gl'italiani sono per clima e
natura più immaginosi delle altre nazioni, e che perciò la facoltà creatrice
della immaginativa, ancorchè quasi spenta negli altri, vive in loro. Vorrei che
così fosse, come sento in me dalla fanciullezza e dalla prima giovanezza in poi,
e vedo negli
729 altri, anche ne' poeti più riputati,
che questo non è vero. Se anche gli stranieri l'affermano, o s'ingannano, come
in cose lontane, e come il lontano suol parere bellissimo o notabilissimo;
ovvero intendono solamente di parlare in proporzione degli altri popoli, non mai
nè assolutamente, nè in comparazione degli antichi, perchè anche l'immaginativa
italiana, in vigore dell'andamento universale delle cose umane, è illanguidita e
spossata in maniera, che per quel che spetta al creare, non ha quasi più se non
quella disposizione che gli deriva dalla volontà e dal comando dell'uomo, non da
sua propria ed intrinseca virtù, ed inclinazione.
[801,1]
Alla p. 745.
Difficilmente si vedrà che una qualunque nazione {una
qualunque letteratura.} abbia avuto in due diversi tempi
(eccetto se {il tempo e} la nazione è del tutto
rinnuovata, come l'italiana rispetto alla latina) due scrittori eccellenti e
sommi in
802 uno stesso genere. Da che quel genere ne ha
avuto uno perfetto, e riguardato come perpetuo modello, sebbene quel genere
possa avere diverse specie, gl'ingegni grandi e superiori, o sdegnando di non
poter essere se non uguali a quello, e di dovere avere un compagno, o per la
naturale modestia e diffidenza di chi conosce bene e sente la difficoltà delle
imprese, temendo di restare inferiori in un assunto, di cui già è manifesta,
sperimentata, conseguita, la perfezione, e posta negli occhi di tutti e nei
propri loro; si sono sempre rivolti ad altro, e solamente i piccoli ingegni de'
quali è propria la confidenza e temerità sono entrati nell'arringo, spronati
dalle lodi di quell'eccellente, e dalla gola di quella celebrità, quasi fosse
facile a conseguire, e misurando l'impresa non da se stessa e dalla sua
difficoltà, ma dal loro desiderio di riuscirci, e dal premio che era proposto al
buon successo. {Un'altra ragione, e fortissima è, che quando il genere ha già avuto uno
sommo, il genere non è più nuovo; non vi si può più essere originale, senza
che, è impossibile esser sommo. O se vi si potrebbe pur essere originale,
v'è quella eterna difficoltà, che anche gl'ingegni sommi, vedendo una strada
già fatta, in un modo o in un'[un] altro
s'imbattono in quella; o confondono il genere con quella tale strada, quasi
fosse l'unica a convenirgli, benchè mille ve ne siano da poter fare, e forse
migliori assai.} La stessa Grecia in tanta
copia di scrittori e poeti d'ogni genere,
803 e di buoni
secoli letterati dopo Omero, e, quel
ch'è forse più, in tanta distanza da lui, non ebbe mai più nessun epico, se non
dappoco, come Apollonio Rodio. E lo
stesso Omero (se è vero che
l'Odissea è posteriore all'Iliade, come dice
Longino) non aggiunse niente alla sua fama pubblicando
l'Odissea. Sebbene, chiunque si fosse quest'Omero, io congetturo e credo che
l'Iliade e l'Odissea non sieno di uno stesso
autore, ma questa imitata dallo stile, dalla lingua, dal fare, e dall'Argomento
di quella, con quel languore, e sovente noia che ognuno può vedere. La qual
congettura io rimetto a quei critici che sono profondamente versati nelle
antichità omeriche, e di quei tempi antichissimi, e conoscono intimamente i due
poemi: purchè oltre a questo, siano anche persone di buon gusto e giudizio.
Taccio de' latini e degl'infelici {loro} tentativi di
Epopea dopo Virgilio, così prestante ed
eminente in essa fra loro, come Cic.
nell'eloquenza. Sebbene il Tasso non
si può veramente nel
804 suo genere dire perfetto,
neppur sommo come Omero (che sommo fu
egli, ma non il suo poema, nè egli quivi), contuttociò
l'italia dopo lui non ebbe poema epico degno di
memoria, sebbene molti o piccoli o mediocri ingegni, tentassero la stessa
carriera. Anzi quantunque vi sia tanta differenza fra il genere del poema
dell'Ariosto e quello del Tasso, pure sembrò strano ch'egli si
accingesse a quel travaglio dopo l'Ariosto, e pubblicata la Gerusalemme, i suoi nemici
non mancarono di paragonarla all'Orlando, di posporla, di accusare il Tasso di temerità ec. {Dopo Molière la
Francia non ha avuto grandi comici, nè
l'Italia dopo Goldoni.} Tutto questo, sebbene apparisca forse
principalmente nella letteratura, tuttavia si può applicare a molti altri rami
del sapere, o di altri pregi umani. Si possono però citare in contrario il Racine dopo il Corneille, e il Voltaire dopo lui, e qualche tragico inglese dopo Shakespeare, ma nessuno però di quella eccellenza e
fama. La quale per cadere nel mio discorso, dev'essere assolutamente prestante,
sorpassante e somma sì nel modello, come nel successore o successori. (17.
Marzo 1821.). {{V. p. 810. capoverso
1.}}
[1177,1] 2. Questi geni straordinari, penetrano in certi
1178 misteri, in certe parti della natura così riposte;
scuoprono e vedono tante cose, che la stessa copia e profondità delle loro
concezioni, {ne} impedisce la chiarezza tanto riguardo
a essi stessi, quanto al comunicarle altrui; ne impedisce l'ordine, insomma
vince le loro stesse facoltà, e non è capace, a cagione dell'eccesso, di essere
determinata, circoscritta, e ridotta a frutto. La forza della loro mente
soverchia la capacità della stessa mente, perchè insomma la natura, e la copia
delle verità esistenti è molto maggiore della capacità e delle facoltà
dell'uomo. E il troppo vedere, il troppo concepire, rende questi tali ingegni,
sterili e infruttuosi; e se scrivono, i loro scritti o sono di poco conto, ed
anche aridi espressamente e poveri (come quelli di Ermogene); o certo minori assai del loro ingegno.
Come quegli animali inetti alla generazione per l'eccesso della forza generativa
(i muli). E la stupidità {della vita} è ordinariamente
il carattere di tali persone, o mentre ancora son giovani, o da vecchi, come
narrano che fosse detto a Pico
Mirandolano. Quello che dico dell'intelletto e della filosofia, dico
pure della immaginazione e delle arti che ne derivano. Esempio del Tasso, della sua pazzia, dell'essere i
suoi
1179 componimenti, quantunque bellissimi, certo
inferiori alla sua facoltà, ed a quegli stessi degli altri tre sommi italiani, a
niuno de' quali egli fu realmente minore. E lo stesso dico eziandio di qualunque
altra facoltà e disciplina particolare. (17. Giugno 1821.).
[2999,1]
2999
Alla p. 2906.
Bell'effetto fanno nell'Aminta e nel Pastor fido, e
massime in questo, i cori, benchè troppo lambiccati e peccanti di seicentismo, e
benchè non vi siano introdotti se non alla fine e per chiusa di ciascun atto. Ma
essi fanno quivi l'offizio che i cori facevano anticamente, cioè riflettere
sugli avvenimenti rappresentati, veri o falsi, lodar la virtù, biasimare il
vizio, e lasciar l'animo dello spettatore rivolto alla meditazione e a considerare in grande quelle cose e quei
successi che gli attori e il resto del dramma non può e non dee
rappresentare se non come particolari e individue, senza sentenze espresse,
e senza quella filosofia che molti scioccamente pongono in bocca degli
stessi personaggi. Quest'uffizio è del coro; esso serve con ciò ed
all'utile {e profitto} degli spettatori che dee
risultare dai drammi, ed al diletto che nasce dal vago della riflessione e dalle
circostanze e cagioni spiegate di sopra. (21. Luglio. 1823.).
[3095,2] Riprendono {nell'iliade} la poca unità, l'interesse principale
che i lettori prendono per Ettore, il
doppio Eroe (Ettore ed Achille), e
conchiudono che {se Omero} nelle parti è superiore agli altri poeti, nel tutto
però preso insieme, nella condotta del poema, nella regolarità è inferiore agli
altri epici, particolarmente a Virgilio.
Certo se potessero esser vere regole {di poesia} quelle
che si oppongono al buono e grande effetto della medesima e alla natura
dell'uomo, io non disconverrei da queste sentenze. {In proposito delle cose contenute nel séguito di questo
pensiero, vedi la pag. 470. capoverso
2.}
[3173,1]
Alla p. 3132. marg.
principio. Da quello che si legge
nell'epistola di Antonio Eparco a Filippo Melantone (ch'era pur non cattolico, ma
famoso eretico e poco si doveva curare de' luoghi santi) la qual epistola è
riportata dal Fabricio nel citato
luogo; e dalle varie scritture ed anche storie di quei tempi, si
raccoglie che in verità il gabinetto ottomanno mirasse a soggettarsi
l'europa, non tanto per diffondere la religione di
Maometto
(sebbene anche questo, s'io non m'inganno, è precetto o consiglio dell'Alcorano, che
si proccuri di diffonderla coll'armi il più che si possa, promettendo premi
nell'altra vita a chi sostenga di morire combattendo per questa causa ec.)
quanto per propagare il proprio imperio, e non tanto odiando gli altri principi
e regni europei come Cristiani, quanto appetendoli come materia di conquista. O
certo pare che gli altri gabinetti europei riguardassero tutti la potenza
ottomana con maggior sospetto ch'ei non si guardavano l'un l'altro, temendone,
non {per la} religion Cristiana, ma {per} se
3174 stessi. E senza fallo la
potenza ottomana si manteneva ancora a quel tempo nell'opinione di
conquistatrice appresso gli altri, e il gabinetto ottomano conservava ancora le
intenzioni e i progetti di conquistatori. Nè poteva essere spenta la memoria e
il terrore di quando, non più che un secolo addietro, quella nazione tartara,
{dopo le tante imprese e conquiste e progressi fatti per
sì lungo tempo nell'Asia,} presa
Costantinopoli, antichissima sede del
greco impero, e distrutto l'ultimo avanzo della
potenza romana, aveva finalmente piantato nell'europa
risorgente alla civiltà, un trono barbaro, una lingua e un popolo Asiatico (cosa
fino allora, per quanto si stende la ricordanza delle storie, non più veduta),
{+{oltre}
una religione diversa dalla Cristiana (cosa pur non veduta in
europa da' tempi pagani in poi, eccetto i mori di
Spagna, i quali si debbono eccettuare anche sotto
i rispetti detti di sopra);} ed aveva imposto il giogo della schiavitù
orientale alla più colta nazione che fosse in quei tempi, come apparve dai tanti
esuli, secondo quel tempo, dottissimi, che fuggendo la turca tirannide, si erano
sparsi per le altre parti d'europa, portando i greci
codici, e la greca letteratura, e rendendo comune e proprio di quel secolo più
che d'ogni altro, lo studio ed anche l'uso della greca lingua nelle scuole e
fra' letterati d'italia, di
Francia e di Germania, {+ed aiutando universalmente il progresso
delle rinate lettere.} Spettacolo veramente terribile, la cui
impressione non poteva nel seguente secolo essere spenta, nè si poteva ancora
3175 aver cessato di temere e di odiare
generalmente il Turco sì nelle corti e sì nel popolo, non solo come
conquistatore, ma di più come conquistatore barbaro e crudele, minacciante le
nazioni civili; (quasi come i Goti e gli altri popoli settentrionali ne' bassi
secoli), anche astraendo affatto dalla religione. Quindi il voto de' politici e
degli scrittori di quel secolo {per la lega universale contro
i turchi,} prende un aspetto anche più grave, e non è solamente da
riguardarsi com'effetto di antiche opinioni e rimembranze religiose, e di
fanatismo e d'immaginazione, ma come dirittamente spettante alla politica, e
derivante dalla considerazione delle reali circostanze
d'europa in quel secolo. E tanto più importante
n'apparisce il soggetto, e più degno, {saggio} e nobile
il pensiero, la scelta e l'intenzione del Tasso, che nel suo poema fece servire la religione, e le opinioni e
lo spirito popolare del suo tempo, e le altre cose che si prestano alla poesia
(perocchè le speculazioni politiche non possono esser materia da ciò) a
promuovere quello scopo ch'era allora de' più importanti per la conservazione
della civiltà, della libertà, dello stato, del ben essere di tutta
europa, cioè la concordia de' principi europei per
essere in grado e di respingere e di distruggere il
3176
{Barbaro} che minacciava o era creduto minacciare di
schiavitù tutte le nazioni civili, il comune nemico che macchinava o era creduto
macchinare la conquista di tutta europa dopo quella di
gran parte dell'Asia, e insidiare perpetuamente ai regni
europei, come anticamente i persiani alle greche repubbliche. Nè certo minor
gravità ed importanza dovranno sotto tale aspetto essere riputati avere il poema del
Tasso,
la
Canzone del Petrarca e l'altre poesie e prose italiane o forestiere
appartenenti a tal materia, di quella che avessero le orazioni d'Isocrate
contro il Persiano, o di Demostene
contro il Macedone; anzi, per
ciò che spetta alla materia, tanto maggiore di queste, quanto queste toccavano
l'interesse della grecia sola, piccola parte
d'europa, e quelle miravano alla salvezza
dell'europa intera e di tutte le sue nazioni e
lingue. (15. Agosto. Assunzione di Maria Vergine Santissima. 1823.). Nè la
nimicizia degli europei verso i maomettani, e di questi verso quelli si
restringeva alle sole opinioni e discorsi, ma consisteva anche ne' fatti, {#1. V. Tasso, Gerus. 17. 93.-4, dove parla d'Alfonso II.
di Mod.a e confrontalo coi luoghi dello Speroni da me notati p. 3132. marg.
princip.
V. p.
4017.} come apparisce dalle imprese de' Cavalieri Ospitalieri di S. Giovanni di
Gerusalemme
3177 che in quel medesimo secolo, dopo 212 anni di
possedimento (1310.) perdettero Rodi (1522.) ed ebbero
prima Viterbo dal Papa, e poi Malta
(1530.) da Carlo
V, e con prodigioso valore la difesero (1566.) quattro mesi con morte di
15 mila soldati barbari e ottomila marinai; dalle imprese di Carlo V contra i Maomettani d'Europa
e d'Affrica; da quelle de' Veneziani nel
detto secolo; dalla famosa vittoria di Lepanto riportata
dalle flotte spagnuola, veneziana e del Papa sopra i turchi dieci anni avanti (1571.) che
fosse pubblicata la Gerusalemme (1581.), e certo in tempo che il
Tasso la stava componendo e
meditando, poichè fin dieci anni avanti (1561.), egli n'aveva già scritto o
abbozzato 6. canti. (V. Tirabos. t. 7. par. 3. p.
118.). (16. Agosto. 1823.). {{V. p. 4236. e l'Oraz. del Giacomini in lode del Tasso nelle Prose fior. la qual
finisce con un'esortazione alla guerra contro i
turchi.}}
[3413,1]
3413
Alla p. 2841.
Sperone Speroni nell'Orazione in morte del Cardinal Bembo, quinta
delle Orazioni sue stampate in
Ven. 1596. pag. 144-5 poco innanzi il mezzo
dell'orazione suddetta.. I
medesimi verbi colla stessa construtione
*
(p. 145.)
usa il volgar
poeta,
*
(il poeta italiano) che suole usar l'oratore; onde non pur è lunge da
quell'errore, ove spesse fiate veggiamo incorrere i Greci, et
qualche volta i Latini, cioè a dire, che egli si paia di favellare
in un'altra lingua, che non è quella dell'oratore; anzi i più lodati
Toscani all'hora sperano di parlar bene nelle lor prose, et par quasi, che sene vantino, quando al modo, che
da' Poeti è tenuto hanno affettato di ragionare. Et chi questo non
crede, vada egli a leggere il Decameron del Boccaccio, terzo lume di questa
lingua, et troveravvi per entro cento versi di Dante così intieri, come li fece la sua
comedia.
*
{#1. V. p. 3561.} Non parrebbe da queste parole che
l'italia non avesse lingua propriamente
3414 poetica, o certo ben poco distinta dalla prosaica?
E non è d'altronde manifesto ch'ella ha una lingua poetica più distinta dalla
prosaica che non è quella di forse niun'altra lingua vivente, e certo più che
non è quella de' Latini, in quanto si vede che noi, imparato che abbiamo ad
intendere la prosa latina, intendiamo con poco più studio la poesia, {+(lo studio che ci vuole, e il divario tra
il linguaggio della poesia latina e
della prosa, consiste principalmente nella diversità di molta parte delle
trasposizioni, ossia nell'ordine e costruzione delle parole, ch'in parte è
diversa)} ma uno straniero non perciò ch'egli ottimamente intendesse
la nostra moderna lingua prosaica, intenderebbe senza molto apposito studio la
poetica? Tant'è. Nello stesso cinquecento, l'italia non
aveva ancora una lingua che fosse formalmente poetica, cioè la diversità del
linguaggio tra i poeti e gli oratori, non era per anche se non lieve, e male o
insufficientemente determinata. Gli scrittori prosaici che componevano con
istudio e con presunzione di bello stile, si accostavano alla lingua del Boccaccio e de' trecentisti, e questa era
similissima alla lingua poetica, perchè la lingua poetica del 300. era quasi una
colla prosaica. Gli scrittori poetici che scostandosi dalla lingua del 300,
volevano
3415 accostarsi a quella del loro secolo,
davano in uno stile familiare, bellissimo bensì, ma poco diverso da quel della
prosa. Testimonio l'Orlando dell'Ariosto e l'Eneide del Caro, i quali, a quello togliendo le
rime, a questa la misura {+(oltre le
immagini e la qualità de' concetti ec.)} in che eccedono o di che
mancano che non sieno una bellissima ed elegantissima prosa? E paragonando il
poema del Tasso (scritto nella {{propria}} lingua del suo tempo) colle prose eleganti di
quell'età, poco divario vi si potrà scoprire quanto alla lingua. Di più i poeti
italiani del 500. furono soliti (massime i lirici, che sono i più) di modellarsi
sullo stile di Petrarca e di Dante. Il carattere di questo stile {riuscì ed è} necessariamente familiare, come ho detto
altrove pp. 1808-10
pp.
2542-44
pp. 2639-42
pp. 2836-41. Seguendo
questo carattere, o che i poeti del 500 l'esprimessero nella stessa lingua di
que' due, come moltissimi faceano, o nella lingua del 500, come altri; doveano
necessariamente dare al loro stile un carattere di familiare e poco diverso da
quel della prosa. E così generalmente accadde. (Il linguaggio del Casa non è familiare, ed è molto
3416 più distinto dal prosaico, e così il suo stile.
Ciò perchè ne' suoi versi egli non si propose il carattere nè del Petrarca nè di Dante, ma un suo proprio. E quindi quanto il carattere
del suo linguaggio e stile poetico è distinto da quel della prosa, tanto egli è
ancora diverso da quello {+del linguaggio
e stile} sì di Dante e Petrarca, sì degli altri lirici, e poeti
quali si vogliano, del suo tempo.). La Coltivazione, le Api ec. sono {ben sovente}
bella prosa misurata {+quanto al
linguaggio, ed allo stile eziandio: e ciò quantunque l'uno e l'altro poema
sieno imitazioni, e l'Api nient'altro quasi che traduzione,
delle georgiche, il
capo d'opera dello stile il più poetico e il più separato dal familiare, dal
volgo, dal prosaico. Similmente si può discorrere dell'Eneide del Caro.}
[3525,3]
Alla p. 3141.
marg.
{+2. Ho detto che Argante, Solimano e Clorinda sono i soli Eroi degl'infedeli.
Perocchè d'Altamoro e degli
altri dell'esercito egizio, che non vengono, si può dire, in iscena prima
dell'ultimo canto (si nominano nel 17.o e nel 19.o ma nulla operano) non
pare che sia da tener conto, e l'interesse per loro non ha tempo di nascere
perchè troppo poco conversano coi lettori, oltre che il Tasso li fa molto più barbari ancora e
salvatichi, disumani ed odiosi di Argante e di Solimano, e più empi, dispregiatori {{degli uomini e}} degli Dei
e d'ogni religione ec.} Eroi Cristiani che soprassalgano, non v'ha
nella Gerusalemme, oltre Goffredo, che Raimondo,
Tancredi e Rinaldo. Ma questi sono ottimamente variati tra
loro, e gli ultimi due squisitamente nuancés a
rispetto l'uno dell'altro. E la superiorità di Goffredo e di Rinaldo è ben decisa e tale che i lettori non possono nè dubitarne
ciascuno fra se, nè contrastarne fra loro, nè ricusare al poeta di confessarla:
e con tutto questo ella non si nuoce scambievolmente, nè fa torto neppure a Tancredi o a Raimondo ec. In tutta questa parte l'equilibrio,
l'armonia, la
3526 bilanciata ed armonica e concertata
e concordevole varietà che regnano ne' caratteri del valore de' diversi Eroi de'
Cristiani, sono mirabilissime. I quali caratteri erano sommamente difficili a
variare, e però la lor differenza (massime fra Tancredi e Rinaldo) è piccolissima, ma, quel ch'è maraviglioso, ell'è nel tempo
stesso sensibilissima. Vero è che questa diversificazione l'ha proccurata e
ottenuta il Tasso non tanto col
variare le qualità del valore, quanto colla dispensazion de' successi e delle
imprese, giudiziosissimamente variata e graduata; {+e coll'altre circostanze, come della cura del cielo per
Rinaldo dimostrata con
visioni spedite e tanti miracoli fatti per produrre il suo ritorno al campo
ec. ec.}
(26. Sett. 1823.). {{V. p.
3590.}}
[3590,1]
Alla p. 3526.
Gran difetto però è nella Gerusalemme l'aver voluto compensare e
bilanciare insieme i meriti, l'importanza, le parti di Goffredo e quelle di Rinaldo, e l'interesse per l'uno e per l'altro. Da
ciò segue che l'interesse è
3591 veramente doppio, come
nell'iliade, ma non, come in questa diverso. E perciò
appunto, contro quello che a prima vista si potrebbe giudicare, l'{uno} interesse nuoce all'altro e l'indebolisce; voglio
dire perchè l'interesse è altro senza esser diverso, cioè concorre nella
medesima parte, ch'è la cristiana, ed al medesimo fine, ch'è il buon esito
dell'impresa de' Cristiani. Due interessi affatto diversi, e lontani l'uno
dall'altro, possono non pregiudicarsi nè indebolirsi l'un l'altro. E così accade
ne' due interessi d'Ettore e d'Achille, i quali cadono sopra due
contrarie parti, la greca e la troiana, e l'uno nasce dalla sventura, l'altro
dalla felicità. Ma due interessi posti strettamente a lato l'uno dell'altro,
prodotti ambedue dalla fortuna ec. miranti ambedue ad un medesimo fine, non
possono non farsi ombra e non impedirsi scambievolmente. Ed essi non producono
il bello effetto del contrasto di passioni nell'animo de' lettori, e gli altri
bellissimi e poetichissimi risultati che nascono ancora dalla lettura
dell'iliade, o nascevano per lo meno, al tempo e ne' lettori
o uditori per li quali ella fu composta.
[3768,1]
Alla p. 3616.
fine. Un'altra osservazione confermante il mio parere, che l'iliade se
cede agli altri poemi in qualche cosa, ciò possa essere ne' dettagli, ma tutti
li vinca nell'insieme, e nella tessitura medesima e disposizione e condotta, non
che nell'invenzione (al contrario del comun giudizio), si è che nell'iliade
l'interesse cresce sempre di mano in mano, sin che nell'ultimo arriva al più
alto punto. Laddove nella Gerusalemme egli
3769 è, si può dire, onninamente stazionario; nell'Eneide assolutamente retrogrado dal settimo libro
in poi, e così nell'Odissea: errore e difetto sommo ed essenzialissimo e
contrario ad ogni arte. Nella Lusiade nol saprei ora dire, nè nella
Enriade, dove però l'interesse non può essere nè stazionario
nè retrogrado nè crescente, essendo affatto nullo, almeno per tutti gli altri
fuor de' francesi. Puoi vedere a proposito del crescente interesse l'Elogio di Voltaire nelle opp. di Federico II. 1790. tome 7. p. 75.
[3884,1]
Les
Dames vous devront ce que la langue italienne devait au Tasse; cette
langue d'ailleurs molle et dépourvue de force, prenait un air mâle et de
l'énergie lorsqu'elle etait maniée par cet habile poëte.
*
Così scriveva il principe reale di Prussia poi Federico II alla Marchesa du Châtelet, da Rémusberg agli 9.
Nov. 1738. (Oeuvres complettes de Frédéric II. Roi de Prusse. 1790. tome 16.
Lettres du Roi de Prusse et de la Marquise du Châtelet. Lettre 5.e
p. 307.) E nóto queste parole perchè si veda l'esattezza del giudizio
degli stranieri sulla nostra letteratura, e la verità della material cognizione
ch'essi ne hanno. Lascio quello che Federico dice in generale sulla nostra lingua, ma il particolare del
Tasso, ch'è un fatto, e che poco
si richiedeva a essere istruito come stésse, non è egli tutto il contrario del
vero? Federico dice del Tasso quel ch'è vero di Dante, del quale il Tasso è tutto il contrario, anche più dell'Ariosto, e quasi dello stesso Petrarca ec. {+V. p.
3900.}
(14. Nov. 1823.). Eccetto se Federico non considera o non intende di parlare del Tasso in comparazione del Metastasio, e più se de' frugoniani, degli
arcadici de' nostri poeti e prosatori sia puristi sia barbaristi del
3885 passato secolo, insomma di quelli che nè scrissero
nè seppero l'italiano; nel qual caso il suo detto è certamente esente da ogni
rimprovero e controversia. (15. Nov. 1823.). {{V. p.
3949.}}
[4160,10] Siccome ad essere vero e grande filosofo si
richiedono i naturali doni
4161 di grande immaginativa
e gran sensibilità, quindi segue che i grandi filosofi sono di natura la più
antifilosofica che dar si possa quanto alla pratica e all'uso della filosofia
nella vita loro, e per lo contrario le più goffe o dure, fredde e
antifilosofiche teste sono di natura le più disposte all'esercizio pratico della
filosofia. Sommo filosofo fu il Tasso
pei suoi tempi quanto alla contemplazione. Ma chi meno di lui disposto per
natura alla pratica della filosofia? chi più disposto anzi alla pratica delle
dottrine più illusorie, di quelle dell'entusiasmo ec.? E infatti chi meno
filosofo di lui nella pratica, e nell'effetto che gli accidenti della vita
producevano nel suo spirito? Viceversa chi meno filosofo in teoria che certi
spensierati e imperturbabili e sempre lieti e tranquilli uomini, che pur nella
pratica sono il modello e il tipo del carattere e della vita filosofica?
Veramente, siccome la natura trionfa sempre, accade generalmente che i più
filosofi per teoria, sono in pratica i meno filosofi, e che i men disposti alla
filosofia teorica, sono i più filosofi nell'effetto. E si potrebbe anzi dire che
la mira, l'intenzione e la somma della filosofia teorica {e
de' suoi precetti ec.} non consiste effettivamente in altro che nel
proposito di rendere la vita e il carattere di quelli che la posseggono,
conforme a quello di coloro che non ne sono capaci per natura. Effetto che ella
difficilmente ottiene. {{(Bologna. 20. Dic.
1825.).}}
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