Epopea.
Epic.
54,1 285,2 288,1 470,2 661,3 800,1801,1 1671,1 1691,2 1847,1 2361,1 2608,3 2645,2 2759,2 2976,1 3095,2 3289,3 3448,1 3482,1 3548,2 4234,5 4255,6 4270[54,1]
54 Quando la poesia per tanto tempo sconosciuta entrò nel
Lazio e in Roma, che magnifico
e immenso campo di soggetti se le aperse avanti gli occhi! Essa stessa già
padrona del mondo, le sue infinite vicende passate, le speranze, ec. ec. ec.
Argomenti d'infinito entusiasmo e da accendere la fantasia e 'l cuore di
qualunque poeta anche straniero e postero, quanto più romano o latino, e
contemporaneo o vicino proporzionatamente ai tempi di quelle gesta? Eppure non
ci fu epopea latina che avesse per soggetto le cose latine così eccessivamente
grandi e poetiche, eccetto quella d'Ennio che dovette essere una misera cosa. La prima voce della tromba
epica che fu di Lucrezio, trattò di
filosofia. In somma l'imitazione dei greci fu per questa parte mortifera alla
poesia latina, come poi alla letteratura e poesia italiana nel suo vero
principio, cioè nel 500. l'imitazione servile de' greci e latini. Onde con tanto
immensa copia di fatti nazionali, cantavano, lasciati questi, i fatti greci, nè
io credo che si trovi indicata tragedia d'Ennio o d'Accio
{ec.} d'argomento {latino e}
non greco. Cosa tanto dannosa, massime in quella somma abbondanza di gran cose
nazionali, quanto ognuno può vedere. E lo vide ben Virgilio col suo gran giudizio, non però la schivò
affatto anzi l'argomento suo fu pure in certo modo greco, (così le
Buccoliche e le Georgiche di titolo e derivazione
greca) oltre le tante imitazioni d'Omero
ec. ma proccurò quanto più potè di tirarlo al nazionale, e spesso prese
occasione di cantare ex professo i fatti di Roma.
Similmente Orazio uomo però di poco
valore in quanto poeta, fra tanti argomenti delle sue odi derivate dal greco,
prese parecchie volte a celebrare le gesta romane. Ovidio nel suo gran
poema {cioè le Metamorfosi}
prese argomento tutto greco. Scrisse però i fasti di Roma
ma era opera piuttosto da versificatore che da poeta, trattandosi di narrare le
origini, s'io non erro, di quelle cerimonie feste ec. in somma non prese quei
fatti a cantare, ma così, come a trastullarcisi. Del resto la letteratura latina
si risentì bene dello stato di Roma colla magniloquenza
che, si può dire, aggiunse alle altre proprietà dell'orazione ricevute da'
greci, e a qualcune sostituì, qualità tutta propria de' latini, come nota l'Algarotti, colla nobiltà e la coltura dell'orazione del
periodo ec. molto maggiore che non appresso gli antichi greci classici, eccetto,
e forse neppure, Isocrate.
[285,2] Si può applicare alla poesia (come anche anche alle
cose che hanno relazione o affinità con lei) quello che ho detto altrove pp. 14-21
[p. 125,1]
p. 215: che alle grandi azioni è necessario un misto di persuasione e
di passione o illusione. Così la poesia tanto riguardo al maraviglioso, quanto
alla commozione o impulso di qualunque genere, ha bisogno di un falso che pur
possa persuadere, non solo secondo le regole ordinarie della verisimiglianza, ma
anche rispetto ad un certo tal quale convincimento che la cosa stia o possa
stare effettivamente così. Perciò l'antica mitologia, o
286 qualunque altra invenzione poetica che la somigli, ha tutto il
necessario dalla parte dell'illusione, passione ec. ma mancando affatto dalla
parte della persuasione, non può più produrre gli effetti di una volta, e
massime negli argomenti moderni, perchè negli antichi, l'abitudine ci proccura
una tal quale persuasione, principalmente quando anche il poeta sia antico,
perchè immedesimatasi in noi l'idea di quei fatti, di quei tempi, di quelle
poesie ec. con quelle finzioni, queste ci paiono naturali e quasi ci persuadono,
perchè l'assuefazione c'impedisce quasi di distinguerle da quei poeti, tempi,
avvenimenti ec. e così machinalmente ci lasciamo persuadere quanto basta
all'effetto, che la cosa potesse star così. Ma applicate nuovamente le stesse o
altre tali finzioni, sia ad altri argomenti antichi, sia massimamente a soggetti
moderni o de' bassi tempi ec. ci troviamo sempre un non so che di arido e di
falso, perchè manca la tal quale persuasione, quando anche la parte del bello
immaginario, maraviglioso ec. sia perfetta. Ed anche per questa parte il Tasso non produrrà mai l'effetto dei
poeti antichi,
287 sebbene il suo favoloso e
maraviglioso è tratto dalla religion Cristiana. Ma oggidì in tanta propagazione
e incremento di lumi, nessuna finzione o nuova nuovamente applicata, trova il
menomo luogo nell'intelletto, mancando la detta assuefazione, la quale supplisce
al resto ne' poeti antichi. E questa è una gran ragione per cui la poesia oggidì
non può più produrre quei grandi effetti nè riguardo alla maraviglia e al
diletto, nè riguardo all'eccitamento degli animi, delle passioni ec. all'impulso
a grandi azioni ec. Tanto più che la religion cristiana non si presta alla
finzione persuadibile, come la pagana. A ogni modo è certo appunto per le
sopraddette osservazioni, che la pagana oggidì non potendo aver più effetto, il
poeta deve appigliarsi alla cristiana; e che questa maneggiata con vero
giudizio, {scelta,} e abilità, può tanto per la
maraviglia che per gli affetti {ec.} produrre
impressioni sufficienti e notabili. (19. 8.bre 1820.).
[288,1] Tutte le cose si desiderano perfette relativamente al
loro genere. Tuttavia perchè il perfetto è rarissimo in tutte le specie di cose,
coloro che imitano o contraffanno, sogliono mescolare alla imitazione qualche
difetto, cioè imitare piuttosto
289 e figurare e
scegliere l'individuo difettoso che il perfetto, per render la imitazione più
verisimile e credibile, e fare inganno, e persuadere che il finto sia vero. E
laddove il difetto scema pregio all'imitato e vi si biasima, accresce pregio
all'imitazione e vi si loda. Così se tu vuoi contraffare un filo di perle, non
le fai tutte tonde perfettamente, sebbene in un filo vero le vorresti tutte
così. Ed imiti piuttosto una gemma di un prezzo mediocre, di quello che
contraffarne una inestimabile. Così dunque loderemo sempre più l'Achille difettoso di Omero, che l'Enea, il perfetto eroe di Virgilio, a cagione della credibilità, del vantaggio che ne cava
l'illusione e la persuasione. Ed estenderemo questa osservazione a regolamento
di tutti i poeti, quando scelgono qualche oggetto da imitare, acciocchè
rifiutino gli eccessi tanto di perfezione quanto d'imperfezione, intorno alla
quale siamo pure nello stesso caso. Applicate quest'ultima riflessione ai
protagonisti di Lord Byron. (20.
8.bre 1820.)
[470,2] La natura non è perfetta assolutamente parlando, ma la
sola natura è grande, e fonte di grandezza. Perciò tutto quello che è, o si
accosta al perfetto, secondo la nostra maniera astratta di considerare, non è
grande. Osservatelo in tutte le cose: nelle opere di genio, poesia, belle arti
ec. nelle azioni, nei caratteri, nei costumi, nei popoli, nei governi ec. Un
uomo perfetto, non è mai grande. Un uomo grande, non è mai perfetto.
471 L'eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie.
Ogni eroe è imperfetto. Tali erano gli eroi antichi (i moderni non ne hanno);
tali ce li dipingono gli antichi poeti ec. tale era l'idea ch'essi avevano del
carattere eroico; al contrario di Virgilio, del Tasso ec.
tanto meno perfetti, quanto più perfetti sono i loro eroi, ed anche i loro
poemi. (3. Gen. 1821.).
[661,3]
On aime à savoir les foiblesses des personnes
estimables,
*
non già solamente di quelle che si odiano o
invidiano, ma di quelle che si amano, si ammirano, si trattano, ci obbligano
e ci giovano coi loro benefizi, consigli ec. e in questo senso lo dice Mad. Lambert
La Femme Hermite. Nouvelle
Nouvelle,
662 dans ses oeuvres complètes
citées ci-dessus (p. 633),
p. 229. Tu puoi però applicarti questo pensiero, e
rendertelo proprio, giacchè Mad. lo
stende, lo spiega, e l'applica in maniera ordinaria, così che il pensiero sembra
comune, non fa gran colpo e non se ne osserva l'originalità. Essa lo applica
principalmente alla confidenza che ne deriva verso quelle tali persone: et
j'étois trop heureuse de trouver en elle, non-seulement des
conseils, mais de ces foiblesses aimables qui nous rendent plus
indulgens pour celles d'autrui.
*
Ma si può
considerare questa verità molto più in grande, dilatarla, osservarne i rapporti,
applicarla anche al teatro, alla poesia, a' romanzi ec. ed alle {arti} imitatrici, e confermarne quella regola di Aristotele, che il protagonista non sia
perfetto. (15. Feb. 1821.).
[801,1]
Alla p. 745.
Difficilmente si vedrà che una qualunque nazione
{una
qualunque letteratura.} abbia avuto in due diversi tempi
(eccetto se {il tempo e} la nazione è del tutto
rinnuovata, come l'italiana rispetto alla latina) due scrittori eccellenti e
sommi in
802 uno stesso genere. Da che quel genere ne ha
avuto uno perfetto, e riguardato come perpetuo modello, sebbene quel genere
possa avere diverse specie, gl'ingegni grandi e superiori, o sdegnando di non
poter essere se non uguali a quello, e di dovere avere un compagno, o per la
naturale modestia e diffidenza di chi conosce bene e sente la difficoltà delle
imprese, temendo di restare inferiori in un assunto, di cui già è manifesta,
sperimentata, conseguita, la perfezione, e posta negli occhi di tutti e nei
propri loro; si sono sempre rivolti ad altro, e solamente i piccoli ingegni de'
quali è propria la confidenza e temerità sono entrati nell'arringo, spronati
dalle lodi di quell'eccellente, e dalla gola di quella celebrità, quasi fosse
facile a conseguire, e misurando l'impresa non da se stessa e dalla sua
difficoltà, ma dal loro desiderio di riuscirci, e dal premio che era proposto al
buon successo.
{Un'altra ragione, e fortissima è, che quando il genere ha già avuto uno
sommo, il genere non è più nuovo; non vi si può più essere originale, senza
che, è impossibile esser sommo. O se vi si potrebbe pur essere originale,
v'è quella eterna difficoltà, che anche gl'ingegni sommi, vedendo una strada
già fatta, in un modo o in un'[un] altro
s'imbattono in quella; o confondono il genere con quella tale strada, quasi
fosse l'unica a convenirgli, benchè mille ve ne siano da poter fare, e forse
migliori assai.} La stessa Grecia in tanta
copia di scrittori e poeti d'ogni genere,
803 e di buoni
secoli letterati dopo Omero, e, quel
ch'è forse più, in tanta distanza da lui, non ebbe mai più nessun epico, se non
dappoco, come Apollonio Rodio. E lo
stesso Omero (se è vero che
l'Odissea è posteriore all'Iliade, come dice
Longino) non aggiunse niente alla sua fama pubblicando
l'Odissea. Sebbene, chiunque si fosse quest'Omero, io congetturo e credo che
l'Iliade e l'Odissea non sieno di uno stesso
autore, ma questa imitata dallo stile, dalla lingua, dal fare, e dall'Argomento
di quella, con quel languore, e sovente noia che ognuno può vedere. La qual
congettura io rimetto a quei critici che sono profondamente versati nelle
antichità omeriche, e di quei tempi antichissimi, e conoscono intimamente i due
poemi: purchè oltre a questo, siano anche persone di buon gusto e giudizio.
Taccio de' latini e degl'infelici {loro} tentativi di
Epopea dopo Virgilio, così prestante ed
eminente in essa fra loro, come Cic.
nell'eloquenza. Sebbene il Tasso non
si può veramente nel
804 suo genere dire perfetto,
neppur sommo come Omero (che sommo fu
egli, ma non il suo poema, nè egli quivi), contuttociò
l'italia dopo lui non ebbe poema epico degno di
memoria, sebbene molti o piccoli o mediocri ingegni, tentassero la stessa
carriera. Anzi quantunque vi sia tanta differenza fra il genere del poema
dell'Ariosto e quello del Tasso, pure sembrò strano ch'egli si
accingesse a quel travaglio dopo l'Ariosto, e pubblicata la Gerusalemme, i suoi nemici
non mancarono di paragonarla all'Orlando, di posporla, di accusare il Tasso di temerità ec.
{Dopo Molière la
Francia non ha avuto grandi comici, nè
l'Italia dopo Goldoni.} Tutto questo, sebbene apparisca forse
principalmente nella letteratura, tuttavia si può applicare a molti altri rami
del sapere, o di altri pregi umani. Si possono però citare in contrario il Racine dopo il Corneille, e il Voltaire dopo lui, e qualche tragico inglese dopo Shakespeare, ma nessuno però di quella eccellenza e
fama. La quale per cadere nel mio discorso, dev'essere assolutamente prestante,
sorpassante e somma sì nel modello, come nel successore o successori. (17.
Marzo 1821.). {{V. p. 810. capoverso
1.}}



[1671,1] Le teorie delle quali i romantici han fatto tanto
romore a' nostri giorni, avrebbero dovuto restringersi a provare che non c'è
bello assoluto, nè quindi buon gusto stabile, e norma universale di esso per
tutti i tempi e popoli; ch'esso varia secondo gli uni e gli altri, e che però il
buon gusto, e quindi la poesia, le arti, l'eloquenza ec. de' tempi nostri, non
denno esser quelle stesse degli antichi, nè quelle della
Germania, le stesse che le francesi; che le regole
assolutamente parlando non esistono. Ma essi son andati più avanti, hanno
ricusato o male interpretato
1672 il giudizio e il
modello della stessa natura parziale, sola norma del bello; il fanatismo e la
smania di essere originali (qualità che bisogna bene avere ma non cercare) gli
ha precipitati in mille stravaganze; hanno errato anche bene spesso in
filosofia, ne' principj, e nella speculativa non solo delle arti ec. ma anche
della natura generale delle cose, dalla quale dipendono tutte le teorie di
qualsivoglia genere. - Il primo poema regolare venuto in luce {in europa} dopo il risorgimento,
dice il Sismondi, è la Lusiade (pubblicata un anno
avanti la Gerusalemme). Questo è detto abusivamente: per regolare,
non si può intendere se non simile a' poemi d'Omero e di Virgilio. Regolare
non è assolutamente nessun poema. Tanto è regolare il Furioso, quanto
il Goffredo. L'uno
potrà dirsi esclusivamente epico, l'altro romanzesco. Ma in quanto poemi tutti
due sono {ugualmente} regolari; e lo sono e lo
sarebbero parimente altri poemi di forme affatto diverse, purchè si contenessero
ne' confini della natura. I generi ponno essere infiniti, e ciascun genere,
1673 da che è genere, è regolare, fosse anche composto
di un solo individuo. Un individuo non
può essere irregolare se non rispetto al suo genere o specie. Quando
egli forma genere, non si dà irregolarità per lui. Anche dentro uno stesso
genere (come l'epico) si danno mille specie, ed anche mille differenze di forme
individuali. Qual divario dall'iliade all'odissea,
dall'una e l'altra all'Eneide. Pur tutti questi
si chiamano poemi epici, e potrebbero anche non chiamarsi. Anzi si potrebbe dire
che se l'iliade è poema epico, l'Eneide non lo è, o viceversa. Tutto è quistione di
nomi, e le regole non dipendono se non dal modo in cui la cosa è: non esistono
prima della cosa, ma nascono con lei, o da lei. (11. Sett.
1821.)
[1691,2] Voi altri riformatori dello spirito umano, e
dell'opera della natura, voi altri predicatori della ragione, provatevi un poco
a
1692 fare un romanzo, un poema ec. il cui
protagonista si finga perfettissimo e straordinario in tutte le parti morali, e
dipendenti dall'uomo, e imperfetto {o men che perfetto}
nelle parti fisiche, dove l'uomo non ha per se verun merito. Di che si parla in
questo secolo sì spirituale massime in letteratura che oramai par che sdegni
tutto ciò che sa di corporeo, di che si parla, dico, ne' poemi, ne' romanzi,
nelle opere tutte d'immaginazione e sentimento, fuorchè di bellezza del corpo?
Questa è la prima condizione in un personaggio che si vuol fare interessante.
{+La perfettibilità
dell'uomo, come altrove ha[ho] detto
p. 830, non ha che fare col corpo. E
contuttociò la perfezione del corpo, che non dipende dagli uomini nè è
opera della ragione, si è la principal condizione che si ricerca in un
eroe di poema ec. (o si dee supporre, perchè ogni menoma imperfezione
corporale suppostagli guasterebbe ogni effetto) e la più efficace,
supponendolo ancora perfetto nello spirito.} Questa
circostanza non si può tacere; quando anche si taccia, la supplirà il lettore;
ma fare espressamente un protagonista brutto, è lo stesso che rinunziare a
qualsivoglia effetto. (V. ciò che dico in tal proposito dove parlo della
compassione pp. 220-21). Mad.
di Staël non era bella: in un'anima come la sua, questa circostanza
avrà prodotto mille pensieri e sentimenti sublimi, nuovissimi a scriverli,
profondissimi, sentimentalissimi: (così di Virgilio pretende Chateaubriand) ella amava
sopra tutto l'originalità, e poco teneva il buon
1693
gusto (v. Allemagne tome 1. ch. dernier.): ella, come tutti i
grandi, dipingeva ne' suoi romanzi il suo cuore, i suoi casi, e però si serve di
donne per li principali effetti; nondimeno si guarda bene di far brutti o men
che belli i suoi eroi o le sue eroine. Tutto lo spregiudizio, tutto l'ardire,
tutta l'originalità di un autore in qualsivoglia tempo non può giunger fin qua.
Che cosa è la bellezza? lo stesso in fondo, che la nobiltà e la ricchezza: dono
del caso? È egli punto meno pregevole un uomo sensibile e grande, perchè non è
bello? {+Quale inferiorità di vero merito
si trova nel più brutto degli uomini verso il più bello?} Eppure non
solamente lo scrittore o il poeta si deve guardare dal fingerlo brutto, ma deve
anche guardarsi da entrare in comparazioni sulla {sua}
bellezza. Ogni effetto svanirebbe se parlando o di se stesso (come fa il Petrarca) o del suo eroe, l'autore
dicesse ch'egli era sfortunato nel tale amore perchè le sue forme, o anche il
suo tratto e maniere esteriori (cosa al tutto corporea) non piacevano all'amata,
o perch'egli era men bello di un suo rivale ec. ec. Che cosa è dunque il mondo
fuorchè
1694 NATURA? Ho detto [pp. 601-603]
p. 1026
p. 1262
p. 1657 che l'intelletto umano è materiale in tutte le sue operazioni
e concezioni. La teoria stessa dell'intelletto si deve applicare al cuore e alla
fantasia. La virtù, il sentimento, i più grandi pregi morali, le qualità
dell'uomo le più pure, le più sublimi, infinite, le più immensamente lontane in
apparenza dalla materia, non si amano, non fanno effetto veruno se non come
materia, e in quanto materiali. Divideteli dalla bellezza, o dalle maniere
esteriori, non si sente più nulla in essi. Il cuore può bene immaginarsi di
amare lo spirito, o di sentir qualche cosa d'immateriale: ma assolutamente
s'inganna.
[1847,1] Come l'uomo non s'interessa che per l'uomo
(perch'egli s'interessa più per se che per gli altri uomini); com'è vuota
d'effetto quella pittura che non rappresenta niente di animato, e più quella che
rappresenta pietre ec. che quella che rappresenta piante ec.; come il principale
effetto della pittura è prodotto dall'imitazione dell'uomo più che degli
animali, e molto più che degli altri oggetti; come la poesia non diletta nè
molto nè durevolmente se verte 1. sopra cose inorganizzate, 2. sopra cose
organizzate ma non vive, 3. sopra enti vivi ma non uomini, 4. sopra uomini ma
non sopra ciò che meglio spetta all'uomo ed a ciascun lettore, cioè le passioni,
i sentimenti, insomma l'animo umano; {+(notate queste gradazioni che sono applicabili ad ogni genere di cose e
idee piacevoli, ed alla mia teoria del
piacere)} così
1848 la poesia,
{i drammi} i romanzi, le storie, le pitture ec. ec.
non possono durevolmente nè molto dilettare se versano sopra uomini di costumi,
opinioni, indole ec. ec. e quasi natura affatto diversa dalla nostra, come i
personaggi favoriti delle care poesie ec. del Nord, sia per differenza
nazionale, sia per eccessiva differenza e stranezza di carattere, come i
protagonisti di Lord Byron, ed anche per
eccessivo eroismo, onde Aristotele non
voleva che il protagonista della tragedia fosse troppo eroe. {+(Quindi è che se forse da principio
interessano per la novità, a poco andare annoiano le storie ec. de' popoli
lontani, de' viaggi ec. e interessano sempre più proporzionatamente quelle
de' più vicini, e fra gli antichi de' latini Greci, ed Ebrei, a causa che
questi sono in relazione con tutto il mondo colto per la rimembranza ec.
della nostra gioventù, studi, religione letteratura ec. Anche questo però
secondo le circostanze degli individui.)} Da per tutto l'uomo cerca il
suo simile, perchè non cerca e non ha mai altro scopo che se stesso; e il
sistema del bello, come tutto il sistema della vita, si aggira sopra il perno,
ed è posto in movimento dalla gran molla dell'egoismo, e quindi della
similitudine e relazione a se stesso, cioè a colui che deve godere del bello di
qualunque genere. (5. Ott. 1821.).
[2361,1] Che vuol dire che l'uomo ama tanto l'imitazione e
l'espressione ec. delle passioni? e più delle più vive? e più l'imitazione la
più viva ed efficace? Laonde o pittura, o scultura, o poesia, {ec.} per bella, efficace, elegante, e pienissimamente
imitativa ch'ella sia, se non esprime passione, {+se non ha per soggetto veruna passione, (o solamente
qualcuna troppo poco viva)} è sempre posposta a quelle che
l'esprimono, ancorchè con minor perfezione nel loro soggetto. E le arti che non
possono esprimere passione, come l'architettura, sono tenute le infime fra le
belle, e le meno dilettevoli. E la drammatica e la lirica son tenute fra le
prime per la ragione
2362 contraria. Che vuol dir ciò?
non è dunque la sola verità dell'imitazione, nè la sola bellezza e dei soggetti,
e di essa, che l'uomo desidera, ma la forza, l'energia, che lo metta in
attività, e lo faccia sentire gagliardamente. L'uomo odia l'inattività, e di
questa vuol esser liberato dalle arti belle. {{Però le
pitture di paesi, gl'idilli ec. ec. saranno sempre d'assai poco effetto; e
così anche le pitture di pastorelle, di scherzi ec. di esseri insomma senza
passione: e lo stesso dico della scrittura, della scultura, e
proporzionatamente della musica. (26. Gen. 1822.).}}
[2608,3] La nazione spagnuola poetichissima per natura e per
clima fra tutte l'Europee (non agguagliata in ciò che
dall'italia e dalla grecia), e
fornita di lingua poetichissima fra le
lingue perfette (non inferiore in detta qualità se non all'italiana, e
non agguagliata di gran lunga da nessun'altra) non ha mai prodotto un poeta nè
un poema che sia o sia stato di celebrità veramente
2609 europea. Tanto prevagliono le istituzioni politiche alle qualità naturali:
῞Ημισυ γὰρ τ' ἀρετῆς
ἀποαίνυται δούλων ἦμαρ
*
(Homer.). E questa osservazione può molto servire a quelli
che sostengono la maggiore influenza del governo rispetto al clima. (18.
Agosto. Domenica. 1822.).
[2645,2] La storia greca, romana ed ebrea contengono le
reminiscenze delle idee acquistate da ciascuno nella sua fanciullezza. Ciascun
nome, ciascun fatto delle dette storie, e massime i principali e più noti ci
richiamano idee quasi primitive per noi, e sono in certo modo legati alla storia
della vita, e della fanciullezza
2646
massimente[massimamente], delle cognizioni, de'
pensieri di ciascuno di noi. Quindi l'interesse che ispirano le dette storie, e
loro parti, e tutto ciò che loro appartiene; interesse unico nel suo genere,
come fu osservato da Chateaubriand
(Génie ec.); interesse che non può esserci mai ispirato da
verun'altra storia, sia anche più bella, varia, grande, e per se più importante
delle sopraddette; sia anche più importante per noi, come le storie nazionali.
Le suddette tre sono le più interessanti perchè sono le più note; perchè sono le più domestiche, familiari, pratiche, e quasi
strette parenti di ciascun uomo civile e colto, ancorchè di patria diversissimo
da queste tre nazioni. E perciò elle sono le più, anzi le sole, feconde di
argomenti {storici} veramente propri d'epopea, di
tragedia, ec.
2647 e all'interesse dei detti argomenti,
massime nella poesia, non si può supplire in verun conto, nè con veruna
industria, cavando argomenti {o dall'immaginazione, o}
dalle altre storie, neppur dalle patrie. Aggiungasi alle tre dette storie,
quella della guerra troiana, la quale interessa sommamente per le dette ragioni,
anzi più delle altre tre, perchè i poemi d'Omero e di Virgilio, l'hanno
resa più nota e familiare a ciascuno, che verun'altra, e perch'ella a cagione
dei detti poemi, delle favole ec. è più legata alle ricordanze della nostra
fanciullezza, che non sono la storia greca e romana, e neanche l'ebrea. Tutto
ciò è relativo, e l'interesse delle dette storie non deriva particolarmente
dalle loro proprie e intrinseche qualità, ma dalla circostanza estrinseca
dell'essere le medesime familiari
2648 a ciascuno fin
dalla sua fanciullezza; tolta la qual circostanza, che ben si potrebbe togliere,
dipendendo dalla educazione ec., questo interesse o si confonderebbe e
agguaglierebbe con quello delle altre storie, e argomenti storici, o sarebbe
anche superato. (Roma. 25. Nov. 1822.).
[2759,2] Chi vuol manifestamente vedere la differenza de'
tempi d'Omero da quelli di Virgilio, quanto ai costumi, e alla
civilizzazione, e alle opinioni che
2760 s'avevano
intorno alla virtù e all'eroismo, {+siccome anche quanto ai rapporti scambievoli delle nazioni, ai diritti e al
modo della guerra, alle relazioni del nimico col nimico;} e chi vuol
notare la totale diversità che passa tra il carattere e l'idea della virtù
eroica che si formarono questi due poeti, e che l'uno espresse in Achille e l'altro in Enea, consideri quel luogo dell'Eneide (X. 521-36.) dov'Enea fattosi sopra Magone che gittandosi in terra e abbracciandogli le
ginocchia, lo supplica miserabilmente di lasciarlo in vita e di farlo cattivo,
risponde, che morto Pallante, non ha
più luogo co' Rutuli alcuna misericordia nè alcun commercio di guerra, e spietatamente pigliandolo per la
celata, gl'immerge la spada dietro al collo per insino all'elsa. Questa scena e
questo pensiero è tolto di peso da Omero, il quale introduce Menelao sul punto di lasciarsi commuovere da simili prieghi, ripreso
da Agamennone, che senza alcuna pietà
uccide il troiano già vinto e supplichevole.
[2976,1] Benchè materiale, non sarà perciò vana
l'osservazione che i poemi d'Omero,
massime l'Iliade, avuto rispetto alla qualità della lingua greca,
la quale in un dato numero di parole o di versi dice molto più che le lingue
moderne naturalmente e ordinariamente non dicono, i poemi d'Omero, ripeto, sono i più lunghi di tutti i poemi Epici
conosciuti nelle letterature Europee. Paragonati all'Eneide, ch'è poema scritto nella lingua più di tutte vicina alla
detta facoltà della lingua greca, oltre ch'essi sono composti di 24 libri
ciascuno, laddove l'Eneide di soli dodici, si
trova che avendo l'Eneide 9896 versi, l'Odissea n'ha 12096, e l'Iliade 15703, il qual computo l'ho fatto io medesimo. Notisi che i
versi di Virgilio sono della stessa
misura che quelli di Omero. Questo
parallelo così esatto non si potrebbe fare coi poemi scritti nelle lingue
moderne, sì per la differente misura
2977 de' versi e
quantità delle sillabe che questi contengono, sì molto maggiormente perchè le
lingue moderne hanno bisogno d'assai più parole che non la lingua greca e latina
per significare una stessa cosa. Onde quando anche v'avesse qualche poema epico
moderno che di parole eccedesse quelli d'Omero, credo però che tutti debbano consentire che nel numero, per
così dire, o nella quantità delle cose niuno ve n'ha che non sia notabilmente
minore di questi, o certo dell'uno d'essi, cioè dell'iliade.
[3095,2] Riprendono {nell'iliade} la poca unità, l'interesse principale
che i lettori prendono per Ettore, il
doppio Eroe (Ettore ed Achille), e
conchiudono che {se Omero} nelle parti è superiore agli altri poeti, nel tutto
però preso insieme, nella condotta del poema, nella regolarità è inferiore agli
altri epici, particolarmente a Virgilio.
Certo se potessero esser vere regole {di poesia} quelle
che si oppongono al buono e grande effetto della medesima e alla natura
dell'uomo, io non disconverrei da queste sentenze.
{In proposito delle cose contenute nel séguito di questo
pensiero, vedi la pag. 470. capoverso
2.}

[3289,3] Sogliono le opere umane servire di modello
successivamente l'une all'altre, e così appoco perfezionandosi il genere, e
ciascuna opera, o le più
3290 d'esse riuscendo migliori
de' loro modelli fino all'intero perfezionamento, il primo modello apparire ed
essere nel suo genere la più imperfetta opera di tutte l'altre, per infino alla
decadenza e corruzione d'esso genere, che suole altresì ordinariamente succedere
all'ultima sua perfezione. Non così nell'epopea; ma per lo contrario il primo
poema epico, cioè l'iliade che fu modello di tutti gli altri, si
trova essere il più perfetto di tutti. Più perfetto dico nel modo che ho
dimostrato parlando della vera idea del poema epico p. 3095- 3169. Secondo le quali osservazioni da me
fatte si può anzi dire che siccome l'ultima perfezione dell'epopea (almen quanto
all'insieme e all'idea della medesima) si trova nel primo poema epico che si
conosca, così la decadenza e corruzione di questo genere incominciò non più
tardi che subito dopo il primo poema epico a noi noto. Similmente negli altri
generi di poesia, per lo più, i migliori e più perfetti modelli ed opere sono le
più antiche, o assolutamente parlando, o relativamente alle nazioni {e letterature} particolari,
3291 come tra noi la Commedia di Dante
è nel suo genere, siccome la prima, così anche la migliore opera. (28.
Agosto. 1823.).
[3448,1] Tragedie {o drammi} di
lieto fine. - L'effetto loro totale, si è di lasciar gli affetti dell'uditore in
pieno equilibrio; cioè di esser nullo. - Il fine dei drammi non è, e non
dev'essere, d'insegnare a temere il delitto, cioè di far che gli uomini temano
di peccare. Meglio sarebbe una predica dell'inferno o del purgatorio; e meglio
ancora una
3449 lettura del codice penale, che si
facesse dalla scena. Il loro scopo si è d'ispirare odio verso il delitto. Questo
è ciò che le leggi non possono. Laddove l'ispirar timore è proprio uffizio di
esse, ed esse sole il possono, o certo più e meglio d'ogni altra cosa, eccetto
forse l'esempio vivo de' gastighi, cioè l'effettiva esecuzione delle leggi
penali. Ora la punizione del delitto non ispira odio. Anzi lo scema, perchè
sottentra {e con lui si mescola} la compassione. Anzi
lo distrugge, perchè la vendetta spegne tutti gli odi. Anzi produce un effetto a
lui contrario, perchè la compassione è contraria all'odio; e spesso avviene che
nel veder punito il delitto, questa superi ogni altro sentimento, e gli spenga,
e resti sola; e spesso la pena, benchè giusta ed equa, par più grave del
delitto; e spessissimo è odiosa, parte per la pietà, parte perchè alcuni per
viltà d'animo e poca stima di se stessi, altri per cognizione dell'uomo, si
sentono, più o meno, prossimamente o lontanamente, capaci di peccare; e niuno
ama di esser punito, anzi tutti abborrono il gastigo in se stessi. - Il dramma
3450 di lieto fine coll'effetto di una sua parte
distrugge quello dell'altra. {#
1. Veggasi la pag. 3122.}
Voglio dire la compassione. (Dell'odio verso la colpa, ch'è pur distrutto dalla
catastrofe, ho già detto pp.
3097. sgg. ). Il giusto {ec.} divenuto
felice, per infelice che sia stato, non è più compatito. Ognuno quasi si
contenterebbe di arrivare per la stessa strada alla stessa sorte. L'oppresso
vendicato non è compatito. Ora egli è cosa stoltissima il travagliare in un
dramma ec. ad eccitare un affetto che il dramma medesimo debba direttamente
spegnere, e che, non a caso, ma per intenzione dell'autore e per natura
dell'opera, finita la rappresentazione o la lettura, non debba lasciare alcun
vestigio di se; un affetto che non debba esser durabile, che durando si opponga
all'effetto voluto e cercato dall'autore e dalla qualità del dramma. E quando
l'eccitar questo affetto, come la compassione per gl'immeritevolmente infelici,
è il principale scopo che l'autore e il dramma si propongono (come
ordinariamente accade), il farlo non durevole, il distruggerlo nel suddetto
modo, è contraddizione ne' termini:
3451 principale e
non durevole, principale e da distruggersi appostatamente e volutamente col
dramma stesso, principale e non risultante dal totale del dramma, principale e
da non dover perseverare nè sino alla fine nè dopo la fine, e da non dover esser
prodotto dal dramma considerato nell'intero; dovere dal dramma considerato nell'intero esser prodotto un effetto
diverso, anzi contrario, a quello ch'ei si propone per iscopo principale. - La
naturalezza {#1. Veggasi la p. 3125. 3133.} e la verisimiglianza è maggiore
assai ne' drammi di tristo che in quelli di lieto fine, perchè così va il mondo:
il delitto e il vizio trionfa, i buoni sono oppressi, la felicità e l'infelicità
sono ambedue di chi non le merita. - Ma nel mondo il felice per lo più ha nome
di buono, e viceversa. Il dramma chiama la bontà e la malvagità col loro nome, e
mostra il carattere e la condotta {morale} de' felici e
degl'infelici qual ella è veramente. Quindi la sua grande utilità, quindi l'odio
e il disprezzo {originato dal dramma,} verso i malvagi
benchè felici, e viceversa. Non dall'alterar la natura e la verità delle cose,
facendo sfortunato il vizio e la virtù.
3452 E ben
grande utilità morale, e che ben di rado si proccura e si ottiene, e basta ben a
produr l'odio e l'indignazione, il far conoscere e recar sotto gli occhi le vere
qualità morali e i veri meriti de' felici e degl'infelici. E l'odio, {il disprezzo, il vitupero, l'infamia,} l'indignazione,
la pietà, {la stima, la lode} sono non piccoli, e certo
i soli, gastighi e compensi destinati in questo mondo al vizio e alla virtù. Non
è poco il far che l'una[uno] e l'altra gli
ottengano, che l'uno sia punito, l'altra premiata com'ambedue possono esserlo,
che la natura delle cose abbia luogo, che l'ordine stabilito alle cose umane e
il decreto della natura sia effettuato. Il qual ordine e decreto non è altro che
questo: sieno i malvagi felici ed infami, i buoni infelici e gloriosi o
compatiti. Ordine spesso turbato, e decreto ben sovente trasgredito, non quanto
alla felicità ed infelicità, ma quanto al biasimo e alla lode, all'odio ed
all'amore o compassione. - L'uditore vedendo il vizio e il delitto rappresentato
con vivi e odiosi colori nel dramma, desidera fortemente di vederlo punito. E
per lo contrario vedendo la
3453 virtù e il merito
oppressi e infelici, e rendutigli con bella e viva pittura ed artifizio amabili
e cari dal poeta, concepisce sensibile desiderio di vederli ristorati e
premiati. Or se nè l'uno nè l'altro fa il dramma stesso, {#1. Veggasi la p.
3109-10} cioè lascia il vizio impunito anzi premiato, e la
virtù non premiata anzi punita e sfortunata; ne seguono due bellissimi effetti,
l'uno morale e l'altro poetico. Il primo si è che l'uditore, appunto per lo
sfortunato esito della virtù e il contrario del vizio, che se gli è
rappresentato nel dramma, si crede obbligato verso se stesso a cangiare quanto è
in lui le sorti di que' malvagi e di que' virtuosi, punendo gli uni col maggior
possibile odio ed ira, e gli altri premiando col maggior affetto di amore, di
compassione e di lode. E con questa disposizione tutta di abborrimento e
detestazione verso i malvagi e di tenerezza e pietà verso i buoni, egli parte
dallo spettacolo. La qual disposizione quanto sia morale e buona e desiderabile
che si desti, chi nol vede? E questo
3454 è veramente
l'unico modo di far che l'uditore parta appassionato per la virtù, e
passionatamente nemico del vizio; l'unico modo di ridurre a passione l'amor
dell'una e l'odio dell'altro, cosa difficilissima a conseguirsi oggidì in
chicchessia, e stata sempre difficile ad ottenersi ne' cuori volgari e plebei
della moltitudine; ma cosa dall'altra parte così utile che più non può dirsi,
perchè nè quell'amore nè quell'odio saranno nè furono mai efficaci nell'uomo
essendo pura ragione, e s'ei non si convertano in passione, quali furono non di
rado anticamente. L'effetto poetico si è che un dramma così formato lascia nel
cuore degli uditori un affetto vivo, gli fa partire coll'animo agitato e
commosso, dico agitato e commosso ancora, non prima commosso e poi racchetato,
prima acceso e poi spento a furia d'acqua fredda, come fa il dramma di lieto
fine; insomma produce un effetto grande e forte, un'impressione e una passion
viva, nè la produce soltanto ma la lascia, il che non fa il dramma di lieto
fine; e l'effetto è durevole
3455 e saldo. Or che altro
si richiede {al totale di} una poesia, poeticamente
parlando, che produrre e lasciare un sentimento forte e durevole? quando anche
ei non fosse d'altronde utile e morale, come nel nostro caso. Certo ben
pochissime sono quelle poesie qualunque, che ottengano il detto scopo; e quelle
qualunque pochissime che l'ottengono, non sono e non possono esser altro che
grandi, insigni, famose e vere poesie. Or fate che il dramma dopo avervi mosso
all'odio verso il malvagio, ve lo dia, per così dir nelle mani, legato, punito,
giustiziato. Voi partite dallo spettacolo col cuore in pienissima calma. E come
no? qual vostro affetto resta superiore agli altri? non rimangon tutti in
pienissimo equilibrio? e una poesia che lascia gli affetti de' lettori o uditori
in pienissimo equilibrio, si chiama poesia? produce un effetto poetico? che
altro vuol dire essere in pieno equilibrio, se non esser quieti, e senza
tempesta nè commozione alcuna? e qual altro è il proprio {uffizio e} scopo della poesia se non il commuovere, così o così, ma
3456 sempre commuover gli affetti? E quanto
all'equilibrio, vedete: da una parte l'odio e l'ira che avevate concepita,
dall'altra la vendetta che placa e sfoga l'uno e l'altra; di qua il desiderio,
di là l'oggetto desiderato, cioè il castigo del malvagio. Le partite sono
uguali; l'affare è finito, il negozio è terminato, gl'interessi pareggiati: voi
chiudete il vostro libro de' conti e non ci pensate più. Infatti l'uditore si
parte dal dramma di lieto fine non altrimenti che chi abbia ricevuto un'offesa e
fattone piena e tranquilla vendetta, o ne sia stato pienamente soddisfatto, il
quale torna a casa e si corica colla stessa placidezza e coll'animo così
riposato, come se non gli fosse stata fatta alcuna offesa, e di questa non serba
pensiero alcuno. Bello effetto di un dramma, di una rappresentazione, di una
poesia; lasciare di se tal vestigio negli animi degli spettatori o uditori o
lettori, come s'e' non l'avessero nè veduta nè udita nè letta. Meglio varrebbe
essere stato a uno spettacolo di forze, di giuochi, equestre, {e} che so io, i quali pur lasciano
3457 nell'animo alcuna orma o di maraviglia o di diletto o d'altro.
{Ma} in verità in quella parte dell'anima in cui il
dramma e la poesia deve agire, quivi il dramma di lieto fine non lascia alcun
segno. Se lascia alcuna traccia in altra parte dell'anima, questo effetto o è
alieno dalla poesia, o l'è secondario, o estrinseco, accidentale, di
circostanza, parziale, cioè non prodotto dal totale della composizione, forse
proprio della decorazione, dell'azione ec. dello spettacolo più che del dramma,
non poetico ec. Or quanto all'effetto del dramma di lieto fine poeticamente
considerato, esso è tale qual si è mostrato, anzi non è, perch'esso è nullo, e
perciò che spetta al totale, il dramma di lieto fine non produce, poeticamente,
alcuno effetto. Quanto all'effetto morale, che odio, che ira verso il vizio può
rimanere in chi l'ha visto totalmente abbattuto, vinto, umiliato e punito?
Quella punizione che l'uditore gli avrebbe dato nel cuor suo, l'ha preoccupata
il poeta: questi ha fatto il tutto; l'uditore non ha a far più nulla, e nulla
fa. Quella passione ch'egli avrebbe concepita, l'ha sfogata il poeta da se: al
poeta
3458 dunque rimane. L'ira l'odio che l'uditore
avrebbe portato seco, il poeta l'ha soddisfatto. Odio ed ira e qualunque
passione soddisfatta, non resta. (Non resta, dico, quanto all'atto, di cui solo
è padrone il poeta, e non dell'abito). Dunque l'uditore parte dal dramma senza
nè odio nè ira nè altra passione alcuna contro i malvagi, il vizio, il delitto.
Tutto questo discorso circa la parte che spetta nel dramma ai malvagi, si faccia
altresì circa quella che spetta ai buoni. - Chiuderò queste osservazioni con un
esempio di fatto, narratomi da chi si trovò presente. Si rappresentò in
Bologna pochi anni fa l'Agamennone dell'Alfieri. Destò vivissimo
interesse negli uditori, e fra l'altro, tanto odio verso Egisto, che quando Clitennestra esce dalla stanza del marito col pugnale
insanguinato, e trova Egisto, la
platea gridava furiosamente all'attrice che l'ammazzasse. Ma come in quella
tragedia Egisto
riesce fortunato e gl'innocenti restano oppressi, quivi si vide quello che
possano le vere tragedie negli animi degli uditori, quando elle sono di
3459 tristo fine. Perchè promettendo gli attori che la
sera vegnente avrebbero rappresentato l'Oreste pur d'Alfieri, ove avrebbero veduto la morte di
Egisto, la gente uscì dal teatro
fremendo perchè il delitto fosse rimaso ancora impunito, e dicendo che per
qualunque prezzo erano risoluti l'indomani di trovarsi a veder la pena di questo
scellerato. E l'altro dì prima di sera il teatro era già pieno in modo che più
non ve ne capeva. O moralmente o poeticamente che si consideri un tanto odio
verso un ribaldo {di 3000 anni addietro,} potuto
ispirare e lasciare da quella tragedia, ed una passione così calda, un effetto
così vivo, potuto da lei produrre e lasciare; per l'una e per l'altra parte si
può vedere se le tragedie di lieto fine sieno poco o utili o dilettevoli. E
paragonando gli effetti di questa con quelli dell'Oreste, che certo furono molto
minori e men vivi (sebbene anche questa seconda tragedia sia bellissima), si
sarà potuto notare da qualunque mediocre osservatore se il dramma di tristo, o
quello di lieto fine, sia da preferirsi,
3460 e qual
de' due abbia maggior forza negli animi, e sia d'effetto più teatrale e poetico,
e più morale ed utile. - Si potrà applicare tutto il passato discorso, colle
debite modificazioni, a quei drammi ne' quali l'infelicità de' buoni o degli
immeritevoli, non vien da' cattivi, nè da altrui vizi o colpe, ma dal fato o da
circostanze, quali sono l'Edipo re di Sofocle, {+la Sofonisba d'Alfieri, e molte tragedie
di varie età e lingue,} e molti drammi sentimentali moderni, appresso
varie nazioni. E similmente a quei drammi in cui l'infelicità viene da colpa, ma
o involontaria o compassionevole ec. degli stessi infelici, come appunto si può
dire che sia l'Edipo
re, la Fedra, e molti drammi, {massimamente} moderni, o tragedie ec. E dalle stesse
predette osservazioni si potrà raccogliere se sia meglio che lo scioglimento di
tali drammi sia felice o infelice, che la sorte de' protagonisti si muti o si
conservi la stessa, che di felice divenga infelice, o che per lo contrario, ec.
(16-18. Settembre. 1823.).
[3482,1] Ne' tragici greci (così negli altri poeti o
scrittori antichi) non s'incontrano quelle minutezze, quella particolare e
distinta descrizione e sviluppo delle passioni e de' caratteri che è propria de'
drammi (e così degli altri poemi e componimenti) moderni, non solo perchè gli
antichi erano molto inferiori a' moderni nella cognizione del cuore umano, il
che a tutti è noto, ma perchè gli antichi nè valevano gran fatto nel dettaglio,
nè lo curavano, anzi lo disprezzavano e fuggivano, e tanto era impropria degli
antichi l'esattezza e la minutezza quanto ella è propria e caratteristica de'
moderni. Ciò nel modo e per le ragioni da me spiegate altrove pp. 1482-83.
[3548,2] Il fine del poeta epico (e simili, e in quanto gli
altri gli son simili), non dev'esser già di narrare, ma di descrivere, di
commuovere, di destare
3549 immagini e affetti, di
elevar l'animo, di riscaldarlo, di correggere i costumi, d'infiammare alla
virtù, alla gloria, all'amor della patria, di lodare, di riprendere, di accender
l'emulazione, di esaltare i pregi della propria nazione, de' propri avi, degli
eroi domestici ec. Tutti questi o parte di questi hanno da essere i veri e
proprii fini del poeta epico, non il narrare; ma il poeta epico dee però fare in
modo che apparisca il suo vero e proprio, o certo principal fine, non esser
altro che il narrare. Appena merita il nome di poesia un poema il quale in
verità non faccia altro che raccontare, cioè non produca altro effetto che di
{stuzzicare e} pascere la semplice curiosità del
lettore, ossia coll'intreccio bene intrigato e avviluppato, ossia con qualunque
mezzo. Queste sono piuttosto novelle che poesie, per quanto l'azione raccontata
potesse esser nobile {sublime} interessante ec. (Di
questa specie sono l'Orlando innamorato, il Ricciardetto e
simili). E possono ben essere di questa natura anche i poemi tessuti o sparsi
d'invenzioni capricciose e di favole ec. come i veri poemi. Anche favoleggiando
3550 sempre o quasi sempre, un poema può non far
veramente altro che raccontare. Questi tali non sono poemi perchè il poeta ha
veramente e principalmente per fine quel ch'ei non dee senon far vista di avere,
cioè il narrare. Ma per lo contrario i poemi pieni di lunghe descrizioni, di
dissertazioni e declamazioni morali, politiche ec., di sentenze, di elogi, di
biasimi, di esortazioni, di dissuasioni ec. in persona del poeta {ec.} e di simili cose, non sono poemi epici ec. perchè
il poeta mostra veramente di avere per principali fini, quei ch'e' non deve se
non avere senza mostrarlo. (29 Sett. 1823.). {{v. p.
3552.}}
[4234,5] La poesia, quanto a' generi, non ha in sostanza che
tre vere e grandi divisioni: lirico, epico e drammatico. Il lirico, primogenito
di tutti; proprio di ogni nazione anche selvaggia; più nobile e più poetico d'ogni altro; vera {e pura} poesia in tutta la sua estensione; proprio
d'ogni uomo anche incolto, che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto, e
colle parole misurate in qualunque modo, e coll'armonia; espressione libera e
schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell'uomo. L'epico nacque dopo
questo e da questo; non è in certo modo che un'amplificazione del lirico, o
vogliam dire il genere lirico che tra gli altri suoi mezzi e subbietti ha
assunta
4235 principalmente e scelta la narrazione,
poeticamente modificata. Il poema epico si cantava anch'esso sulla lira o con
musica, per le vie, al popolo, come i primi poemi lirici. Esso non è che un inno
in onor degli {eroi o delle nazioni o eserciti;}
solamente un inno prolungato. Però anch'esso è proprio d'ogni nazione anche
incolta e selvaggia, massime se guerriera. E veggonsi i canti di selvaggi in
gran parte, e quelli ancora de' bardi, partecipar tanto dell'epico e del lirico,
che non si saprebbe a qual de' due generi attribuirli. Ma essi son veramente
dell'uno e dell'altro insieme; sono inni lunghi e circostanziati, di materia
guerriera per lo più; sono poemi epici indicanti il primordio, la prima natività
dell'epica dalla lirica, individui del genere epico nascente, e separantesi, ma
non separato ancora dal lirico. Il drammatico è ultimo dei tre generi, di tempo
e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà,
non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più
che per la essenza sua. La natura insegna, è vero, a contraffar la voce, le
parole, i gesti, gli atti di qualche persona; e fa che tale imitazione, ben
fatta, rechi piacere: ma essa non insegna a farla in dialogo, molto meno con
regola e con misura, anzi n'esclude la misura affatto, n'esclude affatto
l'armonia; giacchè il pregio {e il diletto} di tali
imitazioni consiste tutto nella precisa rappresentazion della cosa imitata, di
modo ch'ella sia posta sotto i sensi, e paia vederla o udirla. Il che anzi è
amico della irregolarità e disarmonia, perchè appunto è amico della verità, che
non è armonica. Oltre che la natura propone per lo più a tali imitazioni i
soggetti più disusati, fuor di regola, le bizzarrie, i ridicoli, le stravaganze,
i difetti. E tali imitazioni {naturali} poi, non sono
mai d'un avvenimento, ma d'un'azione semplicissima, voglio dir d'un atto, senza
parti, senza cagioni, mezzo, conseguenze; considerato in se solo, e per suo solo
rispetto. Dalle quali cose è manifesto che la imitazion suggerita dalla natura,
è per essenza, del tutto differente dalla drammatica. Il dramma non è proprio
delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e
dell'ozio, un trovato
4236 di persone oziose, che
vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell'ozio, inventato, come
tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall'ingegno dell'uomo, non
ispirato dalla natura, ma diretto a procacciar sollazzo a se e agli altri, e
onor sociale o utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma
non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima
figlia, e l'epica, che è sua vera nepote. - Gli altri che si chiamano generi di
poesia, si possono tutti ridurre a questi tre capi, o non sono generi distinti
per poesia, ma per metro o cosa tale estrinseca. L'elegiaco è nome di metro.
Ogni suo soggetto usitato appartiene di sua natura alla lirica; come i subbietti
lugubri, che furono spessissimo trattati dai greci {lirici,} massime antichi, in versi lirici, nei componimenti al tutto
lirici, detti θρῆνοι, {+quali furon
quelli di Simonide, assai
celebrato in tal maniera di componimenti, e quelli di Pindaro: forse anche μονῳδίαι, come quelle che di
Saffo ricorda
Suida.} Il satirico è in parte lirico, se
passionato, come l'archilocheo; in parte comico. Il didascalico, per quel che ha di vera
poesia, è lirico o epico; dove è semplicemente precettivo, non ha di poesia che
il linguaggio, {il modo} e i gesti per dir così. {ec.}
(Recanati. 15. Dic. 1826.).
[4255,6] Dei nostri sommi poeti, due sono stati
sfortunatissimi, Dante e il Tasso. Di ambedue abbiamo e visitiamo i
sepolcri: fuori delle patrie loro ambedue. Ma io, che ho pianto sopra quello del
Tasso, non ho sentito alcun moto
di tenerezza a quello di Dante: e così
credo che avvenga generalmente. E nondimeno non mancava in me, nè manca negli
altri, un'altissima stima, anzi ammirazione, verso Dante; maggiore forse (e ragionevolmente) che verso
l'altro. Di più, le sventure di quello furono senza dubbio reali e grandi; di
questo appena siamo certi che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie:
tanta è la scarsezza e l'oscurità delle notizie che abbiamo in questo
particolare: tanto confuso, e pieno continuamente di contraddizioni, il modo di
scriverne del medesimo Tasso. Ma noi
veggiamo in Dante un uomo d'animo forte,
d'animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; oltracciò un uomo che
contrasta e combatte con essa, colla necessità col fato. Tanto più ammirabile
certo, ma tanto meno amabile e commiserabile. Nel Tasso veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria,
soccombente, atterrato, che ha ceduto all'avversità, che soffre continuamente e
patisce oltre modo. Sieno ancora immaginarie
4256 e
vane del tutto le sue calamità; la infelicità sua certamente è reale. Anzi senza
fallo, se ben sia meno sfortunato di Dante, egli è molto più infelice.
(Recanati. 14. Marzo. 1827.). {{(Si può applicare all'epopea, drammatica ec.)}}.
[4269,2] Noi però abbiamo buonissima ragione di non porre più
che tanto studio intorno allo stile dei libri, atteso la brevità della vita che
essi in ogni modo (non ostante la bontà della stampa) sono per avere. Se mai fu
chimerica la speranza dell'immortalità, essa lo è oggi per gli scrittori. Troppa
è la copia dei libri o buoni o cattivi o mediocri che escono ogni giorno, e che
per necessità fanno dimenticare quelli del giorno innanzi; sian pure eccellenti.
Tutti i posti dell'immortalità in questo genere, sono già occupati. Gli antichi
classici, voglio dire, conserveranno quella che hanno acquistata, o almeno è
credibile che non morranno così tosto. Ma acquistarla ora, accrescere il numero
degl'immortali; oh questo io non credo che sia più possibile.
4270 La sorte dei libri oggi, è come quella degl'insetti chiamati
efimeri (éphémères): alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre 3 o
4 giorni; ma sempre si tratta di giorni. Noi siamo veramente oggidì passeggeri e
pellegrini sulla terra: veramente caduchi: {+esseri di un giorno: la mattina in fiore, la sera
appassiti, o secchi: soggetti anche a sopravvivere alla propria fama, e più
longevi che la memoria di noi.} Oggi si può dire con verità maggiore
che mai: Oἵη περ ϕύλλων
γενεή, τοιήδε καὶ ἀνδρῶν
*
(Iliad.
6. v. 146.) Perchè non ai soli letterati, ma ormai a tutte le
professioni è fatta impossibile l'immortalità, in tanta infinita moltitudine di
fatti e di vicende umane, dapoi che la civiltà, la vita dell'uomo civile, e la
ricordanza della storia ha abbracciato tutta la terra. Io non dubito punto che
di qua a dugent'anni non sia per esser più noto il nome di Achille, vincitor di Troia, che
quello di Napoleone, vincitore e signore
del mondo civile. Questo sarà uno dei molti, si perderà tra la folla; quello
sovrasterà, per esser montato in alto assai prima; conserverà il piedestallo,
{il rialto,} che ha già occupato da tanti
secoli.
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Rimembranze. (1827) (1)
Educazione. Insegnamento. (1827) (1)
Loro lingua, letteratura ec. (1827) (1)
Amore dei propri simili. (1827) (1)
Despotismo. (1827) (1)
Alfieri. (1827) (1)
Tragedie di lieto fine. (1827) (1)
alla vivacità, alla vita. (1827) (1)
Idilli. (1827) (1)
Commedia greca. (1827) (1)
Governi. (1827) (1)
Secolo decimonono. (1827) (1)