Civiltà. Incivilimento.
Civilization. Civilizing process.
Vedi polizzine a parte, intitolate Civiltà, Incivilimento. See separate slips entitled Civilization, Civilizing process 76,2 114,2 115,1 118,1.2 128,1 130,2 131,1 147,1 150,2.3 151,1.2 162,2 163,1 195,2 205,1 207,2 220,1.2 252,1 262,2 266,1 270,3 277,21 280,12 283,1 326,1 358,2 401-402 407-409 420,2 474,2 520,1 542,2 543,1 579,2 590,1 593,2 611,1 112,2 618,2 625,3 646,1 663,1.2 669,1 678,3 720,1 721,1 723,1 823,1.2.3 823,3 830,1 866,1 868,1 870,1 872,1 911,1 923,12 925,2 936,1 978,1 1020,1 1022,1 1053,1 1077,1 1100,1.2 1165,2 1169,1 1170,1 1174,2 1175,1 1315,1 1378,1 1386,1 1436,1 1459,1 1554,2 1555,1 1594,2 1596,1 1607,1 1630,1.2 1631,2 1648,1 1668,1 1669,1 1682 1691,2 1737,2 1804 1823,1 1831,2 1952,1 1957,2 1959,1.2 1981,1.2 1985,1 1988,1 1999,2 2152,1 2204,1 2220-21 2250,12 2256,1.2 2337,2 2436,1 2455,1 2479,2 2558,1 2677,1 2684,1 2736,1 3029,1.2 3082,1 3179,1 3613,1 3643,1 3676,1 3773,1 3909,2 3921,1 3936,1 4120,20 4135,5 4185,21 4265,4[76,2] L'incivilimento ha posto in uso le fatiche {fine ec.} che consumano e logorano ed estinguono le
facoltà umane, come la memoria, la vista, le forze in genere ec. {le quali non erano richieste dalla natura,} e tolte
quelle che le conservano e le accrescono, come quelle dell'agricoltore del
cacciatore ec. e della vita primitiva, le quali erano volute {dalla natura} e rese necessarie alla detta vita.
[114,2] La civiltà delle nazioni consiste in un temperamento
della natura colla ragione, dove quella cioè la natura abbia la maggior parte.
Consideriamo tutte le nazioni antiche, la persiana a tempo di Ciro, la greca, la romana. I romani non furono mai così
filosofi come quando inclinarono alla barbarie, cioè a tempo della tirannia. E
115 parimente negli anni che la precedettero, i
romani aveano fatti infiniti progressi nella filosofia e nella cognizione delle
cose, ch'era nuova per loro. Dal che si deduce un altro corollario, che la
salvaguardia della libertà delle nazioni non è la filosofia nè la ragione, come
ora si pretende che queste debbano rigenerare le cose pubbliche, ma le virtù, le
illusioni, l'entusiasmo, in somma la natura, dalla quale siamo lontanissimi.
{E un popolo di filosofi sarebbe il più piccolo e codardo
del mondo.} Perciò la nostra rigenerazione dipende da una, per così
dire, oltrafilosofia, che conoscendo l'intiero e l'intimo delle cose, ci
ravvicini alla natura. E questo dovrebb'essere il frutto dei lumi straordinari
di questo secolo. (7. Giugno 1820.).
[115,1] La barbarie non consiste principalmente nel difetto
della ragione ma della natura. (7. Giugno 1820.).
[128,1] La qual passione è così propria dell'uomo in società,
e così naturale, che anche ora in tanta morte del mondo, e mancanza di ogni
sorta di eccitamenti, nondimeno i giovani sentono il bisogno di distinguersi, e
non trovando altra strada aperta come una volta, consumano le forze della loro
giovanezza, e studiano tutte le arti, e gettano la salute del corpo, e si
abbreviano la vita, non tanto per l'amor del piacere, quanto per esser notati e
invidiati, e vantarsi di vittorie vergognose, che tuttavia il mondo ora
applaude, non restando a un giovane altra maniera di far valere il suo corpo, e
procacciarsene lode, che questa. Giacchè ora pochissimo anche all'animo, ma
tuttavia all'animo resta qualche via di gloria, ma al corpo ch'è quella parte
che fa il più, e nella quale consiste per natura delle cose, il valore della
massima parte degli uomini, non resta altra strada.
[130,2] A quello che ho detto p. 128. aggiungi. Il giovane che entra nel mondo vuol
diventarci qualche cosa. Questo è un desiderio comune e certo di tutti. Ma
oggidì il giovane privato non ha altra strada a conseguirlo fuorchè quella che
ho detto, o l'altra della letteratura che rovina parimente il corpo. Così la
gloria d'oggidì è posta negli esercizi che nuocciono alla salute, in luogo che
una volta era posta nei contrarii. E così per conseguenza s'infiacchiscono
sempre più le generazioni degli uomini, e questo effetto della mancanza
d'illusioni esistenti nel mondo come
una volta, divien cagione di questa stessa mancanza, a motivo del poco vigore
secondo quello che ho detto negli altri pensieri, p. 96
p. 115 della necessità del vigor del corpo alle grandi illusioni
dell'animo. Sono poi troppo noti gli spaventosi effetti della ordinaria vita
giovanile d'oggidì, che a poco a poco ridurranno il mondo a uno spedale. Ma che
rimedio ci trovereste? Che altra occupazione resta oggi a un giovane privato, o
che altra speranza? E credete che un giovane si possa contentare di una vita
inattiva,
131 senza nessuna vista, e nessuna aspettativa
fuorchè di un'eterna monotonia, e di una noia immutabile? Anticamente la vanità
era considerata come propria delle donne, perchè anche nelle donne c'è lo stesso
desiderio di distinguersi, e ordinariamente non ne hanno avuto altro mezzo che
quello della bellezza. Quindi il loro cultus sui,
*
il
quale diceva Celso che adimi feminis non potest.
*
Ora resta intorno alla
vanità la stessa opinione, che sia propria delle donne, ma a torto, perchè è
propria degli uomini quasi egualmente, essendo anche gli uomini ridotti alla
condizione appresso a poco delle femmine, rispetto alla maniera di figurare nel
mondo, e l'uomo vecchio per la massima parte, è divenuto inutile e spregevole, e
senza vita nè piaceri nè speranze, come la donna comunemente soleva e suol
divenire, che dopo aver fatto molto parlar di se, sopravvive alla sua fama
invecchiando. (22. Giugno 1820.).
[131,1] Bisogna escludere dai sopraddetti, {i negozianti} gli agricoltori, gli artigiani, e in breve gli operai,
perchè in fatti la strage del mal costume non si manifesta altro che nelle
classi disoccupate.
[147,1] Tutto quello, {si può dire,}
che i moderni viaggiatori osservano e raccontano di curioso e singolare nei
costumi e {nelle usanze} delle nazioni incivilite, non
è altro che un avanzo di antiche istituzioni, massimamente se quelle
particolarità spettano alle classi colte. Perchè la natura quando è più libera,
come anticamente, e ora in gran parte appresso il popolo, è sempre varia. Ma
certamente nel moderno non troveranno niente di singolare nè di curioso, e tutto
quello che c'è da vedere negli altri paesi possono far conto di averlo veduto
nel proprio senza viaggiare. Eccetto le piccole differenze provenienti dal clima
e dal carattere di ciaschedun popolo, i quali però vanno sempre cedendo
all'impulso moderno di uguagliare ogni cosa, e certamente da per tutto, massime
nelle classi colte, si ha cura di allontanare tutto quello che c'è di singolare
e di proprio nei costumi della nazione, e di non distinguersi dagli altri se non
per una maggior somiglianza col resto degli uomini. E in genere si può dire che
la tendenza dello spirito moderno è di ridurre tutto il mondo una nazione, e
tutte le nazioni una sola persona. Non c'è più vestito proprio di nessun popolo,
e le mode in vece d'esser nazionali, sono europee ec: anche la lingua oramai
divien tutt'una per la gran propagazione del francese, la quale io non riprendo
in quanto all'utile, ma bene in quanto al bello.
[162,2] Lo scopo dell'incivilimento moderno doveva essere di
ricondurci appresso a poco alla civiltà antica offuscata ed estinta dalla
barbarie dei tempi di mezzo. Ma quanto più considereremo l'antica civiltà, e la
paragoneremo alla presente, tanto più dovremo convenire ch'ella era quasi nel
giusto punto, e in quel mezzo tra i due eccessi, il quale solo poteva proccurare
all'uomo in società una certa felicità. La barbarie de' tempi bassi non era una
rozzezza primitiva, ma una corruzione del buono, perciò dannosissima e
funestissima. Lo scopo dell'incivilimento dovea esser di togliere la ruggine
alla spada già bella, o accrescergli solamente un poco di lustro. Ma siamo
andati tanto oltre volendola raffinare e aguzzare che siamo presso a romperla. E
osservate che l'incivilimento ha conservato in grandissima parte il cattivo dei
tempi bassi, ch'essendo proprio loro, era più moderno, e tolto tutto quello che
restava
163 loro di buono dall'antico per la maggior
vicinanza (del quale antico in tutto e per tutto abbiam fatto strage), come
l'esistenza e un certo vigore del popolo, {e
dell'individuo,} uno spirito nazionale, gli esercizi del corpo,
un'originalità e varietà di caratteri costumi usanze ec. L'incivilimento ha
mitigato la tirannide de' bassi tempi, ma l'ha resa eterna, laddove allora non
durava, tanto a cagione dell'eccesso, quanto per li motivi detti qui sopra.
Spegnendo le commozioni e le turbolenze civili, in luogo di frenarle com'era
scopo degli antichi (Montesquieu ripete sempre che le divisioni
sono necessarie alla conservazione delle repubbliche, e ad impedire lo
squilibrio dei poteri, ec. e nelle repubbliche ben ordinate non sono contrarie
all'ordine, perchè questo risulta dall'armonia e non dalla quiete e immobilità
delle parti, nè dalla gravitazione smoderata e oppressiva delle une sulle altre,
e che per regola generale, dove tutto è tranquillo non c'è libertà), non ha
assicurato l'ordine ma la perpetuità tranquillità e immutabilità del disordine,
e la nullità della vita umana. In somma la civiltà moderna ci ha portati al lato
opposto dell'antica, e non si può comprendere come due cose opposte debbano
esser tutt'uno, vale a dire civiltà tutt'e due. Non si tratta di piccole
differenze, si tratta di contrarietà sostanziali: o gli antichi non erano
civili, o noi non lo siamo. (10. Luglio 1820.).
[163,1] Io riguardo l'indebolimento corporale delle
generazioni umane, come l'una delle principali cause del gran cangiamento del
mondo e dell'animo e cuore umano dall'antico al moderno. Così anche della
barbarie de' secoli di mezzo, stante la depravazione de' costumi sotto i primi
imperatori e in seguito, la quale è certa cagione d'infiacchimento corporale,
come
164 appresso i Persiani divenuti fiacchissimi (e
perciò barbari e privi di libertà) per la depravazione degli antichi costumi e
istituti che li rendevano vigorosissimi. V.
la Ciroped. cap. ult. art. 5. e segg. sino
al fine.
[195,2] Sebbene è spento nel mondo il grande e il bello e il
vivo, non ne è spenta in noi l'inclinazione. Se è tolto l'ottenere, non è tolto
nè possibile a togliere il desiderare. Non è spento nei giovani l'ardore che li
porta a procacciarsi una vita, e a sdegnare la nullità e la monotonia. Ma tolti
gli oggetti ai quali anticamente si era rivolto questo ardore, vedete a che cosa
li debba portare e li porti effettivamente. L'ardor giovanile, cosa
naturalissima, universale, importantissima, una volta entrava grandemente nella
considerazione
196 degli uomini di stato. Questa materia
vivissima e di sommo peso, ora non entra più nella bilancia dei politici e dei
reggitori, ma è considerata appunto come non esistente. Fratanto[Frattanto] ella esiste ed opera senza direzione nessuna,
senza provvidenza, senza esser posta a frutto (opera perchè quantunque tutte le
istituzioni tendano a distruggerla, la natura non si distrugge, e la natura in
un vigor primo {freschissimo} e sommo com'è in
quell'età) e laddove anticamente era una materia impiegata {e
ordinata} alle grandi utilità pubbliche, ora questa materia così
naturale, e inestinguibile, divenuta estranea alla macchina e nociva, circola e
serpeggia e divora sordamente come un fuoco elettrico, che non si può sopire
{nè impiegare in bene} nè impedire che non iscoppi
in temporali in tremuoti ec. (1. Agosto 1820.).
[205,1]
Ossian prevedeva il deterioramento
degli uomini e della sua nazione. V.
Cesarotti osservazione ultima
al poemetto della guerra di Caroso. Ma certo quando egli diceva ec.
(v. gli ultimi versi d'esso
poemetto) non prevedeva che la generazione degl'imbelli si dovesse
chiamar civile, e barbara la sua, e le altre che la somigliarono.
[207,2] Oggidì è cosa molto ordinaria che un uomo veramente
singolare e grande si distingua al di fuori per un volto o un occhio assai vivo,
ma del resto per un corpo esilissimo e sparutissimo, e anche difettoso. Pope, Canova, Voltaire, {+Descartes, Pascal.} Tant'è: la grandezza appartenente
all'ingegno non si può ottenere oggidì senza una continua azione logoratrice
dell'anima sopra il corpo, della lama sopra il fodero. Non così anticamente,
dove il genio e la grandezza era più naturale e spontanea, e con meno ostacoli a
svilupparsi, oltre la minor forza della distruttrice cognizione del vero
inseparabile oggidì dai grandi talenti, e il maggior esercizio del corpo
riputato cosa nobile e necessaria, e come tale usato anche dalle persone di gran
genio, come Socrate
ec. E Chilone
{uno de' sette savi} non credeva alieno dalla sapienza
il consigliare come faceva, εὖ τὸ σῶμα ἀσκεῖν
*
(Laerz.), {e questo
consiglio si trova registrato fra i documenti della sua sapienza.} In
particolare poi quanto alla politica, oggidì l'uomo di stato si può dir che sia
come l'uomo di lettere, sempre occupato alle insaluberrime fatiche del
gabinetto. Ma nelle antiche repubbliche chi aspirava agli affari civili, e nella
sua giovanezza fortificava necessariamente il corpo cogli esercizi la milizia
ec. senza i quali sarebbe stato quasi infame; e lo stesso esercizio della
politica era pieno di azione corporale, trattandosi di agire col popolo,
clienti, impegni ec. ec. Così {anche} la vita di
qualunque {altro} uomo di genio era sempre piena di
azione nell'esercizio stesso delle sue facoltà.
208
Esempio ne può essere Omero, secondo
quello che si racconta della sua vita, viaggi ec. {+Di Cicerone che tanto
incredibilmente affaticò la mente e la penna, e che nacque di
quell'ingegno e natura unica che ognun sa, niun dice che fosse di corpo,
non che infermiccio, ma gracile, le quali qualità oggi s'hanno per segni
caratteristici, e condizioni indispensabili de' talenti non pur sommi ma
notabili, e massime di chi avesse coltivato e occupato tanto la mente
negli studi letterari e nello scrivere, come Cic. anzi per una metà. Quel che dico di Cic. può dirsi di Platone, e di quasi tutti i
grandissimi ingegni e laboriorissimi[laboriosissimi] letterati e scrittori antichi. V. però Plutarco
Vita di Cic.}
(11. Agosto 1820.)
{{V. p. 233. capoverso 3..}}
[252,1] Alla tirannia fondata sopra l'assoluta barbarie,
superstizione, e intera bestialità de' sudditi, giova l'ignoranza, e nuoce
definitivamente e mortalmente l'introduzione dei lumi. Perciò Maometto, con buona ragione proibì gli studi. Alle
tirannie esercitate sopra popoli inciviliti fino a un certo punto, fino a quel
mezzo, nel quale consiste la vera perfezione dell'incivilimento e della natura,
l'incremento e propagazione dei lumi, delle arti, mestieri, lusso ec. non
solamente non pregiudica, ma giova sommamente, anzi assicura e consolida la
tirannia, perchè i sudditi da quello stato di mediocre incivilimento che lascia
la natura ancor libera, e le illusioni, e il coraggio, e l'amor di gloria e di
patria, e gli altri eccitamenti alle grandi azioni, passa all'egoismo,
all'oziosità riguardo all'operare, all'inattività, alla corruttela, alla
freddezza, alla mollezza ec. La sola natura è madre della grandezza e del
disordine. La ragione tutto all'opposto. La tirannia non è mai sicura se non
quando il popolo non è capace di grandi azioni. Di queste non può esser capace
per ragione, ma per natura. Augusto,
Luigi 14. ed altri tali mostrano di
aver bene inteso queste verità. (28. 7.bre 1820.).
[262,2] Bisogna ricordarsi che l'invenzione della polvere
contribuì non poco all'indebolimento delle generazioni 1. disavvezzando dal
portare armatura, (v. Montesquieu ch. 2. in proposito del gran vigore
de' soldati romani) 2. rendendo l'atto della guerra non più opera
della forza individuale o generale, ma quasi intieramente dell'arte; certamente
rendendo l'arte molto più arbitra della guerra che non era stata per l'addietro
ec. 3. sopprimendo o togliendo per conseguenza la necessità di quegli esercizi
che o direttamente o indirettamente come i giuochi atletici, servivano a render
gli uomini vigorosi ed atti alla guerra.
[266,1] Le passioni e i sentimenti dell'uomo si può dire che
da principio stessero nella superficie, poi si rannicchiassero nel fondo più
cupo dell'anima, e finalmente siano venuti e rimasti nel mezzo. Perchè l'uomo
naturale, sebbene sensibilissimo, tuttavia si può dire che abbia le sue passioni
nella superficie, sfogandole con ogni sorta di azioni esterne, suggerite e
volute dalla natura per aprire una strada alla soverchia foga ed impeto del
sentimento, il quale appunto perchè violentissimo nel dimostrarsi, e perchè
richiamato {subito} al di fuori, dopo un grand'empito
esterno, presto veniva meno, {se bene fosse molto più
frequente.} L'uomo non più naturale, ma che tuttavia conserva un poco
di natura, risentendo tutta o quasi tutta la forza della passione, come l'uomo
primitivo, la contiene tutta al di dentro, non ne dà segni se non leggeri ed
equivoci, e però il sentimento si rannicchia tutto nel profondo, ed acquista
maggior forza e durevolezza, e se il sentimento è doloroso, non avendo lo sfogo
voluto dalla natura, diventa capace anche di uccidere o di tormentare più o
meno, secondo la qualità sua e dell'individuo. Di queste persone si trovano
anche oggidì,
267 perchè, tolto qualche parte del volgo,
nessuno conserva tanta natura da lasciar tutta la passione lanciarsi alla
superficie (eccetto in alcuni casi eccessivi, dove la natura trionfa); ma molti
ne hanno quanto basta per sentirla vivamente, e poterla provare contenuta e
chiusa nel fondo dell'animo. Tuttavia è certo che questi tali appartengono ad
un'epoca di mezza natura, a quel tempo in cui la vera sensibilità non era nè
così ordinaria nelle parole, nè così straordinaria nel fatto, come
presentemente. L'uomo perfettamente moderno, non prova quasi mai passione o
sentimento che si lanci all'esterno o si rannicchi nell'interno, ma {quasi} tutte le sue passioni si contengono per così dire
nel mezzo del suo animo, vale a dire che non lo commuovono se non mediocremente,
gli lasciano il libero esercizio di tutte le sue facoltà naturali, abitudini ec.
In maniera che la massima parte della sua vita si passa nell'indifferenza e
conseguentemente nella noia, mancando d'impressioni forti e straordinarie.
Esempio. Un amico o persona desiderata che ritorni dopo lungo tempo, o che
vediate per la prima volta. Il fanciullo e l'uomo selvaggio l'abbraccerà, lo
carezzerà, salterà, darà mille segni esterni di quella gioia che l'anima
veramente e vivamente; segni non fallaci, ma verissimi
268 e naturalissimi. L'uomo di sentimento, senza gesti nè moti forti, lo prenderà
per la mano, o al più l'abbraccerà lentamente, e resterà qualche tempo in questo
abbracciamento, o in altra positura, non dando segno della gioia che prova se
non colla immobilità della persona e dello sguardo, e forse con qualche lacrima,
{e mentre il di dentro è diversissimo, il di fuori sarà
quasi quello di prima.} L'uomo ordinario, o l'uomo di sentimento
affievolito e intorpidito dall'esperienza del mondo, e dalla misera cognizione
delle cose, {insomma l'uomo moderno,} conserverà di
dentro e di fuori il suo stato giornaliero, non proverà emozione se non piccola,
minore ancora di quello che forse si aspettava, ed o che lo prevedesse o no,
quello sarà per lui un avvenimento ordinario della vita, uno di quei piaceri che
si gustano con indifferenza, e che appena arrivati, quando anche voi lo
desideraste ansiosamente, vi par freddo e ordinario e incapace di riempiervi o
di scuotervi. V. p. 270 capoverso 1.
[270,3] La ragione è debolissima e inattiva al contrario della
natura. Laonde quei popoli e quei tempi nei quali prevale più o meno la ragione
saranno stati e saranno sempre inattivi in proporzione della influenza di essa
ragione. Al contrario dico della natura. Ed un popolo tutto ragionevole o
filosofo non potrebbe sussistere per mancanza di movimento e di chi si prestasse
agli uffizi scambievoli e necessari alla vita. ec. ec. E infatti osservate
quegli uomini (che non sono rari oggidì) stanchi del mondo e disingannati per
lunga esperienza, e possiamo dire, renduti perfettamente ragionevoli. Non sono
capaci d'impegnarsi in nessun'azione, e neanche desiderio. {+Simili al march. D'Argens, di cui dice Federico
nelle Lettere, che per pigrizia, non avrebbe voluto
pur respirare, se avesse potuto.} La conseguenza della loro
stanchezza, esperienza, e cognizione delle cose è una perfetta indifferenza che
li fa seguire il moto altrui senza muoversi da se stessi, {anche nelle cose che li riguardano.} Laonde se questa indifferenza
potesse divenire universale
271 in un popolo, non
esistendovi moto altrui, non vi sarebbe movimento di nessuna sorta.
[277,1] Quel vecchio che non ha presente nè futuro, non è
privo perciò di vita. Se non è stato mai uomo, non ha bisogno se non di quel
nonnulla che gli somministra la sua situazione, e tutto gli basta per vivere. Se
è stato uomo, ha un passato, e vive in quello. La mancanza del presente, non è
la cosa più grave per gli uomini, anzi atteso la nullità di tutto quello che si
vede nella realtà e da vicino, si può dire che il presente sia nullo per tutti,
e che ogni uomo manchi del
presente. Il vuoto del futuro non è gran cosa per lui, 1. perch'è già sazio
della vita, che ha già provata, gustata, adoperata ec. 2. perchè i suoi
desideri, passioni, affetti, sentimenti, sono rintuzzati e
278 intorpiditi, e ristretti,
e non esigono più grandi beni, piaceri, movimenti, azioni presenti, nè grandi
speranze, gran vita attuale o avvenire: 3. perchè l'estensione materiale del suo
futuro è piccola, e non lo può spaventare gran fatto il vuoto di un piccolo
spazio. Ma il giovane senza presente nè futuro, cioè senza nè beni, attività,
piaceri, vita ec. nè speranze e prospettiva dell'avvenire, dev'essere
infelicissimo e disperato, mancare affatto di vita, e spaventarsi e inorridire
della sua sorte e del futuro. 1. Il giovane non ha passato. Tutto quello che ne
ha, {non} serve altro che ad attristarlo e stringergli
il cuore. Le rimembranze della fanciullezza e della prima adolescenza, dei
godimenti di quell'età perduti irreparabilmente, delle speranze fiorite, delle
immaginazioni ridenti, dei disegni aerei di prosperità futura, di azioni, di
vita, di gloria, di piacere, tutto svanito. 2. I desideri e le passioni sue,
sono ardentissime ed esigentissime. Non basta il poco; hanno bisogno di
moltissimo. Quanto è maggiore la sua vita interna, tanto maggiore è il bisogno e
l'estensione e intensità ec. della vita esterna che si desidera. E mancando
questa, quanto maggiore è la vita interna, tanto maggiore è il senso di
279 morte, di nullità, di noia ch'egli prova: insomma
tanto meno egli vive in tali circostanze, quanto la sua vita interiore è più
energica. 3. Il giovane non ha provato nè veduto. Non può esser sazio. I suoi
desideri e passioni sono più ardenti e bisognosi, come ho detto, non solo
assolutamente per l'età, ma anche materialmente, per non avere avuto ancora di
che cibarsi e riempiersi. Non può esser disingannato nell'intimo fondo e nella
natura, quando anche lo sia in tutta l'estensione della sua ragione. 4. Il suo
futuro è materialmente lunghissimo, e l'immensità dello spazio vuoto che resta a
percorrere, fa orrore, massime paragonandolo con quel poco che ha avuto tanta
pena a passare. Il giovane a questa considerazione si spaventa e dispera {eccessivamente,} sembrandogli quel futuro più lungo e
terribile di un'eternità. Di più tutta la sua vita consiste nel futuro. L'età
passata non è stata altro che un'introduzione alla vita. Dunque egli è nato
senza dover vivere. Il giovane prova disperazioni mortali, considerando che una
sola volta deve passare per questo mondo, e che questa volta non godrà della
vita, non vivrà, {avrà perduto e gli sarà inutile la sua
unica esistenza.} Ogn'istante che passa della sua gioventù in questa
guisa, gli sembra
280 una perdita irreparabile fatta
sopra un'età che per lui non può più tornare. (16. 8.bre
1820.).
[280,2] Anche la mancanza {sola} del
presente è più dolorosa al giovine che a qualunque altro. Le illusioni in lui
sono più vive, e perciò le speranze più capaci di pascerlo. Ma l'ardor giovanile
non sopporta la mancanza intera di una vita presente, non è soddisfatto del solo
vivere nel futuro, ma ha bisogno di un'energia attuale, e la monotonia e
l'inattività presente gli è di una pena di un peso di una noia maggiore che in
qualunque altra età, perchè l'assuefazione alleggerisce qualunque male, e l'uomo
col lungo uso si può assuefare anche all'intera e perfetta noia, e trovarla
molto meno insoffribile che da principio. L'ho provato io, che della noia da
principio mi disperava, poi questa crescendo in luogo di scemare, tuttavia
l'assuefazione me la rendeva appoco appoco meno spaventosa, e più suscettibile
di pazienza. La qual pazienza della noia in me divenne finalmente affatto
eroica. {Esempio de' carcerati, i quali talvolta si sono
anche affezionati a quella vita.}
[283,1] Qualunque uomo nuovo tu veda, purch'egli viva nel
mondo, tu sei certo di non errare, tenendolo subito per un malvagio, qualunque
sia la sua fisonomia, le maniere, il portamento, le parole, le azioni ec. E chi
vuol mettersi al sicuro deve subito giudicarlo per tale, e appresso a poco non
troverà mai di avere sbagliato veramente, non ostante che tutte le apparenze gli
possano dimostrare il contrario per lunghissimo tempo. Nello stesso modo, e per
la stessa ragione è pur troppo acerbissima oggidì la condizione dell'uomo da
bene che si unisce in matrimonio. Perchè s'egli non intende di portare e far
sempre vivere i suoi figli nelle selve, deve tenere per indubitatissimo
284 fino da quel primo punto, che il suo matrimonio non
frutterà al mondo altro che qualche malvagio di più. E questo non ostante
qualunque indole, qualunque cura o arte di educazione ec. Perchè da che un uomo
qualunque dovrà entrare nella società, è quasi matematicamente certo che dovrà
divenire un malvagio, se non tutto a un tratto, certo a poco a poco; se non del
tutto, certo in gran parte, a proporzione degli ostacoli ch'esso gli opporrà, ma
che in tutti i modi certamente saranno vinti. E parimente dovrebb'esser
dolorosissimo per l'uomo da bene il considerare nel mentre che alleva i suoi
figli, che qualunque sua cura, qualunque immaginabile speranza di virtù, ch'egli
ne possa concepire, è certissimo per infallibile e continua esperienza, che
saranno, almeno in gran parte, inutili e vane. Sicchè tutto quello che può
ragionevolmente sperare e cercare il buon educatore, è d'istillare ne' suoi
figli tanta dose di virtù, che venendo senza fallo a scemare, pur ne resti
qualche poco, a proporzione della prima quantità. Questa sarebbe ben altra
risposta da darsi a chi vi consigliasse d'ammogliarvi, o v'interrogasse perchè
non l'abbiate fatto. Al che Talete
interrogato
285 da Solone, dicono che
rispondesse col mostrargli le inquietudini e i dolori del padre per li pericoli
o le sventure della sua prole. Ma ora si potrebbe rispondere: per non procreare
dei malvagi: per non dare al mondo altri malvagi. (17. 8.bre
1820.).
[326,1] Dicono che la felicità dell'uomo non può consistere
fuorchè nella verità. Così parrebbe, perchè qual felicità in una cosa che sia
falsa? E come, se il mondo è diretto alla felicità, il vero non deve render
felice? Eppure io dico che la felicità consiste nell'ignoranza del vero. E
questo, appunto perchè il mondo è diretto alla felicità, e perchè la natura ha
fatto l'uomo felice. Ora essa l'ha fatto anche ignorante, come gli altri
animali. Dunque l'avrebbe fatto
327 infelice esso, e le
altre creature; dunque l'uomo per se stesso sarebbe infelice (eppure le altre
creature sono felici per se stesse); dunque sarebbero stati necessari moltissimi
secoli perchè l'uomo acquistasse il complemento, anzi il principale
dell'esistenza, ch'è la felicità (giacchè nemmeno ora siam giunti all'intiera
cognizione del vero); dunque gli antichi sarebbero stati necessariamente
infelici; dunque tutti i popoli non colti, parimente lo saranno anche oggidì;
dunque noi pure necessariamente per quella parte che ci manca della cognizione
del vero. Laddove tutti gli esseri (parlo dei generi e non degl'individui) sono
usciti perfetti nel loro genere dalle mani della natura. E la perfezione
consiste nella felicità quanto all'individuo, e nella retta corrispondenza
all'ordine delle cose, quanto al rimanente. Ma noi consideriamo quest'ordine in
un modo, e la natura in un altro. Noi in un modo con cui l'ignoranza è
incompatibile: la natura in un modo col quale è incompatibile la scienza. E se
la natura ha voluto incontrastabilmente la felicità degli esseri, perchè,
supponendo che l'abbia posta riguardo all'uomo nella cognizione del vero, ha
nascosto questo vero così gelosamente che secoli e secoli non bastano a
discoprirlo?
328 Non sarebbe questo un vizio organico,
fondamentale, radicale, e una contraddizione nel suo sistema? Come ha reso così
difficile il solo mezzo di ottener quello ch'ella voleva soprattutto, e si
prefiggeva per fine, cioè la felicità? e la felicità dell'uomo il quale tiene
evidentemente il primo rango nell'ordine delle cose di quaggiù? Come ha
ripugnato con ogni sorta di ostacoli a quello ch'ella cercava? Ma l'uomo dovea
ben tenere il primo rango, e lo terrebbe anche in quello stato naturale che noi
consideriamo come brutale; non però dovea mettersi in un altr'ordine di cose, e
considerarsi come appartenente ad un'altra categoria, e porre la sua dignità,
non nel primeggiare tra gli esseri, come avrebbe sempre fatto, ma nel collocarsi
assolutamente fuori della loro sfera, e regolarsi con leggi apparte, e
indipendenti dalle leggi universali della natura. (14. Nov.
1820.).
[358,2]
Alla p. 223. Le dottrine non rimontano mai verso la loro
sorgente, e la Riforma invano si sforzava d'arrestare il corso del
fiume che la trascinava,
*
dice l'Essai sur l'indifférence en matière de
religion, a poco più di un terzo del Capo 6. Così tutte le
sette, istituzioni, corporazioni, ogni cosa umana si guasta e perde quando
s'allontana da' suoi principii, e non c'è altro rimedio che richiamarvela, cosa
ben difficile, perchè l'uomo non torna indietro senza qualche ragione
universale, necessaria ec. come sovversioni del globo, o di
359 nazioni, barbarie simile a quella che rinculò il mondo ne' tempi
bassi, ec.: ma di spontanea volontà, e ad occhi aperti, e per sola ragione e
riflessione, non mai; non essendo possibile che la {causa} del male, cioè la corruzione, la ragione, i lumi eccessivi ec.
siano anche la causa del rimedio. Del resto la religion Cattolica non si
mantiene meglio delle altre, dopo tanti secoli, se non per la somma cura
dell'antichità, e del conservare lo stato primitivo, e bandire la novità, nello stesso modo che dice Montesquieu (l. cit. nel pensiero, a cui questo si
riferisce) della costituzione d'inghilterra custodita
e osservata {e protetta e richiamata sempre}
gelosamente dalla camera.
[400,2] 5o. La descrizione che fa Mosè del paradiso terrestre, prova che i piaceri
destinati all'uomo naturale in questa vita, erano piaceri di questa vita,
materiali, sensibili,
401 e corporali, e così per tanto
la felicità. Oltracciò Dio pose Adamo
in
paradiso voluptatis ut operaretur et custodiret illum.
*
(2.
15.) Dunque sebben l'uomo fu condannato {dopo il
peccato} a lavorar la terra maledetta nell'opera di
esso,
*
(3. 17.) e scacciato dal paradiso di voluttà
(3. 23.)
ut
operaretur terram de qua sumptus est
*
(ib.), si deve intendere a lavorarla con
sudore, e {con} ingratitudine d'essa terra, secondo il
contesto della Genesi, e non che la sua vita avanti il peccato, e
la sua felicità dovesse consistere nella contemplazione, ed essere inattiva,
ossia senza opere {e occupazioni} corporali {ed esterne}, e piacere di queste opere. Infatti chi non
vede che l'uomo corrotto, ossia l'uomo tal qual è oggi ha molto più bisogni
degli altri viventi, molto più ostacoli a proccurarsi il necessario, e quindi ha
mestieri di molto più fatica per la sua conservazione? Fatica di stento,
comandata dalla ragione e dalla necessità, ma ripugnante alla natura: fatica non
piacevole ec. Laddove gli altri animali con poca fatica, e quasi nessuno stento si procacciano il bisognevole;
non lavorano la terra, nè questa produce loro spinas et
tribulos,
*
(3. 18.) cioè non contrasta ai loro
desideri, ma somministra loro il necessario spontaneamente; ed essi raccolgono e
non
402 seminano. Intendo parlare di qualunque cibo del
quale si pascano. Del vestire, l'uomo abbisogna nello stato presente, essi no,
ma nascono vestiti dalla natura. La società primitiva qual è usata anche dagli
animali; il raziocinio primitivo, ossia il principio di cognizione comune a
tutti gli esseri capaci di scelta, erano destinati a supplire ai bisogni
dell'uomo. La società qual è, la ragione qual è ridotta, accresce smisuratamente
questi bisogni: il mezzo di servire ai bisogni e di estinguerli, è divenuto
padre, e cagione, e fonte perenne e abbondantissima di bisogni. I bisogni
naturali dell'uomo sarebbero pochissimi, come quelli degli altri anmali; ma la
società e la ragione aumentano il numero e la misura de' suoi bisogni
eccessivamente. Questa distinzione fra' bisogni naturali, e sociali o fattizi, e
nonpertanto inevitabili nel nostro stato, formava il fondamento della setta
Cinica, la quale si prefiggeva di mostrare col fatto, di quanto poco abbisogni
l'uomo naturalmente. V. l'epitaffio di Diogene nel Laerzio. L'uomo fu dunque veramente
condannato alla fatica, e fatica di stento; vi fu condannato a differenza degli
altri animali; ed essendovi stato condannato sotto l'aspetto che ho esposto, non
ne segue che la sua vita innanzi la corruzione dovesse essere inattiva, cioè
dovesse
403 contenere meno attività ed occupazione
fisica, di quello che ne contenga la vita degli altri animali.
[407,1]
407 7o. La perfezion della ragione consiste in conoscere
la sua propria insufficienza a felicitarci, anzi l'opposizione intrinseca
ch'ella ha colla nostra felicità. V. p.
304. capoverso 2. Questa è tutta la perfettibilità dell'uomo,
conoscersi incapace affatto a perfezionarsi, anzi ch'essendo egli uscito
perfetto sostanzialmente dalle mani della natura, alterandosi non può altro che
guastarsi. Ora la Religione confonde appunto la nostra ragione, gli mostra la
sua insufficienza, la corruttela che ha introdotto nell'uomo, e l'impossibilità
ch'ell'ha di felicitarci: ed ecco la perfezion della ragione. Perchè queste cose
l'uomo non le avrebbe conosciute nel suo stato primitivo, ma prevaluta la
ragione, egli non può giungere a maggior perfezione che di conoscere l'impotenza
e il danno della ragione. La perfezion della ragione consiste a richiamar l'uomo
quanto è possibile al suo stato naturale; ritorno ch'essendo fatto mediante
quella ragione stessa che ha corrotto l'uomo, ed avendo il suo fondamento in
questa medesima corruttrice, non può più equivalere allo stato naturale, nè per
conseguenza alla nostra perfezion primitiva, nè quindi proccurarci quella
felicità che ci era destinata. Ma contuttociò, riguardo a questa vita, è la
miglior condizione che l'uomo possa sperare. Ed ecco che la Religione favorisce
infinitamente
408 la natura, come ho detto in parecchi
altri luoghi, stabilisce moltissime di quelle qualità ch'eran proprie degli
uomini antichi o più vicini alla natura, appaga la nostra immaginazione
coll'idea dell'infinito, predica l'eroismo, dà vita, corpo, ragione e fondamento
a mille di quelle illusioni che costituiscono lo stato di civiltà media, il più
felice stato dell'uomo sociale e corrotto insanabilmente, stato dove si concede
tanto alla natura, quanto è compatibile colla società. Osservate infatti che lo
stato di un popolo Cristiano, è precisamente lo stato di un popolo mezzanamente
civile. Vita, attività, piaceri della vita domestica, eroismo, sacrifizi, amor
pubblico, fedeltà privata e pubblica degl'individui e delle nazioni, virtù
pubbliche e private, importanza data alle cose, compassione e carità ec. ec.
Tutte le illusioni che sublimavano gli antichi popoli, e sublimano il fanciullo
e il giovane, acquistano vita e forza nel Cristianesimo. Esempio della
Spagna fino al 1820. del suo eroismo contro i
francesi ec. Le sue stesse superstizioni non erano altro che illusioni, e però
vita. {+Osservate ancora che tutto quello
che v'è di meno della civiltà media nello stato di un popolo, è contrario al
Cristianesimo, o deriva da corruzione di esso, come nello stato de' bassi
tempi, della Spagna ec. Perchè il Cristianesimo puro,
conduce, anzi equivale a una sufficiente e giusta civiltà, quanta nè più nè
meno conviene all'uomo sociale.} D'altra parte osservate che nessun popolo al di qua
della civiltà media, nessun popolo al di là, è stato mai cristiano, e viceversa
nessun popolo cristiano veramente, è stato mai al
409 di
qua nè al di là della civiltà media. Le società o barbare assolutamente, o corrotte e barbare per corruzione,
sono incivilite dal Cristianesimo, e portate al detto stato di civiltà media.
Esempio de' popoli barbari convertiti dalla predicazione del Vangelo.
All'opposto le società eccessivamente incivilite, e strettamente ragionevoli,
(come anche gl'individui) non sono state mai cristiane. Esempio de' nostri
tempi. In luogo delle qualità dette di sopra, i distintivi di queste società,
sono l'egoismo, la morte, il tedio, l'indifferenza, l'inazione, la mala fede
pubblica e privata, l'assenza di ogni eroismo, sacrifizio, virtù, di ogni
illusione ispirata dalla natura nello stato primitivo, o sviluppatasi
naturalmente nello stato sociale; di ogni illusione che forma la sostanza e la
ragione della vita, e ch'essendo ispirata dalla natura è confermata dal
Cristianesimo.
[420,2]
Alla p. 416.
L'ignoranza parziale può sussistere, come ho detto, anche nell'uomo alterato
dalla ragione, anche nell'uomo ridotto in società. Può dunque servire di stabile fondamento a un maggiore o
minor numero di credenze naturali; dunque tener l'uomo più o meno vicino allo
stato primitivo, dunque conservarlo più o meno felice. Per
421 conseguenza quanto maggiore per estensione, e per profondità sarà
questa ignoranza parziale, tanto più l'uomo sarà felice. Questo è chiarissimo in
fatto, per l'esperienza de' fanciulli, de' giovani, degl'ignoranti, de'
selvaggi. S'intende però un'ignoranza la quale serva di fondamento alle
credenze, giudizi, errori, illusioni naturali, non a quegli errori che non sono
primitivi e derivano da corruzione dell'uomo, o delle nazioni. Altro è ignoranza
naturale, altro ignoranza fattizia. Altro gli errori ispirati dalla natura, e
perciò convenienti all'uomo, e conducenti alla felicità; altro quelli fabbricati
dall'uomo. Questi non conducono alla felicità, anzi all'opposto, com'essendo
un'alterazione del suo stato naturale, e come tutto quello che si oppone a esso
stato. Perciò le superstizioni, le barbarie ec. non conducono alla felicità, ma
all'infelicità. V. p. 314. Quindi è
che dopo lo stato precisamente naturale, il più felice possibile in questa vita,
è quello di una civiltà media, dove un certo equilibrio fra la ragione e la
natura, una certa mezzana ignoranza,
422 mantengano
quanto è possibile delle credenze ed errori naturali (e quindi costumi
consuetudini ed azioni che ne derivano); ed escludano e scaccino gli errori
artifiziali, almeno i più gravi, importanti, e barbarizzanti. Tale appunto era
lo stato degli antichi popoli colti, pieni perciò di vita, perchè tanto più
vicini alla natura, e alla felicità naturale. Le Religioni antiche pertanto
(eccetto negli errori non naturali e perciò {dannosi e}
barbari, i quali non erano in gran numero, nè gravissimi) conferivano senza
dubbio alla felicità temporale molto più di quello che possa fare il
Cristianesimo; perchè contenendo un maggior numero e più importante di credenze
naturali, fondate sopra una più estesa e più profonda ignoranza, tenevano l'uomo
più vicino allo stato naturale: erano insomma più conformi alla natura, e minor
parte davano alla ragione. (All'opposto la barbarie de' tempi bassi derivata da
ignoranza non naturale ma di corruzione, non da ignoranza negativa ma positiva. Questa non poteva
conferire alla felicità, ma all'infelicità, allontanando maggiormente l'uomo
dalla natura: se non in
423 quanto quell'ignoranza
qualunque richiamava parte delle credenze e abitudini naturali, perchè la natura
trionfa ordinariamente, facilmente, e naturalmente quando manca il suo maggiore
ostacolo ch'è la scienza. E però quella barbarie produceva una vita meno lontana
dalla natura, e meno infelice, più attiva ec. di quella {che
produce} l'incivilimento non
medio ma eccessivo del nostro secolo. Del resto v. in questo proposito
p. 162. capoverso 1[2]. Tra la barbarie e la civiltà eccessiva non è
dubbio che quella non sia più conforme alla natura, e meno infelice, quando non
per altro, per la minor conoscenza della sua infelicità. Del rimanente per lo
stesso motivo della barbarie de' bassi tempi, è opposta alla felicità e natura,
la barbarie e ignoranza degli Asiatici generalmente, barbareschi Affricani,
Maomettani, persiani antichi dopo Ciro,
sibariti, ec. ec. Così proporzionatamente quella della
Spagna e simili più moderne ed europee.).
[474,2] Dai tempi di Giulio Cesare in poi, Velleio
nel tracciare, come suole, i caratteri delle persone illustri che descrive,
trovate spessissimo che dopo aver detto come quel tale era pazientissimo de'
travagli e de' pericoli, attivo nei negozi, vigilante al bisogno, atto alla
guerra, o ai maneggi politici, soggiunge poi, che nell'ozio era molle ed
effeminato, o almeno si compiaceva anche dell'ozio, e dei diletti pacifici, e
insomma delle frivolezze, e che tanto era pigro e voluttuoso nell'ozio, quanto
laborioso diligente e tollerante nel negozio. V. il libro II. c. 88. sect. 2. c. 98. sect. 3. c. 102.
sect. 3. c. 105. sect. 3. Dappertutto fa menzione dell'ozio, e sempre
li trova inclinati anche a questo e non poco, sebbene sieno gli uomini più
attivi di quel secolo. Cosa ignota agli antichi Eroi romani, i quali nell'ozio
non trovavano nè potevano trovare nessun piacere. E infatti questo lineamento
475 nei ritratti sbozzati da Velleio non si trova prima del detto tempo che fu
l'epoca della decisa e sviluppata corruzione de' Romani. Di Lucullo e di Antonio è cosa ben nota in questo proposito. (Di Scipione Emiliano parla bensì Velleio riguardo all'ozio, I. 13. sect. 3. ma molto diversamente) Notate
dunque gli effetti dell'incivilimento e della corruzione. Notate quanto ella
porti per sua natura all'inazione, all'ozio, e alla pigrizia: che anche gli
uomini più splendidi e attivi, in questa condizione della società, inclinano
naturalmente all'inazione. La causa è il piacere che nell'antico stato di
Roma non si poteva trovar nell'ozio, e perciò l'uomo
desiderando il piacere {e la vita} si dava
necessariamente all'azione: e così accade in tutte le nazioni non ancora o
mediocremente incivilite. La causa è pure l'egoismo, per cui l'uomo non si vuole
scomodare a profitto altrui, se non quanto è necessario, o quanto giova a se
stesso. La causa è la mancanza delle illusioni, delle idee di gloria, di
grandezza di virtù di eroismo, ec. tolte le quali idee, deve sottentrar quella
di non far nulla, lasciar correre le cose, e godere del presente. La causa
476 per ultimo nelle monarchie (come sotto Augusto) è la mancanza non solo delle
illusioni, ma del principio di esse, non solo della vita dell'animo, ma della
vita delle cose, cioè la mancanza di cose che realizzino e fomentino queste
illusioni; la difficoltà o impossibilità di far cose grandi o importanti, e di
essere o considerarsi come importante; la nullità, o piccolezza, e ristretta
esistenza del suddito ancorchè innalzato a posti sublimi. Del resto paragonate
questo tratto del carattere Romano a quei tempi, col carattere francese oggidì,
nazione snervata dall'eccessiva civiltà, col carattere de' loro uomini più
insigni per l'azione; e ci troverete un'evidente conformità. (5. Gen.
1821). {{V. p. 620. fine. e p. 629. capoverso
1.}}
[520,1]
520 L'intiera filosofia è del tutto inattiva, e un
popolo di filosofi perfetti non sarebbe capace di azione. In questo senso io
sostengo che la filosofia non ha mai cagionato nè potuto cagionare alcuna
rivoluzione, o movimento, o impresa ec. pubblica o privata; anzi ha dovuto per
natura sua piuttosto sopprimerli, come fra i Romani, i greci ec. Ma la mezza
filosofia è compatibile coll'azione, anzi può cagionarla. Così la filosofia avrà
potuto cagionare o immediatamente o mediatamente la rivoluzione di
Francia, di Spagna ec. perchè
la moltitudine, e il comune degli uomini anche istruiti, non è stato nè in
Francia nè altrove mai perfettamente filosofo, ma
solo a mezzo. Ora la mezza filosofia è madre di errori, ed errore essa stessa;
non è pura verità nè ragione, la quale non potrebbe cagionar movimento. E questi
errori semifilosofici, possono esser vitali, massime sostituiti ad altri errori
per loro particolar natura mortificanti, come quelli derivati da un'ignoranza
barbarica e diversa dalla naturale; anzi contrari ai dettami ed alle
521 credenze della natura, o primitiva, o ridotta a
stato sociale ec. Così gli errori della mezza filosofia, possono servire di
medicina ad errori più anti-vitali, sebben derivati anche questi in ultima
analisi dalla filosofia, cioè dalla corruzione prodotta dall'eccesso
dell'incivilimento, il quale non è mai separato dall'eccesso {relativo} dei lumi, dal quale anzi in gran parte deriva. E infatti la
mezza filosofia è la molla di quella poca vita e movimento popolare d'oggidì.
Trista molla, perchè, sebbene errore, e non perfettamente ragionevole, non ha la
sua base nella natura, come gli errori e le molle dell'antica vita, o della
fanciullesca, o selvaggia ec.: ma anzi finalmente nella ragione, nel sapere, in
credenze o cognizioni non naturali e contrarie alla natura: ed è piuttosto
imperfettamente ragionevole e vera, che irragionevole e falsa. E la sua tendenza
è parimente alla ragione, e quindi alla morte, alla distruzione, e all'inazione.
E presto o tardi, ci
522 deve arrivare, perchè tale è
l'essenza sua, al contrario degli errori naturali. E l'azione presente non può
essere se non effimera, e finirà nell'inazione come per sua natura è sempre
finito ogni impulso, ogni cangiamento operato nelle nazioni da principio e
sorgente filosofica, cioè da principio di ragione e non di natura inerente
sostanzialmente e primordialmente all'uomo. Del resto la mezza filosofia, non
già la perfetta filosofia, cagionava o lasciava sussistere l'amor patrio e le
azioni che ne derivano, in Catone, in
Cic. in Tacito, {Lucano, Trasea Peto, Elvidio Prisco,} e negli altri antichi filosofi e patrioti
allo stesso tempo. Quali poi fossero gli effetti de' progressi {e perfezionamento} della filosofia presso i Romani è ben
noto.
[542,2] Della superiorità delle forze della natura, della
fortuna, {dello spontaneo,} dell'amor naturale e
fortuito (materia del pensiero
precedente), sopra quelle della ragione, della provvidenza (umana),
{dell'arte,} dell'amore ragionato e proccurato,
cose sempre deboli, e più eleganti (a tutto dire) che forti e potenti; è degno
di esser veduto un luogo insigne ed elegante di
543
Frontone
(Ad M.
Caes. l. 1. epist. 8. edizione principe. p. 58-61.) simile
in parte ad un altro nelle Lodi della Negligenza. (p. 371.).
(22. Gen. 1821.).
[543,1] La superiorità della natura su la ragione e l'arte,
l'assoluta incapacità di queste a poter mai supplire a quella, la necessità
della natura alla felicità dell'uomo anche sociale, e l'impossibilità precisa di
rimediare alla mancanza o depravazione di lei, si può vedere anche nella
considerazione dei governi. Più si considera ed esamina a fondo la natura, le
qualità, gli effetti di qualsivoglia immaginabile governo; più l'uomo è saggio,
profondo, riflessivo, osservatore, istruito, esperto; più conchiude e risolve
con piena certezza, che nello stato in cui l'uomo è ridotto, non già da poco, ma
da lunghissimo tempo, e dall'alterazione, depravazione, e perdita della società (non dico natura) primitiva in
poi, non c'è governo possibile, che non sia imperfettissimo, che non racchiuda
{essenzialmente} i germi del male e della
infelicità maggiore o minore de' popoli e degli individui: non c'è nè c'è stato
544 nè sarà mai popolo, nè forse individuo, a cui
non derivino inconvenienti, incomodi, infelicità {(e non
poche nè leggere)} dalla natura e dai difetti intrinseci e ingeniti
del suo governo, qualunque sia stato, o sia, o possa essere. Insomma la
perfezione di un governo umano è cosa totalmente impossibile e disperata, e in
un grado maggiore di quello che sia disperata la perfezione di ogni altra cosa
umana. Eppure è certo che, se non tutti, certo molti governi sarebbono per se
stessi buoni, e possiamo dire perfetti, e l'imperfezione loro sebbene oggidì è
innata ed essenziale per le qualità irrimediabili e immutabili degli uomini
nelle cui mani necessariamente è riposto (giacchè il governo non può camminar da
se, nè per molle e macchine, nè per ministerio d'Angeli, o per altre forze
naturali o soprannaturali, ma per ministerio d'uomini); tuttavia non è
imperfezione primitiva, e inerente all'idea del governo stesso,
indipendentemente dalla considerazione de' suoi ministri, nè inerente alla
natura dell'uomo, ancorchè ridotto in società. Consideriamo.
[579,2] Da tutto il sopraddetto deducete questo corollario.
L'uomo è naturalmente, primitivamente,
580 ed
essenzialmente libero, indipendente, uguale agli altri, e queste qualità
appartengono inseparabilmente all'idea della natura e dell'essenza costitutiva
dell'uomo, come degli altri animali. La società è nello stesso modo
primitivamente ed essenzialmente dipendente e disuguale, e senza queste qualità
la società non è perfetta, anzi non è vera società. Pertanto l'uomo in società
bisogna che necessariamente si spogli e perda delle qualità essenziali,
naturali, ingenite, costitutive, e inseparabili da se stesso. Le quali egli può
ben perdere in fatto, ma non in ragione, perchè come si può considerare un
essere spoglio di una sua qualità intrinseca, costitutiva, e indipendente
affatto dalle circostanze e dalle forze, o esterne o accidentali, perch'essendo
primitiva e naturale, è necessaria, e durevole in ragione, quanto dura
quell'essere che la contiene, e ne è composto? Sarebbe lo stesso che voler
considerare un uomo senza la facoltà del pensiero, la quale è parimente
indipendente dagli accidenti. In questa ipotesi, sarà un altro
581 essere, ma non un uomo. Dunque un uomo privo della libertà e della
uguaglianza in ragione, sarebbe privo dell'essenza umana, e non sarebbe un uomo,
ch'è impossibile. Nè egli si può condannare a perdere realmente e radicalmente
questa qualità, neppure spontaneamente: e nessuna promessa, contratto, volontà
propria e libera, lo può mai spogliare in minima parte del diritto di seguire in
tutto e per tutto la sua volontà, oggi in un modo, domani in un altro: e come
egli ha potuto adesso volontariamente ubbidire, e promettere di ubbidire per
sempre; così l'istante appresso egli può disubbidire in diritto, e non può non
poterlo fare. V. p. 452. capoverso
1. Dunque la società, spogliando l'uomo in fatto, di alcune sue qualità
essenziali e naturali, è uno stato che non conviene all'uomo, non corrisponde
alla sua natura; quindi essenzialmente e primitivamente imperfetto, ed alieno
per conseguenza dalla sua felicità: e contraddittorio nell'ordine delle
cose.
[590,1] Del resto quanto sia facile, ovvia, e primitiva l'idea
che a qualunque società, per poco ch'ella sia formata, e che declini dalla
primissima forma di società, comune si può dire a tutte le {specie di} viventi, è necessaria l'unità, cioè un capo, e questo
veramente uno, cioè assoluto, si può vedere e nelle storie d'ogni nazione, e in
ogni genere di società, pubblica, privata ec. nelle milizie, nelle compagnie di
cacciatori, o in qualunque compagnia, che abbia uno scopo comune, e sia
destinata tutta insieme a un oggetto qualunque. Io mi sono abbattuto a sentire
un uomo di nessuna o coltura, o acutezza naturale d'ingegno, il quale a una
compagnia di negoziatori, che si mettevano a girare il mondo, per far guadagno
591 mediante un capitale comune e indivisibile (cioè
un panorama), dava questo consiglio: Sceglietevi e riconoscete un capo, e
ubbiditelo in tutto. (che altro
è questo se non l'idea precisa della necessità della monarchia assoluta?)
Altrimenti ciascuno cercando il suo interesse più dell'altrui, cosa
contrarissima all'interesse e allo scopo comune, l'uno farà pregiudizio
all'altro, e al tutto; e così ciascuno sarà pregiudicato, e la discordia
{(cioè il contrario dell'unità)}
v'impedirà di conseguire quello che cercate.
(31. Gen. 1821.). {{
V. p. 598 capoverso
1.2.3..}}
[593,2]
Quid autem est horum in
voluptate? melioremne efficit, aut laudabiliorem virum? an quisquam in potiundis voluptatibus
gloriando sese, et praedicatione effert?
*
(Cic., Paradox.
1. c. 3. fine) Oggi sibbene, o M.
Tullio, nè c'è maggior gloria per la gioventù, nè scopo alla carriera
loro più brillantemente, manifestamente e concordemente proposto, nè mezzo di
ottener lode e stima più sicuro e comune, che quello
594
di seguire e conseguire le voluttà, ed abbondarne, e ciò più degli altri.
L'oggetto delle gare ed emulazioni della più florida parte della gioventù, non è
altro che la voluttà, e il trionfo e la gloria è di colui che ne conseguisce
maggior porzione, e che sa {e può} godere e immergersi
nei vili piaceri più degli altri. Le voluttà sono lo stadio della gioventù
presente: tanto che {già} non si cercano principalmente
per se stesse, ma per la gloria che ridonda dall'averle cercate e conseguite. E
se non di tutte le voluttà si può gloriare colui che le ottiene, in quel momento
medesimo, in cui le gode, (sebbene di moltissimi generi di voluttà accade {tuttogiorno} ancor questo) certo desidererebbe di
poterlo fare, di aver testimoni del suo godimento: anzi questo godimento
consiste per la massima parte nella considerazione e aspettativa del vanto che
gliene risulterà: e subito dopo, non ha maggior cura, che di divulgare e
vantarsi della voluttà provata; e questo anche a rischio di chiudersi l'adito a
nuove voluttà; e colla certezza di nuocere, tradire, essere
595 ingiusto e ingrato verso coloro onde ha ottenuta la voluttà che
cercava. E sebbene certamente neanche oggi la voluttà rende l'uomo migliore, lo
rende {però} più lodevole agli occhi della presente
generazone, il che tu o M. Tullio,
stimavi che non potesse avvenire. (1 Feb. 1821.).
[611,1]
Alla p. 112.
Prima di Gesù Cristo, o fino a quel
tempo, e ancor dopo, da' pagani, non si era mai considerata la società come
espressamente, e per sua natura, nemica della virtù, e tale che qualunque
individuo il più buono ed onesto, trovi in lei senza fallo e inevitabilmente, o
la corruzione, o il sommo pericolo di corrompersi. E infatti sino a quell'ora,
la natura della società, non era stata espressamente e perfettamente tale.
Osservate gli scrittori antichi, e non ci troverete mai quest'idea del mondo nemico del bene, che si trova a
ogni passo nel Vangelo, e negli scrittori moderni ancorchè profani. Anzi (ed
avevano
612 ragione in quei tempi) consideravano la
società e l'esempio come naturalmente capace di stimolare alla virtù, e di
rendere virtuoso anche chi non lo fosse: e in somma il buono e la società, non
solo non parevano incompatibili, ma {cose} naturalmente
amiche e compagne. (4. Feb. 1821.).
[112,2]
Gesù Cristo fu il primo che
personificasse e col nome di mondo
circoscrivesse e definisse e stabilisse l'idea del perpetuo nemico della virtù
dell'innocenza dell'eroismo della sensibilità vera, d'ogni singolarità
dell'animo della vita e delle azioni, della natura in somma, che è quanto dire
la società, e così mettesse la moltitudine degli uomini fra i principali nemici
dell'uomo, essendo pur troppo vero che come l'individuo per natura è buono e
felice, così la moltitudine (e l'individuo in essa) è malvagia e infelice. {{(v. p. 611 capoverso
1.)}}
[618,2] La disperazione della natura è sempre feroce,
frenetica, sanguinaria, non cede alla necessità, alla fortuna, ma la vuol
vincere in se stesso, cioè coi propri danni, colla propria morte ec. Quella
disperazione placida, tranquilla, rassegnata, colla quale l'uomo, perduta ogni
speranza di felicità, o in genere per la condizione umana, o in particolare per
le circostanze sue; tuttavolta si piega, e si adatta a vivere e a tollerare il
tempo e gli anni; cedendo alla necessità riconosciuta; questa disperazione,
sebbene deriva dalla prima, in quel modo che ho spiegato di sopra p. 616. fine, 617. principio,
tuttavia non è {quasi} propria se non della ragione e
della filosofia, e quindi specialmente e singolarmente propria de' tempi
moderni. Ed ora infatti, si può dir che qualunque ha
619
un certo grado d'ingegno e di sentimento, fatta che ha l'esperienza del mondo, e
in particolare poi tutti quelli ch'essendo tali, e giunti a un'età matura, sono
sventurati; cadono e rimangono sino alla morte in questo stato di tranquilla
disperazione. Stato quasi del tutto sconosciuto agli antichi, ed anche oggi alla
gioventù sensibile, magnanima, e sventurata. Conseguenza della prima
disperazione è l'odio di se stesso, {(perchè resta ancora
all'uomo tanta forza di amor proprio, da potersi odiare)} ma cura e
stima delle cose. Della seconda, la noncuranza e il disprezzo e l'indifferenza
verso le cose; verso se stesso un certo languido amore {(perchè l'uomo non ha più tanto amor proprio da aver forza di
odiarsi)} che somiglia alla noncuranza, ma pure amore, tale però che
non porta l'uomo ad angustiarsi, addolorarsi, sentir compassione delle proprie
sventure, e molto meno a sforzarsi, ed intraprender nulla per se, considerando
le cose come indifferenti, ed avendo quasi perduto il tatto e il senso
dell'animo, e coperta di un callo tutta la facoltà sensitiva, desiderativa ec.
insomma le passioni e gli affetti d'ogni sorta; e quasi perduta per lungo uso, e
forte e lunga pressione, quasi tutta l'elasticità delle
620 molle e forze dell'anima. Ordinariamente la maggior cura di questi
tali è di conservare lo stato presente, {di tenere una vita metodica.} e di nulla mutare o
innovare, non già per indole pusillanime o inerte, che anzi ella sarà stata
tutto l'opposto, ma per una timidità derivata dall'esperienza delle sciagure, la
quale porta l'uomo a temere di perdere a causa delle novità, quel tal quale
riposo o quiete o sonno, in cui dopo lunghi combattimenti e resistenze, l'animo
suo finalmente s'è addormentato e raccolto, e quasi accovacciato. Il mondo è
pieno oggidì di disperati di questa seconda sorta (come fra gli antichi erano
frequentissimi quelli della prima specie). Quindi si può facilmente vedere
quanto debba guadagnare l'attività, la varietà, la mobilità, la vita di questo
mondo; quando tutti, {si può dire,} i migliori animi,
giunti a una certa maturità, divengono incapaci di azione, ed inutili a se
medesimi, e agli altri. (6. Feb. 1821.).
[625,3] Lo scopo dei governi {(siccome quello dell'uomo)} è la felicità dei
governati. Forse che la felicità e la diuturnità della vita, sono la stessa
cosa? Hanno sempre che dire delle turbolenze e pericoli degli antichi stati, e
pretendono che costassero all'umanità molto più sangue e molte più vite, che non
costano i governi ordinati e regolari e monarchici, ancorchè guerrieri, ancorchè
tirannici. Sia pure: che ora non voglio contrastarlo.
626 Orsù, ragguagliamo le partite, dirò così, delle vite. Poniamo che negli stati
presenti, che si chiamano ordinati e quieti, la gente viva, un uomo per l'altro,
70 anni l'uno: negli antichi che si chiamano disordinati e turbolenti, vivessero
50 soli anni, a distribuir tutta la somma delle vite, ugualmente fra
ciascheduno. E che quei 70 anni sieno tutti pieni di noia e di miseria in
qualsivoglia condizione individuale, che così pur troppo accade oggidì; quei
cinquanta pieni di attività {e varietà} ch'è il solo
mezzo di felicità per l'uomo sociale. Domando io, quale dei due stati è il
migliore? quale dei due corrisponde meglio allo scopo, che è la felicità
pubblica e privata, in somma la felicità possibile degli uomini come uomini?
cioè felicità relativa e reale, e adattata e realizzabile in natura, tal qual
ella è, non riposta nelle chimeriche e assolute idee, di ordine, e perfezione
matematica. Oltracciò domando: la somma vera della vita, dov'è maggiore? in
quello stato dove ancorchè gli uomini vivessero cent'anni l'uno, quella vita
monotona e inattiva, sarebbe {(com'è realmente)}
esistenza, ma non vita,
627 anzi nel fatto, un sinonimo
di morte? ovvero in quello stato, dove l'esistenza ancorchè più breve, tutta
però sarebbe vera vita? Anche ponendo dall'una parte 100 anni di esistenza, e
dall'altra non più che 40, o 30 di vita, la somma della vita, non sarebbe
maggiore in quest'ultima? 30 anni di vita non contengono maggior vita che 100 di
morta esistenza? Questi sono i veri calcoli convenienti al filosofo, che non si
contenti di misurar le cose, ma le pesi, e ne stimi il valore. E non faccia come
il secco matematico che calcola {le quantità} in genere
e in astratto, ma relativamente alla loro sostanza, e qualità, e natura, e peso,
e forza specifica e reale.
[646,1] Nessun secolo de' più barbari si è creduto mai
barbaro, anzi nessun secolo è stato mai, che non credesse di essere il fiore dei
secoli, e l'epoca più perfetta dello spirito umano e della società. Non ci
fidiamo dunque di noi stessi nel giudicare del tempo nostro, e non consideriamo
l'opinione presente, ma le cose, e quindi congetturiamo il giudizio della
posterità, se questa sarà tale da poter giudicarci rettamente. (12. Feb.
1821.).
[669,1]
L'orgueil nous sépare de la société: notre
amour-propre nous donne un rang à part qui nous est toujours
disputé: l'estime de soi-même qui se fait trop sentir est presque
toujours punie par le mépris universel.
*
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans
ses oeuvres complètes
citées ci-dessus, (p. 633), p.
99. fine. Così è naturalmente nella società, così porta la natura di
questa istituzione umana, la quale essendo diretta al comun bene e piacere, non
sussiste veramente, se l'individuo non accomuna
670 più
o meno cogli altri la sua stima, i suoi interessi, i suoi fini, pensieri,
opinioni, sentimenti ed affetti, inclinazioni, ed azioni; e se tutto questo non
è diretto se non a se stesso. Quanto più si trova nell'individuo il se stesso, tanto meno esiste veramente
la società. Così se l'egoismo è intero, la società non esiste se non di nome.
Perchè ciascuno individuo non avendo per fine se non se medesimo, non curando
affatto il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta al bene o
piacere altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società a parte, ed
intera, e perfettamente distinta, giacchè è perfettamente distinto il suo fine;
e così il mondo torna qual era da principio, e innanzi all'origine della
società, la quale resta sciolta quanto al fatto e alla sostanza, e quanto alla
ragione ed essenza sua. Perciò l'egoismo è sempre stata la peste della società,
e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata
671 la
condizione della società; e quindi tanto peggiori essenzialmente quelle
istituzioni che maggiormente lo favoriscono o direttamente o indirettamente,
come fa soprattutto il dispotismo. (Sotto il quale stato la
Francia, era divenuta la patria del più pestifero
egoismo, mitigato assai dalla rivoluzione, non ostante gl'immensi suoi danni,
come è stato osservato da tutti i filosofi.) L'egoismo è inseparabile dall'uomo,
cioè l'amor proprio, ma per egoismo, s'intende più propriamente un amor proprio
mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli
che derivano dall'eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall'onore, dall'amicizia
ec. Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità, e per
universalità; e quando a motivo e dell'intensità, e massime dell'universalità si
è levata la maschera (la quale non serve più a nasconderlo, perchè troppo vivo,
e perchè tutti sono animati dallo stesso sentimento), allora la natura del
commercio sociale (sia relativo alla conversazione,
672
sia generalmente alla vita) cangia quasi intieramente. Perchè ciascuno pensando
per se (tanto per sua propria inclinazione, quanto perchè nessun altro vi pensa
più, e perchè il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano tutti
i riguardi, l'uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell'altro;
gl'individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra più o meno
aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme; il più forte sotto qualunque
riguardo, la vince; il cedere agli altri qualsivoglia cosa, {o per creanza, o per virtù, onore ec.} è inutile, dannoso e pazzo,
perchè gli altri non ti son grati, non ti rendono nulla, e di quanto tu cedi
loro, o di quella minore resistenza che opponi loro, profittano in loro
vantaggio solamente, e quindi in danno tuo. E così, per togliere un esempio dal
passo cit. di Mad. di Lambert, si vede
nel fatto che oggidì, il disprezzo degli altri, e la stima aperta e ostentata di
se stesso, non solamente non è più così dannosa come
673
una volta, ma bene spesso è necessaria, e chi non sa farne uso non guadagna
nulla in questo mondo presente. Perchè gli altri non sono disposti ad accordarti
{spontaneamente, e in forza del vero, e del merito}
nulla, come di nessuna altra cosa, così neanche di stima, e bisogna quindi che
tu la conquisti come per forza, e con guerra aperta e ostilmente, mostrandoti
persuasissimo del tuo merito, ad onta di chicchessia, disprezzando e calpestando
gli altri, deridendoli, profittando d'ogni menomo loro difetto, rinfacciandolo
loro, non perdonando nulla agli altri, cercando in somma di abbassarli e di
renderteli inferiori, o nella conversazione o dovunque con tutti i mezzi più
forti. Che se oggidì ti vuoi procacciare la stima degli altri, col rispetto,
buona maniera verso loro, col lusingare il loro amor proprio, dissimulare i loro
difetti ec. e quanto a te, colla modestia, col silenzio ec. ti succede tutto
l'opposto. Essi profittano di te {e de' tuoi riguardi verso
loro,} per innalzarsi, e della tua poca resistenza {quanto a te,} per deprimerti. Quello che concedi
674 loro, l'adoprano in loro mero vantaggio, e danno tuo; quello che
non ti arroghi o non pretendi, o quel merito che tu dissimuli, te lo negano e
tolgono, per vederti inferiore ec. Così, nel modo che ho detto, ritornano
effettivamente nel mondo i costumi selvaggi, {e} di
quella prima età, quando la società non esistendo, ciascuno era amico di se
solo, e nemico di tutti gli altri esseri o dissimili o simili suoi, in quanto si
opponevano a qualunque suo menomo interesse o desiderio, o in quanto egli poteva
godere a spese loro. Costumi che nello stato di società son barbari, perchè
distruttivi della società, e contrari direttamente all'essenza ragione, e scopo
suo. Quindi si veda quanto sia vero, che lo stato presente del mondo, è
propriamente barbare[barbarie], o vicino alla
barbarie quanto mai fosse. Ogni così detta società dominata dall'egoismo
individuale, è barbara, e barbara della maggior barbarie. (17. Feb.
1821.).
[678,3]
Nous n'avons qu'une portion d'attention et de
sentiment; dès que nous nous livrons aux objets extérieurs, le
sentiment dominant s'affoiblit: nos desirs ne sont-ils pas plus vifs
et plus forts dans la retraite?
*
Mme. de Lambert, lieu cité
ci-derrière (p. 677. fine) p.
188.
679 La solitudine è lo stato naturale di gran parte, o
piuttosto del più degli animali, e probabilmente dell'uomo ancora. Quindi non è
maraviglia se nello stato naturale, egli ritrovava la sua maggior felicità nella
solitudine, e neanche se ora ci trova un conforto, giacchè il maggior bene degli
uomini deriva dall'ubbidire alla natura, e secondare quanto oggi si possa, il
nostro primo destino. Ma anche per altra cagione la solitudine è oggi un
conforto all'uomo nello stato sociale al quale è ridotto. Non mai per la
cognizione del vero in quanto vero. Questa non sarà mai sorgente di felicità, nè
oggi; nè era allora quando l'uomo primitivo se la passava in solitudine, ben
lontano certamente dalle meditazioni filosofiche; nè agli animali la felicità
della solitudine deriva dalla cognizione del vero. Ma anzi per lo contrario
questa consolazione della solitudine deriva all'uomo oggidì, e derivava
primitivamente dalle illusioni. Come ciò fosse primitivamente, in quella vita
occupata o da continua
680 sebben solitaria azione, o da
continua attività {interna} e successione d'immagini
{disegni ec.} ec. e come questo accada parimente
ne' fanciulli, l'ho già spiegato più volte. Come poi accada negli uomini oggidì,
eccolo. La società manca affatto di cose che realizzino le illusioni per quanto
sono realizzabili. Non così anticamente, e anticamente la vita solitaria fra le
nazioni civili, o non esisteva, o era ben rara. Ed osservate che quanto si
racconta de' famosi solitari cristiani, cade appunto in quell'epoca, dove la
vita, l'energia, la forza, la varietà originata dalle antiche forme di
reggimento e di stato pubblico, e in somma di società, erano svanite o
sommamente illanguidite, col cadere del mondo sotto il despotismo. Così dunque
torna per altra cagione ad esser proprio degli stati e popoli corrotti, quello
ch'era proprio dell'uomo primitivo, dico la tendenza dell'uomo alla solitudine:
tendenza stata interrotta dalla prima energia della vita sociale. Perchè oggidì
è così la cosa. La presenza e l'atto della società spegne le illusioni,
681 laddove anticamente le fomentava e accendeva, e la
solitudine le fomenta o le risveglia, laddove non primitivamente, ma anticamente
le sopiva. Il giovanetto ancora chiuso fra le mura domestiche, o in casa di
educazione, o soggetto all'altrui comando, è felice nella solitudine per le
illusioni, i disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe:
e questo ancorchè egli sia d'ingegno penetrante, e istruito, ed anche, quanto
alla ragione, persuaso della nullità del mondo. L'uomo disingannato, stanco,
esperto, esaurito di tutti i desideri, nella solitudine appoco appoco si rifa,
ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno vivamente, a ogni
modo risorge, ancorchè penetrantissimo d'ingegno, e sventuratissimo. Come
questo? forse per la cognizione del vero? Anzi per la dimenticanza del vero, pel
diverso e più vago aspetto che prendono per lui, quelle cose già sperimentate e
vedute, ma che ora essendo lontane dai sensi e dall'intelletto, tornano a
passare per la immaginazione sua, e quindi abbellirsi. Ed egli torna a sperare
682 e desiderare, e vivere, per poi tutto riperdere,
e morire di nuovo, ma più presto assai di prima, se rientra nel mondo.
[720,1] Oggidì i viaggi più curiosi e più interessanti che si
possono fare in europa cioè nel paese incivilito, sono
quelli de' paesi meno inciviliti, cioè la Svizzera, la
Spagna e simili, che tuttavia conservano qualche
natura e proprietà. Le descrizioni de' costumi, {de'
caratteri,} delle opinioni, delle usanze di questi paesi hanno sempre
della varietà, della singolarità, della importanza, della curiosità. Quelle
degli altri paesi Europei (salvo nelle usanze, costumi, opinioni popolari, come
ho detto in altro pensiero p. 147.
perchè il popolo è sempre più tenace della natura) i quali non hanno oramai
proprietà, cioè carattere proprio, si rassomigliano tutte fra loro, e col
carattere de' costumi,
721 opinioni ec. di quella tal
nazione, alla quale quelle altre si descrivono, così che pochissimo possono aver
di curioso, eccetto nelle minute particolarità di usanze sociali, ec. nelle
quali l'incivilimento e il commercio universale, non è per anche arrivato ad
agguagliare interamente il mondo. Ma in grosso, e nella sostanza, e nelle cose
principali, e per natura loro, non per capriccio, importanti, possiamo oramai
dire, che di queste tali nazioni, conosciuta una, son conosciute tutte.
(5. Marzo 1821.).
[721,1] Dovunque l'arte tiene la principal parte in luogo
della natura, manca la varietà, sebbene sottentri una sterile curiosità. P. e.
gli Stati uniti si diversificano molto dal governo,
costumi ec. degli altri paesi civili, ma quella è una differenza d'arte, non di
natura, è parto della ragione, della filosofia del sapere, è cosa artifiziale,
non naturale.
722 Quindi la curiosità che ne deriva, è
una curiosità secca, e quella varietà, è quasi falsa, ascitizia, non propria
delle cose, non sostanziale, non inerente alla nazione, e alla natura di lei, e
per così dire, una varietà monotona. Al contrario di quella curiosità e varietà
che deriva dalla considerazione della Svizzera, della
Spagna ec. curiosità e varietà, naturale, propria,
innata. V. il pensiero precedente.
(5. Marzo 1821.).
[723,1]
*
Orazio, od. 3. v. 29-33. l. I.
Questo effetto, attribuendolo Orazio
favolosamente alla violazione delle leggi degli Dei, ed alla temerità degli
uomini verso il cielo, viene ad attribuirlo nel vero significato, alla
violazione e corruzione delle leggi naturali e della natura; verissima cagione
dell'incremento che l'imperio della morte ha guadagnato sopra gli uomini.
(7. Marzo 1821.)
Post ignem aetheria domo
Subductum, macies, et nova {{febrium}}
Terris incubuit cohors,
Semotique prius tarda necessitas
Leti corripuit gradum.
[823,3] Con questa differenza però, che sebbene {tutto} è relativo in natura, è relativo peraltro alle
specie, così che le idee che una specie ha della perfezione ec. appresso a poco
sono comuni agl'individui tutti di essa (massime se sono le idee naturali alla
specie). Quindi è naturale e conseguente che un individuo, sebben portato
naturalmente a credersi superiore al resto della sua specie, e tutto il mondo
destinato all'uso
824 e vantaggio suo, contuttociò con
poco di raziocinio facilmente possa riconoscere la superiorità di altri
individui della stessa specie, e credere il mondo avere per fine la sua specie
intera, e questa essere tutta la più perfetta delle cose esistenti, e l'apice
della natura. Quindi parimente un popolo, un secolo (ho parlato e parlo degli
uomini, e si può applicare proporzionatamente agli altri viventi) o qualche
individuo in essi, possono ben riconoscere la superiorità di altri popoli e
secoli, perchè le idee relative del bello e del buono sono però, almeno in gran
parte, generali in ciascuna specie, quando non derivino da pregiudizi, {da circostanze particolari,} o da alterazione qualunque
di questa o di quella parte della specie, com'è avvenuto fra gli uomini, essendo
alterata la loro natura, e diversamente alterata, e quindi anche alterate le
idee naturali, e diversificate le opinioni ec.
[830,1] Non solamente è ridicolo che si pretenda la
perfettibilità dell'uomo, in quanto alla mente, o a quello che vi ha riguardo,
come ho detto in altro pensiero pp. 371-73, ma anche in quanto ai
comodi corporali. Paiono oggi così necessari quelli che sono in uso, che si
crede quasi impossibile la vita umana, senza di questi, o certo molto più
misera, e si stimano i ritrovamenti di tali comodità, tanti passi verso la
perfezione e la felicità della nostra specie, massime di certe comodità che
sebbene lontanissime dalla natura, contuttociò si stimano essenziali e
indispensabili all'uomo. Ora io non domanderò a costoro come abbian fatto gli
uomini a viver tanto tempo privi di cose indispensabili; come facciano oggi
tanti popoli di selvaggi; parecchi ancora de' nostrali e sotto a' nostri occhi,
tuttogiorno. {+(anzi ancora quegli stessi più che mai
assuefatti a tali cose pretese indispensabili, quando per mille
diversità di accidenti, si trovano in circostanza di mancarne, alle
volte anche volontariamente).}
{Osservate in
questo proposito che essendo certo non potersi perfezionare il corpo
dell'uomo, anzi deperire nella civiltà, e quindi non darsi perfettibilità
dell'uomo in quanto al corpo, (la quale infatti niuno asserì nè
asserirebbe), tuttavia si sostiene la sua perfettibilità infinita in quanto
all'animo (quando intorno al corpo, volendo anche prendere per perfezioni
quelle che oggi si credono tali, e in natura sono la maggior parte il
contrario, certo però la perfettibilità sarebbe finitissima).} I quali
tutti, in luogo di accorgersi della loro infelicità, hanno anzi creduto
831 e credono e si accorgono molto meno di essere
infelici, di quello che noi facciamo a riguardo nostro: e molto meno lo erano e
lo sono, sì per questa credenza, come anche indipendentemente. Non chiamerò in
mio favore la setta cinica, e l'esempio e l'istituto loro, diretto a mostrare
col fatto, di quanto poco, e di quante poche invenzioni e sottigliezze abbisogni
la vita naturale dell'uomo. Non ripeterò che, siccome l'abitudine è una seconda
natura, così noi crediamo primitivo quel bisogno che deriva dalla nostra
corruzione. E che molti anzi infiniti bisogni nostri sono oggi reali, non
solamente per l'assuefazione, la quale, com'è noto, dà o toglie la capacità di
questo o di quello, e di astenersi da questo o da quello; ma anche senza essa
per lo indebolimento ed alterazione formale delle generazioni umane, divenute
oggidì bisognose di certi aiuti, soggette a certi inconvenienti, e quindi
necessitose di certi rimedi, che non avevano alcun luogo nella umanità
primitiva. Così la medicina, così l'uso di certi cibi, di vesti diversificate
secondo le stagioni, di
832 preservativi contra il
caldo, il freddo ec. di chirurgia ec. ec. Lascerò tutte queste cose e perchè
sono state dette da altri, e perchè potrebbero deridermi come partigiano
dell'uomo a quattro gambe. Solamente ripeterò quel ragionamento che ho usato
nella materia della perfettibilità mentale. Dunque se tutto questo era
necessario {o conveniente} alla perfezione e felicità
dell'uomo, come mai la natura tanto accurata e finita maestra in tutto, glielo
ha non solo lasciato ignorare, ma nascosto, quanto era in lei? Diranno che la
natura avendo dato a un vivente le facoltà necessarie, ha lasciato a lui che con
queste facoltà ritrovasse e si procacciasse il bisognevole, e che all'uomo ha
lasciato più che al bruto, perchè a lui diede maggiori facoltà, e così
proporzionatamente ha fatto secondo le maggiori o minori facoltà negli altri
bruti. Altro è questo, altro è mettere una specie di viventi in una infinita
distanza da quello che si suppone necessario al suo ben essere, e alla
perfezione della sua esistenza. Altro è permettere {anzi
volere e disporre} che infinito
833 numero,
che moltissime generazioni di questi viventi restassero prive {o} affatto o in massima parte di cose necessarie alla
loro perfezione. Altro è mettere nel mondo il detto vivente tutto nudo, tutto
povero, tutto infelice e misero, col solo compenso di certe facoltà, per le
quali, solamente dopo un gran numero di secoli, sarebbe arrivato a conseguire
qualche parte del bisognevole a minorare l'infelicità di una vita il cui scopo
non è assolutamente altro che la felicità. Altro è ordinare le cose in modo che
gran parte di questa specie (come tanti selvaggi poco fa scoperti, o da
scoprirsi) dovesse restare fino al tempo nostro, e chi sa fino a quando,
appresso a poco nella stessa imperfezione e infelicità primitiva (il che si può
applicare anche alla pretesa perfettibilità della mente e delle varie facoltà
dell'uomo). E tutto ciò in una specie privilegiata, e che si suppone la prima
nell'ordine di tutti gli esseri. Bel privilegio davvero, ch'è quello di veder
tutti gli altri viventi conseguire immediatamente la loro relativa perfezione
834 e felicità, senza stenti, nè sbagli, ed essa
intanto per conseguire la propria, stentare, tentare mille strade, sbagliare
mille volte, e tornare indietro, e finalmente dovere aspettare lunghissimo
ordine di secoli, per conseguire in parte il detto fine. Osserviamo quanti
studi, quante invenzioni, quante ricerche, quanti viaggi per terra e per mare a
remotissime parte[parti], e combattendo infiniti
ostacoli, sì della fortuna, sì (ch'è più notabile) e massimamente della natura,
per ridurci, quanto al corpo, nello stato presente, e proccurarci di quelle
stesse cose che ora si stimano essenziali alla nostra vita. Osserviamo quante di
queste, ancorchè già ritrovate, abbiano bisogno ancora dei medesimi travagli
infiniti per esserci procacciate. Osserviamo quanto ancora ci manchi, {+quanto sia di scoperta recentissima o
assolutamente, o in comparazione dell'antichità della specie umana;}
quanto ogni giorno si ritrovi, e quanto si accrescano le cognizioni pretese
utili alla vita, anche delle più essenziali (come in chirurgia, medicina ec.);
quante cose si ritroveranno e verranno poi in uso, che a noi avranno mancato, e
che i nostri
835 posteri giudicheranno tanto
indispensabili, quanto noi giudichiamo quelle che abbiamo. Domando se tutta
questa serie di difficilissimi mezzi conducenti al fine primario della natura
ch'è la felicità {e perfezione} delle cose esistenti e
il loro ben essere, e massime de'
viventi, e de' primi tra' viventi, entravano nel sistema, nel disegno, nel piano
della natura, nell'ordine delle cose, nella primordiale disposizione e calcolo
relativamente alla specie umana. Domando se nel piano nell'ordine nel calcolo
de' mezzi conducenti al fine essenziale e primario, ch'è la felicità e
perfezione, mezzi per conseguenza necessari ancor essi, v'entrava anche il caso.
Ora è noto quante scoperte delle più sostanziali in questo genere, e dell'uso il
più quotidiano, e di effetti e applicazioni rilevantissime, non le debba l'uomo
se non al puro e semplice caso. Dunque il puro e semplice caso entrava nel
sistema primordiale della natura; dunque ella lo ha calcolato come mezzo
necessario; dunque
836 ella ne ha fatto dipendere il
fine essenziale e primario; dunque si è contentata che non accadendo il tale e
tale altro caso, o non accadendo in quel tal modo ec. ec. o accadendo bensì
quello ma non questo ec. la specie umana, la maggiore delle sue opere, restasse
imperfetta e infelice, e priva del fine della sua esistenza, e similmente tutte
quelle parti dell'ordine delle cose che dipendono o hanno stretta connessione
colla specie umana.
[866,1] Che vuol dire che i così detti barbari, o popoli non
ancora arrivati se non ad una mezza o anche inferiore civiltà, hanno sempre
trionfato de' popoli civili, e del mondo? I Persiani degli Assiri inciviliti, i
greci de' Persiani già corrotti, i Romani de' greci giunti al colmo della
civiltà, i settentrionali de' Romani nello
867 stesso
caso? Anzi che vuol dire che i Romani non furono grandi se non fino a tanto che
furono quasi barbari? Vuol dire che tutte le forze dell'uomo sono nella natura e
illusioni; che la civiltà, la scienza ec. e l'impotenza sono compagne
inseparabili; {+vuol dire che il fare non è proprio nè
facoltà che della natura, e non della ragione; e siccome quegli che fa è
sempre signore di chi solamente pensa, così i popoli o naturali o
barbari che si vogliano chiamare, saranno sempre signori dei civili, per
qualunque motivo e scopo agiscano.} Non dubito di
pronosticarlo. L'europa, tutta civilizzata, sarà preda di
quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del Settentrione; e quando questi
di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma
finattanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e
piene {e
persuasive, e costanti, e non ragionate,} e grandi
illusioni, i popoli civili saranno lor preda. Dopo quel tempo, quando à son tour la civiltà divenuta oggi sì rapida vasta e
potente conquistatrice, non avrà più nulla da conquistare, allora o si tornerà
alla barbarie, e se sarà possibile, alla natura per una nuova strada, e tutta
opposta al naturale, cioè la strada dell'universale corruzione come ne' bassi
tempi; o io non so pronosticare più oltre quello che si dovrà aspettare. {{Il mondo allora comincerà un altro andamento, e quasi
un'altra essenza ed esistenza.}}
868
(24. Marzo 1821.)
[868,1] Quella sentenza che gli uomini sono sempre i medesimi
in tutti i tempi {e paesi,} non è vera se non in questo
senso. I periodi che l'uomo percorre, {e quelli di ciascuna nazione
paragonati insieme, come i periodi de' tempi fra loro,}
sono sempre appresso a poco uguali o somigliantissimi; ma le diverse epoche che
compongono questi periodi, sono fra loro diversissime, e quindi anche gli uomini
di quest'epoca, rispetto a quelli di quell'altra, {e questa nazione oggi
trovandosi in un'epoca, rispetto a quell'altra nazione che si trova in
altra epoca.} Come chi dicesse che l'orbita de' pianeti è
sempre la stessa, non però verrebbe a dire che il punto, l'apparenza in cui essi
si trovano, fosse sempre una. I periodi della società si rassomigliano in tutti
i tempi. Questo è un vero assioma. E l'eccessiva civiltà avendo sempre condotto
i popoli alla barbarie, anzi precedutala immediatamente, anzi partecipato di
essa; così accadrà anche ora, o il detto assioma riuscirà falso per la prima
volta. Del resto che gli uomini sieno gli stessi in tutti i tempi, a non volerlo
intendere, o emendare come io dico, è proposizione o falsa o ridicola. Falsa se
si vuole estendere agli effetti delle facoltà umane, che ora sviluppate, ora
869 no, ora più, ora meno, ora attivissime, ora così
sepolte nel fondo dell'animo da non lasciarsi scoprire nemmeno ai filosofi (come
p. e. la sensibilità odierna negli antichi, e peggio ne' primitivi, la ragione
ec. ec.); hanno diversificato la faccia del mondo in maniera infinita, e in
moltissime guise. Domando io se questi italiani d'oggi sono o paiono i medesimi
che gli antichi; se il secolo presente si rassomiglia a quello delle guerre
Persiane, o peggio, della Troiana. Domando se i selvaggi si rassomigliano ai
francesi, se Adamo ci riconoscerebbe
per uomini, e suoi discendenti ec. Ridicola se non vuole significare fuorchè
questo, che l'uomo fu sempre composto degli stessi elementi e fisici e morali in
tutti i tempi. (ma elementi diversamente sviluppati e combinati, come i fisici,
così i morali). Cosa che tutti sanno. Le qualità essenziali non sono mutate,
{nè mutabili,} dal principio della natura in poi,
in nessuna creatura, bensì le accidentali, e queste per la diversa disposizione
delle essenziali, che partorisce una diversità
870
rilevantissima, e quanto possa esser, notabile, in quelle cose, che sole
naturalmente, possono variare. Questa proposizione dunque in quest'ultimo senso,
sarebbe tanto importante quanto il dire che il mare, il sole, la luna sono le
stesse in tutti i tempi ec. (lasciando ora una fisica trascendente che potrebbe
negarlo, e ponendolo per vero, com'è conforme all'opinione universale).
(25. Marzo 1821.)
[870,1] Intorno alla ragione proclamata, e alla tentata
geometrizzazione del mondo, nella rivoluzione francese v. anche parecchie cose
notabili, e qualche notizia e fatto nell'Essai sur
l'indifférence en matière de Religion, nell'ultima
parte del capo 10. (che abbraccierà una 20.na[ventina] di pagg.) dove riduce le dottrine che ha esposte,
all'esempio formale della rivoluzione francese, da quel periodo che
incomincia Esisteva, sono già
trent'anni, una nazione governata da una stirpe antica di
re
*
ec. sino alla fine del capo.
(26. Marzo 1821.).
[872,1] L'amor proprio dell'uomo, e di qualunque individuo di
qualunque specie, è un amore di preferenza. Cioè l'individuo amandosi
naturalmente quanto può amarsi, si preferisce dunque agli altri, dunque cerca di
soverchiarli in quanto può, dunque effettivamente l'individuo odia l'altro
individuo, e l'odio degli altri è una conseguenza necessaria ed immediata
dell'amore di se stesso, il quale essendo innato, anche l'odio degli altri viene
ad essere innato in ogni vivente. {{V. p. 926. capoverso 1.}}
[911,1] Analogo al
pensiero precedente è questo che segue.
912 È
cosa osservata dai filosofi e da' pubblicisti che la libertà vera e perfetta di
un popolo non si può mantenere, anzi non può sussistere senza l'uso della
schiavitù interna. (Così il Linguet, credo anche il Rousseau, Contrat social l.
3. ch. 15. ed altri. Puoi vedere anche l'Essai sur l'indifférence en
matière de Religion, ch. 10. nel passo dove cita in
nota il detto luogo di Rousseau
{insieme} con due righe di questo autore.)
Dal che deducono che l'abolizione della libertà {è}
derivata dall'abolizione della schiavitù, e che se non vi sono popoli liberi,
questo accade perchè non vi sono più schiavi. Cosa, che strettamente presa, è
falsa, perchè la libertà s'è perduta per ben altre ragioni, che tutti sanno, e
che ho toccate in cento luoghi. Con molto maggior verità si potrebbe dire che
l'abolizione della schiavitù è provenuta dall'abolizione della libertà; o
vogliamo, che tutte due son provenute dalle stesse cause, ma però in maniera che
questa ha preceduto quella e per ragione e per fatto.
[923,2] Siccome l'amor patrio o nazionale non è altro che una
illusione, ma facilmente derivante dalla natura, posta la società, com'è
naturale l'amor proprio nell'individuo, e posta la famiglia, l'amor di famiglia,
che si vede anche ne' bruti; così esso non si mantiene, e non produce buon
frutto senza le illusioni e i pregiudizi che naturalmente ne derivano, o che
anche ne sono il fondamento. L'uomo non è sempre ragionevole, ma sempre
conseguente in un modo o nell'altro. Come dunque amerà
924 la sua patria sopra tutte, e come sarà disposto nei fatti, a tutte le
conseguenze che derivano da questo amore di preferenza, se effettivamente egli
non la crederà degna di essere amata sopra tutte, e perciò la migliore di tutte;
e molto più s'egli crederà le altre, o qualcun'altra, migliore di lei? Come sarà
intollerante del giogo straniero, e geloso della nazionalità per tutti i versi,
{e disposto a dar la vita e la roba per sottrarsi al
dominio forestiero,} se egli crederà lo straniero uguale al
compatriota, e peggio, se lo crederà migliore? Cosa indubitata: da che il
nazionale ha potuto {o voluto} ragionare sulle nazioni,
e giudicarle; da che tutti gli uomini sono stati uguali nella sua mente; da che
il merito presso lui non ha dipenduto dalla comunanza della patria ec. ec.; da
che egli ha cessato di persuadersi che la sua nazione fosse il fiore delle
nazioni, la sua razza, la cima delle razze umane; dopo, dico, che questo ha
avuto luogo, le nazioni sono finite, e come nella opinione, così nel fatto, si
sono confuse insieme; passando inevitabilmente la indifferenza dello spirito e
del giudizio e del concetto, alla indifferenza del sentimento, della
inclinazione, e dell'azione. E questi pregiudizi che si rimproverano alla
Francia, perchè offendono l'amor proprio degli
stranieri, sono la somma salvaguardia della sua nazionale indipendenza, come lo
furono presso gli antichi;
925 la causa di quello
spirito nazionale che in lei sussiste, di quei sacrifizi che i francesi son
pronti a fare ed hanno sempre fatto, per conservarsi nazione, e per non
dipendere dallo straniero; e il motivo per cui quella nazione, sebbene così
colta ed istruita (cose contrarissime all'amor patrio), tuttavia serba ancora,
forse più che qualunque altra, la sembianza di nazione. E non è dubbio che dalla
forza di questi pregiudizi, come preso[presso]
gli antichi, così nella Francia, doveva seguire quella
preponderanza sulle altre nazioni d'europa, ch'ella ebbe
finora, e che riacquisterà verisimilmente. (6. Aprile 1821.).
[925,2] La superiorità della natura sopra tutte le opere
umane, o gli effetti delle azioni dell'uomo, si può vedere anche da questo, che
tutti i filosofi del secolo passato, e tutti coloro che oggi portano questo
nome, e in genere tutte le persone istruite di questo secolo, che è
indubitatamente
926 il più istruito che mai fosse, non
hanno altro scopo rispetto alla politica (parte principale del sapere umano), e
non sanno trovar di meglio che quello che la natura aveva già trovato da se
nella società primitiva, cioè rendere all'uomo {sociale} quella giusta libertà ch'era il cardine di tutte le antiche
politiche presso tutte le nazioni non corrotte, e così oggi presso tutte le
popolazioni non incivilite, {e allo stesso tempo} non
barbarizzate, cioè tutte quelle che si chiamano barbare, di quella barbarie
primitiva, e non di corruzione. (6. Aprile. 1821.).
[936,1] Da questi dati caviamo alcune conseguenze più alte ed
importanti. 1. Che la diversità de' linguaggi è naturale e inevitabile fra gli
uomini, e che la propagazione del genere umano portò con se la moltiplicità
delle lingue, e la divisione e suddivisione dell'idioma primitivo, e finalmente
il non potersi intendere, nè per conseguenza comunicare scambievolmente più che
tanto numero di uomini. {+La confusione de' linguaggi che
dice la Scrittura essere stato un gastigo dato da Dio agli uomini, è
dunque effettivamente radicata nella natura, e inevitabile nella
generazione umana, e fatta proprietà essenziale delle nazioni
ec.}
[978,1] Oggi non può scegliere il cammino della virtù se non
il pazzo, o il timido e vile, o il debole e misero. (23. Aprile.
1821.)
[1020,1]
Alla p. 1013. {fine}. Si potrebbe dire che anche la lingua
greca pativa lo stesso inconveniente, e ancor peggio, stante la moltiplicità de'
suoi dialetti. Ma ne' dialetti era divisa anche la lingua latina, come tutte le
lingue, massimamente molto estese e divulgate, {+e molto più, diffuse, come la
latina, fra tanta diversità di nazioni e di lingue.} Il che
apparisce non tanto dalla Patavinità rimproverata a Livio, (dalla quale sebbene altri lo difendono, pure
apparisce che questa differenza di linguaggio, {o
dialetto,} se non in lui, certo però esisteva); non tanto dalle
diverse maniere {e idiotismi} degli scrittori latini di
diverse nazioni e parti, (v. Fabric.
1021
B. G. l. 5. c. 1. §. 17. t. 5. p. 67.
edit. vet. e il S. Ireneo del Massuet);
{+le quali si possono anche inferire
dalle diverse lingue nate dalla latina ne' diversi paesi, ed ancora viventi
(che dimostrano una differenza d'inflessioni, di costrutti, di locuzioni ec.
che se anticamente non fu tanta quanta oggidì, certo però è verisimile che
fosse qualche cosa, e che appoco appoco sia cresciuta, derivando dalla
differenza antica)} quanto da questo, che è nella natura degli uomini
che una perfetta conformità di favella non {sussista
mai} se non {fra} piccolissimo numero di
persone. (v. p. 932. fine) Così che
io non dubito che la lingua latina non fosse realmente distinta in più e più
dialetti, come la greca, sebbene meno noti, e meno legittimati, e riconosciuti
dagli scrittori, e applicati alla letteratura. {V. qui
sotto.}
[1022,1] Quanto la natura abbia proccurata la varietà, e
l'uomo e l'arte l'uniformità, si può dedurre anche da quello che ho detto della
naturale, necessaria e infinita varietà delle lingue, p. 952. segg. Varietà maggiore di quello
che paia a prima vista, giacchè non solo produce p. e. al viaggiatore, una
continua novità rispetto alla sola lingua, ma anche rispetto agli uomini,
parendo diversissimi quelli che si esprimono diversamente; cosa favorevolissima
alla immaginazione, considerandosi quasi come esseri di diversa specie quelli
che non sono intesi da noi, nè c'intendono: perchè la lingua è una cosa somma,
principalissima, caratteristica degli uomini, sotto tutti i rapporti della vita
sociale. Per lo contrario, lasciando le altre cure degli uomini per uniformare,
stabilire, regolare ed estendere le diverse lingue; oggi, in tanto e così vivo
commercio di tutte, si può dir, le nazioni insieme, si è introdotta, ed è
divenuta necessaria, una lingua comune, cioè la francese; la quale
1023 stante il detto commercio, e l'andamento presente
della società, si può predire che non perderà più la sua universalità, nemmeno
cessando l'influenza o politica, o letteraria, o civile, o morale ec. della sua
nazione. E certo, se la stessa natura non lo impedisse, si otterrebbe appoco
appoco che tutto il mondo parlasse quotidianamente il francese, e l'imparasse il
fanciullo come lingua materna; e si verificherebbe il sogno di una lingua
strettamente universale. (8. Maggio 1821.).
[1053,1] Considerando per una parte quello che ho detto p. 937. seguenti , intorno
alla naturale ristrettezza e povertà delle lingue, e come la natura avesse
fortemente provveduto che l'uomo non facesse fuorchè picciolissimi progressi nel
linguaggio, e che il linguaggio umano fosse limitato a pochissimi segni per
servire alle sole necessità estrinseche e corporali della vita; e per l'altra
parte considerando le verissime osservazioni del Soave
(Appendice 1. al capo II. Lib. 3. del Saggio di Locke)
e del Sulzer (Osservaz. intorno all'influenza
reciproca della ragione sul linguaggio, e del linguaggio sulla
ragione, nelle Memorie della R. Accadem. di
Prussia, e nella Scelta di Opusc. interessanti,
Milano 1775. vol. 4. p. 42 - 102.) intorno
alla quasi impossibilità delle cognizioni senza il linguaggio, e
proporzionatamente della estensione e perfezione ec. delle cognizioni, senza la
perfezione, ricchezza ec. del linguaggio; considerando, dico, tutto ciò, si
ottiene una nuova {e principalissima} prova, di quanto
il nostro presente
1054 stato e le nostre cognizioni
sieno direttamente e violentemente contrarie alla natura, e di quanti ostacoli
la natura vi avesse posti. (15. Maggio 1821.).
[1077,1] Il tempo di Luigi decimoquarto e tutto il secolo passato, fu
veramente l'epoca della corruzione barbarica delle parti più civili
d'europa, di quella corruzione e barbarie, che
succede inevitabilmente alla civiltà, di quella che si vide ne' Persiani e ne'
Romani, ne' Sibariti, ne' Greci ec. E tuttavia la detta epoca si stimava allora,
e per esser freschissima, si stima anche oggi, civilissima, e tutt'altro che
barbara. Quantunque il tempo
1078 presente, che si
stima l'apice della civiltà, differisca non poco dal sopraddetto, e si possa
considerare come l'epoca di un risorgimento dalla barbarie. Risorgimento
incominciato in europa dalla rivoluzione francese,
risorgimento debole, imperfettissimo, perchè derivato non dalla natura, ma dalla
ragione, anzi dalla filosofia, ch'è debolissimo, tristo, falso, non durevole
principio di civiltà. Ma pure è una specie di risorgimento; ed osservate che
malgrado la insufficienza de' mezzi per l'una parte, e per l'altra la
contrarietà ch'essi hanno colla natura; tuttavia la rivoluzione francese (com'è
stato spesso notato), ed il tempo presente hanno ravvicinato gli uomini alla
natura, sola fonte di civiltà, hanno messo in moto le passioni grandi e forti,
hanno restituito alle nazioni già morte, non dico una vita, ma un certo palpito,
una certa lontana apparenza vitale. Quantunque ciò sia stato mediante la mezza
filosofia, strumento di civiltà incerta, insufficiente, debole, e passeggera per
natura sua, perchè la mezza filosofia, tende naturalmente a crescere, e divenire
perfetta filosofia, ch'è fonte di barbarie. {+Applicate a questa osservazione le barbare e
ridicolissime e mostruose mode (monarchiche e feudali), come guardinfanti,
pettinature d'uomini e donne ec. ec. che regnarono, almeno in
italia, fino agli ultimissimi anni del secolo
passato, e furono distrutte in un colpo dalla rivoluzione (v. la lettera di Giordani a Monti §.
4.) E vedrete che il secolo presente è l'epoca di un vero
risorgimento da una vera barbarie, anche nel gusto; e qui può anche notarsi
quel tale raddrizzamento della letteratura in italia
oggidì.}
(23. Maggio 1821.). {{V. p.
1084.}}
[1165,2] Tutti quanti i giovani, benchè qual più qual meno,
sono per natura disposti all'entusiasmo, e ne provano. Ma l'entusiasmo de'
giovani oggidì, coll'uso del mondo, e coll'esperienza delle cose che {quelli} da principio vedevano da lontano, si spegne non
in altro modo nè per diversa cagione, che una facella per difetto di alimento:
anche durando la gioventù, e la potenza naturale dell'entusiasmo. (13.
Giugno 1821.).
[1169,1] L'ardore giovanile è la maggior forza, l'apice, la
perfezione, l'ἀκμή della natura umana. Si consideri dunque la convenienza di
quei sistemi politici, nei quali l'ἀκμή dell'uomo, cioè l'ardore e la
1170 forza giovanile, non è punto considerata, ed è
messa del tutto fuori del calcolo, come ho detto in altro pensiero pp.
195-96. (15. Giugno 1821.).
[1170,1] Si consideri per l'una parte che cosa sarebbe la
civiltà senza l'uso della moneta. Oltre ch'ella non potrebbe reggersi, non
sarebbe neppur giunta mai ad un punto di gran lunga inferiore al presente,
essendo la moneta, di prima necessità ad un commercio vivo ed esteso, e questo
commercio scambievole vivo ed esteso, tanto delle nazioni, quanto degl'individui
di ciascuna, essendo forse la principal fonte dei progressi della civiltà, o
della corruzione umana. E se bisognassero prove di una proposizione così
manifesta, si potrebbe addurre, fra gli altri infiniti de' popoli selvaggi ec.,
l'esempio di Sparta che, avendo poco uso della moneta per
le leggi di Licurgo, in mezzo al paese
più civile del mondo a quei tempi, cioè la Grecia, si
mantenne sì lungo spazio, e incorrotta, e quasi stazionaria, o certo la sua
civiltà, o corruzione, fu sempre di molti gradi minore di quella degli altri
popoli greci, e {le} andò sempre molti passi
indietro.
[1174,2] Ho detto più volte p. 1030
pp.
1039-40 che la letteratura francese è precisamente letteratura
moderna, ed è quanto dire che non è letteratura. Perchè considerando bene
vedremo che i tempi moderni hanno filosofia, dottrina, scienze d'ogni sorta, ma
non hanno propriamente letteratura, e se l'hanno, non è moderna, ma di carattere
antico, ed è quasi un innesto dell'antico sul moderno. L'immaginazione ch'è la
base della letteratura strettamente considerata,
1175
sì poetica come prosaica, non è propria, anzi impropria de' tempi moderni, e se
anche oggi si trova in qualche individuo, non è moderna, perchè non solamente
non deriva dalla natura de' tempi, ma questa l'è sommamente contraria, anzi
nemica e micidiale. E vedete infatti che la letteratura francese, {nata e formata} in tempi moderni, è la meno immaginosa
non solo delle antiche, ma anche di tutte le moderne letterature. E per questo
appunto è letteratura pienamente moderna, cioè falsissima, perchè il predominio
{odierno} della ragione quanto giova alle scienze,
e a tutte le cognizioni del vero e dell'utile (così detto), tanto nuoce alla
letteratura e a tutte le arti del bello e del grande, il cui fondamento, la cui
sorgente e nutrice è la sola natura, bisognosa bensì di un mezzano aiuto della
ragione, ma sommamente schiva del suo predominio che l'uccide, come pur troppo
vediamo nei nostri costumi, e in tutta la nostra vita d'oggidì. (16.
Giugno 1821.).
[1175,1] Quanto più cresce il mondo rispetto all'individuo,
tanto più l'individuo impiccolisce. I nostri antichi, conoscendo pochissima
parte di mondo,
1176 ed essendo in relazione con molto
più piccola parte, e bene spesso colla sola loro patria, erano grandissimi. Noi
conoscendo tutto il mondo, ed essendo in relazione con tutto il mondo, siamo
piccolissimi. Applicate questo pensiero ai diversissimi aspetti sotto i quali si
verifica che essendo cresciuto il mondo, l'individuo s'è impiccolito sì
fisicamente che moralmente; e vedrete esser vero in tutti i sensi che l'uomo
{e le sue facoltà} impiccoliscono a misura che il
mondo cresce in riguardo loro. (16. Giugno 1821.).
[1315,1] Il successivo cambiamento delle disposizioni
dell'animo di ciascun uomo secondo l'età, è una fedele e costante immagine del
cambiamento delle generazioni umane nel processo de' secoli. {+(E così viceversa).} Eccetto che è
sproporzionamente[sproporzionatamente]
rapido, massimamente oggidì, perchè il giovane di venticinque anni non serba più
somiglianza alcuna col tempo antico, nè veruna qualità, opinione, disposizione,
inclinazione antica, come l'immaginazione, la virtù ec. ec. ec. (13.
Luglio 1821.).
[1378,1]
1378 L'animale assalito o in se stesso, o nelle cose
sue care massimamente, non fa i conti s'egli possa o non possa resistere, se la
resistenza gioverà o no, se gli torni meglio il cedere, se il pericolo sia
grande o piccolo, se le forze competano, se il resistere gli possa portare un
male maggiore ec. ma resiste immediatamente e combatte con tutte le sue forze,
ancorchè piccolissime contro grandissime. Disturbate i pulcinelli ad una
gallina, ed ella vi verrà sopra col becco e cogli artigli, e vi farà tutto il
male che saprà. Così facevano le antiche nazioni ancorchè piccolissime contro
grandissime, come ho detto altrove pp. 1004-1007. {+Similmente dico dei privati rispetto ai più forti o potenti ec.}
{+V. il Gelli, Circe, nel Dial. dove parla
della fortezza delle bestie, e il Segneri
Incredulo dove parla
delle loro guerre.} È vergognoso che il calcolo ci renda
meno magnanimi, meno coraggiosi delle bestie. Da ciò si può vedere quanto la
grand'arte del computare, sì propria de' nostri tempi, giovi e promuova la
grandezza delle cose, delle azioni, della vita, degli avvenimenti, degli animi,
dell'uomo. (23. Luglio 1821.).
[1386,1] Quanto la civilizzazione per sua natura tenda a
conformare gli uomini e le cose umane, come questo sia l'uno de' principali suoi
fini, ovvero de' mezzi principali per conseguire i suoi fini, si può vedere
anche nella lingua, nell'ortografia, nello stile largamente considerato, nella
letteratura ec. Tutte cose tanto
1387 più uniformi in
una nazione, quanto ella [è] più civile, o si va
civilizzando di mano in mano, e tanto più varie quanto ella è più lontana dalla
civiltà perfetta, o più vicina a' suoi principj ec. E ne' principii tutte queste
cose furono sommamente varie, incerte, discordi, arbitrarie ec. presso qualunque
nazione delle più colte oggidì. {+Lo
stabilire e il formare o l'essere stabilita e formata una lingua
un'ortografia ec. non è quasi altro che uniformarla. Giacchè sia pur ella
regolarissima in questo o quello scrittore o parlatore, ella non è stabilita
nè formata nè buona se non è uniforme nella nazione; e sia pure
irregolarissima (come la greca ec.) ella è stabilita ec. quando in quel tale
stato ella è riconosciuta, intesa e adoperata stabilmente e regolarmente dalla nazione. Allora
l'irregolarità è regola, e nel caso contrario la regolarità è
irregolare.}
(25. Luglio 1821.). {{V. se vuoi, pp. 1516-17.}}
[1436,1] Mirabile disposizione della natura! Il giovane non
crede alle storie, benchè sappia che son vere, cioè non crede che debbano
avverarsi ne' particolari della sua vita, degli uomini ch'egli conosce, {e} tratta, o conoscerà e tratterà, e spera di trovare il
mondo assai diverso, almeno in quanto a se stesso, e per modo di eccezione. E
crede pienamente a' poemi e romanzi, benchè sappia che sono falsi, cioè se ne
lascia persuadere che il mondo sia fatto e vada in quel
1437 modo, e crede di trovarlo così. Di maniera che le storie che
dovrebbero fare per lui le veci dell'esperienza, e così pure gl'insegnamenti
filosofici ec. gli restano inutili, non già per capriccio, nè ostinazione, nè
piccolezza d'ingegno, ma per opera universale e invincibile della natura. E solo
quando egli è dentro a questo mondo sì cambiato dalla condizione naturale,
l'esperienza lo costringe a credere quello che la natura gli nascondeva, perchè
neppur nel fatto era conforme alle di lei disposizioni. Segno che il mondo è
tutto il rovescio di quello che dovrebbe, poichè il giovane che non ha altra
regola di giudizio, se non la natura, e quindi è giudice competentissimo,
giudica sempre ed inevitabilmente vero il falso, e falso il vero. (2.
Agosto. 1821.).
[1459,1] Quanto gli uomini sono meno inciviliti (come sono i
selvaggi, com'erano gli Americani ec.) tanto maggiori e più frequenti varietà di
lingue o dialetti si trovano in più piccolo spazio di paese, e minor quantità di
gente. Cosa provata dalla storia, da' viaggi ec. e proporzionatamente dalla
stessa osservazione de' popoli più o meno inciviliti, letterati ec. V. la p. 1386. fine. Dal che si vede
quanto la natura contrasti all'uniformità de' linguaggi ec. come ho detto
altrove pp. 937-40
p. 1022. (6. Agos. 1821.).
[1554,2] In questo presente stato di cose, non abbiamo gran
mali, è vero, ma nessun bene; e questa mancanza è un male grandissimo, continuo,
intollerabile, che rende penosa tutta quanta la vita, laddove i mali parziali,
ne affliggono solamente una parte. L'amor proprio, e quindi il desiderio
ardentissimo della felicità, perpetuo ed essenzial compagno della vita
1555 umana, se non è calmato da verun piacere {vivo,} affligge la nostra esistenza crudelmente, quando
anche non v'abbiano altri mali. E i mali son meno dannosi alla felicità che la
noia ec. anzi talvolta utili alla stessa felicità. L'indifferenza non è lo stato
dell'uomo; è contrario dirittamente alla sua natura, e quindi alla sua felicità.
V. la mia teoria del piacere,
applicandola a queste osservazioni, che dimostrano la superiorità del mondo
antico sul moderno, in ordine alla felicità, come pure dell'età fanciullesca o
giovanile sulla matura. (24. Agos. 1821.).
[1555,1] Consideriamo la natura. Qual è quell'età che la
natura ha ordinato nell'uomo alla maggior felicità di cui egli è capace? Forse
la vecchiezza? cioè quando le facoltà dell'uomo decadono visibilmente; quando
egli si appassisce, indebolisce, deperisce? Questa sarebbe una contraddizione,
che la felicità, cioè la perfezione dell'essere, dovesse naturalmente trovarsi
nel tempo della decadenza e quasi corruzione di detto essere. Dunque la
gioventù, cioè il fior dell'età, quando le facoltà dell'uomo sono in pieno
vigore ec. ec.
1556 Quella è l'epoca della perfezione e
quindi della possibile felicità sì dell'uomo che delle altre cose. Ora la
gioventù è l'evidente immagine del tempo antico, la vecchiezza del moderno. Il
giovane e l'antico presentano grandi mali, congiunti a grandi beni, passioni
vive, attività, entusiasmo, follie non poche, movimento, vita d'ogni sorta. Se
dunque la gioventù è visibilmente l'età destinata dalla natura alla maggior
felicità, l'ἀκμή della vita, e per conseguenza della felicità ec. ec. se il
nostro intimo senso ce ne convince (che nessun vecchio non desidera di esser
giovane, e nessun giovane vorrebbe esser vecchio); se la considerazione del
sistema e delle armonie della natura ce lo dimostra a primissima vista; dunque
l'antico tempo era più felice del moderno; dunque che cosa è la sognata
perfettibilità dell'uomo? dunque ec. ec. Quest'osservazione si può stendere a
larghissime conseguenze. (24. Agos. 1821.).
[1594,2] La bellezza è naturalmente compagna della virtù.
L'uomo senza una lunga esperienza non si avvezza a credere che un bel viso possa
coprire un'anima malvagia. Ed ha ragione, perchè la natura ha posto un'effettiva
corrispondenza tra le forme esteriori e le interiori, e se queste non
corrispondono, sono per lo più alterate da quelle ch'erano naturalmente. Pure è
certo che i belli sono per lo più cattivi. Lo stesso dico degli altri vantaggi
naturali o acquisiti. Chi li possiede, non è buono. Un brutto, un uomo
sprovvisto di pregi e di vantaggi, più facilmente s'incammina alla virtù. Gli
uomini senza talento sono più ordinariamente buoni, che quelli che ne son
ricchi. E tutto ciò è ben naturale nella società. L'uomo insuperbisce del
vantaggio che si accorge
1595 di avere sugli altri, e
cerca di tirarne per se tutto quel partito che può. S'egli è più forte, fa uso
della sua forza. Il più debole si raccomanda, e segue la strada che più giova e
piace agli altri, per cattivarseli. Il forte non abbisogna di questo. Ecco
l'abuso de' vantaggi. Abuso inevitabile e certo, posta la società. Così dico de'
potenti ec. i quali non ponno essere virtuosi. Ne' privati a me pare che non si
trovi vera affabilità, vera {e costante} amabilità e
facilità di costumi, interesse per gli altri ec. se non che nei brutti, in chi
ha qualche svantaggio, è nato in bassa condizione ed assuefattoci da piccolo,
ancorchè poi ne sia uscito, è povero o lo fu, ovvero negli sventurati.
[1596,1] Il sopraddetto si può se non altro, e con molto
maggior forza applicare a dimostrare le ingenite {ed
essenziali} contraddizioni che rinchiude uno stato di civiltà come il presente. (31.
Agos. 1821.).
[1607,1] I moti e gli atti degli uomini (e de' viventi in
proporzione delle rispettive qualità) sono naturalmente vivissimi, specialmente
nella passione. La civiltà gli raddolcisce, gli modera, e va tanto innanzi che
oramai gran parte del bel trattare consiste nel non muoversi, siccome nel
parlare a voce bassa ec. e l'uomo appassionato quasi non {si} distingue dall'indifferente per verun segno esterno. L'individuo
civilizzato copia in se stesso lo stato a cui la società è ridotta
dall'incivilimento {+come una
camera oscura ricopia un[in]
piccolissimo una vasta prospettiva.} Non più moto nè in
questa nè in
1608 quello. Questa corrispondenza non è
nè casuale nè frivola. E ben importante l'osservare come i menomi effetti
derivino dalle grandi cagioni, come armonizzino insieme le cose grandi e le
piccole, come la natura del secolo influisca sulle menome parti de' costumi,
come dalle piccolissime e giornaliere osservazioni si possa rimontare alle
grandissime e generali. L'animo e il corpo dell'uomo civile si rende appoco
appoco immobile in ragione de' progressi della civiltà: e si va quasi
distruggendo (gran perfezionamento dell'uomo!) la principal distinzione che la
natura ha posto fra le cose animate e inanimate, fra la vita e la morte, cioè la
facoltà del movimento. (2 Sett. 1821.).
[1631,2] Chi vuol vedere l'effetto della civiltà sul vigore
del corpo, paragoni gli uomini civili ai contadini o ai selvaggi, i contadini
d'oggi a ciò che noi sappiamo del vigore antico. ec. (Omero, com'è noto, assai spesso chiama l'età sua
degenerata dalle forze de' tempi troiani.) Osservi di quanto è capace il corpo
umano, vedendo l'impotenza nostra assoluta di far ciò che fa il meno robusto de'
villani; i pericoli a cui noi ci esporremmo volendo esporci a qualcuno de' loro
patimenti; le vergognose usanze quotidiane di fuggir l'aria il sole ec. di
maravigliarsi come il tale o tale abbia potuto affrontarlo per questa o quella
circostanza; le malattie o incomodi che tutto giorno si pigliano per un
1632 menomo strapazzo del corpo, o fatica di mente ec.
e poi dica se la civiltà rafforza l'uomo; accresce la sua capacità e potenza; se
gli antichi si maraviglierebbero o no della impotenza nostra; se la natura
stessa se ne debba o no vergognare; e se noi medesimi non lo dobbiamo, vedendo
sotto gli occhi per l'una parte di quanto sia capace il corpo umano, senza
veruno sforzo straordinario, e per l'altra di quanto poco sia capace il nostro.
(5. Sett. 1821.).
[1648,1]
1648 Pare assurdo, ma è vero che l'uomo forse il più
soggetto a cadere nell'indifferenza e nell'insensibilità (e quindi nella
malvagità che deriva dalla freddezza del carattere), si è l'uomo sensibile,
pieno di entusiasmo e di attività interiore, e ciò in proporzione appunto della
sua sensibilità ec. {Quasi si verifica in questo senso
e modo ciò che quel vecchio disse a Pico
p. 1178, della stupidità dei vecchi stati
spiritosi straordinariamente da fanciulli.} Massime s'egli
è sventurato; ed in questi tempi dove la vita esteriore non corrisponde, non
porge alimento nè soggetto veruno all'interiore, dove la virtù e l'eroismo sono
spenti, e dove l'uomo di sentimento e d'immaginazione e di entusiasmo è subito
disingannato. La vita esteriore degli antichi era tanta che avvolgendo i grandi
spiriti nel suo vortice arrivava piuttosto a sommergerli, che a lasciarsi
esaurire. Oggi un uomo quale ho detto, appunto per la sua straordinaria
sensibilità, esaurisce la vita in un momento. Fatto ciò, egli resta vuoto,
disingannato profondamente e stabilmente, perchè ha tutto profondamente e
vivamente provato: non si è fermato alla superficie, non si va affondando a poco
a poco; è andato subito al fondo, ha tutto abbracciato, e tutto rigettato come
effettivamente indegno e frivolo: non gli resta altro a vedere,
1649 a sperimentare, a sperare. Quindi è che si vedono
gli spiriti mediocri, ed alcuni sensibili e vivi sino a un certo segno, durar
lungo tempo ed anche sempre, nella loro sensibilità, suscettibili di affetto,
capaci di cure e di sacrificj per altrui, non contenti del mondo, ma sperando di
esserlo, facili ad aprirsi all'idea della virtù, a crederla ancora qualche cosa
ec. (Essi non hanno ancora perduto la speranza della felicità). Laddove quei
grandi spiriti che ho detto, fin dalla gioventù cadono in un'indifferenza,
languore, freddezza, insensibilità mortale, e irrimediabile: che produce un
egoismo noncurante, una somma incapacità di amare ec. La sensibilità e l'ardore
dell'animo è così fatto, che s'egli non trova pascolo nelle cose circostanti,
consuma se stesso, e si distrugge e perde in poco d'ora, lasciando l'uomo tanto
al disotto della magnanimità ordinaria, quanto prima l'avea messo al disopra.
Laddove la mediocre sensibilità si mantiene, perchè abbisogna di poco alimento.
Quindi è che le virtù grandi non sono
pe' nostri tempi.
1650
(7. Sett. 1821.). {{Puoi vedere p. 1653.
fine.}}
[1668,1] I contadini, e tutte le nazioni meno civilizzate,
massime le meridionali, amano e sono dilettate soprattutto da' colori vivi. Al
contrario le nazioni civili, perchè la civiltà che tutto indebolisce, mette in
uso e in pregio i colori smorti ec. Questo si chiama buon gusto. Perchè? come
dunque si suppone che il buon gusto abbia norme e modelli costanti, e
invariabili? s'egli ci allontana dalla natura, in che altra cosa stabile faremo
noi consistere questo tipo, questa norma? Non è questa oltracciò una prova che
tutto è relativo, e dipende dall'assuefazione, e circostanze,
1669 anche i piaceri, i gusti ec. che paiono i più naturali, e
spontanei? giacchè l'uomo polito, senza bisogno di alcuna riflessione, si ride
di un villano che stima far gran figura col suo gilet
di scarlatto, e degli altri villani o villane che l'ammirano. E pure che ragione
naturale v'è di riderne? Le stesse nostre classi colte pochi anni sono, quando
erano meno o civilizzate o corrotte, avevano lo stesso gusto de' nostri villani,
ma in assai maggior grado. Ora i colori amaranto, barbacosacco, napoleone, ed
altri simili mezzi colori sono di moda, e questo effetto si attribuisce a
piccole cagioni, ma in vero egli tiene alla natura generale dell'incivilimento.
(10. Sett. 1821.).
[1669,1] La detta osservazione è anche una prova
dell'indebolimento che è sempre {e in t̃ti[tutti] i sensi} compagno ed effetto della
civiltà. (10. Sett. 1821.).
[1680,1] La stessa nostra ragione è una facoltà acquisita. Il
bambino che nasce non è ragionevole: il selvaggio lo è meno dell'incivilito,
l'ignorante meno dell'istruito: cioè ha effettivamente minor facoltà di
ragionare, tira più difficilmente la conseguenza, e più difficilmente e
oscuramente vede il rapporto fra le parti del sillogismo il più chiaro. Vale a
1681 dire che non solo un'ignoranza particolare
gl'impedisce di vedere o capire questo o quello, ma egli ha una minor forza
generale di raziocinio, meno abitudine e quindi meno facilità e capacità di
ragionare, e quindi meno ragione. {+Giacchè non solo egli non comprende questa o quella parte di un sillogismo,
ma anche comprendendole a perfezione tutte tre, (o le due premesse)
separatamente, non ne vede il rapporto, e non conosce come la conseguenza ne
dipenda, ancorchè il sillogismo gli venga formalmente fatto. La qual cosa
non si può insegnare. Or questa è reale inferiorità ed incapacità di
ragione. V. p. 1752.
principio.} Di questo genere sono quelle teste che si chiamano
dure e storte, e da queste cause viene la rarità di quel senso che si chiama
comune. Notate ch'io dico facoltà e non disposizione. Distinsi altrove p.
1453
pp. 1661-63 l'una dall'altra. La mente umana ha una disposizione (ma
per se stessa infruttuosa) a ragionare: essa per se non è ragione, come ho
spiegato in altro proposito con esempi; e questa disposizione originariamente e
riguardo al puro intelletto è tale che {anche quanto
ad} essa l'uomo {primitivo} affatto inesperto è poco o nulla superiore
all'animale. Gli organi suoi esteriori ec. che gli producono in pochi momenti un
numero di esperienze decuplo di quello che gli altri animali si possano
proccurare, lo mettono ben presto al di sopra degli altri viventi. L'esperienze
1682 riunite di tutta una vita, poi quelle di molti
uomini, {e poi di molti tempi} unite insieme, onde
nasce la favella, e quindi gl'insegnamenti ec. ec. hanno messo il genere umano
in lunghissimo tempo, e mettono giornalmente il fanciullo in brevissimo tempo
assai di sopra a tutti gli animali, e gli
danno la facoltà della ragione. L'uomo primitivo in età di sett'anni
non era già ragionevole, come oggi il fanciullo. Ne sa più il bambino che
balbetta; ragiona meglio, è più ragionevole, di quello che fosse l'uomo
primitivo in età di vent'anni ec. ec. ec. Questo si può confermare coll'esempio
de' selvaggi, i quali hanno pur tuttavia molta e già vecchia società. (12.
Sett. 1821.).
[1691,2] Voi altri riformatori dello spirito umano, e
dell'opera della natura, voi altri predicatori della ragione, provatevi un poco
a
1692 fare un romanzo, un poema ec. il cui
protagonista si finga perfettissimo e straordinario in tutte le parti morali, e
dipendenti dall'uomo, e imperfetto {o men che perfetto}
nelle parti fisiche, dove l'uomo non ha per se verun merito. Di che si parla in
questo secolo sì spirituale massime in letteratura che oramai par che sdegni
tutto ciò che sa di corporeo, di che si parla, dico, ne' poemi, ne' romanzi,
nelle opere tutte d'immaginazione e sentimento, fuorchè di bellezza del corpo?
Questa è la prima condizione in un personaggio che si vuol fare interessante.
{+La perfettibilità
dell'uomo, come altrove ha[ho] detto
p. 830, non ha che fare col corpo. E
contuttociò la perfezione del corpo, che non dipende dagli uomini nè è
opera della ragione, si è la principal condizione che si ricerca in un
eroe di poema ec. (o si dee supporre, perchè ogni menoma imperfezione
corporale suppostagli guasterebbe ogni effetto) e la più efficace,
supponendolo ancora perfetto nello spirito.} Questa
circostanza non si può tacere; quando anche si taccia, la supplirà il lettore;
ma fare espressamente un protagonista brutto, è lo stesso che rinunziare a
qualsivoglia effetto. (V. ciò che dico in tal proposito dove parlo della
compassione pp. 220-21). Mad.
di Staël non era bella: in un'anima come la sua, questa circostanza
avrà prodotto mille pensieri e sentimenti sublimi, nuovissimi a scriverli,
profondissimi, sentimentalissimi: (così di Virgilio pretende Chateaubriand) ella amava
sopra tutto l'originalità, e poco teneva il buon
1693
gusto (v. Allemagne tome 1. ch. dernier.): ella, come tutti i
grandi, dipingeva ne' suoi romanzi il suo cuore, i suoi casi, e però si serve di
donne per li principali effetti; nondimeno si guarda bene di far brutti o men
che belli i suoi eroi o le sue eroine. Tutto lo spregiudizio, tutto l'ardire,
tutta l'originalità di un autore in qualsivoglia tempo non può giunger fin qua.
Che cosa è la bellezza? lo stesso in fondo, che la nobiltà e la ricchezza: dono
del caso? È egli punto meno pregevole un uomo sensibile e grande, perchè non è
bello? {+Quale inferiorità di vero merito
si trova nel più brutto degli uomini verso il più bello?} Eppure non
solamente lo scrittore o il poeta si deve guardare dal fingerlo brutto, ma deve
anche guardarsi da entrare in comparazioni sulla {sua}
bellezza. Ogni effetto svanirebbe se parlando o di se stesso (come fa il Petrarca) o del suo eroe, l'autore
dicesse ch'egli era sfortunato nel tale amore perchè le sue forme, o anche il
suo tratto e maniere esteriori (cosa al tutto corporea) non piacevano all'amata,
o perch'egli era men bello di un suo rivale ec. ec. Che cosa è dunque il mondo
fuorchè
1694 NATURA? Ho detto [pp. 601-603]
p. 1026
p. 1262
p. 1657 che l'intelletto umano è materiale in tutte le sue operazioni
e concezioni. La teoria stessa dell'intelletto si deve applicare al cuore e alla
fantasia. La virtù, il sentimento, i più grandi pregi morali, le qualità
dell'uomo le più pure, le più sublimi, infinite, le più immensamente lontane in
apparenza dalla materia, non si amano, non fanno effetto veruno se non come
materia, e in quanto materiali. Divideteli dalla bellezza, o dalle maniere
esteriori, non si sente più nulla in essi. Il cuore può bene immaginarsi di
amare lo spirito, o di sentir qualche cosa d'immateriale: ma assolutamente
s'inganna.
[1737,2] Da che nacque l'invenzione del
1738 canocchiale che ha tanto influito sulla navigazione, sulla stessa
filosofia metafisica, e quindi sulla civilizzazione? Dal caso. E l'invenzione
della polvere che ha mutato faccia alla guerra, ed alle nazioni, e tanto
contribuito a geometrizzare lo spirito del tempo, e distruggere le antiche
illusioni, insieme col valore individuale ec. ec.? Dal caso. Chi sa che
l'aereonautica non debba un giorno sommamente influire sullo stato degli uomini?
E da che cosa ella deriva? Dal caso. E quelle scoperte infinite di numero,
sorprendenti di qualità, che furono necessarie per ridurre l'uomo in quel
medesimo imperfetto stato, in cui ce lo
presenta la più remota memoria che ci sia giunta delle nazioni; scoperte che
hanno avuto bisogno di lunghissimi secoli e per essere condotte a quella
condizione ch'era necessaria per una società alquanto formata, e per essere poi
perfezionate come lo sono oggidì; scoperte che oggi medesimo, dopo ch'elle son
fatte da tanto tempo, dopo ch'elle sono perfezionate, dopo che la nostra mente
vi s'è tanto abituata,
1739 lo spirito umano si
smarrisce {cercando} come abbiano potuto mai esser
concepite; le lingue, gli alfabeti, l'escavazione e fonditura de' metalli, la
fabbrica de' mattoni, de' drappi d'ogni sorta, {la nautica e
quindi il commercio de' popoli,}
{+la coltura de' formenti, e delle viti,
e la fabbrica del pane e vino, invenzioni che gli antichi attribuivano agli
dei, che la scrittura pone dopo il diluvio, e che certo furono
tardissime,} la stessa cocitura delle carni, dell'erbe, ec. ec. ec.
tutte queste maravigliose e quasi spaventose invenzioni, da che cosa crediamo
che abbiano avuto origine? Dal caso. Consideriamo tutte le difficili scoperte
moderne, fatte pure in tempo dove la mente umana aveva tanti, ed immensi aiuti
di più per inventare; e vedendo che tutte in un modo o nell'altro si debbono al
caso, e nessuna o pochissime derivano da spontanea e deliberata applicazione
della mente umana, nè dal calcolo delle conseguenze, e dal preciso progresso dei
lumi; {+pochissime ancora da tentativi
diretti, e sperienze appositamente istituite, benchè a tastoni e all'azzardo
(come furono per necessità, si può dir, tutte quelle pochissime che
fruttarono qualche insigne scoperta);} molto più dovremo creder lo
stesso di tutte le scoperte antiche le più necessarie all'esistenza di una
società formale. Se dunque porremo attenzione all'andamento delle cose, e alla
storia dell'uomo, dovremo convenire che tutta quanta la sua civilizzazione è
pura opera
1740 del caso. {+Il quale variando ne' diversi remoti paesi, o mancando,
ha prodotto quindi diversi generi di civilizzazione (cioè perfezione), o
l'assoluta mancanza di essa.} La perfezione del primo essere vivente
doveva dunque essere dalla natura incaricata all'azzardo? (19. Sett.
1821.).
[1803,1] Una prova dell'indebolimento delle generazioni {+V. il
N.[Nuovo]
Ricoglitore, quaderno 31, p. 481.} si
è il vedere come oggi gli uomini generalmente e segnatamente le femmine sieno
(non per sola smorfia, ma in effetto)
1804 incapaci
dell'uso degli odori, che nuoce assolutamente ai loro nervi (e quanto il sistema
nervoso influisca e modifichi tutta la macchina e la vita umana, ciascuno lo
sperimenta), massime gli odori vivi, de' quali era sì gradito e continuo l'uso
non solo fra i greci e romani, com'è noto, ma fra' nostri antenati, come si vede
nel grande e costantissimo odore che esala da' vecchi armadi, scaffali, drappi
d'ogni sorta ec. ec. Oggi, massime la donna (che per l'addietro era
familiarissima agli odori), non può comportare se non gli odori deboli (e neppur
questi a lungo, nè troppo spesso), siccome la civiltà rende odiosi i colori
forti, introduce il gusto de' sapori languidi e dilicati. ec. ec. (29.
Sett. dì di S.
Michele. 1821.)
[1823,1] L'uomo tende sempre a' suoi simili (così ogni
animale), e non può interessarsi che per essi, per la stessa ragione per cui
tende a se stesso, ed ama se stesso più che qualunque de' suoi simili. Non vi
vuole che un intero snaturamento prodotto dalla filosofia, per far che l'uomo
inclini agli animali, alle piante ec. e perchè i poeti (massime stranieri) de'
nostri giorni pretendano d'interessarci per una bestia, un fiore, un sasso, un
ente ideale, un'allegoria. È ben curioso che la filosofia, rendendoci
indifferenti verso noi medesimi e i nostri simili, che la natura ci ha posto a
cuore, voglia interessarci per quello a cui l'irresistibile natura ci ha fatti
indifferenti. Ma questo è un effetto conseguentissimo del sistema generale
d'indifferenza derivante dalla ragione, il quale non mette diversità fra' simili
e dissimili; e noi non ci figuriamo di poter provare interesse per questi, se
non perchè l'abbiamo
1824 perduto o illanguidito per
noi e per gli uomini, e siamo in somma indifferenti a tutto. Così gli altri
esseri vengono a partecipare non del nostro interesse ma della nostra
indifferenza. Lo stesso accade {riguardo a'} nostri
simili, nella sostituzione dell'amore universale all'amor di patria. ec.
(1. Ott. 1821.). {{V. p. 1830. e
1846.}}
[1831,2] Tutte le città fuor di mano hanno qualche
particolarità di costumi, dialetto, accento, indole ecc. che le distingue sì dal
generale della nazione sì l'una dall'altra. E si trova, proporzionatamente
parlando, maggior varietà di costume scorrendo un piccolo circondario
1832 posto fuor di mano, che non si trova scorrendo da
capo a piedi un intero regno, ed anche più regni {e
nazioni,} per le vie postali. Tanto la natura è varia, e l'arte
monotona; e tanto è vero che la civilizzazione tende essenzialmente ad
uniformare. (3. Ott. 1821.).
[1952,1] Il toccar con mano che nessuno stato sociale fu nè
sarà nè può esser perfetto, cioè perfettamente equilibrato ed armonico nelle sue
forze costitutive, e nella sua ordinazione al ben essere dei popoli e
degl'individui (tutti i savi lo confessano); e che quando anche potesse esser
tale da principio, (come una monarchia, una repubblica) la stessa assoluta
essenza della società porta in se i germi della corruzione, e distrugge
immancabilmente e prestissimo questa perfezione, quest'armonia ec. ne' suoi
principii costitutivi; non è ella una prova bastante che l'uomo non è fatto per
la società, o almeno per una società stretta, e d'
1953
uomini inciviliti, e {che} questa è incompatibile con
la natura umana, e contraddittoria ne' suoi principii? Una tal società da un
lato abbisogna, dall'altro produce immancabilmente la civiltà; e la civiltà
distrugge la perfezione e l'armonia di qualunque siffatta società. Essa non può
trovarsi in natura, e frattanto, come altrove ho mostrato p. 1173
p.
1596, ella non può essere perfetta {e perfettamente
ordinata al suo fine,} che in natura e fra uomini naturali. (19.
Ott. 1821.).
[1957,2] La natura è infinitamente e diversissimamente
conformabile tutta quanta. Essa ha però disposto le cose in modo che quegli
agenti e quelle forze animali o no, che la debbono conformare, la conformino in
quella tal maniera ch'essa intendeva,
1958 e che
risponde al suo sistema, al suo disegno, al suo {primo}
piano, all'ordine da lei voluto. Se dunque l'uomo facendo evidentissimamente
violenza alla natura, e vincendo infiniti ostacoli naturali, è giunto a
conformare e se stesso, e quella parte di natura che da lui dipendeva
naturalmente, e quella molto maggiore che n'è venuta a dipendere in sola virtù
della di lui alterazione; è giunto dico a conformar tutto ciò in modo
diversissimo da quel piano, da quell'ordine, che col savio ragionamento si sopre
destinato, inteso, avuto in mira, voluto, disposto dalla natura; questa non può
essere una prova nè contro la natura, nè che la natura non abbia voluto
effettivamente quel tal ordine primitivo; nè che la perfezion delle cose, quanto
all'uomo, non si sia perduta; nè che l'andamento della nostra specie, e di
quanto ne dipende o le appartiene, sia naturale; nè che la natura non avesse
effettivamente
1959 di mira, non avesse concepito, e
con tutte le forze proccurato un ordine di cose quanto semplice ne' suoi
principii costitutivi, ne' suoi elementi, nelle sue forze produttrici, nelle sue
qualità analizzate e decomposte; tanto certo, determinato, costante, e al tempo
stesso armonico, fecondo e variatissimo ne' suoi effetti, suscettibile
d'infinite modificazioni, e soggetto anche a molte accidentali disarmonie,
sebben forse non per altro che per maggiore armonia. (20. Ott.
1821.).
[1985,1] La lingua francese è propriamente, sotto ogni
rapporto, per ogni verso, la lingua della mediocrità. {+Ella non è nè sarà mai la lingua della grandezza in
nessun genere, nè della originalità. (Qual è la lingua tali sono sempre i
sentimenti, e gli scrittori.)} E non per altra cagione, ella è oggi
universale; non per altra si adatta all'intelligenza, ed all'uso pratico de'
forestieri d'ogni genere; non per altra si adatta così bene all'uso de' meno
colti nazionali, ed è ben parlata e scritta da quasi tutti i francesi; non per
altra l'andamento, il tour di essa lingua è preferito
dalla gente comune, in tutte le lingue d'europa, a quello
della propria lingua; non per altra una donna, un cavaliere italiano
mezzanamente colto, che s'imbarazza e cade in dieci spropositi, non dico contro
la purità, ma contro la gramatica, se nello scrivere o nel parlare s'impegna in
un periodo all'italiana, riesce facilmente e scampa da ogni pericolo, usando il
periodo francese. ec. ec. Vero
1986 periodo, andamento,
genio, indole, spirito della mediocrità. Ed a che altra categoria che alla
mediocrità poteva appartenere la lingua della ragione e della società? Nè la
lingua francese sarebbe divenuta universale, e sarebbe stata così celebrata ed
esaltata sopra tutte, se non nel secolo della mediocrità cioè della ragione,
qual è il nostro; nè un tal secolo potrebbe preferire alcuna lingua alla
francese, o alcun genio ed indole di favella a quello della francese, anche
nelle proprie rispettive lingue.
[1988,1] Qualunque stile moderno ha proprietà, forza,
semplicità, nobiltà, ha sempre sapore di antico, e non par moderno, e forse
anche perciò si riprende, e volgarmente non piace. Viceversa qualunque stile
antico ha ec., tiene del moderno. Che vuol dir questo? Qual è dunque la natura
de' moderni? quale degli antichi? (25. Ott. 1821.)
[1999,2] Lo spirito, il costume della nazione francese è, fu,
e sarà precisamente moderno rispetto a ciaschedun tempo successivamente, e la
nazione francese sarà (come oggi vediamo che è) sempre considerata come il tipo,
l'esemplare,
2000 lo specchio, il giudice, il
termometro di tutto ciò ch'è moderno. La ragione si è che la nazione francese è
la più socievole di tutte, la sede della società, e non vive quasi che di
società. Ora, lasciando stare che lo spirito umano non fa progressi generali o
nazionali se non per mezzo della società, e che dove la società è maggiore per
ogni verso, quivi sono maggiori i
progressi del nostro spirito; e quella tal nazione si trova sempre, almeno
qualche passo, più innanzi delle altre, e quindi in istato più moderno;
lasciando questo, osservo che la società e la civiltà tende essenzialmente e
sempre ad uniformare. Questa tendenza non si può esercitare se non su di ciò che
esiste, e l'uniformità che deriva sempre dalla civiltà, non può trovarsi nè
considerarsi che in quello che successivamente esiste in ciaschedun tempo.
Quindi è che la nazione francese essendo sempre più
2001 d'ogni altra uniformata nelle sue parti, in virtù della eccessiva società, e
quindi civiltà di cui gode, ella non può esser mai in istato antico, perchè
altrimenti non sarebbe uniforme a se stessa. Cioè que' francesi che in ciascun
tempo esistono sono sempre uniformi tra loro, e non agli antichi, altrimenti non
sarebbero uniformi agli altri francesi contemporanei. E così ogni novità di
costumanze o di opinioni, ogni progresso dello spirito umano divien subito
comune ed universale in Francia, mercè della società che
in un attimo equilibra fra loro, e diffonde, e uniforma, e generalizza e
pareggia il tutto.
[2152,1] Di molte facoltà umane che si considerano come
naturali, o poco meno, o volute dalla natura ec., considerandole bene si vedrà,
che la natura non ne avea posto nell'uomo neppure (per dir così) la
disposizione, una disposizione cioè determinata, diretta, vicina, ma così
lontana, ch'essa non è quasi altro che possibilità. Così è. Infinite sono {e
comunissime} e giornaliere quelle facoltà umane, delle quali l'uomo
non deve alla natura, altro che la purissima possibilità di acquistarle, e contrarle. (23. Nov.
1821.).
[2204,1]
È degno di esser letto l'ultimo capo del
Κυνηγετικός di Senofonte, dove inveisce contro i sofisti,
dimostra l'utilità e necessità delle assuefazioni ed esercizi corporei vigorosi,
dice particolarmente che bisogna seguir prima di tutto la natura, (§. δ.') ec.
V. ancora il capo precedente che contiene un bell'elogio della caccia,
occupazione naturalissima e primitiva, degna veramente dell'uomo, e conducente
alla felicità naturale. (1. Dic. 1821.).
[2219,3] La disperazione è molto ma molto più piacevole della
noia. La natura ha
2220 provveduto, ha medicato tutti i
nostri mali possibili, anche i più crudeli ed estremi, anche la morte (di cui v.
i miei pensieri relativi pp. 281-83
pp. 290-93
pp.
2182-84), a tutti ha misto del bene, anzi ne l'ha fatto risultare,
l'ha congiunto all'essenza loro; a tutti i mali, dico, fuorchè alla noia. Perchè
questa è la passione la più contraria e lontana alla natura, quella a cui non
aveva non solo destinato l'uomo, ma neppur sospettato nè preveduto che vi
potesse cadere, e destinatolo e incamminatolo dirittamente a tutt'altro
possibile che a questa. Tutti i nostri mali infatti possono forse trovare i loro
analoghi negli animali: fuorchè la noia. Tanto ell'è stata proscritta dalla
natura, ed ignota a lei. Come no infatti? la morte nella vita? la morte
sensibile, il nulla nell'esistenza? {+e
il sentimento di esso, e della nullità di ciò che è, e di quegli stesso che la concepisce e
sente, e in cui sussiste?} e
morte e nulla vero, perchè le morti e distruzioni corporali, non sono altro che
trasformazioni di sostanze e e di qualità, e il fine di esse non è la morte,
2221 ma la vita perpetua della gran macchina naturale,
e perciò esse furono volute e ordinate dalla natura.
[2250,2]
Sponte sua quę se tollunt
in luminis auras, Infoecunda quidem, sed laeta
et fortia surgunt. Quippe solo natura
subest.
*
Georg. 2. 47. seqq. Parla delle
piante che nascono dove che sia, naturalmente, e crescono per loro stesse senza
coltura. {{(13. Dic. 1821.)}}
[2337,2] Volete veder come sia naturale lo stato presente
dell'uomo? Anche quello dell'agricoltore che pur conserva, tanto più che gli
altri, della natura? L'uomo presente, e già da gran tempo, vuol latte vuol biade
per cibarsi, vino per dissetarsi, lana per vestirsi, vuole uova ec. ec. Ecco
seminagioni, vigne, pecore, capre, galline, buoi per arare ec. vacche per
partorirli, e per latte ec. Ma il capro nuoce anzi distrugge la vigna; così
fanno i buoi ed alla vigna e ad ogni albero da frutto se vi si lasciano
appressare; le greggi, e gli armenti, e il
2338 pollame
ec. sterminerebbero i seminati se non si avesse infinita cura d'impedirlo; il
pollame nuoce alle stalle delle greggi, e degli armenti; i danni del porco
sarebbero infiniti ai campi e al bestiame, se non vi si avesse l'occhio ec. ec.
Insomma i bisogni che l'uomo si è fabbricati, anche i più semplici, rurali, ed
universali, e propri anche della gente più volgare e men guasta, si
contraddicono, si nocciono scambievolmente; e la cura dell'uomo non dev'esser
solo di procacciare il necessario a questi bisogni con infiniti ostacoli, ma nel
provvedere all'uno, guardare assai, perchè quella provvisione nuoce ad un altro
bisogno ec. E pure è certo che più facilmente potremo annoverar le arene del
mare di quello che trovare una sola contraddizione in qualunque di quelle cose
che la natura ha veramente e manifestamente resa necessaria, o destinata all'uso
sì dell'uomo, come di qualunque animale, vegetabile ec. (8. Gen.
1822.). {{V. p.
2389.}}
[2436,1] Il mondo, o la società umana nello stato di egoismo
(cioè di quella modificazione dell'amor proprio così chiamata) in cui si trova
presentemente, si può rassomigliare al sistema
2437
dell'aria, le cui colonne (come le chiamano i fisici) si premono l'une l'altre,
ciascuna a tutto potere, e per tutti i versi. Ma essendo le forze uguali, e
uguale l'uso delle medesime in ciascuna colonna, ne risulta l'equilibrio, e il
sistema si mantiene mediante una legge che par distruttiva, cioè una legge di
nemicizia scambievole continuamente esercitata da ciascuna colonna contro tutte,
e da tutte contro ciascuna.
[2455,1]
2455
Tῶν δὲ σωμάτων
ϑηλυνομένων
*
(si corpora effeminentur), καὶ
αἱ ψυχαὶ πολὺ ἀῤῥωστότεραι γίγνοντι
*
Socrate ap. Senofon.
Econom. c. 4. §. 2.
(3. Giugno. 1822.).
[2479,2] Molto ragionevolmente s'ammira la ritirata dei
diecimila greci, eseguita per lunghissimo tratto d'un immenso paese nemico, e
impegnato invano ad impedirla; dal core del
2480 regno,
a' suoi ultimi confini. ec. Or che si dovrà dire di una non ritirata, ma
conquista di un regno anch'esso immenso, qual era quello del
Messico, eseguita non da diecimila, ma da mille, o
poco più spagnuoli, e in tanta maggior lontananza dal loro paese, {e questa, di mare, ec.} ec.? Quanto più corre il tempo,
tanto più cresce la differenza ch'è tra uomini e uomini, e la superiorità
degl'inciviliti sui barbari. Non erano così differenti i Persiani dai greci,
benchè differentissimi, nè così inferiori, benchè sommamente inferiori, quanto i
Messicani (benchè non privi nè di leggi, nè di ordini cittadineschi e sociali,
nè di regolato governo, nè anche di scienza politica e militare ridotta a certi
principii) per rispetto degli spagnuoli. E principalmente nelle armi, i Persiani
e i greci non differivano gran cosa, laddove gli spagnuoli dai Messicani
moltissimo. E così rispettivamente nella Tattica. (16. Giugno. Domenica.
1822.).
[2558,1] Quanto gli uomini sieno allontanati dalla vera loro
natura, dalle qualità e distintivi destinati alla loro specie, l'osservo anche
nella gran differenza fisica che s'incontra fra gli uomini da individuo a
individuo. Lascio i mostri, difettosi ec. dalla nascita, o dopo la nascita, che
sono infiniti presso gli uomini; e fra qualunque genere d'animali appena se ne
troverà uno per mille dei nostri, in proporzione della numerosità della specie:
anche escludendo affatto quelli che tra gli uomini hanno contratto imperfezioni
fisiche, per cause accidentali, visibili,
2559 e se non
facili, almeno possibili ad evitarsi. Lascio gli Etiopi, gli Americani che non
avevano barba, certe differenze di costruzione negli Ottentotti, i Patagoni (se
ve n'ha), i Lapponi (che forse nascono e
vivono in un clima non destinato dalla natura alla specie umana, come a
tante altre specie d'animali, piante ec. ha negato questo o quel clima, o paese
ec. o tutti i climi e paesi, fuorchè un solo.). Tutto ciò si potrà considerare
come differenze delle varie specie tra loro, dentro uno stesso genere, nel modo
che p. e. il genere dei cani ha diversissime specie, e diverse o in uno stesso
clima, e paese, o in diversi climi destinati a tale o tal altra di esse ec.
[2677,1]
{Puoi vedere p.
3791.} Tutti gl'imperi, tutte le nazioni ch'hanno
ottenuto dominio sulle altre, da principio hanno combattuto con quelli di fuori,
co' vicini, co' nemici: poi liberati dal timore esterno, e soddisfatti
dell'ambizione e della cupidigia di dominare sugli stranieri e di possedere quel
di costoro, e saziato l'odio nazionale contro l'altre nazioni, hanno sempre
rivolto il
2678 ferro contro loro medesime, ed hanno
per lo più perduto colle guerre civili quell'impero e quella ricchezza ec. che
aveano guadagnato colle guerre esterne. Questa è cosa notissima e ripetutissima
da tutti i filosofi, istorici, politici ec. Quindi i politici romani prima e
dopo la distruzion di Cartagine, discorsero della
necessità di conservarla, e se ne discorre anche oggidì ec. L'egoismo nazionale
si tramuta allora in egoismo individuale: e tanto è vero che l'uomo è per sua
natura e per natura dell'amor proprio, nemico degli altri viventi e se-amanti;
in modo che s'anche si congiunge con alcuno di questi, lo fa per odio o per
timore degli altri, mancate le quali passioni, l'odio e il timore si rivolge
contro i compagni e i vicini. Quel ch'è successo nelle nazioni è successo ancora
nelle città, nelle corporazioni, nelle famiglie ch'hanno figurato nel mondo ec.
unite contro gli esteri, finchè questi non erano vinti, divise e discordi e
piene d'invidia ec. nel loro interno, subito sottomessi gli estranei. {+Così in ciascuna fazione di una stessa
città, dopo vinte le contrarie o la contraria. V. il proem. del lib. 7. delle Stor. del
Machiavello.} Ed
è bello a questo proposito un passo di Plutarco sulla fine del libro Come si potria
trar giovamento da' nimici (Opusc. mor. di Plut. volgarizzamento da Marcello Adriani il giovane. Opusc. 14. Fir. 1819. t. 1. p.
394.) La qual cosa ben parve che
comprendesse
2679 un saggio uomo di governo
nominato Demo, il quale,
in una civil sedizione dell'isola di Chio,
ritrovandosi dalla parte superiore, consigliava i compagni a non
cacciare della città tutti gli avversarj, ma lasciarne alcuni, acciò
(disse egli) non incominciamo a contendere con gli amici, liberati
che saremo interamente da' nimici: così questi nostri
affetti
*
(soggiunge Plutarco, cioè l'emulazione, la gelosia, e
l'invidia) consumati
contra i nimici meno turberanno gli amici.
*
{+(V.
ancora gl'Insegnamenti Civili di Plut. dove il citato Volgarizzamento p. 434. ha Onomademo in vece di Demo
{{: ὄνομα
Δῆμος.}})}
[2684,1]
2684 L'uomo sarebbe felice se le sue illusioni
giovanili {(e
fanciullesche)} fossero realtà. Queste sarebbero realtà, se
tutti gli uomini le avessero, e durassero sempre ad averle: perciocchè il
giovane d'immaginazione e di sentimento, entrando nel mondo, non si troverebbe
ingannato della sua aspettativa, nè del concetto che aveva fatto degli uomini,
ma li troverebbe e sperimenterebbe quali gli aveva immaginati. Tutti gli uomini
più o meno (secondo la differenza de' caratteri), e massime in gioventù, provano
queste tali illusioni felicitanti: è la sola società, e la conversazione
scambievole, che civilizzando e istruendo l'uomo, e assuefacendolo a riflettere
sopra se stesso, a comparare, a ragionare, disperde immancabilmente queste
illusioni, come negl'individui, così ne' popoli, e come ne' popoli, così nel
genere umano ridotto allo stato sociale. L'uomo isolato non {le} avrebbe mai perdute; ed elle son proprie del giovane in
particolare non tanto a causa del calore immaginativo, naturale a quell'età,
quanto della inesperienza, e del vivere isolato che fanno i giovani. Dunque se
l'uomo avesse continuato a vivere isolato, non avrebbe mai perdute le sue
illusioni giovanili, e tutti gli uomini le
2685
avrebbero e le conserverebbero per tutta la vita loro. Dunque esse sarebbero
realtà. Dunque l'uomo sarebbe felice. Dunque la causa originaria e continua
della infelicità umana è la società. L'uomo, secondo la natura sarebbe vissuto
isolato e fuor della società. Dunque se l'uomo vivesse secondo natura, sarebbe
felice. (Roma 1. Aprile. Martedì di Pasqua.
1823.).
[2736,1] È cosa indubitata che i giovani, almeno nel presente
stato degli uomini, dello spirito umano e delle nazioni, non solamente soffrono
più che i vecchi (dico quanto all'animo), ma eziandio (contro quello che può
parere, e che si è sempre detto e si crede comunemente), s'annoiano più che i
vecchi, e sentono molto più di questi il peso della vita, e la fatica e la pena
e la difficoltà di portarlo e di strascinarlo. E questa si è una conseguenza dei
principii posti nella mia teoria del
piacere. Perciocchè ne' giovani è
2737 più
vita o più vitalità che nei vecchi, cioè maggior sentimento dell'esistenza e di
se stesso; e dove è più vita, quivi è maggior grado di amor proprio, o maggiore
intensità e sentimento e stimolo {e vivacità} e forza
del medesimo; e dove è maggior grado o efficacia di amor proprio, quivi è
maggior desiderio e bisogno di felicità; e dove è maggior desiderio di felicità,
quivi è maggiore appetito e smania ed avidità e fame {e
bisogno} di piacere: e non trovandosi il piacere nelle cose umane è
necessario che dove n'è maggior desiderio quivi sia maggiore infelicità, ossia
maggior sentimento dell'infelicità; {quivi maggior senso di
privazione e di mancanza e di vuoto; quivi} maggior noia, maggior
fastidio della vita, maggior difficoltà e pena di sopportarla, maggior disprezzo
e noncuranza della medesima. Quindi tutte queste cose debbono essere in maggior
grado ne' giovani che ne' vecchi; siccome
2738 sono,
massime in questa presente mortificazione e monotonia della vita umana, che
contrastano colla vitalità ed energia della giovanezza; in questa mancanza di
distrazioni violente che stacchino il giovine da se medesimo, e lo tirino fuori
del suo interno; in questa impossibilità di adoperare sufficientemente la forza
vitale, di darle sfogo ed uscita dall'individuo, di versarla fuori, e
liberarsene al possibile; in somma in questo ristagno della vita al cuore e alla
mente e alle facoltà interne dell'uomo, e del giovane massimamente.
[3082,1] È cosa dimostrata e dalla ragione e dall'esperienza,
dalle storie tutte, e dalla cognizione dell'uomo, che qualunque società, e più
le civili, e massime le più civili, tendono continuamente a cadere nella
monarchia, e presto o tardi, qualunque sia la loro politica costituzione, vi
cadono inevitabilmente, e quando anche ne risorgono, poco dura il risorgimento e
poco giova, e che insomma nella società non havvi nè vi può avere stato politico
durabile se non il monarchico assoluto. È altrettanto dimostrato, e colle
medesime prove, che la monarchia assoluta, qual ch'ella sia ne' suoi principii,
qual ch'ella per effimere circostanze possa di quando in quando tornare ad
essere per pochi momenti, tende sempre e cade quasi subito e irreparabilmente
nel despotismo; perchè stante
3083 la natura dell'uomo,
anzi d'ogni vivente, è quasi fisicamente impossibile che chi ha potere assoluto
sopra i suoi simili, non ne abusi; vale a dire è impossibile che non se ne serva
più per se che per gli altri, {anzi} non trascuri
affatto gli altri per curarsi solamente di se, il che è nè più nè meno la
sostanza e la natura del despotismo, e il contrario appunto di quello che
dovrebb'essere e mai non fu nè sarà nè può essere la vera {e
buona} monarchia, ente di ragione e immaginario. Ora egli è parimente
certo, almeno lo fu per gli antichi, e lo è per tutti i savi moderni, che il
peggiore stato politico possibile {e il più contrario alla
natura} è quello del despotismo. Altrettanto certo si è che lo stato
politico influisce per modo su quello della società, e n'è tanta parte, ch'egli
è assolutamente impossibile ch'essendo cattivo quello, questo sia buono, e che
quello essendo imperfetto, questo sia perfetto, e che dove quello è pessimo, non
sia pessimo questo altresì. Or dunque lo stato
3084
politico di despotismo essendo inseparabile dallo stato di società, e più forte
e maggiore e più durevole nelle società civili, e tanto più quanto son più
civili, ricapitolando il sopraddetto, mi dica chi sa ragionare, se lo stato di
società nel genere umano può esser conforme alla natura, e se la civiltà è
perfezionamento, e se nella somma civiltà sociale e individuale si può riporre e
far consistere la vera perfezione della società e dell'uomo, e quindi la maggior
possibile felicità d'ambedue, come anche lo stato a cui l'uomo tende
naturalmente, cioè quello a cui la natura l'aveva ordinato, e la felicità e
perfezione ch'essa gli avea destinate. (2. Luglio[Agosto.] dì del Perdono. 1823.).
[3179,1] È cosa indubitata che la civiltà ha introdotto nel
genere umano mille spezie di morbi che prima di lei non si conoscevano, nè senza
lei sarebbero state; e niuna, che si sappia, n'ha sbandito, o seppur qualcuna,
così poche, e poco acerbe e poco micidiali, che sarebbe stato incomparabilmente
meglio restar con queste che cambiarle con la moltitudine, fierezza e mortalità
di quelle. (Vediamo infatti quanto poche e blande sieno le malattie spontanee
degli altri animali, massime salvatichi, cioè non corrotti da noi; e similmente
de' selvaggi, e massime de' più
3180 naturali, come i
Californii; e che anche quelle degli agricoltori sono molte più poche e rare e
men feroci che quelle de' cittadini). È parimente indubitato che la civiltà
rende l'uomo inetto a mille fatiche e sofferenze che egli avrebbe e potuto e
dovuto tollerare in natura, e suscettibilissimo d'esser danneggiato da quelle
fatiche e patimenti che, o per natura generale o per circostanze particolari,
egli è obbligato a sostenere, e che nello stato naturale avrebbe sostenuto senza
verun detrimento, e, almeno in parte, senza incomodo. È indubitato che la
civiltà debilita il corpo umano, a cui per natura (siccome a ogni altra cosa
proporzionatamente) si conviene la forza, e {il}
{quale} privo di forza, o con minor forza della sua
natura, non può essere che imperfettissimo; {+e ch'ella rende propria dell'uomo {civile} la delicatezza rispettiva di corpo, qualità che in natura
non è propria nè dell'uomo nè di veruno altro genere di cose, nè dev'esserlo
(vedi la pag. 3084.
segg. ).} È indubitato che le generazioni umane peggiorano
in quanto al corpo di mano in mano, ogni generazione più, sì per se stessa, sì
perch'ella così peggiorata non può non produrre una generazione peggior di se
ec. ec. Da tutte queste e da cento altre cose, da me altrove in diversi luoghi
considerate pp. 68-69
pp. 830-38
pp. 1597-602
pp.
1631-32, si fa più che certissimo e si tocca con mano, che i progressi
della civiltà portano seco e producono inevitabilmente il successivo
deterioramento
3181 del suo fisico,
deterioramente[deterioramento] sempre
crescente in proporzione d'essa civiltà. Nei progressi della civiltà, e non in
altro, consiste quello che i nostri filosofi, e generalmente tutti, chiamano
oggidì (e molti anche in antico) il perfezionamento dell'uomo e dello spirito
umano. È dunque dimostrato e fuori di controversia che il perfezionamento
dell'uomo include, non accidentalmente ma di necessità inevitabile, il
corrispondente e sempre proporzionato deterioramento e, per così dire,
imperfezionamento di una piccola parte di esso uomo, cioè del suo corpo: di modo
che quanto l'uomo s'avanza verso la perfezione, tanto il suo fisico cresce nella
imperfezione; e quando l'uomo sarà pienamente perfetto, il corpo umano, {generalmente parlando,} si troverà nel peggiore stato
ch'e' mai siasi trovato, e {in} che gli sia possibile
di trovarsi generalmente. Se con ciò si possa giustamente chiamare
perfezionamento, quello che oggi s'intende sotto questo nome, cioè se
l'incremento della civiltà sia perfezionamento dell'uomo, e la perfezione della
civiltà perfezione dell'uomo; se una tal perfezione ci possa essere stata
destinata dalla natura;
3182 se la nostra natura la
richiegga ed a lei tenda; se veruna natura richiegga o possa richiedere una
perfezione di questa sorta; se perciò che l'uomo è civilizzabile, e in quanto
egli è civilizzabile, ei sia, come dicono, e come stabiliscono {e dichiarano} per fuori d'ogni controversia,
perfettibile; si lascia giudicare a chiunque non è ancor tanto perfezionato,
tanto vicino all'ultima perfezione dell'uomo, ch'egli abbia perduto affatto
l'uso del raziocinio, {e non serbi neppur tanta parte del
discorso naturale quanta è} propria ancora degli altri viventi.
(17. Agosto. Domenica. 1823.).
[3613,1] Da tutte queste considerazioni risulta che
l'iliade oltre all'essere il più perfetto poema epico quanto
al disegno, in contrario di quel che generalmente si stima, lo è ancora quanto
ai caratteri principali, perchè questi sono più interessanti che negli altri
poemi. E ciò perchè sono più amabili. E sono più amabili perchè più conformi a
natura, più umani, e meno perfetti che negli altri poemi. Gli autori de' quali,
secondo la misera spiritualizzazione delle idee che da Omero in poi {hanno} prodotta
e sempre vanno accrescendo i progressi della civiltà e dell'intelletto umano,
hanno stimato che i loro Eroi dovessero eccedere il comune non nelle qualità che
natura {+mediocremente dirozzata e
indirizzata} produce {e promuove} (le quali
dalle nostre opinioni sono in gran parte e ben sovente considerate per vizi e
difetti), ma in quelle che nascono e sono nutrite dalla civiltà e dalla coltura
e dalle cognizioni e dall'esperienza
3614 e dall'uso
degli affari e della vita sociale, e dalla sapienza e saviezza, {+e dalla prudenza} e dalle massime
morali e insomma dalla ragione. Or quelle qualità sono amabili, queste
stimabili, e sovente inamabili ed anche odiose. Gli Eroi
dell'iliade sono grandi uomini secondo natura, gli eroi degli
altri poeti epici sono grandi secondo ragione; le qualità di quelli sono più
materiali, esteriori, appartenenti al corpo, sensibili; le qualità di questi
sono tutte spirituali, interiori, morali, proprie dell'animo, e che dall'animo
solo hanno ad esser concepite, {e valutate.} Dico
tutte, e voglio intender le principali, e quelle che formano propriamente e
secondo l'intenzion de' poeti, il carattere di tali Eroi; perocchè se i poeti
v'aggiunsero anche i pregi più esteriori e corporali, gli aggiunsero come
secondarii e di minor conto, e vollero e ottennero che nell'idea de' lettori
essi fossero offuscati dai pregi morali, e poco considerati a rispetto di
questi; e in verità essi son quasi dimenticati, e, come ho detto in proposito di
Enea, paion quasi fuor di luogo, e
poco convenienti con gli altri pregi, o pare fuor di luogo
3615 il farne menzione e il fermarcisi, come cose degne da esser
notate ed espresse. {Queste
considerazioni hanno tanto maggior forza in favore di Omero, e in favore della nostra opinione che vuol
che si segua il suo esempio, quanto che è natura della poesia il seguir la
natura, e vizio grandissimo e dannosissimo anzi distruttivo d'ogni buono
effetto, e contraddittorio in lei, si è il preferire alla natura la ragione.
La mutata qualità dell'idea dell'Eroe perfetto ne' poemi posteriori
all'iliade, proviene da quello stesso principio che poi
crescendo, ha resa la poesia allegorica, metafisica ec. e corrottala del
tutto, e resala non poesia, perchè divenuta seguace onninamente della
ragione, il che non può stare colla sua vera essenza, ma solo col discorso
misurato e rimato ec. Puoi vedere la p. 2944.sgg.} E sembra, ed è vero, che i poeti l'han fatto
più tosto per usanza e per conformarsi alle regole ed agli esempi, che perchè
convenisse al loro proposito e al loro intento, e perchè la natura e lo spirito
de' loro poemi e de' loro personaggi lo richiedesse, anzi lo comportasse. Or,
siccome l'uomo in ogni tempo, malgrado qualsivoglia spiritualizzazione e
qualunque alterazione della natura, sono sempre mossi {e
dominati} dalla materia assai più che dallo spirito, ne segue che i
pregi materiali e gli Eroi, dirò così, materiali dell'iliade,
riescano e sieno per sempre riuscire più amabili e quindi più interessanti degli
Eroi spirituali e de' pregi morali divisati negli altri poemi epici. E che Omero, ch'è il cantore e il
personificatore della natura, sia per vincer sempre gli altri epici, che hanno
voluto essere (qual più qual meno) i cantori e i personificatori della ragione.
(Perocchè veramente gli Eroi dell'iliade sono il tipo del
perfetto grand'uomo naturale, e quelli degli altri poemi epici
3616 del perfetto grand'uomo ragionevole, il quale in
natura e secondo natura, è forse ben sovente il più piccolo uomo).
[3643,1] Fuoco - Il suo uso è indispensabile necessità ad una
vita comoda e civile, {+1. anzi pure ai
primissimi comodi.} - Or tanto è lungi che la natura l'abbia insegnato
all'uomo, che fuor di un puro caso, e senza lunghissime e diversissime
esperienze, ei non può averlo scoperto nè concepito - E non possono neppure i
filosofi indovinare come abbia fatto l'uomo non pure ad accendere, ma a vedere e
scoprire il primo fuoco. Chi ricorre a un incendio cagionato dal fulmine, chi al
frottement reciproco de' rami degli alberi
cagionato da' venti nelle
3644 foreste, {chi a' volcani,} e chi ad altre tali ipotesi l'una
peggio dell'altra - E conosciuto il fuoco, come avrà l'uomo trovato il modo di
accenderlo sempre che gli piaceva? Senza di che e' non gli era di veruno uso. E
di estinguerlo a suo piacere? Quanto avrà egli dovuto tardare a {sapere e a} trovar tutte queste cose - Gli antichi
favoleggiavano che il fuoco fosse stato rapito al cielo e portato di lassù in
terra. Segno che l'antica tradizione dava l'invenzione del fuoco e del suo uso e
del modo di averlo, accenderlo, estinguerlo a piacere, per un'invenzione non
delle volgari, ma delle più maravigliose; e che questa invenzione non fu fatta
subito, ma dopo istituita la società, e non tanto ignorante, altrimenti ella non
avrebbe potuto dar luogo a una favola, e a una favola la quale narra che il
ratto del fuoco fu opera di chi volle beneficare la società umana ec - Non solo
la natura non ha insegnato l'uso del fuoco, nè somministrato {pure} il fuoco {agli uomini} se non a caso,
ma ello[ella] lo ha fatto eziandio formidabile,
e pericolosissimo il suo uso. E lasciando i danni morali, quanti infiniti ed
immensi danni fisici non ha fatto l'uso del fuoco sì all'altre
3645 parti della natura sì allo stesso genere umano.
Niuno de' quali avrebbe avuto luogo se l'uomo non l'avesse adoperato, e
contratto il costume di adoperarlo. Il fuoco è una di quelle materie, di quegli
agenti terribili, come l'elettricità, che la natura sembra avere studiosamente
seppellito e appartato, e rimosso dalla vista e da' sensi e dalla vita degli
animali, e dalla superficie del globo, dove essa vita e la vegetazione e la vita
totale della natura ha principalmente luogo, per non manifestarlo o lasciarlo
manifestare che nelle convulsioni degli elementi e ne' fenomeni accidentali
{{e particolari,}} com'è quello de' vulcani, che
sono fuor dell'ordine {generale} e della regola
ordinaria della natura. Tanto è lungi ch'ella abbia avuto intenzione di farne
una materia d'uso ordinario e regolare nella vita degli animali o di
qualsivoglia specie di animali, e nella superficie del globo, e di sottometterlo
all'arbitrio dell'uomo, come le frutta o l'erbe ec., e di destinarlo come
necessario alla felicità e quindi alla natural perfezione della principale
specie di esseri terrestri -
3646
Orazio
(1. od. 3.) considera l'invenzione e l'uso del fuoco come cosa tanto
ardita, e come un ardire tanto contro natura, quanto lo è la navigazione, e
l'invenzion d'essa; e come origine, principio e cagione di altrettanti mali e
morbi ec. di quanti la navigazione; e come altrettanto colpevole della
corruzione e snaturamento e indebolimento ec. della specie umana - Ma il fuoco è
necessario all'uomo anche non sociale, ed alla vita umana semplicemente. Come si
vivrebbe in Lapponia o sotto il polo, anzi pure in
Russia ec. senza il fuoco? Primieramente, rispondo
io, come dunque la natura l'ha così nascosto ec. come sopra? Come poteva ella
negare agli esseri ch'ella produceva il precisamente necessario alla vita,
all'esistenza loro? o render loro difficilissimo il procacciarselo? e
pericolosissimo l'adoperare il necessario? pericolosissimo, dico, non meno a se
stessi che altrui? Ed essendo quasi certo, secondo il già detto, che gli uomini
non hanno potuto non tardare un pezzo (più o men lungo) a scoprire il fuoco, e
più ad avvedersi che lor potesse
3647 servire ed a che,
e più a trovare il come usarlo, il come averlo al bisogno ec. e a vincere il
timore che e' dovette ispirar loro, sì naturalmente, sì per li danni che ne
avranno ben tosto provati {e certo} prima di conoscerne
{anzi pur d'immaginarne l'uso e la proprietà,} sì
ancora forse per le cagioni che lo avranno prodotto (come se fulmini o volcani o
tali fenomeni ec.), sì per gli effetti che n'avranno veduto fuor di se, come
incendi e {{struggimenti}} d'arbori, di selve ec. morti
e consunzioni e incenerimento d'animali, {o d'altri
uomini} ec. ec.; stante dico tutto questo, come avranno potuto vivere
tanti uomini, o sempre, o fino a un certo tempo, senza il necessario alla vita
loro? Secondariamente, chiunque non consideri il genere umano per più che per
una specie di animali, superiore bensì all'altre, ma una finalmente di esse;
chiunque si contenti e si degni di tener l'uomo non per il solo essere, ma per
un degli esseri, di questa terra, diverso dagli altri di specie, ma non di
genere nè totalmente, nè formante un ordine e una natura a parte, ma compreso
nell'ordine e nella natura di tutti gli altri esseri sì della terra sì di questo mondo,
3648 e partecipante delle qualità ec. degli altri, come gli altri
delle sue, e in parte conforme in parte diverso dagli altri esseri, e fornito di
qualità parte comuni parte proprie, come sono tutti gli altri esseri di questo
mondo, ed insomma avente piena e vera proporzione cogli altri esseri, e non
posto fuor d'ogni proporzione e gradazione e rispetto e attinenza e convenienza
e affinità ec. verso gli altri; chiunque non crederà che tutto il mondo {o} tutta la terra e ciascuna parte di loro sian fatte
unicamente ed espressamente per l'uomo, e che sia inutile e indegna della natura
qualunque cosa, qualunque creatura, qualunque parte o della terra o del mondo
non servisse o non potesse nè dovesse servire all'uomo, nè avesse per fine il
suo servigio; chiunque così la pensi, risponderà facilmente alla soprascritta
obbiezione. S'egli v'ha, come certo v'avrà, una specie di pianta, che rispetto
al genere de' vegetabili ed alla propria natura loro {generale,} sia di tutti i vegetabili il più perfetto, e sia la
sommità del genere vegetale, come lo è l'uomo dell'animale, non per questo
3649 seguirà nè sarà necessario ch'essa pianta nè si
trovi nè prosperi, nè debba nè pur possa prosperare nè anche allignare nè
nascere in tutti i paesi e climi della terra, nè in qualsivoglia regione de'
climi ov'ella più prospera e moltiplica, nè in qualsivoglia terreno e parte
delle regioni a lei più proprie e naturali. Così discorrasi nel genere o regno
minerale, e negli altri qualunque. Che all'uomo in società giovi la
moltiplicazione e diffusione della sua specie, o per meglio dire che alla
società giovi la moltiplicazione e propagazione della specie umana, e tanto più
quanto è maggiore, questo è altro discorso, {#1. questo suppone lo stato di società ch'io
combatto.} e certo s'inganna assai chi lo nega. Ma che la natura {medesima} abbia destinato la specie umana a tutti i
climi e paesi, e tutti i climi e paesi alla specie umana, questo è ciò che nè si
può provare, e secondo l'analogia, che sarà sempre un fortissimo, e forse il più
forte argomento di cognizione concesso all'uomo, si dimostra per falsissimo.
Niuna pianta, niun vegetale, niun minerale, niuno animale conosciuto si trova in
tutti i paesi e climi
3650 nè in tutti potrebbe vivere
e nascere, non che prosperare ec. Altre specie di vegetabili e di animali {ec.} si trovano e stanno bene in più paesi e più
diversi, altre in meno, niuna in tutti, e niuna in tanti e così vari di qualità
e di clima, in quanti e quanto vari è diffusa la specie umana. Tra la
propagazione e diffusione di questa specie e quella dell'altre non v'ha
proporzione alcuna. E notisi che la propagazione di molte specie di animali, di
piante ec. devesi {in gran parte} non alla natura, ma
all'uomo stesso, onde non avrebbe forza di provar nulla nel nostro discorso.
Molte specie che per natura non erano destinate se non se a un solo paese, o a
una sola qualità di paesi, o a paesi poco differenti, sono state dagli uomini
trasportate e stabilite in più paesi, in paesi differentissimi ec. Ciò è contro
natura, come lo è lo stabilimento della specie umana medesima in quei luoghi che
a lei non convengono. Le piante, gli animali ec. trasportate e stabilite
dall'uomo in paesi a loro non convenienti, o non ci durano, o non prosperano, o
ci degenerano, ci si trovano male ec. Gl'inconvenienti
3651 a cui le tali specie sono soggette ne' tali casi in siffatti
luoghi, sono forse da attribuirsi alla natura? e se esse in detti luoghi, pur,
benchè male, sussistono, si dee forse dire che la natura ve le abbia destinate?
e il genere di vita ch'esse sono obbligate a tenere in siffatti luoghi, o che
loro è fatto tenere, e i mezzi che impiegano a sussistere, o che s'impiegano a
farle sussistere, si debbono forse considerare come naturali, come lor propri
per loro natura? e argomentare da essi delle intenzioni della natura intorno a
dette specie?
[3676,1]
3676
Alla p. 3349.
Non è da trascurare una differenza che si trova fra il carattere, {il costume ec.} degli antichi settentrionali e abitatori
de' paesi freddi, e quel de' moderni; differenza maggior di quella che suol
trovarsi generalmente dagli antichi ai moderni. Perocchè gli antichi
settentrionali ci sono dipinti dagli storici per ferocissimi, inquietissimi,
attivissimi non solo di carattere, ma di fatto, {+per impazienti del giogo, sempre vaghi di novità, sempre
macchinanti, sempre ricalcitranti e insorgenti,} e per quasi
assolutamente indomabili e indomiti. Germani, Sciti ec. I moderni al contrario
sono così domabili, che certo niun popolo meridionale lo è altrettanto. E tanto
son lungi dalla ferocia, che non v'ha gente più buona, più mansueta, più
ubbidiente, più tollerante di loro. E se v'ha parte
d'europa dove meno si macchini, e si ricalcitri al
comando, e si desideri novità e si odi la soggezione, ciò è per l'appunto fra i
popoli settentrionali. In questa tanta diversità di effetti hanno certamente
gran parte da un lato la diversità de' governi antico e moderno, dall'altro la
poca coltura del popolo nelle regioni settentrionali. Ma grandissima parte v'ha
certamente ancora la differenza materiale della vita. Gli antichi
3677 settentrionali, mal difesi contra le inclemenze
dell'aria dalle spelonche, proccurantisi il vitto colla caccia (Georg. 3. 370. sqq.
etc.), alcuni anche erranti e senza tetto, come gli Sciti ec., erano
anche più ὑπαίθριοι di vita, che non sono i meridionali oggidì. Introdotti gli
usi e i comodi sociali, i popoli {civilizzati} del Nord
divennero naturalmente i più casalinghi della terra. Niuna cosa rende
maggiormente quiete e pacifiche sì le nazioni che gl'individui, niuna men
cupidi, anzi più nemici di novità, che la vita casalinga e le abitudini
domestiche, le quali affezionano al metodo, rendono contenti del presente ec.
come ho detto ne' pensieri citati in quello a cui questo si riferisce pp. 2752-55
pp. 2926-28. Quindi è
seguíto che non per sole circostanze passeggere e accidentali, come la maggiore
o più divulgata e comune coltura di spirito ec. ma naturalmente e costantemente,
nel sistema di vita sociale, e dopo resa la civiltà comune al nord come al sud,
i popoli del mezzogiorno, come meno casalinghi, sieno
stati, sieno, ed abbiano a essere più inquieti e più attivi di quelli del settentrione, sì d'animo, sì di fatti,
3678 al contrario di quello che porterebbe la pura
natura degli uni e degli altri comparativamente considerata. Ond'è che i
settentrionali moderni e civili sieno in verità molto più diversi e mutati da'
loro antichi, che non sono i meridionali dagli antichi loro, sì di carattere, sì
di usi, di azioni ec.
[3773,1]
3773 Vogliono che l'uomo per natura sia più sociale di
tutti gli altri viventi. Io dico che lo è men di tutti, perchè avendo più
vitalità, ha più amor proprio, e quindi necessariamente ciascun individuo umano
ha più odio verso gli altri individui sì della sua specie sì dell'altre, secondo
i principii da me in più luoghi sviluppati p. 55
pp. 872. sgg.
pp.
1078-79
pp.
1083-84
pp.
2204-206
p.
2644
pp. 2736. sgg.
p.
3291. Or qual altra qualità è più antisociale, più esclusiva per sua
natura dello spirito di società, che l'amore estremo verso se stesso, l'appetito
estremo di tirar tutto a se, e l'odio estremo verso gli altri tutti? Questi
estremi si trovano tutti nell'uomo. Queste qualità sono naturalmente nell'uomo
in assai maggior grado che in alcun'altra specie di viventi. Egli occupa nella
natura terrestre il sommo grado per queste parti, siccome generalmente egli
tiene la sommità fra gli esseri terrestri.
[3909,2]
Alla p. 3310.
Quanto influisca sempre l'immaginazione, l'opinione, la prevenzione ec.
sull'amore anche corporale, sui sentimenti che un uomo prova in particolare
verso una donna, o una donna verso un uomo, è cosa notissima. E in particolare
ha forza sull'amore, non solo platonico o sentimentale, ma eziandio corporale
verso gl'individui particolari, tutto ciò che ha del misterioso, e che serve a
rendere poco noto all'amante l'oggetto del suo amore, e quindi a dar campo alla
sua immaginazione di fabbricare, per dir così, intorno ad esso oggetto. Perciò
moltissimo contribuisce all'amore e al desiderio anche corporale, tutto ciò che
ha relazione ai pregi {+o alle qualità
comunque amabili} dell'animo nell'oggetto amabile, e in particolare un
certo carattere profondo, malinconico, sentimentale, o un mostrar di rinchiudere
in se più che non apparisce di fuori. Perocchè l'animo e le sue qualità, e
massimamente queste che ho specificate, son cose occulte, ed ignote all'altre
persone, e dan luogo in queste all'immaginare, ai concetti vaghi e
indeterminati; i quali concetti e le quali immaginazioni congiungendosi al
natural desiderio che porta l'individuo dell'un sesso verso quello dell'altro,
danno un infinito risalto a questo desiderio, accrescono strabocchevolmente
3910 il piacere che si prova nel soddisfarlo; le idee
misteriose e naturalmente indeterminate, che hanno relazione all'animo
dell'oggetto amato, che nascono dalle qualità e parti apparenti del suo spirito,
e massime se da qualità che abbiano del profondo e del nascosto e dell'incerto,
e che promettano o dimostrino {+altre lor
parti o} altre qualità occulte ed amabili ec., queste idee dico,
congiungendosi alle idee chiare e determinate che hanno relazione al materiale
dell'oggetto amato, e comunicando loro del misterioso e del vago, le rendono
infinitamente più belle, e il corpo della persona amata o amabile, infinitamente
più amabile, pregiato, desiderabile; e caro quando si ottenga.
[3921,1]
3921 Dico altrove in più luoghi p. 1382
pp. 2410-14
pp. 2736-39
pp.
3291. sgg.
pp. 3835-36
p.
3906 che gli uomini e i viventi più forti o per età o per complessione
{o per clima} o per qualunque causa, abitualmente o
attualmente o comunque, avendo più vita ec. hanno anche più amor proprio ec. e
quindi sono più infelici. Ciò è vero per una parte. Ma essi sono anche tanto più
capaci e di azion viva ed esterna, e di piaceri {forti
e} vivi. Quindi tanto più capaci di viva distrazione ed occupazione, e
di poter fortemente divertire l'operazione {interna}
dell'amor proprio e del desiderio di felicità sopra loro stessi e sul loro
animo. La qual potenza ridotta in atto è uno de' principalissimi mezzi, anzi
forse il principal mezzo di felicità o di minore infelicità conceduto ai
viventi. (Io considero quelli che si chiamano piaceri come utili e conducenti
alla felicità, solo in quanto distrazioni forti, e vivi divertimenti dell'amor
proprio, (chè infatti essi non sono utili in altro modo) e tanto più forti
distrazioni, quanto più vivi e forti sono essi piaceri, così chiamati, e
maggiore il loro essere di piacere, e la sensazion loro più viva. I deboli sono
incapaci di piaceri forti, o solo di rado e poco frequenti, e men forti sempre
che non ne provano i vigorosi, perchè la lor natura non ha la facoltà o di
sentire più che tanto vivamente, o di sentire piacevolmente quando le sensazioni
sieno più che tanto vive.) Se l'uomo forte in qualunque modo, è privo, per
qualunque cagione, di piaceri, o di piaceri abbastanza forti, e di sensazioni
vive, e di poter mettere in opera la sua facoltà di azione, o di metterla in
opera più che il debole, egli è veramente più infelice che il debole, e soffre
3922 di più. Perciò, fra le altre cose, nel
presente stato delle nazioni e quanto alla sua natura, i giovani sono
generalmente più infelici dei vecchi, e questo stato è più conveniente e buono
alla vecchiezza che alla giovanezza. L'uomo forte è meno infelice del debole in
uguali dispiaceri e dolori; più infelice s'egli è privo di piaceri, o di piaceri
più vivi {e frequenti} che non son quelli del debole.
Egli {è} più atto a soffrire, e meno atto a non godere;
o vogliamo dire men disadatto all'uno, e più disadatto all'altro.
[3936,1]
Alla p. 3927.
Non è difficile il concepire le per altro grandissime e moltiplici conseguenze
che scaturiscono da' suesposti principii, in ordine al dimostrare che la civiltà
la quale per sua natura rende l'uomo, per così dire, tutto spirito (p. 3910. segg. ), ed
accresce per conseguenza {infinitamente} la vita
propriamente detta, e l'amor proprio, accresce anche sommamente per sua natura
l'infelicità dell'uomo e della società. E similmente in mille modi trasportando
l'azione dalla materia allo spirito, l'attività, l'energia, ec. e, mettendo
mille ostacoli all'attuale ed effettiva attività corporale (i governi, i
costumi, la mancanza di bisogni, lo scemamento di forze, il gusto dello studio,
ec. ec.), e scemando il grado e la forza e la frequenza delle sensazioni,
passioni, azioni, e piaceri materiali, e la capacità di essi ec.; riconcentra
orribilmente l'amor proprio, lo rivolge tutto sopra se stesso e in se stesso,
per conseguenza l'aumenta sopra ogni credere, lo spoglia o impoverisce di
distrazione ed occupazione ec. ec. Il selvaggio e per natura del suo corpo e de'
suoi costumi e della sua società, essendo men vivo di spirito, cioè propriamente
men vivo, è meno infelice del civile, senza paragone alcuno. {+Così il villano, l'ignorante,
l'irriflessivo, l'uom duro, stupido, {è} o per
natura o per abito, inerte di mente, d'immaginazione di cuore ec. ec. a
paragone dell'uomo ec.} La civiltà aumenta a dismisura nell'uomo la
somma della vita (s'intende l'interne[interna])
scemando a proporzione l'esistenza (s'intende la vita esterna). La natura non è
vita, ma esistenza, e a questa tende, non a quella. Perocchè ella è materia, non
spirito, o la materia in essa prevale e dee prevalere allo spirito (e così
accade infatti costantemente in tutte l'altre sue parti sì animate che
inanimate, e
3937 vedesi che tale è la sua intenzione,
e che le cose sono ordinate a questo risultato universalmente e particolarmente,
secondo le loro specie e lor differenze e proporzioni scambievoli, ma nel tutto
il risultato è quello che ho detto), al contrario di ciò che accade
nell'individuo e nel genere umano civilizzato, per {propria} natura della civiltà - ec. ec. - Vedi il pensiero precedente
[p.
3935,2]. (28. Nov. 1823.). {+- Segue ancora da questi principii che la vita attiva,
come più materiale, e abbondante più di esistenza che di vita propria, la
vita ricca di sensazioni ec. è naturalmente, e secondo la natura sì propria
sì universale, più felice che la contemplativa ec. la qual è il contrario.
V. p. seg. [p. 3938,1].}
[4120,20] Non solo, come ho detto altrove p.
646, nessun secolo barbaro si credette esser tale, ma ogni secolo si
credette e si crede essere il non plus ultra dei
progressi dello spirito umano, e che le sue cognizioni, scoperte ec. e massime
la sua civilizzazione difficilmente o in niun modo possano essere superate dai
posteri, {+certo non dai passati.}
(10. Ott. Domenica. 1824.). {V. la p. 4124.} Così non
v'è nazione nè popoletto così barbaro e selvaggio che
4121 non si creda la prima delle nazioni, e il suo stato, il più
perfetto, civile, felice, e quel delle altre tanto peggiore quanto più diverso
dal proprio. V. Robertson
Stor. d'America,
Venez. 1794. t. 2. p. 126. 232-33. Così le
nazioni mezzo civili, o imperfette, anche in europa ec. E
così sempre fu. (15. Ottobre. Festa di Santa Teresa di Gesù. 1824.).
[4135,5] La società contiene ora più che mai facesse, semi di
distruzione e qualità incompatibili colla sua conservazione ed esistenza, e di
ciò è debitrice principalmente alla cognizione del vero e alla filosofia. Questa
veramente non ha fatto quasi altro, massime nella moltitudine, che insegnare e
stabilire verità negative e {non} positive, cioè
distruggere pregiudizi, insomma torre e non dare. Con che ella ha purificato gli
animi, e ridottigli quanto alle cognizioni in uno stato simile al naturale, nel
quale niuno o ben pochi esistevano dei pregiudizi che ella ha distrutto. Come
dunque può ella aver nociuto alla società? La verità, vale a dire l'assenza di
questo o di quell'errore, come può nuocere? Sia nociva la cognizione di qualche
verità che la natura ha nascosto, ma come sarà nocivo l'esser purificato da un
errore che gli uomini per natura non avevano, e che il bambino non ha? Rispondo:
l'uomo in natura non ha nemmeno società stretta. Quegli errori che non sono
necessari all'uomo nello stato naturale, possono ben essergli necessari nello
stato sociale; egli non gli aveva per natura; ciò non prova nulla; mille altre
cose egli non aveva in natura, che gli sono necessarie per conservar lo stato
sociale. Ritornare gli uomini alla condizione naturale
4136 in alcune cose, lasciandolo nel tempo stesso nella società, può
non esser buono, può esser dannosissimo, perchè quella parte della condizione
naturale può essere ripugnante allo stato di stretta società, il quale altresì
non è in natura. Non sono naturali molte medicine, ma come non sono in natura
quei morbi a cui elle rimediano, può ben essere ch'elle sieno convenienti
all'uomo, posti quei morbi. La distruzione delle illusioni, quantunque non
naturali, ha distrutto l'amor di patria, di gloria, di virtù ec. Quindi è nato,
anzi rinato, uno universale egoismo. L'egoismo è naturale, proprio dell'uomo:
tutti i fanciulli, tutti i veri selvaggi sono pretti egoisti. Ma l'egoismo è
incompatibile colla società. Questo effettivo ritorno allo stato {naturale} per questa parte, è distruttivo dello stato
sociale. Così dicasi della religione, così di mille altre cose. Conchiudo che la
filosofia la quale sgombra dalla vita umana mille errori non naturali che la
società aveva fatti nascere (e ciò naturalmente), la filosofia la quale riduce
gl'intelletti della moltitudine alla purità naturale, e l'uomo alla maniera
naturale di pensare e di agire in molte cose, può essere, ed effettivamente è,
dannosa e distruttiva della società, perchè quegli errori possono essere, ed
effettivamente sono, necessari alla sussistenza e conservazione della società,
la quale per l'addietro gli ha sempre avuti in un modo o nell'altro, e presso
tutti i popoli; e perchè quella purità e quello stato naturale, ottimi in se,
possono esser pessimi all'uomo, posta la società; e questa può non poter
sussistere in compagnia loro, o sussisterne in pessimo modo, come avviene in
fatti al presente. (18. Aprile 1825.).
[4185,1]
4185 La barbarie suppone un principio di civiltà, una
civiltà incoata, imperfetta; anzi l'include. Lo stato selvaggio puro, non è
punto barbaro. Le tribù selvagge d'America che si
distruggono scambievolmente con guerre micidiali, e si spengono altresì da se
medesime a forza di ebrietà, non fanno questo perchè sono selvagge, ma perchè
hanno un principio di civiltà, una civiltà imperfettissima e rozzissima; perchè
sono incominciate ad incivilire, insomma perchè sono barbare. Lo stato naturale
non insegna questo, e non è il loro. I loro mali provengono da un principio di
civiltà. Niente di peggio certamente, che una civiltà o incoata, o più che
matura, degenerata, corrotta. L'una è[e] l'altra
sono stati barbari, ma nè l'una nè l'altra sono stato selvaggio puro e
propriamente detto. (Bologna. 7. Luglio.
1826.).
[4265,4] Se era intenzione della natura, facendo l'uomo così
debole e disarmato, che egli provvedendo alla vita ed al ben essere suo
coll'ingegno, arrivasse allo stato di civiltà; perchè tante centinaia di nazioni
selvagge e barbare dell'America,
dell'Africa, dell'Asia
dell'Oceanica, non vi sono arrivate ancora, non hanno
fatto alcun
4266 passo per arrivarvi, e certo non vi
arriveranno mai, nè saranno mai civili in niun modo (o non sarebbero mai state),
se noi non ve li ridurremo (o non ve gli avessimo ridotti)? Le quali nazioni
sono pure una buona metà, e più, del genere umano in natura. Perchè dato ancora
che le popolazioni civili, nella somma loro, vincano di numero d'uomini la somma
delle non civili nè state mai civilizzate, questa moltitudine di quelle è
posteriore alla civilizzazione, ed effetto di essa: la quale favorisce la
moltiplicazion della specie e l'aumento della popolazione. È stata dunque la
natura così sciocca, e {così} mal provvidente, che ella
abbia missed il suo intento per più
della metà? (Recanati 30. Mar. ult. Venerdì.
1827.).
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