Trattato delle passioni, qualità umane ec.
Treatise on human passions, qualities, etc.
69,6 45,1 73,1 72,2.3 104,1 108,1 29,5 126,2 127,1 128,1 130,2 131,1 164,1 66,2 105,3 188,3 188,2 65,1 196,1 197,1 204,1 210,2 211,1 220,3 221,2 233,4 206,1 233,2 255,1 262,3 266,1 281,1 183,3 285,1 293,1 302,4 324,2 333,1 364,2 369,1 453,2 458,1 466,1 476,1 230,1 339,2 486,1 516,2 183,3 522,2 528,1 532,1 88,2 592,1 614,2 618,1.2 644,1 651,1 653,1 655,1 47,2 669,1 714,1 718,1 722,1 724,2 829,1 940,2 958,1 960,2 984,2 43,6 1017,1 1044,2 1075,2 1083,1 1164,13 1201,1 1291,1 1303,2 1305,1 1328,1 1400,1 1420,2 1431,1 1464,1 1522,1 1572,3 1589,1 1594,2 1605,1 1603,31 1648,1 1653,2 1669,2 1677,1 1723,1 1724,1 1800,2 1815,1 1816,2 1885,1 1970,2 1988,3 1998,1 2017,3 2028,2 2046,1 2107,1 2153,2 2206,1 2217,1 2242,2 2315,1 2434,2 2471,1 2491,1 v. Fato. see Fate. 2628,12 2643,1 2803,1 3107,1 3117,1 3152,1 3265,1 3271,1 3432,1 3433,1 3488,2 3497,1 3518,1 3526,1 3553,2 3604,1 3612-3 3909,2 4010,3 4014,1 4024,5 4037,6 4103,6 4105,2 4112,1.2.7? 4118,2 4194,1 4229,4 4231,2.4 4255,6 4261,2 4272,2 4277,1 4280,1 4284,1 4285,5 4286,6 4287,1 4283,2[69,6] Dev'esser cosa già notata che come l'allegrezza ci porta
a communicarci cogli altri (onde un uomo allegro diventa loquace quantunque per
ordinario sia taciturno, e s'accosta facilmente a persone che in altro tempo
avrebbe o schivate, o non facilmente trattate ec.) così la tristezza a fuggire
il consorzio altrui e rannicchiarci in noi stessi co' nostri pensieri e col
nostro dolore. Ma io osservo che questo[questa]
tendenza al dilatamento nell'allegrezza, e al ristringimento nella tristezza, si
trova anche negli atti dell'uomo occupato dall'
70 uno di
questi affetti, e come nell'allegrezza egli passeggia muove e allarga le braccia
le gambe, dimena la vita, e in certo modo si dilata col trasportarsi velocemente
qua e là, come cercando una certa ampiezza; così nella tristezza si rannicchia,
piega la testa, serra le braccia incrociate contro il petto, cammina lento, e
schiva ogni moto vivace e per così dire, largo. Ed io mi ricordo, (e l'osservai
in quell'istesso momento) che stando in alcuni pensieri o lieti o indifferenti,
mentre sedeva, al sopravvenirmi di un pensier tristo, immediatamente strinsi
l'una contro l'altra le ginocchia che erano abbandonate e in distanza, e piegai
sul petto il mento ch'era elevato.
[45,1] Soleva considerar come una pazzia quello che dicono i
Cappuccini per iscusarsi del trattar male i loro novizzi, il che fanno con gran
soddisfazione, e con intimo sentimento di piacere, cioè che anch'essi sono stati
trattati così. Ora l'esperienza mi ha mostrato che questo è un sentimento
naturale, giacch'io giunto appena {per l'età} a
svilupparmi dai legami di una penosa e strettissima educazione e tuttavia
convivendo ancora nella casa paterna con un fratello minore di parecchi anni, ma
non tanti ch'egli non fosse nel pienissimo uso di tutte le sue facoltà vizi ec.
siccome non per altro (giacchè non era punto per predilezione de' genitori) se
non perch'era mutato il genere della vita nostra che convivevamo con lui,
anch'egli partecipava non poco alla nostra larghezza, ed avea molto più comodi e
piaceruzzi che non avevamo noi in quella età, e molto meno incomodi e noie e
lacci e strettezze e gastighi, ed era perciò molto più petulante ed ardito di
noi in quell'età, perciò io ne risentiva naturalmente una verissima invidia,
cioè non di quei beni giacch'io gli avea allora, e pel tempo passato non li
potea più avere, ma mero e solo dispiacere ch'ei gli avesse, e desiderio che
fosse incomodato e tormentato come noi, ch'è la pura e legittima invidia del
pessimo genere, e io la sentiva naturalmente e senza volerla sentire, ma in
somma compresi allora (e allora appunto scrissi queste parole) che tale è la
natura umana, onde mi erano men cari quei beni ch'io aveva qualunque fossero,
perch'io li comunicava con lui, forse parendomi che non fossero più degno
termine di tanti stenti dopo che non costavano niente a un altro che si trovava
nelle mie circostanze, e con meno merito di me, ec. Quindi applico ai
Cappuccini, i quali trovando la sorte dei fratelli minori che sono i novizzi
dipendente da loro, seguono gl'impulsi di questa inclinazione che ho detto, e
non soffrono che si possano dire a se stessi essere scarso quel bene a cui son
giunti poichè altri gli acquista con assai meno travaglio di loro, nè che
abbiano a provare il dispiacere che questi tali non soffrano quegl'incomodi
ch'essi in quelle circostanze hanno sofferti.
[73,1]
73 Io non ho mai provato invidia nelle cose in cui mi son
creduto abile, come nella letteratura, dove anzi sono stato proclivissimo a
lodare. L'ho provata posso dire per la prima volta (e verso una persona a me
prossimissima) quando ho desiderato di valer qualche cosa in un genere in cui
capiva d'esser debolissimo. Ma bisogna che mi renda giustizia confessando che
questa invidia era molto indistinta e non al tutto e per tutto vile, e contraria
al mio carattere. Tuttavia mi dispiaceva assolutamente di sentire le fortune di
quella tal persona in quel tal genere, e raccontandomele essa, la trattava da
illusa, ec.
[104,1] Dopo che l'eroismo è sparito dal mondo, e in vece v'è
entrato l'universale egoismo, amicizia vera e capace di far sacrificare l'uno
amico all'altro, in persone che ancora abbiano interessi e desideri, è ben
difficilissimo. E perciò quantunque si sia sempre detto che l'uguaglianza è
l'una delle più certe fautrici dell'amicizia, io trovo oggidì meno verisimile
l'amicizia fra due giovani che fra un giovane, e un uomo di sentimento già
disingannato del mondo, e disperato della sua propria felicità. Questo non
avendo più desideri forti è capace assai più di un giovane d'unirsi ad uno che
ancora ne abbia, e concepire vivo {ed efficace}
interesse per lui, formando così un'amicizia reale e solida quando l'altro abbia
anima da corrispondergli. È[E] questa circostanza mi pare
anche più favorevole all'amicizia, che quella di due persone egualmente
disingannate, perchè non restando desideri nè interessi in veruno, non
resterebbe materia all'amicizia e questa rimarrebbe limitata alle parole e ai
sentimenti, ed esclusa dall'azione. Applicate questa osservazione al caso mio
col mio degno e singolare amico, e al non averne trovato altro {tale}, quantunque conoscessi ed amassi e fossi amato da
uomini d'ingegno e di ottimo cuore. (20 Gen. 1820.)
[108,1]
108 Vedi come la debolezza sia cosa amabilissima a
questo mondo. Se tu vedi un fanciullo che ti viene incontro con un passo
traballante e con una cert'aria d'impotenza, tu ti senti intenerire da questa
vista, e innamorare di quel fanciullo. Se tu vedi una bella donna inferma e
fievole, o se ti abbatti ad esser testimonio a qualche sforzo inutile di
qualunque donna, per la debolezza fisica del suo sesso, tu ti sentirai
commuovere, e sarai capace di prostrarti innanzi a quella debolezza e
riconoscerla per signora di te e della tua forza, e sottomettere e sacrificare
tutto te stesso all'amore e alla difesa sua. Cagione di questo effetto è la
compassione, la quale io dico che è l'unica qualità e passione umana che non
abbia nessunissima mescolanza di amor proprio. L'unica, perchè lo stesso
sacrifizio di se all'eroismo alla patria alla virtù alla persona amata, e così
qualunque altra azione la più eroica e più disinteressata (e qualunque altro
affetto il più puro) si fa sempre perchè la mente nostra trova più soddisfacente
quel sacrifizio che qualunque guadagno in quella occasione. Ed ogni qualunque
operazione dell'animo nostro ha sempre la sua certa e inevitabile origine
nell'egoismo, per quanto questo sia purificato, e quella ne sembri lontana. Ma
la compassione che nasce nell'animo nostro alla vista di uno che soffre è un
miracolo della natura che in quel punto ci fa provare un sentimento affatto
indipendente dal nostro vantaggio o piacere, e tutto relativo agli altri, senza
nessuna mescolanza di noi medesimi. E perciò appunto gli uomini compassionevoli
sono sì rari, e la pietà è posta, massimamente in questi tempi, fra le qualità
le più riguardevoli e distintive dell'uomo sensibile e virtuoso.
109 Se già la compassione non avesse qualche fondamento
nel timore di provar noi medesimi un male simile a quello che vediamo. (Perchè
l'amor proprio è sottilissimo, e s'insinua da per tutto, e si trova nascosto ne'
luoghi i più reconditi del nostro cuore, e che paiono più impenetrabili a questa
passione) Ma tu vedrai, considerando bene, che c'è una compassione spontanea,
del tutto indipendente da questo timore, e intieramente rivolta al misero.
[29,5] Un villano del territorio di
Recanati avendo portato un suo bue, già venduto, al
macellaio compratore per essere ammazzato, e questo sul punto dell'operazione,
da principio dimorò sospeso e incerto di partire o di restare, di guardare o di
torcere il viso, e finalmente avendo vinto la curiosità, e veduto stramazzare il
bue, si mise a piangere dirottamente. L'ho udito da un testimonio di vista.
[126,2] L'impressione che produce l'annunzio improvviso di una
grave sventura, non si accresce in proporzione della maggiore o minor gravità di
essa. L'uomo in quel punto la considera quasi come somma, e tutto l'impeto del
dolore si scarica sopra di essa, in maniera che non avrebbe potuto raddoppiarsi,
se la sventura annunziatagli fosse stata del doppio maggiore, voglio dire però,
se sin da principio gli fosse stata annunziata così, perchè sopravvenendo un
altro annunzio, la successione della cosa lascia luogo all'accrescimento del
dolore, sebbene neanche allora l'accrescimento sarebbe in proporzione del
raddoppiamento della sventura, perchè l'anima è già esaurita e come intorpidita
dal
127 dolore passato. Ieri in mezzo a una festa, due
fanciulli restano oppressi da una pietra caduta da un tetto. Si sparge voce che
tutti due sieno figliuoli di una stessa madre. Poi la gente si consola perchè
viene in chiaro che sono di due donne. Che altro è questo se non rallegrarsi
perchè il dolore si raddoppia veramente, essendo ugualmente grave in ambedue?
quando in una sola appresso a poco sarebbe stato lo stesso in {tutti} due i casi. E quella che tramortì all'annunzio,
non avrebbe potuto soffrir di più se la sventura per se stessa fosse stata
doppia. Prescindendo dal caso che la morte di due figli la privasse di tutta la
figliuolanza, il che muterebbe la specie della disgrazia, ed è fuor del caso. E
potrebbe anche darsi che quel solo figlio ch'ella perdè, fosse unico, laonde
questa considerazione qui non ha luogo. (16. Giugno 1820.).
[127,1] La gloria non è una passione dell'uomo primitivo
affatto e solitario, ma la prima volta che una truppa d'uomini s'unì per
uccidere qualche fiera, o per qualche altro fatto dov'ebbero mestieri dell'aiuto
scambievole, quegli che mostrò più valore, sentì dirsi bravo schiettamente e
senza adulazione da quella gente che ancora non conoscea questo vizio. La qual
parola gli piacque forte, e così egli come qualche altro spirito magnanimo che
sarà stato presente, sentirono per la prima volta il desiderio della lode. E
così
128 nacque l'amor della gloria. (18. Giugno
1820.).
[128,1] La qual passione è così propria dell'uomo in società,
e così naturale, che anche ora in tanta morte del mondo, e mancanza di ogni
sorta di eccitamenti, nondimeno i giovani sentono il bisogno di distinguersi, e
non trovando altra strada aperta come una volta, consumano le forze della loro
giovanezza, e studiano tutte le arti, e gettano la salute del corpo, e si
abbreviano la vita, non tanto per l'amor del piacere, quanto per esser notati e
invidiati, e vantarsi di vittorie vergognose, che tuttavia il mondo ora
applaude, non restando a un giovane altra maniera di far valere il suo corpo, e
procacciarsene lode, che questa. Giacchè ora pochissimo anche all'animo, ma
tuttavia all'animo resta qualche via di gloria, ma al corpo ch'è quella parte
che fa il più, e nella quale consiste per natura delle cose, il valore della
massima parte degli uomini, non resta altra strada.
[130,2] A quello che ho detto p. 128. aggiungi. Il giovane che entra nel mondo vuol
diventarci qualche cosa. Questo è un desiderio comune e certo di tutti. Ma
oggidì il giovane privato non ha altra strada a conseguirlo fuorchè quella che
ho detto, o l'altra della letteratura che rovina parimente il corpo. Così la
gloria d'oggidì è posta negli esercizi che nuocciono alla salute, in luogo che
una volta era posta nei contrarii. E così per conseguenza s'infiacchiscono
sempre più le generazioni degli uomini, e questo effetto della mancanza
d'illusioni esistenti nel mondo come
una volta, divien cagione di questa stessa mancanza, a motivo del poco vigore
secondo quello che ho detto negli altri pensieri, p. 96
p. 115 della necessità del vigor del corpo alle grandi illusioni
dell'animo. Sono poi troppo noti gli spaventosi effetti della ordinaria vita
giovanile d'oggidì, che a poco a poco ridurranno il mondo a uno spedale. Ma che
rimedio ci trovereste? Che altra occupazione resta oggi a un giovane privato, o
che altra speranza? E credete che un giovane si possa contentare di una vita
inattiva,
131 senza nessuna vista, e nessuna aspettativa
fuorchè di un'eterna monotonia, e di una noia immutabile? Anticamente la vanità
era considerata come propria delle donne, perchè anche nelle donne c'è lo stesso
desiderio di distinguersi, e ordinariamente non ne hanno avuto altro mezzo che
quello della bellezza. Quindi il loro cultus sui,
*
il
quale diceva Celso che adimi feminis non potest.
*
Ora resta intorno alla
vanità la stessa opinione, che sia propria delle donne, ma a torto, perchè è
propria degli uomini quasi egualmente, essendo anche gli uomini ridotti alla
condizione appresso a poco delle femmine, rispetto alla maniera di figurare nel
mondo, e l'uomo vecchio per la massima parte, è divenuto inutile e spregevole, e
senza vita nè piaceri nè speranze, come la donna comunemente soleva e suol
divenire, che dopo aver fatto molto parlar di se, sopravvive alla sua fama
invecchiando. (22. Giugno 1820.).
[131,1] Bisogna escludere dai sopraddetti, {i negozianti} gli agricoltori, gli artigiani, e in breve gli operai,
perchè in fatti la strage del mal costume non si manifesta altro che nelle
classi disoccupate.
[164,1] In proposito di quello che ho detto p. 108. notate come ci muova a compassione e
c'intenerisca il veder qualunque persona che nell'atto di provare un dispiacere,
una sventura, un dolore ec. dà segno della propria debolezza, e impotenza di
liberarsene. Come anche il veder maltrattare anche leggermente una persona che
non possa resistere. (11. Luglio 1820.).
[66,2] Se tu hai un nemico mortale nella tal città e vedi che
v'è sopra un temporale, ti passa pur per la mente la speranza ch'egli ne possa
restare ucciso? Or come dunque ti spaventi se quel temporale viene sopra di te,
quando la probabilità ch'egli uccida è tanto piccola che tu non ci sai neppur
fondare quella cosa che ha pur bisogno di sì poco fondamento per sorgere in noi,
dico la speranza? Lo stesso intendo dire di cento altri pericoli, i quali se in
vece fossero probabilità di bene, ci parrebbe ridicolo il porci per esse in
nessuna speranza, e pure ci poniamo per quei pericoli in timore. Tant'è: bisogna
bene che per quanto la speranza sia facile a nascere, e insussistente, il timore
lo sia di più. Ma questa riflessione mi pare molto atta a temperarlo. {{Il timore è dunque più fecondo d'illusioni che la
speranza.}}
[105,3] Come nella speranza o in qualunque altra disposizione
dell'animo nostro, il bene lontano è sempre maggiore del presente, così per
l'ordinario nel timore è più terribile il male.
[188,3] Così il bene come il male aspettato sono
ordinariamente più grandi che il bene o il male presente. La cagione di tutte
due le cose è la stessa, cioè l'immaginazione determinata dall'amor proprio
occupato nel primo caso dalla speranza, nel secondo dal timore.
[188,2] Nessun dolore cagionato da nessuna sventura, è
paragonabile a quello che cagiona una disgrazia grave e irrimediabile, la quale
sentiamo ch'è venuta da noi, e che potevamo schivarla, in somma al pentimento
vivo e vero.
[65,1] Diceva una volta mia madre a Pietrino che piangeva per una
cannuccia gittatagli per la finestra da Luigi: non piangere, non piangere che a ogni modo ce l'avrei
gittata io. E quegli si consolava perchè anche in altro caso l'avrebbe
perduta. Osservazioni intorno a questo effetto comunissimo negli uomini, e a
quell'altro suo affine, cioè che noi ci consoliamo e ci diamo pace quando ci
persuadiamo che quel bene non era in nostra balìa d'ottenerlo, nè quel male di
schivarlo, e però cerchiamo di persuadercene, e non potendo, siamo disperati,
quantunque il male in tutti i modi si rimanga lo stesso. {{v. p.
188.}}
{{v. a questo proposito il Manuale di Epitteto.}}
[196,1]
Alla p. 164.
pensiero primo, aggiungi. Se tu vedi un fanciullo, una donna, un
vecchio affaticarsi impotentemente per qualche operazione in cui la loro
debolezza impedisca loro di riuscire, è impossibile che tu non ti muova a
compassione, e non proccuri, potendo, d'aiutarli. E se tu vedi che tu dai
incomodo {o dispiacere} ec. ad uno il quale soffre
senza poterlo impedire, sei di marmo, o di una irriflessione bestiale, se ti dà
il cuore di continuare.
[197,1] Dice Diogene Laerzio di Chilone che προσέταττε... ἰσχυρὸν ὄντα πρᾷον εἶναι ὅπως οἱ πλησίον αἰδῶνται μᾶλλον
ἢ ϕοβῶνται
*
. E questo precetto si deve estendere,
massimamente oggidì in tanta propagazione dell'egoismo, a tutti i vantaggi
particolari di cui l'individuo può godere. Perchè se tu sei bello non ti resta
altro mezzo per non essere odiosissimo agli uomini che un'affabilità
particolare, e come una certa noncuranza di te stesso, che plachi l'amor proprio
altrui offeso dall'avvantaggio che tu hai sopra di loro, o anche
dall'uguaglianza. Così se tu sei ricco, dotto, potente ec. Quanto maggiore è
l'avvantaggio che tu hai sopra gli altri, tanto più per fuggir l'odio, t'è
necessaria una maggiore amabilità, e quasi dimenticanza e disprezzo di te stesso
in faccia agli altri, perchè tu devi medicare una cagione d'odio che tu hai in
te stesso e che gli altri non hanno: una cagione assoluta, che ti fa odioso per
se sola, senza che tu sia nè ingiusto nè superbo nè ec. Ed era questa una cosa
notissima agli antichi, tanto persuasi della odiosità dei vantaggi individuali,
che ne credevano invidiosi gli stessi dei, e nella prosperità avevano cura
dell'invidiam deprecari tanto divina che umana, e
quindi un
198 seguito non interrotto di felicità li
rendeva paurosi di gravi sciagure. V. Frontone
de Bello Parthico.
(4. Agosto 1820.). {{v. p. 453. capoverso
ult.}}
[204,1] In proposito di quello che ho detto p. 197. io so di una donna desiderosa
di concepire che bastonava fieramente una cavalla pregna, dicendo, tu gravida
e io no. L'invidia e l'odio altrui per le felicità che hanno, cade
ordinariamente sopra quei beni che noi desideriamo di avere e non abbiamo, o de'
quali vorremmo esser gli unici o i principali possessori ed esempi. Sopra gli
altri beni non è cosa ordinaria l'invidia, ancorchè sieno beni grandissimi. Del
resto quantunque l'invidia riguardi per lo più i nostri simili, coi quali
solamente sogliamo entrare in competenza, nondimeno si vede che il furore di
questa passione può condurre all'invidia e all'odio anche delle altre cose.
(10. Agosto 1820.).
[210,2] Come l'amore così l'odio si rivolge principalmente
sopra i nostri simili, nè si desidera mai così intensamente {la vendetta di} una bestia come {di} un
nemico. E notate: quando altri ci abbia fatto del male non volendo, tuttavia il
risentimento che
211 ne proviamo è maggiore che per una
bestia la quale volendo ci abbia fatto un maggior male.
[211,1]
Alla p. 196
capoverso primo, aggiungi. Ci commuove molto più una rondinella che
vede strapparsi i suoi figli, e si travaglia impotentemente a difenderli, di
quello che una tigre, o altra tal fiera nello stesso caso. {+V. Virg.
Georg. 4. Qualis populea moerens
philomela sub umbra
*
ec.}
[220,3] La compassione spesso è fonte di amore, ma quando cade
sopra oggetti amabili o per se stessi, o in modo che aggiunta la compassione lo
possano divenire. E questa è la compassione che interessa e dura e si riaffaccia
più volte all'anima. Maggiori calamità in un oggetto anche innocentissimo ma non
amabile, come in persona vecchia e brutta, non destano che una compassione
passeggera, la quale
221 finisce ordinariamente colla
presenza dell'oggetto, o dell'immagine che ce ne fanno i racconti ec. {(E l'anima non se ne compiace, e non la richiama.)} I
quali ancora bisogna che sieno ben vivi ed efficaci per commuoverci
momentaneamente, laddove poche parole bastano per farci compatire una giovane e
bella, ancorchè non conosciuta, al semplice racconto della sua disgrazia. Perciò
Socrate sarà
sempre più ammirato che compianto, ed è un pessimo soggetto per tragedia. E
peccherebbe grandemente quel romanziere che fingesse dei brutti sventurati. Così
il poeta ec. Il quale ancora in qualsivoglia caso o genere di poesia, si deve
ben guardare dal dar sospetto ch'egli sia brutto, perchè nel leggere una bella
poesia noi subito ci figuriamo un bel poeta. E quel contrasto ci sarebbe
disgustosissimo. Molto più s'egli parla di se, delle sue sventure, de' suoi
amori sfortunati, come il Petrarca
ec.
[221,2] Quella tal compassione che ho detto per oggetti non
amabili, si rassomiglia molto e partecipa del ribrezzo, come se noi vediamo
tormentare una bestia ec. E perciò a destarla ci vogliono grandi calamità,
altrimenti la compassione per li piccoli mali di quei tali oggetti, appena, o
forse neppur si desta negli stessi animi ben fatti. (21. Agosto
1820.).
[233,4] La compassione come è determinata in gran parte dalla
bellezza rispetto ai nostri simili, così anche rispetto agli altri animali,
quando noi li vediamo soffrire. Che poi oltre la bellezza, una grande e somma
origine di compassione sia la differenza
234 del sesso,
è cosa troppo evidente, quando anche l'amore non ci prenda nessuna parte. P. e.
ci sono molte sventure reali e tuttavia ridicole, delle quali vedrete sempre
ridere molto più quella parte degli spettatori che è dello stesso sesso col
paziente, di quello che faccia o sia disposta o inclinata a fare l'altra parte,
massimamente se questa è composta di donne, perchè l'uomo com'è più profondo nei
suoi sentimenti, così è molto più duro e brutale nelle sue insensibilità e
irriflessioni. E questo, tanto nel caso della bellezza, quanto della bruttezza o
mediocrità del paziente. Del resto è così vero che le piccole sventure dei non
belli non ci commuovono quasi affatto, che bene spesso siamo inclinati a
riderne.
[206,1]
Cleobulo dice Diog.
Laerz.
συνεβούλευε... γυναικὶ
*
{(uxori)}
μὴ ϕιλοϕρονεῖσϑαι μηδὲ μάχεσϑαι ἀλλοτρίων παρόντον∙ τὸ
μὲν γὰρ ἄνοιαν, τὸ δὲ μανίαν σημαίνει
*
.
{{V. p. 233.}}
[233,2] Al capoverso
primo della p. 206. aggiungi: Et si elles
*
(les
Françoises) ont un amant, elles ont autant de soin
de ne pas {donner} à l'heureux mortel des
marques de prédilection en public, qu'un Anglois du bon ton de ne
pas paroître amoureux {de sa femme} en
compagnie.
*
Morgan,
France. t.
1. 1818. p. 253. liv. 3.
[255,1] L'allegria bene spesso è madre di benignità e
d'indulgenza, al contrario delle cure e dei mali umori. Questa è cosa nota e
osservata, sicchè non mi fermerò a cercarne la ragione, ch'è facile a trovare.
Ma solamente considererò l'armonia della natura, la quale mirando sempre alla
felicità degli esseri, e per conseguenza l'allegria nel sistema naturale dovendo
essere la condizione più frequente della vita, ha voluto che fosse compagna
della piacevolezza verso i suoi simili, virtù somma nella società, e per
conseguenza che l'allegria fosse utile non solo all'individuo, ma anche agli
altri, e servisse alla società, e rendesse l'uomo verso altrui, tale quale
dev'essere.
[262,3] Lo spavento e il terrore sebbene di un grado maggior
del timore, contuttociò bene spesso sono molto meno vili, anzi talvolta non
contengono nessuna viltà: e possono cadere anche negli uomini perfettamente
coraggiosi, al contrario del timore. P. e. lo spavento che cagiona l'aspetto di
una vita infelicissima o noiosissima e lunga, che ci aspetti ec. {{Lo spavento degli spiriti, così puerile esso, e fondato
in opinione così puerile, è stato (ed ancora è) comune ad uomini
coraggiosissimi. V. la p.
531, e 535.}}
[266,1] Le passioni e i sentimenti dell'uomo si può dire che
da principio stessero nella superficie, poi si rannicchiassero nel fondo più
cupo dell'anima, e finalmente siano venuti e rimasti nel mezzo. Perchè l'uomo
naturale, sebbene sensibilissimo, tuttavia si può dire che abbia le sue passioni
nella superficie, sfogandole con ogni sorta di azioni esterne, suggerite e
volute dalla natura per aprire una strada alla soverchia foga ed impeto del
sentimento, il quale appunto perchè violentissimo nel dimostrarsi, e perchè
richiamato {subito} al di fuori, dopo un grand'empito
esterno, presto veniva meno, {se bene fosse molto più
frequente.} L'uomo non più naturale, ma che tuttavia conserva un poco
di natura, risentendo tutta o quasi tutta la forza della passione, come l'uomo
primitivo, la contiene tutta al di dentro, non ne dà segni se non leggeri ed
equivoci, e però il sentimento si rannicchia tutto nel profondo, ed acquista
maggior forza e durevolezza, e se il sentimento è doloroso, non avendo lo sfogo
voluto dalla natura, diventa capace anche di uccidere o di tormentare più o
meno, secondo la qualità sua e dell'individuo. Di queste persone si trovano
anche oggidì,
267 perchè, tolto qualche parte del volgo,
nessuno conserva tanta natura da lasciar tutta la passione lanciarsi alla
superficie (eccetto in alcuni casi eccessivi, dove la natura trionfa); ma molti
ne hanno quanto basta per sentirla vivamente, e poterla provare contenuta e
chiusa nel fondo dell'animo. Tuttavia è certo che questi tali appartengono ad
un'epoca di mezza natura, a quel tempo in cui la vera sensibilità non era nè
così ordinaria nelle parole, nè così straordinaria nel fatto, come
presentemente. L'uomo perfettamente moderno, non prova quasi mai passione o
sentimento che si lanci all'esterno o si rannicchi nell'interno, ma {quasi} tutte le sue passioni si contengono per così dire
nel mezzo del suo animo, vale a dire che non lo commuovono se non mediocremente,
gli lasciano il libero esercizio di tutte le sue facoltà naturali, abitudini ec.
In maniera che la massima parte della sua vita si passa nell'indifferenza e
conseguentemente nella noia, mancando d'impressioni forti e straordinarie.
Esempio. Un amico o persona desiderata che ritorni dopo lungo tempo, o che
vediate per la prima volta. Il fanciullo e l'uomo selvaggio l'abbraccerà, lo
carezzerà, salterà, darà mille segni esterni di quella gioia che l'anima
veramente e vivamente; segni non fallaci, ma verissimi
268 e naturalissimi. L'uomo di sentimento, senza gesti nè moti forti, lo prenderà
per la mano, o al più l'abbraccerà lentamente, e resterà qualche tempo in questo
abbracciamento, o in altra positura, non dando segno della gioia che prova se
non colla immobilità della persona e dello sguardo, e forse con qualche lacrima,
{e mentre il di dentro è diversissimo, il di fuori sarà
quasi quello di prima.} L'uomo ordinario, o l'uomo di sentimento
affievolito e intorpidito dall'esperienza del mondo, e dalla misera cognizione
delle cose, {insomma l'uomo moderno,} conserverà di
dentro e di fuori il suo stato giornaliero, non proverà emozione se non piccola,
minore ancora di quello che forse si aspettava, ed o che lo prevedesse o no,
quello sarà per lui un avvenimento ordinario della vita, uno di quei piaceri che
si gustano con indifferenza, e che appena arrivati, quando anche voi lo
desideraste ansiosamente, vi par freddo e ordinario e incapace di riempiervi o
di scuotervi. V. p. 270 capoverso 1.
[281,1] Quell'usignuolo di cui dice Virgilio
nell'episodio d'Orfeo, che
accovacciato su d'un ramo, va piangendo tutta notte i suoi figli rapiti, e colla
miserabile sua canzone, esprime un dolor profondo, continuo, ed
acerbissimo, senza moti di vendetta, senza cercare riparo al suo male, senza
proccurar di ritrovare il perduto ec. è compassionevolissimo, a cagione di
quell'impotenza ch'esprime, secondo quello che ho detto in altri pensieri. p.
108
p.
164
p. 196
p.
211.
[183,3] La speranza non abbandona mai l'uomo in quanto alla
natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano stoltamente quelli che
dicono (gli autori
della Morale
universelle
t. 3.) che il suicidio non possa seguire
senza una specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla
speranza ec. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice {e naturale,} ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare,
e a vivere, ed è contrarissimo alla ragione, la quale ci mostra troppo chiaro
che non v'è speranza nessuna per noi. (23. Luglio 1820.).
[285,1] La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei,
non abbandona l'uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la più diametralmente
contraria ad essa speranza, e la più decisiva. (18. 8.bre
1820.).
[293,1] Ho detto altrove; {(p.
55).} domandate piacere ad uno, che non vi si possa
fare senza incorrere nell'odio di un altro ec. La cagione di questo è che l'odio
è passione, la gratitudine ragione e dovere, eccetto il caso che il benefizio
produca l'amore passione, giacchè questa non si può dubitare che spesso non sia
più efficace ed attiva dell'odio e di tutte le altre. Ma la semplice gratitudine
è tutta relativa ad altrui, laddove l'amore passione, benchè sembri, non è tale,
ma è fondata sommamente nell'amor proprio, giacchè si ama quell'oggetto come
cosa che c'interessa, ci piace, e la nostra persona entra in questo affetto per
grandissima parte. Ma la ragione non è mai efficace come la passione. Sentite i
filosofi. Bisogna fare che l'uomo si muova per la ragione come, anzi più assai
che per la passione, anzi si muova per la sola ragione e dovere. Bubbole. La
natura degli uomini e delle cose, può ben
294 esser
corrotta, ma non corretta. E se lasciassimo fare alla natura, le cose andrebbero
benissimo, non ostante la detta superiorità della passione sulla ragione. Non
bisogna estinguer la passione colla ragione, ma convertir la ragione in
passione; fare che il dovere la virtù l'eroismo ec. diventino passioni. Tali
sono per natura. Tali erano presso gli antichi, e le cose andavano molto meglio.
Ma quando la sola passione del mondo è l'egoismo, allora si ha ben ragione di
gridar contro la passione. Ma come spegner l'egoismo colla ragione che n'è la
nutrice, dissipando le illusioni? E senza ciò, l'uomo privo di passioni, non si
muoverebbe per loro, ma neanche per la ragione, perche[perchè] le cose son fatte così, e non si possono cambiare, che la
ragione non è forza viva nè motrice, e l'uomo non farà altro che divenirne
indolente, inattivo, immobile, indifferente, infingardo, com'è divenuto in
grandissima parte. (22. 8.bre 1820.).
[302,4]
Une
résistance inutile (aux malheurs) retarde l'habitude qu'elle (l'ame)
contracteroit avec son état. Il faut céder aux malheurs. Renvoyez-les à
la patience: c'est à elle seule à les adoucir.
*
303
La même, ibid. p. 88.
(5 Nov. 1820.)
[324,2]
Demetrio Falereo
τῶν τετυϕωμένων
ἀνδρῶν ἔϕη τὸ μὲν ὕψος δεῖν περιαιρεῖν, τὸ δὲ ϕρόνημα
καταλιπεῖν
*
. (Laerz in
Demetr. l. 5. seg. 82.) Cioè, hominum fastu
turgidorum aiebat circumcidi oportere altitudinem, opinionem autem de se
relinquere
*
. Così l'interprete benissimo. Scioccamente Merico Casaubono nella nota ad alcune
parole dello stesso segm. poco addietro.
[333,1] La natura può supplire e supplisce alla ragione
infinite volte, ma la ragione alla natura non mai, neanche quando sembra
produrre delle grandi azioni: cosa assai rara: ma anche allora la forza
impellente e movente, non è della ragione ma della natura. Al contrario togliete
le forze somministrate dalla natura, e la ragione sarà sempre inoperosa e
impotente.
[364,2] Quegli stessi che credono grave, o maggiore che non è,
ogni leggera malattia che loro sopravviene, caduti in qualche malattia grave o
mortale, la credono leggera, o minore che non è. E la cagione d'ambedue le cose
è la codardia che gli sforza a temere dove non è timore, e a sperare dove non è
speranza.
[369,1] Non è forse cosa che tanto promuova l'attività e
l'impazienza di ottenere il fine che si desidera, quanto l'incertezza di
ottenerlo, quando però questo vi prema, e l'idea di non ottenerlo vi attristi.
Non {già} solamente perchè l'incertezza, obbliga
all'azione (laddove la certezza può dar luogo alla pigrizia) in quanto un fine
incerto domanda maggior cura per ottenerlo. Ma quando anche non domandi maggior
cura, il che può ben accadere (perchè un fine può esser certo, posta però una
grande attività per conseguirlo) e indipendentemente affatto dall'utilità e dal
bisogno delle cure, tu sarai attivissimo e impazientissimo di ottenerlo, per
questo solo che tu non puoi sopportare quell'incertezza, e che tu spasimi di
liberarti dall'angustia che ti deriva dal dubbio di non riuscire ad un fine che
tu desideri grandemente. Angustia alla quale forse preferirai la certezza di non
poterlo conseguire. Anche materialmente m'{è} accaduto
più volte di dubitare se alcuni miei sforzi corporali avrebbero potuto ottenere
un fine che
370 mi premeva, e perciò raddoppiarli
impazientemente, sebbene altri mi consigliava di riposare {perchè la dilazione non faceva alcun danno.} Ma io non poteva
sostere[sostenere] l'incertezza di una cosa
che m'importava, laddove se non avessi dubitato non avrei avuto difficoltà di
aspettare. E così la stessa mia impazienza poteva pregiudicare al fine,
togliendomi il riposo necessario ec. Così nel comporre ec. Parimenti se tu devi
compire una tale operazione in un dato spazio, e temi di non riuscirvi,
l'impazienza e la sollecitudine tua non cresce in ragione del bisogno, ma ben da
vantaggio, e, s'è possibile, tu vieni a capo dell'opera prima del termine
prefisso. (1. Dec. 1820.). {{V. p. 712.
capoverso 2.
}}
[453,2] Quale idea avessero gli antichi della felicità (e
quindi dell'infelicità) dell'uomo in questa vita, della sua gloria, delle sue
imprese; e come tutto ciò paresse loro solido e reale,
454 si può arguire anche da questo, che delle grandi felicità ed imprese umane,
ne credevano invidiosi gli stessi Dei, e temevano perciò l'invidia loro, ed era
lor cura in tali casi deprecari la divina invidia, in
maniera che stimavano anche fortuna, e (se ben mi ricordo) si proccuravano
espressamente qualche leggero male, per dare soddisfazione agli Dei, e mitigare
l'invidia loro pp. 197-98. Deos immortales precatus est, ut, si
quis eorum invideret operibus ac fortunae suae, in ipsum potius
saevirent, quam in remp.
*
Velleio I. c. 10. di Paolo Emilio. E così avvenne
essendogli morti due figli, l'uno 4 giorni avanti il suo trionfo, e l'altro 3
giorni dopo esso trionfo. E v. quivi le note Variorum.
V. pure Dionigi Alicarnasseo l. 12. c. 20. e 23. edizione
di Milano, e la nota del Mai al c. 20. V. ancora questi pensieri
p. 197. fine. Così importanti
stimavano gli antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle
divine operazioni altri fini che i nostri, mettevano i dei in comunione della
nostra vita e de' nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre
felicità ed imprese, come i nostri simili,
455 non
dubitando ch'elle non fossero degne della invidia degl'immortali. (23.
Dic. 1820.). {{V. p. 494. capoverso
1.}}
[458,1] Quanta parte abbia nell'uomo il timore più della
speranza si deduce anche da questo, che la {stessa}
speranza è madre di timore, tanto che gli animi meno inclinati a temere, e più
forti, sono resi timidi dalla speranza, massime s'ella è notabile. E l'uomo non
può quasi sperare senza temere, e tanto più quanto la speranza è maggiore. Chi
spera teme, e il disperato non teme nulla. Ma viceversa la speranza non
459 deriva dal timore, {+benchè chi teme speri sempre
che il soggetto del suo timore non si verifichi.}
(26. Dic. 1820.). {{Osservate che la passione
direttamente opposta al timore, è la speranza. E nondimeno ella non può
sussistere senza produrre il suo contrario.}}
[466,1]
466 Sopra ogni dolore d'ogni sventura si può riposare,
fuorchè sopra il pentimento. Nel pentimento non c'è riposo nè pace, e perciò è
la maggiore o la più acerba di tutte le disgrazie, come ho detto in altri
pensieri p. 65
p.
188. (2. Gen. 1821.)
{{V. p. 476. capoverso 1.}}
[476,1]
Alla p. 466.
pensiero 1. Quippe ita se res habet, ut plerumque, qui
fortunam mutaturus Deus,
*
(Voss. leg. cui
fortunam. al. delent τὸ qui, et melius)
consilia corrumpat,
efficiatq., quod miserrimum est, ut quod accidit, etiam merito accidisse videatur,
et casus in culpam transeat.
*
Velleio II. 118. sect. 4.
(6. Gen. 1821.)
[230,1]
230 Dice il Casa (Galateo c. 3.) che non è dicevol costume, quando ad alcuno vien veduto per via, come
occorre alle volte, cosa stomachevole, il rivolgersi a' compagni, e
mostrarla loro. E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa
puzzolente, come alcuni soglion fare, con grandissima istanza pure
accostandocela al naso, e dicendo: Deh sentite di grazia come questo
pute.
*
Non solo dunque il piacere che si prova, ma
anche alcuni incomodi {+(oltre i dolori delle sventure ec.)} si vogliono quasi
per naturale inclinazione partecipare agli altri, e questa partecipazione ci
diletta, e ci dà pena il non conseguirla. Ne inferirai che dunque l'uomo è fatto
per vivere in società. Ma io dico anzi che questa inclinazione o desiderio,
benchè paia naturale, è un effetto della società, bensì effetto prontissimo e
facile, perchè si dimostra anche ne' fanciulli, e forse più spesso che negli
adulti. V. p. 208.
e 85. fine.
(4. Settembre 1820.).
[339,2] Alla inclinazione degli uomini di partecipare altrui
il piacere e il dolore, notata in altri pensieri, p. 85-86
p.
230
pp. 266-68 si dee riferire in gran parte la smania (attribuita
principalmente alle donne, e propria soprattutto de' fanciulli, insomma degli
uomini più leggeri e naturali) di rivelare il segreto
340 o la cosa che si dovrebbe, e spesso anche d'altronde si vorrebbe tener
nascosta, di raccontar subito una nuova, una cosa scoperta, un piacere un timore
un dolore una noia provata ec. e tutta la loquacità che appartiene al riferire,
(20. Nov. 1820.)
{{o al dir quello che si pensa nel momento, o si è pensato
ec. come i fanciulli non si possono tenere di ciarlare su qualunque
soggetto.}}
[486,1]
486 Il {desiderio di} mettere
gli altri a parte delle proprie sensazioni (o piacevoli o dispiacevoli come ho
detto in altri pensieri pp. 85-86
p. 230
pp. 266-68
p. 339
p.
393) si può notare massimamente, ed ha tanto maggior forza quanto
ciascun individuo è più vicino alla natura. I fanciulli non lo possono frenare
in nessun modo, tanto che per amore, per preghiere, o per forza d'importunità,
487 non communichino ai circostanti, o a quelli
ch'essi vanno a cercare a posta, quei piaceri, quei dispiaceri, in somma quelle
sensazioni notabili, e per loro alquanto straordinarie, che hanno sperimentato o
sperimentano; come udendo una buona o cattiva musica, o suono o canto di
qualunque sorta, che li colpisca: vedendo qualunque oggetto che faccia loro
impressione ec. e tanto in bene quanto in male. Gli uomini poi più rozzi e
ignoranti e incolti, e generalmente il volgo, non si può tenere che in simili
circostanze, non gridi al vicino, vedi vedi, senti
senti. E questa esclamazione è così naturale che anche in una
gran moltitudine presente allo stesso spettacolo ec. tutti o moltissimi
esclameranno lo stesso, senza o essere ascoltati da nessuno in particolare, o
anche curarsi precisamente di farsi udire da questo o da quello. Ma nessuno si
può tenere dall'esclamare in quel modo, dando evidente indizio della
inclinazione naturale che li porta al desiderio e voglia di partecipare. E
osservate che questa esclamazione si pronunzia bene spesso anche
488 nella solitudine e senza nessuno uditore, quando
l'uomo provi simili sensazioni in tal circostanza: e noi diciamo vedi e senti
quando anche non c'è chi possa vedere o sentire, e cerchiamo così in tutti i
modi di soddisfare illusoriamente una voglia che non può essere soddisfatta
realmente. E sebben questo accade tanto più, quanto l'individuo tiene del
primitivo, e tanto più frequentemente, quanto più spesso egli è suscettibile di
maravigliarsi, o di provar sensazioni forti e vive; contuttociò è
frequentissimo anche negli uomini più colti ec. e basterebbe fare attenzione per
vedere quanto spesso ci avvenga nella giornata senza che noi ce ne accorgiamo.
Ci avvenga, dico, o in solitudine {e fra noi stessi,} o
in compagnia. Ed io non credo che vi sia uomo sì taciturno, e nemico del
parlare, del conversare, e del communicarsi
altrui, che provando una sensazione straordinariamente forte e viva,
non sia costretto {quasi} suo malgrado, o senza
riflessione, e senza avvedersene, a prorompere in simili esclamazioni, dinotanti
il desiderio e l'intenzione di communicare e far parte altrui di ciò ch'egli
prova. (10. Gen. 1821.).
[516,2] Oltre la compassione, si può notare come indipendente
affatto dall'amor proprio, un altro moto naturale, che sebbene somiglia alla
compassione, non per ciò è la stessa cosa. Ed è quella certa sensibilissima pena
che noi proviamo nel vedere p. e. un fanciullo fare una cosa la quale noi
sappiamo che gli farà male: un uomo che si esponga a un manifesto pericolo; una
persona vicina a cadere in qualche precipizio, senz'avvedersene.
517 E simili. Questo dei mali non ancora accaduti.
Allora proviamo ancora un'assoluta necessità d'impedirlo, se possiamo, e se no
una pena assai maggiore. Certo è che il veder uno che si fa male o sta per
soffrire, o volontariamente, o non sapendo ec. il vederlo, e non impedirlo, o
non sentirsi accorare non potendo, è contro natura. Nell'atto dei mali
parimente, vedendo qualcuno cadere ec. ancorchè quel male non sia degli orribili
e stomachevoli all'apparenza, contuttociò ne proviamo naturalmente e indeliberatamente gran pena. E chi
osserverà bene, questi moti sono distinti dalla compassione, la quale vien
dietro al male, e non lo precede, o accompagna. Anche nelle cose inanimate, o
negli esseri d'altra specie dalla nostra, vedendo a perire, o in pericolo di
perire o guastarsi, un oggetto bello, prezioso, raro, {utile,
e} che so io, un animale ec. proviamo lo stesso sentimento doloroso,
la stessa necessità di esclamare,
d'impedirlo potendo. ec. E ciò, quantunque quella cosa
518 non appartenga a veruno in particolare, e la sua perdita o guasto non
danneggi nessuno in particolare. Così che quel sentimento dispiacevole che noi
proviamo allora, si riferisce immediatamente all'oggetto paziente, forse ancora
quand'esso abbia un possessore, e che questo c'interessi. Dicono che la donna è
ben forte, quando può vedere a rompere la sua porcellana senza turbarsi. Ma non
solamente le donne; anche gli uomini; e non solamente nelle cose proprie, anche
nelle altrui, o comuni, o di nessuno, purch'elle sieno di un certo conto,
provano nei detti casi la detta sensazione, indipendentemente dalla volontà. La
radice di questo sentimento non par che si possa trovare nell'amor proprio. Par
che la natura nostra abbia una certa cura di ciò ch'è degno di considerazione, e
una certa ripugnanza a vederlo perire, sebbene affatto alieno da noi pp.
108-109. {v. la p. seguente
[p. 519,1].} L'orrore della distruzione
(il quale si potrebbe in ultima analisi riportare all'amor proprio) non par che
519 abbia parte in questo, almeno principalmente.
Noi vediamo perire {tuttogiorno} senza ripugnanza, o
cura d'impedirlo, mille cose di cui non facciamo conto. (17. Gen.
1821.)
[183,3] La speranza non abbandona mai l'uomo in quanto alla
natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano stoltamente quelli che
dicono (gli autori
della Morale
universelle
t. 3.) che il suicidio non possa seguire
senza una specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla
speranza ec. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice {e naturale,} ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare,
e a vivere, ed è contrarissimo alla ragione, la quale ci mostra troppo chiaro
che non v'è speranza nessuna per noi. (23. Luglio 1820.).
[522,2]
Nisi quod magnae indolis
signum est, sperare
523 semper.
*
Floro IV. 8.
[528,1] Come i piaceri così anche i dolori sono molto più
grandi nello stato primitivo e nella fanciullezza, che nella nostra età e
condizione. E ciò per le stesse ragioni per le quali è maggiore il diletto.
Primieramente (massime ne' fanciulli) manca l'assuefazione al bene e al male. Il
bene dunque e il male dev'essere molto più sensibile ed energico relativamente
all'animo loro, che al nostro. Poi (e questo è il punto principale, e comune a
tutti gli uomini naturali) il dolore, la disgrazia ec. nel fanciullo, e nel
primitivo, sopravviene all'opinione della felicità possibile, o anche presente;
contrasta vivissimamente coll'aspetto del bene, creduto e reale e grande, del
bene o già provato, o sperato con ferma speranza, o veduto attualmente negli
altri; è l'opposto e la privazione di quella felicità che si crede vera,
importante, possibilissima, anzi destinata all'uomo, posseduta dagli altri,
529 e che sarebbe posseduta da noi, se quell'ostacolo
non ce l'impedisse, o per ora, o per sempre. Ed anche l'idea del male assoluto,
cioè indipendentemente dalla comparazione del bene, è forse maggiore in natura,
che nello stato di civiltà e di sapere.
[532,1]
Quid dulcius, quam
habere, quicum omnia audeas sic loqui, ut tecum? Quis esset tantus
fructus in prosperis rebus, nisi haberes, qui illis aeque, ac tu ipse,
gauderet?
*
Cic.
{Lael. sive} de
Amicitia. Cap. 6. (20. Gen. 1821.).
[88,2]
Les habitans du midi
craignant beaucoup la mort, l'on s'étonne d'y trouver des institutions
qui la rappellent à ce point; mais il est dans la nature d'aimer à se
livrer a[à] l'idée même que l'on
redoute. Il y a comme un enivrement de tristesse qui fait à l'ame le
bien de la remplir tout entière
*
. Corinne. l. 10. ch. 1 t. 2. p. 115. edizione cit. {qui dietro}.
89 A
questo proposito si può notare quella indistinta e pur vera voglia che noi
proviamo avendo p. e. in mano una cosa fetente di sentirne fuggitivamente
l'odore. Così se ti abbatti a passare, poniamo, per un luogo dove si faccia
giustizia, tu senti ribrezzo di quella esecuzione, e pure io metto pegno che non
ti puoi tenere che non alzi gli occhi per vederla così di sfuggita, e poi
rivolgerli immediatamente altrove. {+V. a tal
proposito un luogo notabile di Platone, opp. ed. Astii, t. 4. p. 236. lin.
8-16.} E così di ogni cosa che ci faccia ribrezzo, così se
tu hai corso un pericolo che ti spaventi, ti si stringe il cuore in pensarci,
non hai forza di fermarti in quel pensiero di quel momento di quel caso di
quella vicinanza della morte ec. ma neanche hai forza di cacciarlo, anzi bisogna
pur che tra il volere e il non volere ci lasci andare un'occhiata. Similmente se
ti si affaccia qualche pensiero che ti addolori, la ricordanza di qualche {cosa} che ti faccia vergognare teco stesso ec. La
ragione di questo effetto non è certo quell'inebbriamento che dice la Staël, e nemmeno la curiosità come può
vedere chiunque ci faccia un poco di considerazione. Piuttosto direi che
quell'ignoto ci fa più pena che il noto, e siccome quell'oggetto ci spaventa
{o ci abbrividisce} o ci attrista, non sappiamo
lasciarlo stare così intatto, e anche con ribrezzo, abbiamo pure una certa
voglia di dargli una tal quale squadrata che ce lo faccia conoscere alquanto.
Forse anche, e così credo, proviene dall'amore dello straordinario, e odio
naturale della monotonia e della noia ch'è ingenito in tutti gli uomini, e
offrendosi un oggetto che rompe questa monotonia, ed esce dell'ordine comune,
quantunque ci paia
90 più grave assai della noia, di cui
forse anche, in quel punto non ci accorgiamo e non abbiamo nessun pensiero, pur
troviamo un certo piacere in quella scossa in quell'agitazione, che ci produce
la vista fuggitiva di esso oggetto. La quale spiegazione si ravvicina a quella
della Staël, giacchè la noia non è
altro che il vuoto dell'anima {ch'è} riempito, come
ella dice da quel pensiero, e occupato intieramente per quel punto. E in fine
può anche derivare, e penso che almeno in parte derivi dallo stesso timore che
abbiamo di quel pensiero, per la ragione che in tutte le cose fisiche e morali,
il voler troppo intensamente e il timore di non conseguire, distorna le nostre
azioni dal loro fine, e il mettersi ad un'operazione di mano p. e. chirurgica
con troppa intenzion d'animo e timore di non riuscire, la manda a male, e nelle
lettere, o belle arti, il cercar la semplicità con troppa cura, e paura di non
trovarla, la fa perdere ec.
[592,1] Della nostra naturale inclinazione di partecipare agli
altri le nostre alquanto straordinarie sensazioni o piacevoli o dispiacevoli, v.
un luogo insigne di Cic. (Lael. sive de
Amicit.
{tutto il} c. 23.) il qual passo, io credo
che sia stata la prima fonte di questa osservazione, tanto familiare e nota ai
moderni. (31 Gen. 1821.)
[614,2] È cosa notabile come l'uomo sommamente sventurato, o
scoraggito della vita, e deposta già e complorata la speranza della propria felicità, ma non perciò ridotto a
quella disperazione che non si acquieta se non colla morte; naturalmente, e
senza veruno sforzo sia portato a servire e beneficar gli altri, anche quelli
che o gli sono del tutto indifferenti, o anche odiosi. E non già per vigore di
eroismo, chè l'uomo in tale stato non è capace di nessun vigore d'animo; ma in
certo modo, come non avendo più interesse nè speranza per te, trasporti
l'interesse e la speranza agli affari altrui, e così cerchi di riempiere l'animo
tuo, di occuparlo, e di rendergli i due sopraddetti sentimenti, cioè cura di
qualche cosa, {ossia scopo,} e speranza, senza
615 i quali la vita non è vita, non si conosce, manca
del senso di se stessa. Il fatto sta che quando l'uomo si trova in tali
circostanze, cioè disperato in maniera, non da odiarsi, (ch'è la ferocia della
disperazione) ma da noncurarsi, e metter se stesso fuori della sfera de' suoi
pensieri; non solo prova compiacenza nel servir gli altri, ma prende anche per
gli affari loro (ancorchè, come ho detto di persone indifferenti) una certa
affezione, un certo impegno, un desiderio ec. tutto languido bensì, perchè
l'animo suo non è più capace di sentimento vivo e forte, ma pur tale, ch'egli
non è stato mai animato verso {il bene altrui} così
sensibilmente. E ciò accade anche appena l'uomo si riduce alla detta condizione,
così che avviene in lui come un cangiamento improvviso: ed accade anche negli
uomini stati infetti di egoismo. In somma la persona degli altri sottentra
nell'animo suo, quasi intieramente, alla persona propria, ch'è sparita, e messa
in non cale e per perduta, come quella che non può più sperare, e non è più
capace della felicità, senza cui la vita manca del suo fine, e scopo. E il
desiderio e la cura
616 e la speranza della felicità,
che non possono più diriggersi alla felicità propria, riconosciuta impossibile,
e nel cercar la quale sarebbero vane, e quindi non più sufficienti all'animo
umano; si rivolgono alla felicità altrui: e ciò spontaneamente, e senz'ombra di
eroismo. E l'animo dell'uomo che mancatogli lo scopo della felicità, è
moralmente morto, risorge a una languida vita, ma tuttavia risorge e vive in
altrui, cioè nello scopo dell'altrui felicità, divenuto lo scopo suo. Come quei
corpi di sangue corrotto e malsano, e quindi incapaci di vita, che alcuni medici
spogliavano {(o proponevano di spogliare)} del sangue
proprio, e restituivano ad una certa salute, colla introduzione del sangue
altrui, o di qualche animale; quasi cangiando la persona, e trasformando quella
che non poteva più vivere, in un'altra capace di vita: e così conservando la
vita di una persona, per se stessa inetta a vivere.
[644,1] Non c'è forse persona tanto indifferente per te, la
quale salutandoti nel partire per qualunque luogo, o lasciarti in qualsivoglia
maniera, e dicendoti, non ci rivedremo mai più,
per poco d'anima che tu abbia, non {ti} commuova, non
ti produca una sensazione più o meno trista. L'orrore e il timore che l'uomo ha,
per una parte, del nulla, per l'altra, dell'eterno, si manifesta da per tutto, e quel mai più non si può udire senza un certo senso. Gli
effetti naturali bisogna ricercarli nelle persone naturali, e non ancora, o
poco, o quanto meno si possa, alterate. Tali sono i fanciulli: quasi l'unico
soggetto dove si possano esplorare, {notare,} e
notomizzare oggidì, le qualità, le inclinazioni, gli affetti veramente naturali.
Io dunque da fanciullo aveva questo costume. Vedendo partire una persona,
quantunque a me indifferentissima, considerava
645 se
era possibile o probabile ch'io la rivedessi mai. Se io giudicava di no, me le
poneva intorno a riguardarla, ascoltarla, e simili cose, e la seguiva o cogli
occhi o cogli orecchi quanto più poteva, rivolgendo sempre fra me stesso, e
addentrandomi nell'animo, e sviluppandomi alla mente questo pensiero: ecco l'ultima volta, non lo vedrò mai più, o, forse mai
più. E così la morte di qualcuno ch'io conoscessi, e non mi avesse mai
interessato in vita, mi dava una certa pena, non tanto per lui, o perch'egli mi
interessasse allora dopo morte, ma per questa considerazione ch'io ruminava
profondamente: è partito per sempre - per sempre? sì:
tutto è finito rispetto a lui: non lo vedrò mai più: e nessuna cosa sua
avrà più niente di comune colla mia vita. E mi poneva a
riandare, s'io poteva, l'ultima volta ch'io l'aveva o veduto, o ascoltato ec. e
mi doleva di non avere allora saputo che fosse l'ultima volta, e di non
646 essermi regolato secondo questo pensiero. (11.
Feb. 1821.).
[651,1]
La
curiosité est une connoissance commencée, qui vous fait aller plus loin
et plus vîte dans le chemin de la vérité.
*
Mme de Lambert, lieu cité ci-dessus, p. 72.
Non intendo pienamente il sentimento della marchesa, ma il fatto è questo. La
curiosità o il desiderio di conoscere, non è per la massima parte, se non
l'effetto della conoscenza. Esaminate la natura, e
652
vedrete quanto la curiosità sia piccola, leggera e debole nell'uomo primitivo;
come non gli cada mai nella testa il desiderio di saper quelle cose che non gli
appartengono, o che sono state nascoste dalla natura (p. e. le cose fisiche,
astronomiche ec. le origini i destini dell'uomo, degli animali, delle piante,
del mondo); com'egli sia incapace d'intraprendere qualche seria operazione per
informarsi di cosa veruna, e molto meno di cosa difficile a conoscersi (e queste
sono appunto quelle che non si dovevano conoscere, e l'ignoranza delle quali,
basta alla felicità dell'uomo, ancorchè informato di altre cose facili ed
ovvie). Piuttosto l'immaginazione sua supplisce, e gli fa credere di sapere una
causa, che realmente non è quella ec. In somma non è niente vero, che l'uomo sia
portato irresistibilmente verso la verità e la cognizione. La curiosità, qual è
oggidì, e da gran tempo, è una di quelle qualità corrotte, con uno sviluppo e un
andamento non dovuto, come tante altre qualità, passioni ec. buone ed utili,
anzi necessarie in
653 quel grado che la natura aveva
dato loro, ma pessime e mortifere, quando sono passate ad altri gradi, e
sviluppatesi più del dovere, e modificatesi diversamente. Così che sebbene
queste qualità e passioni sieno naturali in radice, ed umane, non perciò sono
naturali, quali si trovano oggidì, nè dal loro stato presente si deve giudicare
della natura e costituzione dell'uomo, nè dedurne intorno ai nostri destini
quelle conseguenze che se ne deducono. (13. Feb. 1821.). {{V. p. 657. capoverso 1.}}
[653,1]
Les femmes apprennent volontiers l'Italien,
qui me paroît dangereux, c'est la langue de l'Amour. Les Auteurs
Italiens sont peu châtiés; il règne dans leurs ouvrages un jeu de mots,
une imagination sans règle, qui s'oppose à la justesse de
l'esprit.
*
Mme Lambert, lieu cité ci-dessus, p. 73 - 74.
(13. Feb. 1821.).
[655,1]
Examinez votre caractère, et mettez à profit vos défauts; il n'y en a
point qui ne tienne à quelques vertus, et qui ne les favorise. La Morale
n'a pas pour objet de détruire la nature, mais de la
perfectionner.
*
Mme Lambert, Avis d'une Mère a sa fille,
lieu cité ci-dessus, p.
84. E segue mostrando con parecchi esempi, come ciascuna
656 imperfezione conduca, serva, e quasi racchiuda
qualche virtù, conchiudendo: Il n'y a pas une
foiblesse, dont, si vous voulez, la vertu ne puisse faire quelque
usage.
*
ib. p. citée. Da
queste osservazioni fatte anche da molti altri, si può dedurre una verità molto
generale ed importante, cioè con quanto leggere modificazioni quelle qualità
umane che si chiamano viziose, e si presumono vizi naturali e inerenti, si
riducano e si trovino, non esser altro che buone e giovevoli qualità, e come in
origine e nella prima costituzione dell'uomo fosse buono ancor quello che ora
pare essenzialmente e primitivamente cattivo, perciocchè essendosi facilmente
corrotte quelle prime qualità naturali, e distoltesi dal loro fine, e non
conoscendosi più a qual buon fine potessero esser destinate; la depravazione
nostra ch'è opera dell'uomo, si prende per vizio naturale ed innato; e si
confonde il mal uso delle qualità che si chiamano naturali, col buon uso a cui
la natura le aveva destinate, e che ora non si scuopre più facilmente.
657 In somma da tutto ciò si conferma la dottrina della
perfezione naturale, e primitiva dell'uomo, considerando come sieno
originalmente buone {anche} quelle qualità, che per una
parte si hanno per naturali ed innate, e sono; per l'altra, si hanno per
naturalmente cattive, e non sono: ma questo errore fa che la natura si creda
viziosa, e bisognosa della ragione. La qual ragione, anch'essa, abbiamo
spessissimo dimostrato ch'è un sommo vizio, e contuttociò ell'è innata. Ma tal
quale era innata, non era vizio; bensì è vizio tal quale ella si trova, ed è
adoperata oggidì. (14. Feb. 1821.).
[47,2] Si suol dire che la resistenza stimola e dà forze di
compire, e condurre a fine quello che si è tentato. Ora io soggiungo che
spessissimo se io senza resistenza avrei fatto dieci, sopraggiunta la resistenza
farò quindici e venti. E questo spesso di assoluta e determinata volontà, non
già per soprabbondanza meccanica degli effetti della forza impiegata maggiore
del bisognevole per la resistenza incontrata, e non contrappesata diligentemente
alla resistenza, come se io voglio spingere una cosa da un luogo all'altro,
provo che {non} cede alla prima spinta, accresco la
forza, e questa me la caccia più lontano ch'io non voleva. Ma dico per
deliberata volontà. p. e. do una spinta e non giova, un'altra e non fa, la terza
parimente, alla fine mi piglia la rabbia, acchiappo la cosa colle mani, {e} la strascino molto più in là ch'io non voleva prima
ch'ella andasse, e volendo ch'ella stia dove dee, bisogna che la riporti {indietro} al luogo conveniente, e così fo. E la distanza
alla quale l'ho portata è spesso più che doppia ed anche tripla di quella a cui
la voleva spingere. Questo accade perch'io allora non considero più e non ho per
fine della mia azione, di farla andare in quel tal luogo, ma propriamente di
vincere e vendicare quella resistenza, e mostrare la superiorità del mio volere
e della mia forza sopra il suo volere e la sua forza, la quale tanto più si
dimostra, e la vendetta e la vittoria è tanto maggiore quanto io la porto più
lontano, e insomma volti allora a quel fine miriamo alla perfezione di esso che
così si conseguisce, e perciò non c'importa che veniamo a nuocere a quel primo
fine del quale effettivamente in quel punto siamo dimenticati. Applico ora
questo caso fisico ai morali.
[669,1]
L'orgueil nous sépare de la société: notre
amour-propre nous donne un rang à part qui nous est toujours
disputé: l'estime de soi-même qui se fait trop sentir est presque
toujours punie par le mépris universel.
*
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans
ses oeuvres complètes
citées ci-dessus, (p. 633), p.
99. fine. Così è naturalmente nella società, così porta la natura di
questa istituzione umana, la quale essendo diretta al comun bene e piacere, non
sussiste veramente, se l'individuo non accomuna
670 più
o meno cogli altri la sua stima, i suoi interessi, i suoi fini, pensieri,
opinioni, sentimenti ed affetti, inclinazioni, ed azioni; e se tutto questo non
è diretto se non a se stesso. Quanto più si trova nell'individuo il se stesso, tanto meno esiste veramente
la società. Così se l'egoismo è intero, la società non esiste se non di nome.
Perchè ciascuno individuo non avendo per fine se non se medesimo, non curando
affatto il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta al bene o
piacere altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società a parte, ed
intera, e perfettamente distinta, giacchè è perfettamente distinto il suo fine;
e così il mondo torna qual era da principio, e innanzi all'origine della
società, la quale resta sciolta quanto al fatto e alla sostanza, e quanto alla
ragione ed essenza sua. Perciò l'egoismo è sempre stata la peste della società,
e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata
671 la
condizione della società; e quindi tanto peggiori essenzialmente quelle
istituzioni che maggiormente lo favoriscono o direttamente o indirettamente,
come fa soprattutto il dispotismo. (Sotto il quale stato la
Francia, era divenuta la patria del più pestifero
egoismo, mitigato assai dalla rivoluzione, non ostante gl'immensi suoi danni,
come è stato osservato da tutti i filosofi.) L'egoismo è inseparabile dall'uomo,
cioè l'amor proprio, ma per egoismo, s'intende più propriamente un amor proprio
mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli
che derivano dall'eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall'onore, dall'amicizia
ec. Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità, e per
universalità; e quando a motivo e dell'intensità, e massime dell'universalità si
è levata la maschera (la quale non serve più a nasconderlo, perchè troppo vivo,
e perchè tutti sono animati dallo stesso sentimento), allora la natura del
commercio sociale (sia relativo alla conversazione,
672
sia generalmente alla vita) cangia quasi intieramente. Perchè ciascuno pensando
per se (tanto per sua propria inclinazione, quanto perchè nessun altro vi pensa
più, e perchè il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano tutti
i riguardi, l'uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell'altro;
gl'individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra più o meno
aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme; il più forte sotto qualunque
riguardo, la vince; il cedere agli altri qualsivoglia cosa, {o per creanza, o per virtù, onore ec.} è inutile, dannoso e pazzo,
perchè gli altri non ti son grati, non ti rendono nulla, e di quanto tu cedi
loro, o di quella minore resistenza che opponi loro, profittano in loro
vantaggio solamente, e quindi in danno tuo. E così, per togliere un esempio dal
passo cit. di Mad. di Lambert, si vede
nel fatto che oggidì, il disprezzo degli altri, e la stima aperta e ostentata di
se stesso, non solamente non è più così dannosa come
673
una volta, ma bene spesso è necessaria, e chi non sa farne uso non guadagna
nulla in questo mondo presente. Perchè gli altri non sono disposti ad accordarti
{spontaneamente, e in forza del vero, e del merito}
nulla, come di nessuna altra cosa, così neanche di stima, e bisogna quindi che
tu la conquisti come per forza, e con guerra aperta e ostilmente, mostrandoti
persuasissimo del tuo merito, ad onta di chicchessia, disprezzando e calpestando
gli altri, deridendoli, profittando d'ogni menomo loro difetto, rinfacciandolo
loro, non perdonando nulla agli altri, cercando in somma di abbassarli e di
renderteli inferiori, o nella conversazione o dovunque con tutti i mezzi più
forti. Che se oggidì ti vuoi procacciare la stima degli altri, col rispetto,
buona maniera verso loro, col lusingare il loro amor proprio, dissimulare i loro
difetti ec. e quanto a te, colla modestia, col silenzio ec. ti succede tutto
l'opposto. Essi profittano di te {e de' tuoi riguardi verso
loro,} per innalzarsi, e della tua poca resistenza {quanto a te,} per deprimerti. Quello che concedi
674 loro, l'adoprano in loro mero vantaggio, e danno tuo; quello che
non ti arroghi o non pretendi, o quel merito che tu dissimuli, te lo negano e
tolgono, per vederti inferiore ec. Così, nel modo che ho detto, ritornano
effettivamente nel mondo i costumi selvaggi, {e} di
quella prima età, quando la società non esistendo, ciascuno era amico di se
solo, e nemico di tutti gli altri esseri o dissimili o simili suoi, in quanto si
opponevano a qualunque suo menomo interesse o desiderio, o in quanto egli poteva
godere a spese loro. Costumi che nello stato di società son barbari, perchè
distruttivi della società, e contrari direttamente all'essenza ragione, e scopo
suo. Quindi si veda quanto sia vero, che lo stato presente del mondo, è
propriamente barbare[barbarie], o vicino alla
barbarie quanto mai fosse. Ogni così detta società dominata dall'egoismo
individuale, è barbara, e barbara della maggior barbarie. (17. Feb.
1821.).
[714,1]
714 Spesse volte il troppo o l'eccesso è padre del
nulla. Avvertono anche i dialettici che quello che prova troppo non prova
niente. Ma questa proprietà dell'eccesso si può notare ordinariamente nella
vita. L'eccesso delle sensazioni o la soprabbondanza loro, si converte in
insensibilità. Ella produce l'indolenza e l'inazione, anzi l'abito ancora
dell'inattività negl'individui e ne' popoli; e vedi in questo proposito quello
che ho notato con Mad. di Staël, Floro ec. p. 620 fine - 625 principio. Il poeta nel colmo
dell'entusiasmo, della passione ec. non è poeta, cioè non è in grado di poetare.
All'aspetto della natura, mentre tutta l'anima sua è occupata dall'immagine
dell'infinito, mentre le idee segli affollano al pensiero, egli non è capace di
distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna: in somma non è capace di nulla,
nè di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni: dico nessun frutto o di
considerazione e di massima, ovvero di uso e di scrittura; di teoria nè di
pratica. L'infinito non si
715 può esprimere se non
quando non si sente: bensì dopo sentito: e quando i sommi poeti scrivevano
quelle cose che ci destano le ammirabili sensazioni dell'infinito, l'animo loro
non era occupato da veruna sensazione infinita; e dipingendo l'infinito non lo
sentiva. {I sommi dolori corporali non si sentono, perchè o
fanno svenire, o uccidono.} Il sommo dolore non si sente,
cioè finattanto ch'egli è sommo; ma la sua proprietà, e[è] di render l'uomo attonito; confondergli, sommergergli,
oscurargli l'animo in guisa, ch'egli non conosce nè se stesso, nè la passione
che prova, nè l'oggetto di essa; rimane immobile, e senza azione esteriore, nè
{si può dire}, interiore. E perciò i sommi dolori
non si sentono nei primi momenti, nè tutti interi, ma nel successo dello spazio
e de' momenti, e per parti, come ho detto p. 366. - 368. Anzi non solo il sommo dolore, ma ogni somma passione,
ed anche ogni sensazione, ancorchè non somma, tuttavia tanto straordinaria, e,
per qualunque verso, grande, che l'animo nostro non sia capace di contenerla
716 tutta intera simultaneamente. Così sarebbe anche la
somma gioia.
[718,1] L'uomo d'immaginazione di sentimento e di entusiasmo,
privo della bellezza del corpo, è verso la natura appresso a poco quello ch'è
verso l'amata un amante ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell'amore.
Egli si slancia fervidamente verso la natura, ne sente profondissimamente tutta
la forza, tutto l'incanto, tutte le attrattive, tutta la bellezza, l'ama con
ogni trasporto, ma quasi che egli non fosse punto corrisposto, sente ch'egli non
è partecipe di questo bello che ama ed ammira, si vede fuor della sfera della
bellezza, come l'amante
719 escluso dal cuore, dalle
tenerezze, dalle compagnie dell'amata. Nella considerazione e nel sentimento
della natura e del bello, il ritorno sopra se stesso gli è sempre penoso. Egli
sente subito e continuamente che quel bello, quella cosa ch'egli ammira ed ama e
sente, non gli appartiene. Egli prova quello stesso dolore che si prova nel
considerare o nel vedere l'amata nelle braccia di un altro, o innamorata di un
altro, e del tutto noncurante di voi. Egli sente quasi che il bello e la natura
non è fatta per lui, ma per altri (e questi, cosa molto più acerba a
considerare, meno degni di lui, anzi indegnissimi del godimento del bello e
della natura, incapaci di sentirla e di conoscerla ec.): e prova quello stesso
disgusto e finissimo dolore di un povero affamato, che vede altri cibarsi
dilicatamente, largamente, e saporitamente, senza speranza nessuna di poter mai
gustare altrettanto. Egli insomma
720 si vede e conosce
{escluso senza speranza, e} non partecipe dei
favori di quella divinità che non solamente, ma gli è anzi così presente così
vicina, ch'egli la sente come dentro se stesso, e vi s'immedesima, dico la
bellezza astratta, e la natura. (5. Marzo 1821.).
[722,1] Lo sventurato non bello, e maggiormente se vecchio,
potrà esser compatito, ma difficilmente pianto. Così nelle tragedie, ne' poemi,
ne' romanzi ec. come nella vita. (6. Marzo 1821.)
[724,2] L'uomo è così inclinato alla lode, che anche in quelle
cose dov'egli non ha mai nè cercato nè curato di esser lodevole, e ch'egli stima
di nessun pregio, ancora in queste l'esser lodato lo compiace. Anzi spesso lo
indurrà a cercar di rialzare presso se stesso il pregio e l'opinione di quella
tal cosa minima nella quale è stato lodato; e a persuadersi che essa, o l'essere
lodevole in essa, non sia del tutto minimo nell'opinione altrui. (7. Marzo
1821.).
[829,1] La ingiuria eccita in tutti gli animi il desiderio di
vederla punita, {ma} negli alti il desiderio di
punirla. (20. Marzo 1821).
[940,2] Quello che ho detto in parecchi pensieri della
compassione che eccita la debolezza p. 108
p. 164
p. 196
p. 211
p.
234
p. 281, si deve considerare massimamente in quelli che sono forti, e
che sentono in quel momento la loro forza, e ne' quali questo sentimento
contrasta coll'aspetto della debolezza o impotenza di quel tale oggetto amabile
o compassionevole: amabilità che in
941 questo caso
deriva dalla sorgente della compassione, quantunque quel tale oggetto in quel
punto non soffra, o non abbia mai sofferto, nè provato il danno della sua
debolezza. Al qual proposito si ha una sentenza {o
documento} de' Bardi Britanni rinchiusa in certi versi che suonano
così: Il soffrire con pazienza e magnanimità, è
indizio sicuro di coraggio e d'anima sublime; e l'abusare della
propria forza è segno di codarda ferocia
*
. (Annali di
Scienze e Lettere l. cit. di sopra (p. 932.) p. 378.) L'uomo forte ma nel tempo
stesso magnanimo, deriva senza sforzo e naturalmente dal sentimento della sua
forza un sentimento di compassione per l'altrui debolezza, e quindi anche una certa inclinazione ad amare, e {una
certa facoltà di sentire l'amabilità,} trovare amabile un oggetto,
maggiore che gli altri. Ed egli suol sempre soffrire con pazienza dai
deboli, piuttosto che soverchiarli, ancorchè giustamente. (13. Aprile
1821).
[958,1] Una delle principali cagioni per cui l'infelicità
rende l'uomo inetto al fare, e lo debilita e snerva, onde l'infelicità toglie la
forza, non è altra se non che l'infelicità debilità[debilita] l'amor di se stesso. E intendo massimamente della
infelicità grave e lunga. La quale col continuo contrasto che oppone all'amor di
se stesso che era nel paziente, {colla battaglia
ostinatissima e fortissima che gli fa,} e coll'obbligarlo ad uno stato
contrario del tutto a quello ch'è scopo, oggetto e desiderio di questo amore,
finalmente illanguidisce questo amore, rende l'uomo meno tenero di se stesso,
siccome avvezzo a sentirsi infelice malgrado gli sforzi che ci opponeva. Anzi
una tale infelicità, se non riduce l'uomo alla disperazion viva, e al suicidio o
all'odio di se stesso {ch'è il sommo grado, e la somma
intensità dell'amor proprio in tali circostanze,} lo deve ridurre per
necessità ad uno stato opposto, cioè alla freddezza e indifferenza verso se
stesso; giacchè s'egli continuasse ad essere così infiammato verso se medesimo,
com'era da principio, in che modo potrebbe sopportare la vita, o contentarsi di
sopravvivere, vedendo e sentendo sempre infelice questo oggetto del suo sommo
amore, e di tutta la sua vita sotto tutti i rispetti?
[960,2] Le sopraddette considerazioni possono portare ad una
gran generalità, e semplicizzare l'idea che abbiamo del sistema delle cose
umane, {o la teoria dell'uomo,} facendo conoscere come
sotto tutti i riguardi, ed in tutte le circostanze possibili della vita, agisca
quell'unico principio ch'è l'amor proprio, e come tutti gli effetti della vita
umana sieno proporzionati alla maggiore o minor forza, maggiore o minor
debolezza, e diversa direzione di quel solo movente: per quanto i detti effetti
si presentino a prima vista, come derivati da diverse cagioni. (19. Aprile
1821.).
[984,2] La scoperta e l'uso delle armi da fuoco oltre agli
effetti da me notati negli altri pensieri, p. 262
pp.
659-60 ha scemato ancora notabilissimamente il coraggio ne' soldati, e
generalmente negli uomini. La victoire... s'obtient aujourd'hui
par la regularité et la précision des manoeuvres, souvent sans en
venir aux mains. Nos guerres ne se décident plus guère que de loin,
à coups de canon et de fusil; et nos timides fantassins, sans armes
défensives, effrayés par le bruit et l'effet de
985 nos armes à feu, n'osent plus s'aborder: les combats à
l'armes blanches sont devenus fort rares.
*
Così il Barone Rogniat, Considérations sur l'Art de la guerre,
Paris, de l'imprimerie de Firmin Didot, 1817.
Introduction, p. 1. E come i soldati, così gli altri uomini che si
servono delle armi da fuoco invece delle bianche, riducendosi ora ogni battaglia
o pubblica o privata, a tradimenti, e {a} fatti di
lontano, senza mai venire corpo a corpo: oltre l'influenza che ha l'educazione
militare, e la natura delle guerre sopra l'intero delle nazioni. Sarà bene ch'io
legga tutta intera l'opera citata, dove l'arte della guerra è chiarissimamente
esposta, congiunta a molta filosofia, paragonati continuamente gli antichi coi
moderni, e i diversi popoli fra loro, applicata alla detta arte la scienza
dell'uomo ec. E certo la guerra appartiene al filosofo, tanto come cagione di
sommi e principalissimi avvenimenti, quanto come connessa con infiniti rami
della teoria della società, e dell'uomo e dei viventi. (25. Aprile
1821.).
[43,6] Il cantare che facciamo quando abbiamo paura non è per
farci compagnia da noi stessi come comunemente si dice, nè per distrarci
puramente, ma (come trovo incidentemente e finissimamente notato anche nella
2.da lett. del Magalotti
contro gli Atei) per mostrare e
dare ad intendere a noi stessi di non temere. La quale osservazione potrebbe
forse applicarsi a molte cose, e dare origine a parecchi pensieri. E già è
manifesto che all'aspetto del male noi cerchiamo d'ingannarci e di credere che
non sia tale, o minore che non è, e però cerchiamo chi se ne mostri o ne sia
persuaso, e per ultimo grado, per persuaderlo a noi stessi, fingiamo d'esserne
già persuasi, operando e discorrendo tra noi come tali. E questo è quello che
accade nel caso detto di sopra. E già {è} costume di
moltissimi è il detrarre quanto più possono colle parole e colla fantasia a'
mali che loro sovrastanno, e con ciò si consolano e fortificano, mendicando il
coraggio non dal disprezzo del male, ma dalla sua immaginata falsità o
piccolezza, onde son molti che non si sgomentano se non di rarissimo perchè
quando vien loro annunziato o prevedono qualche male, prima non lo credono
affatto, (cioè si nascondono o impiccolissimo[impiccoliscono] tutti i motivi di credere) e così se il male non ha
luogo effettivamente essi non han temuto, e altri sì, e con ragione; poi lo
scemano immaginando quanto possono, e così non temono se non in quei rari casi
nei quali sopraggiunge un male così evidente e reale e che li tocchi in modo che
non possano ingannarsi, giacchè anche sopraggiunto che sia, molte volte non lo
credono affatto male, cioè non lo voglion credere. E questi che
44 forse spesso passano per coraggiosi, sono i più vigliacchi che mai,
giacchè non sanno sostenere non solo la realtà ma neppur l'idea dell'avversità,
e quando hanno sentore di qualche disgrazia che loro sovrasti o sia accaduta,
subito corrono col pensiero, ad arroccarsi {e
trincerarsi} e chiudersi e incatenacciarsi poltronescamente in dire
fra se che non sarà nulla. Onde si vede alla prova delle evidenti disgrazie,
come sieno codardi e si disperino, e dieno in frenesie e smanie da femminucce
con urli pianti preghiere, tutte cose vedute e notate effettivamente da me in
uno di cui ho e naturalmente doveva avere una gran pratica, del quale per
l'altra parte è un perfettissimo e appropriatissimo ritratto quello che ho detto
di sopra. Del resto è cosa pur troppo evidente che l'uomo inclina a dissimularsi
il male, e a nasconderlo a se stesso come può meglio, onde è nota l'εὐϕημία
degli antichi greci che nominavano le cose dispiacevoli τὰ δεινά con nomi atti a
nascondere o dissimulare questo dispiacevole, (del che v. Elladio appo il Meursio) la qual cosa certo non faceano solamente per cagione
del mal augurio. E anche in italiano si dice, se Dio
facesse
altro
di me, per dire, s'io
morissi, (v. la Crusca in Altro) e in latino in questo istesso caso, si quid humanum
paterer, mihi accideret etc. e così in cento altri casi.
[1017,1]
1017 Dalla mia teoria
del piacere seguita che l'uomo, desiderando sempre un piacere infinito
e che lo soddisfi intieramente, desideri sempre e speri una cosa ch'egli non può
concepire. E così è infatti. Tutti i desiderii e le speranze umane, anche dei
beni ossia piaceri i più determinati, ed anche già sperimentati altre volte, non
sono mai assolutamente chiari e distinti e precisi, ma contengono sempre un'idea
confusa, si riferiscono sempre ad un oggetto che si concepisce confusamente. E
perciò {e non per altro,} la speranza è meglio del
piacere, contenendo quell'indefinito, che {la realtà}
non può contenere. E ciò può vedersi massimamente nell'amore, dove la passione e
la vita e l'azione dell'anima essendo più viva che mai, il desiderio e la
speranza sono altresì più vive[vivi] e
sensibili, e risaltano più che nelle altre circostanze. Ora osservate che per
l'una parte il desiderio e la speranza del vero amante è più confusa, vaga,
indefinita che quella di chi è animato da qualunque altra passione: ed è
carattere (già da molti notato) dell'amore, il presentare all'uomo un'idea
infinita (cioè più sensibilmente
indefinita di quella che presentano le altre passioni), e ch'egli può concepir
meno di qualunque
1018 altra idea ec. Per l'altra parte
notate, che appunto a cagione di questo infinito, inseparabile dal vero amore,
questa passione in mezzo alle sue tempeste, è la sorgente de' maggiori piaceri
che l'uomo possa provare. (6. Maggio 1821.).
[1044,2] La rimembranza del piacere, si può paragonare alla
speranza, e produce appresso a poco gli stessi effetti. Come la speranza, ella
piace più del piacere; è assai più dolce il ricordarsi del bene (non mai
provato, ma che in lontananza sembra di aver provato) che il goderne, come è più
dolce lo sperarlo, perchè in lontananza sembra di poterlo gustare. La lontananza
giova egualmente all'uomo nell'una e nell'altra situazione; e si può conchiudere
che il peggior tempo della vita è quello del piacere, o del godimento.
(13. Maggio 1821.).
[1075,2] Quelli che non sogliono mai far nulla, e che per
conseguenza hanno più tempo libero, e da potere impiegare, sono {ordinariamente} i più difficili a trovare il tempo per
una
1076 occupazione, ancorchè di loro premura, a
ricordarsi di una cosa che bisogni fare, di una commissione che loro sia stata
data, e che anche prema loro di eseguire. Al contrario quelli che hanno la
giornata piena, e quindi meno tempo libero, e più cose da ricordarsi. La cagione
è chiara, cioè l'abito di negligenza nei primi, e di diligenza nei secondi
(22. Maggio 1821.). {+E
lo stesso differente effetto si vede anche in una stessa persona, secondo i
diversi abiti e metodi temporanei di attività e diligenza, o inattività e
negligenza.}
[1083,1]
1083 Alla considerazione della grazia derivante dallo
straordinario, spetta in parte il vedere che uno de' mezzi più frequenti e
sicuri di piacere alle donne, è quello di trattarle con dispregio e motteggiarle
ec. Il che anche deriva da un certo contrasto ec. che forma il piccante. {+E ancora dall'amor proprio messo in
movimento, e renduto desideroso dell'amore e della stima di chi ti
dispregia, perch'ella ti pare più difficile, e quindi la brami di più ec. E
così accade anche agli uomini verso le donne o ritrose, o motteggianti
ec.}
(24. Maggio 1821.).
[1164,3] L'invidia, passione naturalissima, e primo vizio del
primo figlio dell'uomo secondo la S. Scrittura, è un effetto, e un indizio
manifesto dell'odio naturale dell'uomo verso l'uomo, nella società, quantunque
imperfettissima, e piccolissima. Giacchè s'invidia anche quello che noi abbiamo,
ed anche in maggior grado; s'invidia ancor quello che altri possiede senza il
menomo nostro danno; ancor quello che ci è impossibile assolutamente di avere, e
che neanche ci converrebbe; e finalmente quasi ancor quello che non desideriamo,
e che anche potendo avere non vorremmo. Così che il solo e puro bene altrui, il
solo aspetto dell'altrui supposta felicità, ci è grave naturalmente per se
stessa, ed è il soggetto di questa passione, la quale per conseguenza non può
derivare se non dall'odio verso gli altri, derivante dall'amor proprio, ma
derivante, se m'è lecito di
1165 così spiegarmi, nel
modo stesso nel quale dicono i teologi che la persona del Verbo procede dal
Padre, e lo Spirito Santo da entrambi, cioè non v'è stato un momento in cui il
Padre esistesse, e il Verbo o lo Spirito Santo non esistesse. (13. Giugno
1821.).
[1201,1] Perchè la parzialità è sempre odiosa e
intollerabile, quando anche colui che favorisce o benefica alcuno più degli
altri, non tolga niente agli altri del loro dovuto, nè di quello che darebbe
loro in ogni caso, nè li disfavorisca in nessun modo? Per l'odio naturale
dell'uomo verso l'uomo, {inseparabile dall'amor
proprio.} E v. in questo proposito la parabola del padre di famiglia e
degli operai del Vangelo. (21. Giugno, dì del Corpus Domini.
1821.). {{V. p. 1205.
fine.}}
[1291,1] L'aspetto dell'uomo allegro e pieno o commosso anche
mediocremente da qualche buona fortuna, da qualche vantaggio, da qualche piacere
ricevuto ec. è per lo più molestissimo non solo alle persone afflitte, o pur
malinconiche, o poco inclinate alla letizia per atto o
1292 per abito, ma anche alle persone d'animo indifferentemente
disposto, {+e non danneggiate punto, nè soverchiate ec.
da quella prosperità.} Questo ci accade ancora cogli amici,
parenti i più stretti ec. E bisogna che l'uomo il quale ha cagione di allegria,
o la dissimuli, o la dimostri con certa disinvoltura, indifferenza e spirito,
altrimenti {la sua presenza, e la sua conversazione}
riuscirà sempre odiosa e grave, anche a quelli che dovrebbero rallegrarsi del
suo bene, o che non hanno materia alcuna di dolersene. {+Tale infatti è la pratica degli uomini riflessivi, padroni di se, e ben
creati.} Che vuol dir questo, se non che il nostro amor
proprio, ci porta inevitabilmente, e senza che ce ne avvediamo, all'odio altrui?
Certo è che nel detto caso, anche all'uomo il più buono, è mestieri un certo
sforzo sopra se stesso e un certo eroismo, per prender parte alla letizia
altrui, della quale egli non aspetti nessun vantaggio {nè
danno,} o solamente per non gravarsene. (8. Luglio
1821.).
[1303,2] Altra prova che noi siamo più inclinati al timore
che alla speranza, è il vedere che noi {per lo più}
crediamo facilmente quello che temiamo, e difficilmente quello che desideriamo,
anche molto più verisimile. E poste due persone delle quali una tema, e l'altra
desideri una stessa cosa, quella la crede, e questa no. E se noi passiamo dal
temere una cosa al desiderarla, non sappiamo più {credere} quello che prima non sapevamo non credere,
1304 come mi è accaduto più volte. E poste due cose, o
contrarie o disparate, l'una desiderata, e l'altra temuta, e che abbiano lo
stesso fondamento per esser credute, la nostra credenza si determina per questa
e fugge da quella. Nell'esaminare i fondamenti di alcune proposizioni ch'io da
principio temeva che fossero vere, e poi lo desiderava, io li trovava da
principio fortissimi, e quindi insufficientissimi. (10. Luglio
1821.).
[1305,1] L'uomo isolato crederebbe per natura, almeno
confusamente, che il mondo fosse fatto per lui solo. E intanto crede che sia
fatto per la sua specie intera, in quanto la conosce bene, e vive in mezzo a
lei, e ragiona facilmente e pianamente sui dati che la società e le cognizioni
comuni gli porgono. Ma non potendo ugualmente vivere nella società di tutti gli
altri esseri, la sua ragione si ferma qui, e senza riflessioni che non possono
esser comuni a molti, non arriva a conoscere che il mondo è fatto per tutti gli
esseri che lo compongono. Ho veduto uomini vissuti gran tempo nel mondo, poi
fatti solitarii, e stati sempre egoisti, credere in buona fede che il mondo
appresso a poco fosse tutto per loro, la qual credenza appariva da' loro fatti
d'ogni genere, ed anche dai detti implicitamente. E non
1306 potevano non solo patire o mancar di nulla, ma appena concepire
come gli uomini e le cose non si prestassero sempre e interamente ai loro
comodi, e ne manifestavano la loro maraviglia e la loro indignazione in maniere
singolarissime, e talvolta incredibili in persone avvezze alle maniere civili,
ed ai sacrifizi della società, nelle quali cose conservavano pur molta
pretensione. Ma non si accorgevano, così facendo, di mancare a nessun debito
loro verso gli altri, nè di esigger più di quello che loro convenisse ec.
(10. Luglio 1821.).
[1328,1] L'azione viva e straordinaria, è sempre, o bene
spesso, cagione d'allegria, purchè non abbatta il corpo. (15. Luglio
1821.).
[1400,1] Il pentimento il quale in altri pensieri ho detto
p.
188
p.
466 che aggrava il male quasi della metà, quando non possiamo
dissimularci che ci è avvenuto per nostra colpa, aggrava pure {nella stessa proporzione} il dispiacere della perdita o
mancanza di un bene, anzi molte volte cagiona del tutto esso solo questo
dispiacere, che non proveremmo in verun modo, se mancassimo di quel bene senza
nostra colpa, se non avessimo avuta occasione di acquistarlo ec. Il qual
sentimento umano che si fa sentire {{o prevedere,}}
nella stessa occasione, e ci spinge, anzi sforza a profittarne, quasi anche
contro nostra voglia, ho cercato di esprimerlo nella Telesilla. Molte
volte un'occasione perduta, ancorchè senza nostra colpa, ci addolora sommamente
della mancanza di un bene, che per l'addietro nulla ci pesava. Ed allora la
nostra consolazione, e l'ordinaria operazione della nostra mente, è cercare di
persuaderci che noi non abbiamo veruna colpa nella perdita di quella occasione,
e che essa non poteva servirci, e doveva necessariamente esserci inutile,
1401 e quasi non fosse stata ec. (28. Luglio
1821.).
[1420,2] La forza anche passeggera del corpo, oltre gli
effetti altrove notati pp. 96-97
p.
115, rende anche più coraggiosi del solito, e meno suscettibili al
timore, anche
1421 de' pericoli straordinari ec. Quindi
i giovani sono più coraggiosi de' vecchi, e disprezzatori della vita, benchè
abbiano tanto più da perdere ec. {contro quella
osservazione} ordinarissima, che principal fonte di coraggio suol
essere l'aver poco a perdere ec. (31. Luglio 1821.).
[1431,1] Non c'è miglior modo di far colpo e fortuna con una
giovane superba e sprezzante, che disprezzandola. Or chi crederebbe che l'amor
proprio (giacchè dal solo amor proprio deriva l'amore altrui) potesse produrre
questo effetto, che quando egli è punto, si provasse inclinazione per chi lo
punge? Chi non crederebbe al contrario che una donna altera e innamorata di se
stessa, dovesse vincersi, interessarsi, allettarsi cogli ossequi, cogli omaggi,
ec.? Eppur così è. Non solo l'ossequio e l'omaggio ti farà sempre più disprezzar
da costei, ma se disprezzandola tu sei pervenuto a fissarla, e a produrle una
inclinazione per te, ed allora o per amore, o per abbandono, o per credere di
aver fatto abbastanza, ec. tu cerchi di cattivartela coi mezzi più naturali, e
le dai qualche piccolo segno di sommissione,
1432 di
amore che si dimostri per vero ec. tu hai tutto perduto, ed ella immediatamente
si disgusta di te, e ti disprezza. Conviene che tu segua imperturbabile a
mostrarle noncuranza fino alla fine. Ed è questo un effetto semplicissimo di
quel centiforme amor proprio, che produce gli effetti i più svariati e contrari.
Tanto che, mentre quasi tutte le donne si cattivano col disprezzo, {+(sebbene alcune volte, e in certe
circostanze, se ne offendono)} quelle però massimamente dove l'amor
proprio è più vivo e tirannico, cioè le più superbe ed egoiste ec. {+V. in questo proposito les Mémoires
secrets de Duclos à Lausanne 1791. t. 1. p.
95. e p. 271-273.} V. in questo proposito altro
pensiero p. 1083 dove ho notato questo effetto, discorrendo
della grazia. Certo è però che questa modificazione dell'amor proprio, non è
delle più naturali, benchè non molto lontana dalla natura; e ricerca un
carattere alquanto alterato, ma per altro comunissimo. (1. Agos.
1821.).
[1464,1]
1464 Da tutto ciò si conferma ciò che ho detto altrove
pp. 1341-42 che il primo principio delle cose è
il nulla. (7. Agos. 1821.).
[1522,1] Ho discorso spesso del bello che proviene dalla
debolezza p. 108
p. 164
p. 196
p. 211
p. 234
p. 281. Egli è un bello proveniente da pura inclinazione, e quindi
non ha che far col bello ideale, anzi è fuori della teoria del bello. Infatti
egli è del tutto relativo. Lasciando le infinite altre cose dove la debolezza
sconviene e dispiace, osservate che agli uomini piace nelle donne la debolezza,
perchè loro è naturale; alle donne negli uomini la forza e l'aspetto di essa. Ed
è brutta la forza nelle donne, come la debolezza negli uomini. Se non che
talvolta giova al contrasto, e dà grazia (ma perchè appunto è straordinario,
cioè non conveniente) un non so che di maschile nelle donne, e di femminile
negli uomini. (18. Agos. 1821.).
[1572,3] Quanto l'uomo sia invincibilmente inclinato a
misurar gli altri da se stesso, si può vedere anche nelle persone le più
pratiche del mondo. Le quali se, p. e. sono fortemente morali, per quanto
conoscano, e sentano e vedano, non si persuaderanno mai intimamente che la
moralità non esista più, e
1573 sia del tutto esclusa
dai motivi determinanti l'animo umano. Lo dirà ancora, lo sosterrà, in qualche
accesso di misantropia arriverà a crederlo, ma come si crede momentaneamente a
una viva e conosciuta illusione, e non se ne persuaderà mai nel fondo
dell'intelletto. (Lascio i giovani i quali essendo ordinariamente virtuosi, non
si convincono mai prima dell'esperienza, che la virtù sia nemmeno rara.) Così
viceversa ec. ec. ec. Esempio, mio padre. (27. Agosto. 1821.).
[1589,1] Chi ha perduto la speranza d'esser felice, non può
pensare alla felicità degli altri, perchè l'uomo non può cercarla che per
rispetto alla propria. Non può dunque neppure interessarsi dell'altrui
infelicità. (30. Agos. 1821.).
[1594,2] La bellezza è naturalmente compagna della virtù.
L'uomo senza una lunga esperienza non si avvezza a credere che un bel viso possa
coprire un'anima malvagia. Ed ha ragione, perchè la natura ha posto un'effettiva
corrispondenza tra le forme esteriori e le interiori, e se queste non
corrispondono, sono per lo più alterate da quelle ch'erano naturalmente. Pure è
certo che i belli sono per lo più cattivi. Lo stesso dico degli altri vantaggi
naturali o acquisiti. Chi li possiede, non è buono. Un brutto, un uomo
sprovvisto di pregi e di vantaggi, più facilmente s'incammina alla virtù. Gli
uomini senza talento sono più ordinariamente buoni, che quelli che ne son
ricchi. E tutto ciò è ben naturale nella società. L'uomo insuperbisce del
vantaggio che si accorge
1595 di avere sugli altri, e
cerca di tirarne per se tutto quel partito che può. S'egli è più forte, fa uso
della sua forza. Il più debole si raccomanda, e segue la strada che più giova e
piace agli altri, per cattivarseli. Il forte non abbisogna di questo. Ecco
l'abuso de' vantaggi. Abuso inevitabile e certo, posta la società. Così dico de'
potenti ec. i quali non ponno essere virtuosi. Ne' privati a me pare che non si
trovi vera affabilità, vera {e costante} amabilità e
facilità di costumi, interesse per gli altri ec. se non che nei brutti, in chi
ha qualche svantaggio, è nato in bassa condizione ed assuefattoci da piccolo,
ancorchè poi ne sia uscito, è povero o lo fu, ovvero negli sventurati.
[1605,1] È vero che l'uomo felice non suol esser molto
compassionevole, ma l'uomo notabilmente infelice, ancorchè nato sensibilissimo
non è quasi affatto capace di compassione spontanea e sensibile. Sviluppa questa
verità nelle sue parti, e nelle sue cagioni. (1. Sett. 1821.).
[1603,1]
1603 Dalle sopraddette osservazioni risulta un'altra
gran prova del come l'idea del bello sia relativa e mutabile, e dipendente non
da modello alcuno invariabile, ma dalle assuefazioni che cambiano secondo le
circostanze. Oggi l'idea del bello, racchiude quasi essenzialmente un'idea di
delicatezza. Un robusto villano o villana, non paiono certamente belli alle
persone di città. Il bello nelle nostre idee, esclude affatto il grossolano.
Dovunque esso si trova, (se ciò non è in una certa misura che mediante lo
straordinario e lo stesso sconveniente, produca la grazia) non si trova il bello
per noi, almeno il bello perfetto. Ora egli è certo che gli uomini primitivi la
pensavano ben altrimenti, perchè tutti gli uomini primitivi eran grossolani. Non
esisteva allora una di quelle forme che noi chiamiamo belle, (ciò si può vedere
fra' selvaggi i quali non sentono la bellezza meno di noi, benchè non sentano la
nostra): e se avesse esistito, sarebbe stata e chiamata brutta. La delicatezza
dunque non entra nell'idea che l'uomo naturale concepisce del bello. Quindi la
1604
presente idea del bello non è punto naturale, anzi l'opposto. E pur ci pare
naturalissima, confondendo il naturale collo spontaneo: giacch'ella è spontanea,
perchè derivata senza influenza della volontà dalle assuefazioni ec.
[1648,1]
1648 Pare assurdo, ma è vero che l'uomo forse il più
soggetto a cadere nell'indifferenza e nell'insensibilità (e quindi nella
malvagità che deriva dalla freddezza del carattere), si è l'uomo sensibile,
pieno di entusiasmo e di attività interiore, e ciò in proporzione appunto della
sua sensibilità ec. {Quasi si verifica in questo senso
e modo ciò che quel vecchio disse a Pico
p. 1178, della stupidità dei vecchi stati
spiritosi straordinariamente da fanciulli.} Massime s'egli
è sventurato; ed in questi tempi dove la vita esteriore non corrisponde, non
porge alimento nè soggetto veruno all'interiore, dove la virtù e l'eroismo sono
spenti, e dove l'uomo di sentimento e d'immaginazione e di entusiasmo è subito
disingannato. La vita esteriore degli antichi era tanta che avvolgendo i grandi
spiriti nel suo vortice arrivava piuttosto a sommergerli, che a lasciarsi
esaurire. Oggi un uomo quale ho detto, appunto per la sua straordinaria
sensibilità, esaurisce la vita in un momento. Fatto ciò, egli resta vuoto,
disingannato profondamente e stabilmente, perchè ha tutto profondamente e
vivamente provato: non si è fermato alla superficie, non si va affondando a poco
a poco; è andato subito al fondo, ha tutto abbracciato, e tutto rigettato come
effettivamente indegno e frivolo: non gli resta altro a vedere,
1649 a sperimentare, a sperare. Quindi è che si vedono
gli spiriti mediocri, ed alcuni sensibili e vivi sino a un certo segno, durar
lungo tempo ed anche sempre, nella loro sensibilità, suscettibili di affetto,
capaci di cure e di sacrificj per altrui, non contenti del mondo, ma sperando di
esserlo, facili ad aprirsi all'idea della virtù, a crederla ancora qualche cosa
ec. (Essi non hanno ancora perduto la speranza della felicità). Laddove quei
grandi spiriti che ho detto, fin dalla gioventù cadono in un'indifferenza,
languore, freddezza, insensibilità mortale, e irrimediabile: che produce un
egoismo noncurante, una somma incapacità di amare ec. La sensibilità e l'ardore
dell'animo è così fatto, che s'egli non trova pascolo nelle cose circostanti,
consuma se stesso, e si distrugge e perde in poco d'ora, lasciando l'uomo tanto
al disotto della magnanimità ordinaria, quanto prima l'avea messo al disopra.
Laddove la mediocre sensibilità si mantiene, perchè abbisogna di poco alimento.
Quindi è che le virtù grandi non sono
pe' nostri tempi.
1650
(7. Sett. 1821.). {{Puoi vedere p. 1653.
fine.}}
[1653,2] Ho detto altrove p. 714
pp. 1176-79 che il troppo
produce il nulla, e citato le eccessive passioni e le estreme sventure, {il pericolo presente e inevitabile che dà una forza e
tranquillità d'animo anche al più vile, una disgrazia sicura e che non può
fuggirsi ec.} che non producono già l'agitazione, ma l'immobilità, la
stupidità, una specie di rassegnazione non ragionata; in maniera che l'aspetto
dell'uomo in tali casi è bene spesso affatto simile a quello dell'indifferente:
ed un bravo pittore non lo farebbe distinguere dall'uomo il più noncurante ec.
{+eccetto per un'aria di meditazione
stupida, ed una fissazione di occhi in qualsivoglia parte.} Aggiungo
1654 ora che ciò non si deve solamente restringere
all'atto, ma anche all'abito d'indifferenza, rassegnazione alla fortuna,
insensibilità ec. che è prodotto dall'estrema infelicità e disperazione abituale
ec. e puoi vedere la p. 1648.
(8. Sett. 1821.).
[1669,2] Il vedere che altri prova in nostra presenza un
gusto vivo, ci è sempre grave, e ci rende odiosa quella persona. E perciò è
prudenza e creanza il non dimostrare in presenza
1670
altrui di provare un piacere, o il portarsi con una disinvoltura che mostri di
non curarsene ec. Similmente dico di un vantaggio. E v. un mio pensiero sul far
carezze alla moglie in presenza altrui, e il costume degl'inglesi che ho notato
in questo proposito p. 206
p. 233. Cosa spiacevolissima anche tra noi, e che m'è avvenuto di
sentir condannare come insopportabile in due sposi che si facevano grandi
carezze in presenza d'altri. Tanto è vero che l'uomo odia naturalmente l'uomo.
Eccetto se quel gusto che ho detto è stato procacciato a quella persona da noi
stessi volontariamente, nel qual caso
egli ridonda in certo modo su di noi, e serve alla nostra ambizione, ec. insomma
ne partecipiamo. Questo effetto si prova massimamente cogli eguali e co'
superiori (meno cogl'inferiori, co' fanciulli ec.); ma cogli eguali soprattutto,
e cogli amici e stretti conoscenti più che mai, perocchè con questi si esercita
principalmente l'invidia, e si sente al vivo l'inferiorità nostra ec. in
qualsivoglia genere. I superiori sono il soggetto di un odio più generale, che
si stende su tutta la loro persona,
1671 condizione ec.
e discende meno, o è meno sensibile alle cose particolari, tanto più che non si
può entrare con essi in competenza di desiderii ec. Parimente riguardo
agl'inferiori, bisogna che i loro vantaggi o piaceri siano d'un alto grado (nel
qual caso l'odio è maggiore verso loro che verso qualunque altro) perchè
arrivino a pungere il nostro amor proprio, e la nostra gelosia ec. Nondimeno è
vero che sempre se ne prova qualche disgusto. (11. Sett.
1821.).
[1677,1]
1677 I dolori negli uomini naturali sono vivissimi,
come si vede dagli atti e dalle azioni ch'essi ispirano, e ispiravano agli
antichi. Nondimeno si vede e si ammira negli uomini di campagna una somma
difficoltà (non solo di conservare lungo tempo il dolore, che questa è propria
naturalmente delle passioni veementissime) ma anche di concepirlo, e sentirlo
vivamente, e togliersi dal loro stato di abituale insensibilità. Preparano i
funerali delle loro mogli o figli, gli accompagnano alla chiesa, assistono alla
loro sepoltura, ridono un momento dopo, ne parlano con indifferenza, di rado
spargono qualche lacrima, benchè se il dolore talvolta li coglie, esso sia tale
qual dev'essere in persone poco lontane dalla natura. Nè solo gli uomini di
campagna, ma tutti coloro che appartengono alle classi indigenti o laboriose ec.
dimostrano gli stessi effetti. Ciò manifesta la misericordia della natura, e
dimostra che ella ha sibbene dato agli uomini naturali, vivissimi e
frequentissimi {e facilissimi} piaceri, ma contuttochè
gli abbia resi {conseguentemente} soggetti alla
veemenza straordinaria
1678 del dolore, non però, come
parrebbe che dovesse essere, gli ha assoggettati alla frequenza, nemmeno di un
dolor moderato, e quale si prova sì spesso dagli uomini civili. Parte la
rozzezza del loro cuore, e il nessuno sviluppo (o piuttosto analoga
modificazione) delle facoltà produttrici del dolore, della sensibilità ec.;
parte la continua e viva distrazione prodotta nell'uomo naturale da' bisogni,
dalle fatiche, ec. ec. l'assuefazione a certe sofferenze ec. li preserva dalla
facilità di addolorarsi, gli addomestica alle disgrazie della vita, li rende più
disposti a godere che a soffrire, facili a dimenticare il male, incapaci di
sentirlo profondamente, se non di rado ec. Anche gli uomini civili,
abitualmente, o straordinariamente occupatissimi, sono nello stesso caso. Così
pure gli uomini avvezzi alle disgrazie ec. ec. (11. Sett.
1821.).
[1723,1] Chi ha disperato di se stesso, o per qualunque
ragione, si ama meno vivamente, è meno invidioso, odia meno i suoi simili, ed è
quindi più suscettibile di amicizia {{per questa}}
parte, o almeno in minor contraddizione con lei. Chi più si ama meno può amare.
Applicate questa osservazione alle nazioni, ai diversi gradi di amor patrio
sempre proporzionali a' diversi gradi di odio nazionale; alla necessità di
render l'uomo egoista di una patria perch'egli possa amare i suoi simili a
cagion di se stesso, appresso a poco come dicono i teologi che l'uomo deve amar
se stesso e i suoi prossimi in Dio, e
1724 per l'amore
di Dio. (17. Sett. 1821.).
[1724,1] L'odio dell'uomo verso l'uomo si manifesta
principalmente, ed è confermato da ciò che accade nelle persone di una medesima
professione {ec.} fra le quali, sebben la perfetta
amicizia astrattamente considerata è impossibile e contraddittoria alla natura
umana, nondimeno anche la possibile amicizia è difficilissima, rarissima,
incostantissima ec. Schiller uomo di
gran sentimento era nemico di Goëthe
(giacchè non solo fra tali persone non v'è amicizia, o v'è minore amicizia, ma
v'è più odio che fra le persone poste in altre circostanze) ec. ec. ec. Le donne
godono del mal delle donne, anche loro amicissime. I giovani del male de'
giovani ec. ec. V. Corinne t. p. liv. ch. Non solo in una stessa
professione, ma anche in una stessa età ec. ec. l'amicizia è minore e l'odio è
maggiore. Eccetto l'esaltamento delle illusioni che favorisce assai l'amicizia
de' giovani, è certo, massime oggi che le grandi e belle illusioni non si
trovano, che l'amicizia è più facile tra un vecchio o maturo, e un giovane, che
tra giovane e giovane; tra
1725 due vecchi che tra due
giovani; perchè oggi, sparite le illusioni, e non trovandosi più la virtù ne'
giovani, i vecchi sono più a portata di amarsi meno, di essere stanchi
dell'egoismo perchè disingannati del mondo, e quindi di amare gli altri.
[1800,2] Il vigore o costante o effimero, produce nell'uomo
un gran sentimento di se
1801 stesso, lo rende nella
sua immaginazione superiore alle cose, agli altri uomini, alla stessa natura; lo
fa sfidare il potere delle disgrazie, le persecuzioni, i pericoli, le
ingiustizie ec. ec.; lo fa pieno di coraggio ec. ec. in somma l'uomo vigoroso si
sente, si giudica padrone del mondo, e di se medesimo, e veramente uomo.
(28. Sett. 1821.)
[1815,1] La noia è la più sterile delle passioni umane.
Com'ella è figlia della nullità, così è madre del nulla: giacchè non solo è
sterile per se, ma rende tale tutto ciò a cui si mesce o avvicina ec. (30.
Sett. 1821.).
[1816,2] Forza della natura, e debolezza della ragione. Ho
detto altrove pp. 293-94
pp.
329-30 che l'opinione per influire vivamente sull'uomo, deve aver
l'aspetto di passione. Finchè l'uomo conserva qualcosa di naturale, egli {è} più appassionato dell'opinione che delle passioni
sue. Infiniti esempi e considerazioni se ne potrebbero addurre in prova. Ma
siccome tutte quelle opinioni che non sono o non hanno l'aspetto di pregiudizi,
non sono sostenute che dalla pura ragione, perciò elle sono ordinariamente
impotentissime nell'uomo. I religiosi (anche oggi, e forse oggi più che mai, a causa della contrarietà che
incontrano) sono più appassionati della loro religione che delle altre
passioni loro (di cui la religione è nemica), odiano sinceramente
gl'irreligiosi, (benchè se lo nascondano) e per veder trionfare il loro sistema
farebbero qualunque
1817 sacrifizio (come ne fanno
realmente sacrificando le inclinazioni naturali e contrarie), mentre provano
verissima rabbia nel vederlo depresso e contrastato. Ma gl'irreligiosi, quando
l'irreligione deriva in essi da sola fredda persuasione o dubbio, non odiano i
religiosi, non farebbero nessun sacrifizio per l'irreligione ec. ec. Quindi è
che gli odi per motivo d'opinione non sono mai reciprochi, se non quando in
ambedue le parti l'opinione è un pregiudizio, o ne ha l'aspetto. Non v'è dunque
guerra tra il pregiudizio e la ragione, ma solo tra pregiudizi e pregiudizi,
ovvero il pregiudizio solo è capace di combattere, non già la ragione. Le
guerre, le nemicizie, gli odi di opinione sì frequenti negli antichi tempi, anzi
fino agli ultimi giorni, guerre sì pubbliche che private, fra partiti, sette,
scuole, ordini, nazioni, individui; guerre per le quali l'antico era
naturalmente deciso nemico di colui che aveva opinione diversa; non avevan luogo
se non
1818 perchè in quelle opinioni non entrava mai
la pura ragione, ma tutte erano pregiudizi, o ne avevano la forma, e quindi
erano passioni. Povera dunque la filosofia, della quale si fa tanto romore, e in
cui tanto si spera oggidì. Ella può esser certa che nessuno combatterà per lei,
benchè i suoi nemici la combatteranno sempre più vivamente; e tanto meno ella
influirà nel mondo, e nel fatto, quanto maggiori saranno i suoi progressi, cioè
quanto più si depurerà, ed allontanerà dalla natura del pregiudizio e della
passione. Non isperate dunque mai nulla dalla filosofia nè dalla ragionevolezza
di questo secolo. (1. Ott. 1821.).
[1885,1] Un uomo famoso per dissipazioni e sfrenatezze e
fortune galanti, e infedeltà in amore, fa grand'effetto nelle donne con questa
sola fama, ma forse nelle donne modeste e timide, e avvezze ad esser fedeli, più
che nelle altre. La franchezza, il brio,
1886 la
sfrontatezza ec. fa {sempre} fortuna in amore, ed
e[è] quasi indifferentemente necessaria e
felice con ogni sorta di donne, perch'è quasi l'unico mezzo di ottenere. Ma
considerata semplicemente come mezzo di piacere e di far effetto sulle prime, è
certo ch'egli è più potente, sulle donne modeste, ritirate, paurose, poco solite
agl'intrighi ec. che nelle loro contrarie.
[1970,2] Gli spiriti mediocri sono sempre facilmente
persuadibili {+a credere o a fare,}
e in qualunque modo riducibili all'uomo di talento, o al furbo, o a chi per
qualsivoglia circostanza ha, o sa prendere su di loro un certo ascendente.
L'ostinazione è propria degli spiriti piccoli e dei grandi, o degli spiriti più
o meno inferiori o superiori alla mediocrità, ma di quelli più che di questi.
{+Lo stesso dico in ordine alla
suscettibilità di esser consolati. Se non che gli spiriti grandi ne sono
meno suscettibili dei piccoli, perchè il vero, ch'essi ben intendono, non è
mai consolante, e perchè il consolatore non li può facilmente ingannare,
ch'è l'unico modo di consolare.}
(22. Ott. 1821.).
[1988,3] L'uomo che a tutto si abitua, non si abitua mai alla
inazione. Il tempo che tutto alleggerisce, indebolisce, distrugge, non distrugge
mai nè indebolisce il disgusto e la fatica che l'uomo prova nel non far nulla. L'assuefazione
1989 intanto può influire sull'inazione, in quanto può
trasportare l'azione dall'esterno all'interno, e l'uomo forzato a non muoversi,
o in qualunque modo a non operare al di fuori, acquista appoco appoco l'abito di
operare al di dentro, di farsi compagnia da se stesso, di pensare, d'immaginare,
di trattenersi insomma vivamente col proprio solo pensiero (come fanno i
fanciulli, come si avvezzano a fare i carcerati ec.). Ma la pura noia, il puro
nulla, nè il tempo nè alcuna forza possibile (se non quella che intorpidisce o
estingue o sospende le facoltà umane, come il sonno, l'oppio, il letargo, una
totale prostrazione di forze ec.) non basta a renderlo meno intollerabile. Ogni
momento di pura inazione è tanto grave all'uomo dopo dieci anni {di assuefazione,} quanto la prima volta. La nullità, il
non fare, il non vivere, la morte, è l'unica cosa di cui l'uomo sia incapace, e
1990 alla quale non possa avvezzarsi. Tanto è vero
che l'uomo, il vivente, e tutto ciò che esiste, è nato per fare, e per fare
tanto vivamente, quanto egli è capace, vale a dire che l'uomo è nato per
l'azione esterna ch'è assai più viva dell'interna. {+Tanto più che l'interna nuoce al fisico quanto ell'è
maggiore e più assidua, e l'esterna viceversa. Quanto all'azione interna
dell'immaginazione, essa sprona e domanda impazientemente l'esterna, e
riduce l'uomo a stato violento, se questa gli è impedita.} E quella
infatti agognano i giovani, i primitivi, gli antichi, e non si può loro impedire
senza metter la loro natura in istato violento. Ciò non per altro se non perchè
l'uomo {e il vivente} tende sempre naturalmente alla
vita, e a quel più di vita che gli conviene. (26. Ott. 1821.).
[1998,1] L'uomo riflessivo ha spessissimo bisogno di esser
determinato da un uomo irriflessivo o per natura o per abito, o da circostanze
imperiose, ec. Egli ha più bisogno di consiglio che qualunque altro, non perchè
non veda abbastanza da se, ma perchè troppo vede,
1999
dal che segue un'irresoluzione abituale e penosissima. (27. Ott.
1821.).
[2017,3] Il fare un atto di vigore, o il servirsi del vigore
passivamente o attivamente, {+(come fare
un veloce cammino, o de' movimenti forti ed energici ec.)} quando
{e finchè} ciò non superi le forze dell'individuo,
è piacevole per ciò solo, quando anche sia per se stesso incomodo, (come
l'esporsi a un gran freddo ec.) quando anche sia senza spettatori, e
prescindendo pure dall'ambizione e dall'interna soddisfazione e
2018 compiacenza di se stesso, che vi si prova. {+Nè solo il fare tali atti, ma anche il
vederli, l'essere spettatore di cose attive, energiche, rapide, movimenti
ec. vivaci, forti, difficili ec. ec. azioni ec. piace, perchè mette l'anima
in una certa azione, e le comunica una certa attività interiore, la rompe ec. l'esercita da lontano ec.
e par ch'ella {ne} ritorni più forte, ed esercitata
ec.}
[2028,2] Ho detto altrove pp. 516-19 che la
natura par che abbia confidato a ciascun individuo la conservazione e la cura
dell'ordine, della ragione,
2029 della giustizia, {dell'esistenza} ec. per ciò che spetta agli altri
individui, o alle altre cose esistenti; insomma la conservazione di tutta la
natura, e di tutte le sue leggi, anche dove o quando punto non ci appartengono
par che sia incaricata a ciascun individuo. Da questo nasce l'ira che noi
proviamo nell'udire un misfatto, per es. un omicidio, di persona a noi affatto
ignota, e posta fuori d'ogni nostra minima relazione, partito ec. e quando anche
l'omicida si trovi nello stesso caso. Noi, e tanto più quanto la nostra
immaginazione è più viva, e il nostro sentimento più caldo, e quanto meno siamo
corrotti e snaturati dalla fredda ragione, proviamo subito un vivo senso di odio
verso il delinquente, un desiderio di vendetta, quasi che l'offesa fosse fatta a
noi, un vivo piacere se intendiamo che è caduto nelle mani della
2030 giustizia, e dispiacere s'egli è fuggito. Massime
quando il racconto del misfatto, per qualunque circostanza ci riesca vivo ec. e
molto più se il misfatto accade in nostra presenza ec. Un eccesso di energia
pone anche l'uomo in desiderio di vendicare il misfatto da se, quando anche non
gli appartenga nè l'interessi in nessunissima parte. Da ciò nasce che il popolo,
spargendosi la fama di qualche notabile delitto, è sempre decisamente contento
della cattura del reo, la desidera, l'applaude, e stando egli sotto processo,
discorre della sua condanna come di una soddisfazione e un piacere ch'egli
aspetti e desideri, accusa la lentezza dei giudici, e se il reo è assoluto, se
ne duole, come di un torto fatto a se stesso. Se è condannato ne gode, finchè
all'ira verso la colpa non succede la compassione verso la pena.
[2046,1] Chi vuol vedere come le facoltà umane sieno tutte
acquisite, e la differenza che passa fra l'acquisito e il naturale o innato,
osservi che tutte le facoltà {di cui l'uomo è capace,}
sono maggiori assai nell'uomo maturo {(e civile ec.)}
che nel fanciullo, se pur questi non ne manca affatto, e crescono insieme
coll'uomo: laddove le inclinazioni che sono ingenite, e ben diverse dalle
facoltà, generalmente parlando, come qua e là ho mostrato di questa o di quella,
e come si può dire di tutte (purchè sieno naturali e non acquisite anch'esse),
sono tanto maggiori, {più vive, notabili, numerose ec.}
quanto l'uomo è più vicino allo stato di natura, cioè o fanciullo, o primitivo,
o selvaggio, o ignorante ec. E quantunque le facoltà umane crescano coll'età e
dell'individuo, e de' popoli o del mondo, nondimeno, essendovi due generi di
disposizioni ad
2047 esse facoltà, altre acquisite,
altre naturali ed ingenite o in tutti o in qualcuno, quelle crescono allo stesso
modo delle facoltà, queste, perchè sono qualità naturali, sono assai maggiori
nell'uomo naturale, e massime nel fanciullo, che nell'uomo civilizzato o
nell'adulto, come tuttogiorno si osserva che i fanciulli son capaci di
avvezzarsi, di imparare ec. cose che gli uomini fatti non possono, se da
fanciulli non hanno incominciato. Insomma tutto quello ch'è naturale, è tanto
più forte e notabile, quanto il soggetto è meno coltivato ec. e tutto ciò che
coltivato è più forte ec. non è naturale ec. ec. (4. Nov.
1821.).
[2107,1] Ho detto pp. 1648-49
pp. 2039-41 che l'uomo di gran sentimento è soggetto a divenire
insensibile più presto e più fortemente degli altri, e soprattutto di quegli di
mediocre sensibilità. Questa verità si deve estendere ed applicare a tutte
quelle parti, generi ec. ne' quali il sentimento
2108
si divide e si esercita, come la compassione ec. ec. Sebbene è verissimo che
l'uomo di sentimento è destinato all'infelicità nondimeno assai spesso accade
ch'egli nella sua giovanezza, divenga insensibile al dolore e alla sventura, e
che tanto meno egli sia suscettibile di dolor vivo dopo passata una certa epoca,
e un certo giro di esperienza, quanto più violento e terribile fu il suo dolore
e la sua disperazione ne' primi anni, e ne' primi saggi ch'egli fece della vita.
Egli arriva sovente assai presto ad un punto, dove qualunque massima infelicità
non è più capace di agitarlo fortemente, e dall'eccessiva suscettibilità di
essere eccessivamente turbato, passa rapidamente alla qualità contraria, cioè ad
un abito di quiete e di rassegnazione sì costante, e di disperazione così poco
sensibile, che qualunque nuovo male gli riesce indifferente (e questa si può
2109 dire l'ultima epoca del sentimento, e quella in
cui la più gran disposizione naturale all'immaginazione alla sensibilità,
divengono quasi al tutto inutili, e il più gran poeta, o il più dotato di
eloquenza che si possa immaginare, perde quasi affatto e irrecuperabilmente
queste qualità, e si rende incapace a poterle più sperimentare o mettere in
opera per qualunque circostanza. Il sentimento è sempre vivo fino a questo
tempo, anche in mezzo alla maggior disperazione, e al più forte senso della
nullità delle cose. Ma dopo quest'epoca, le cose divengono tanto nulle all'uomo
sensibile, ch'egli non ne sente più nemmeno la nullità: ed allora il sentimento
e l'immaginazione son veramente morte, e senza risorsa.) Nessuna cosa violenta è
durevole. Laddove gli uomini di mediocre sensibilità, restano più o meno
suscettibili d'
2110 infelicità viva per tutta la vita,
e sempre capaci di nuovo affanno, da vecchi poco meno che da giovani, come si
vede negli uomini ordinarii tuttogiorno. (17. Nov. 1821.).
[2153,2] Non solo l'egoismo o l'amor proprio si trova in
qualunque azione, affetto ec. possibile all'uomo, ancorchè paia il più lontano,
e il più contrario all'amor di se stesso, ma in questi medesimi atti, affetti
ec. l'amor proprio, v'ha tanta parte, vi si trova in misura e grado e forza
tale, l'uomo
2154 o il vivente vi mira tanto a se
stesso, quanto nell'azione o nell'affetto che deriva dal più sublimato, dal più
schietto, infame, manifesto egoismo.
[2206,1] Il timore, passione immediatamente figlia dell'amor
proprio e della propria conservazione, e quindi inseparabile dall'uomo, ma
soprattutto manifesta e propria nell'uomo primitivo, nel fanciullo, in coloro
che più conservano dello stato naturale; passione strettissimamente comune
all'uomo con ogni specie di animali, e carattere generale de' viventi; una tal
passione, è la più egoistica del mondo. Nel timore l'uomo si isola
perfettamente, si stacca da' suoi più cari, e pena pochissimo (anzi quasi da
necessità naturale è portato) a sacrificarli ec. per salvarsi. Nè solo dalle
persone, o da tutto ciò ch'è in qualche modo altrui, ma dalle cose stesse più
proprie sue, più preziose, più necessarie, l'uomo
2207
si stacca quando teme, come il navigante che getta in mare il frutto de' suoi
più lunghi travagli, e anche di tutta la sua vita, i suoi mezzi di sussistenza.
Onde si può dire che il timore è la perfezione e la più pura quintessenza
dell'egoismo, perchè riduce l'uomo non solo a curar puramente le cose sue, ma a
staccarsi anche da queste per non curar che il puro e nudo se stesso, ossia la
nudissima esistenza del suo proprio individuo separata da qualunque altra
possibile esistenza. Fino le parti di se medesimo sacrifica l'uomo nel timore
per salvarsi la vita, alla quale, e a quel solo che l'è assolutamente necessario
in qualunque istante, si riduce e si rannicchia la cura e la passione dell'uomo
nel timore. Si può dir che il se stesso diviene allora più piccolo e ristretto
che può, affine di conservarsi, e consente a gettare tutte le proprie parti non
necessarie, per salvare quel tanto ch'
2208 è
inseparabile dal suo essere, che lo forma, e in cui esso necessariamente e
sostanzialmente consiste.
[2217,1]
Didone, Aen. 4. 659. seg.
Moriemur inultę,
Sed moriamur, ait. Sic sic iuvat ire sub umbras. *
Virgilio volle qui esprimere (fino e profondo sentimento, e degno di un uomo conoscitore de' cuori, ed esperto delle passioni e delle sventure, come lui) quel piacere che l'animo prova nel considerare e rappresentarsi non solo vivamente, ma minutamente, intimamente, e pienamente la sua disgrazia, i suoi mali; nell'esagerarli, anche, a se stesso, 2218 se può (che se può, certo lo fa), nel riconoscere, o nel figurarsi, ma certo persuadersi e proccurare con ogni sforzo di persuadersi fermamente, ch'essi sono eccessivi, senza fine, senza limiti, senza rimedio nè impedimento nè compenso nè consolazione veruna possibile, senza alcuna circostanza che gli alleggerisca; nel vedere insomma e sentire vivacemente che la sua sventura è propriamente immensa e perfetta e quanta può essere per tutte le parti, e precluso e ben serrato ogni adito o alla speranza o alla consolazione qualunque, in maniera che l'uomo resti propriamente solo colla sua intera sventura. Questi sentimenti si provano negli accessi di disperazione, nel gustare il passeggero conforto del pianto, (dove l'uomo si piglia piacere a immaginarsi più infelice che può), talvolta anche nel primo punto e sentimento o novella ec. del suo male ec.
Moriemur inultę,
Sed moriamur, ait. Sic sic iuvat ire sub umbras. *
Virgilio volle qui esprimere (fino e profondo sentimento, e degno di un uomo conoscitore de' cuori, ed esperto delle passioni e delle sventure, come lui) quel piacere che l'animo prova nel considerare e rappresentarsi non solo vivamente, ma minutamente, intimamente, e pienamente la sua disgrazia, i suoi mali; nell'esagerarli, anche, a se stesso, 2218 se può (che se può, certo lo fa), nel riconoscere, o nel figurarsi, ma certo persuadersi e proccurare con ogni sforzo di persuadersi fermamente, ch'essi sono eccessivi, senza fine, senza limiti, senza rimedio nè impedimento nè compenso nè consolazione veruna possibile, senza alcuna circostanza che gli alleggerisca; nel vedere insomma e sentire vivacemente che la sua sventura è propriamente immensa e perfetta e quanta può essere per tutte le parti, e precluso e ben serrato ogni adito o alla speranza o alla consolazione qualunque, in maniera che l'uomo resti propriamente solo colla sua intera sventura. Questi sentimenti si provano negli accessi di disperazione, nel gustare il passeggero conforto del pianto, (dove l'uomo si piglia piacere a immaginarsi più infelice che può), talvolta anche nel primo punto e sentimento o novella ec. del suo male ec.
[2242,2] Ogni uomo sensibile prova un sentimento di dolore, o
una commozione, un senso di malinconia, fissandosi col pensiero in una cosa che
sia finita per sempre, massime s'ella è stata al tempo suo, e familiare a lui.
Dico di qualunque cosa soggetta
2243 a finire, come la
vita o la compagnia della persona la più indifferente per lui (ed anche molesta,
anche odiosa), la gioventù della medesima; un'usanza, un metodo di vita. ec.
Fuorchè se questa cosa per sempre finita, non è appunto un dolore, una sventura
ec. {+o una fatica, o se l'esser finita,
non è lo stesso che aver conseguito il suo proprio scopo, esser giunta dove
per suo fine mirava ec.} Sebbene anche, nel caso che a questa ci siamo
abituati, proviamo ec. Solamente della noia non possiamo dolerci mai che sia
finita.
[2315,1] L'animo umano è sempre ingannato nelle sue speranze,
e sempre ingannabile: sempre deluso dalla speranza medesima, e sempre capace
2316 di esserlo: aperto non solo, ma posseduto dalla
speranza nell'atto stesso dell'ultima disperazione, nell'atto stesso del
suicidio. La speranza è come l'amor proprio, dal quale immediatamente deriva.
L'uno e l'altra non possono, per essenza e natura dell'animale, abbandonarlo mai
finch'egli vive, cioè sente la sua esistenza. (31. Dic. 1821.).
[2434,2] Che le passioni antiche fossero senza comparazione
più gagliarde delle moderne, e gli effetti loro più strepitosi, più risaltati,
più materiali,
2435 più furiosi, e che però
nell'espression loro convenga impiegare colori e tratti molto più risentiti che
in quella delle passioni moderne, è cosa già nota e ripetuta pp. 76.
sgg. Ma io credo che una differenza notabile bisogni fare tra le varie
passioni, appunto in riguardo alla maggiore o minor veemenza loro fra gli
antichi e i moderni comparativamente; e per comprenderle tutte sotto due capi
generali, io tengo per fermo (come fanno tutti) che il dolore antico fosse di
gran lunga più veemente, più attivo, più versato al di fuori, più smanioso e
terribile (quantunque forse per le stesse ragioni più breve) del moderno. Ma in
quanto alla gioia, ne dubiterei, e crederei che, se non altro in molti casi,
ella potesse esser più furiosa e violenta presso i moderni che presso gli
antichi, e ciò non per altro se non perch'ella oggidì è appunto più rara e breve
che fosse mai, come lo era nè più nè meno il dolore anticamente. Questa
osservazione potrebbe forse servire al tragico, al pittore, ed altri imitatori
delle passioni. Vero è che nel fanciullo e la gioia e il dolore sono del pari
2436 più violenti, ed altresì per la stessa ragione
più brevi che nell'adulto. Ed è vero ancora che l'abitudine dell'animo de'
moderni li porta a contenere dentro di se, ed a riflettere sullo spirito, senza
punto o quasi punto lasciarla spargere ed operare al di fuori, qualunque più
gagliarda impressione e affezione. Contuttociò credo che la detta osservazione
possa essere di qualche rilievo, massime intorno alle persone non molto o non
interamente colte e disciplinate, sia nella vita civile, sia nelle dottrine e
nella scienza delle cose e dell'uomo; e intorno a quelle che dall'esperienza e
dall'uso della vita, della società, e de' casi umani non sono {stati} bastantemente ammaestrati ad uniformarsi col
generale, nè accostumati a quell'apatia e noncuranza di se stesso e di tutto il
resto, che caratterizza il nostro secolo. (9. Maggio. 1822.).
[2471,1] Alla inclinazione da me più volte notata e spiegata
pp. 85-86
p. 230
pp. 339-40
pp. 486-88
pp. 1535-37, che gli uomini hanno a partecipare con altri i loro
godimenti o dispiaceri, e qualunque sensazione alquanto straordinaria, si dee
riferire in parte la difficoltà di conservare il secreto che s'attribuisce
ragionevolmente alle donne e a' fanciulli, e ch'è propria altresì di qualunque
altro è meno capace o per natura o per assuefazione di contrastare e vincere e
reprimere le sue inclinazioni. Ed è anche proprio pur troppe volte degli uomini
prudenti ed esercitati a stare sopra se stessi, i quali ancora provano, se non
altro, qualche difficoltà a tenere il segreto, e qualche voglia interna di
manifestarlo (anche con danno loro), quando sono sull'andare del confidarsi con
altrui, o semplicemente del conversare, o discorrere,
2472 o chiaccherare. {+Dico lo
stesso anche di quando il segreto non è d'altrui ma nostro proprio, e quando
noi vediamo che il rivelarlo fa danno solamente o principalmente a noi, e
come tale, ci eravamo proposto di tacerlo, e poi lo confidiamo per
isboccataggine.}
[2491,1] Or p. e. l'ira o l'impazienza del proprio male, non
è ella modificabilissima e diversissima, non solo in diverse specie, o
individui, ma in un medesimo individuo, secondo le circostanze? Ponetelo nelle
sventure ed assuefatecelo. Sia pure impazientissimo per natura; col tempo e
coll'assuefazione, diviene pazientissimo. (Testimonio io per ogni parte di
questa proposizione). {+Fate che questo
medesimo non abbia mai provato sventure, o assuefatelo di nuovo alla
prosperità, o supponete in una di queste due circostanze un altro
individuo,} e sia egli di natura mansuetissima. Ogni menomo male lo
pone in impazienza. Or qual effetto più sostanziale dell'amor proprio, che
l'impazienza del male di questo sè che
si ama? E pur questa
2492 impazienza è maggiore e
minore secondo le nature, le specie, gl'individui, e le circostanze e le
assuefazioni di un medesimo individuo. Così dunque l'amor proprio del qual essa
è opera. (22. Giugno. 1822.).
[2628,2]
Isocrate nel Panegirico p. 150,
cioè poco dopo il mezzo, raccontando i mali fatti da' fautori de' Lacedemoni
(Λακωνίζοντες) alle loro città, dice dei medesimi: εἰς
τοῦτο δ᾽ ὠμότητος ἅπαντας ἡμᾶς κατέστησαν, ὥστε πρὸ τοῦ μὲν διὰ τὴν
παροῦσαν εὐδαμονίαν, κᾄν ταῖς μικραῖς ἀτυχίαις, πολλοὺς ἕκαστος
ἡμῶν
*
(parla dei privati cioè di ciascun cittadino) εἶχε τοὺς συμπαϑήσοντας∙ ἐπὶ δὲ τῆς τούτων ἀρχῆς, διὰ τὸ
πλῆϑος τῶν οἰκείων κακῶν, ἐπαυσάμεϑα ἀλλήλους ἐλεοῦντες. Oὐδενὶ γὰρ
τοσαύτην
2629 σχολὴν παρέλιπον, ὥσϑ' ἑτέρῳ
συναχϑεσϑῆναι
*
. E veramente {l'abito
della} propria sventura rende l'uomo crudele ὠμὸν[ὠμόν], come dice costui. (30. Sett. 1822.).
{{Vedi la p. seg. pensiero primo
[p. 2630,1].}}
[2643,1]
2643 L'amor della vita cresce quasi come l'amor del
danaio, e, com'esso, cresce in proporzione che dovrebbe scemare. Perciocchè i
giovani disprezzano e prodigano la vita loro, ch'è pur dolce, e di cui molto
avanza loro; e non temono la morte: e i vecchi la temono sommamente, e sono
gelosissimi della propria vita, ch'è miserabilissima, e che ad ogni modo poco
hanno a poter conservare. E così il giovane scialacqua il suo, come s'egli
avesse a morire fra pochi dì, e il vecchio accumula e conserva e risparmia come
s'avesse a provvedere a una lunghissima vita che gli restasse. (24. Ottob.
1822.).
[2803,1] Altro è il timore altro il terrore. Questa è {passione} molto più forte {e
viva} di quella, e molto più avvilitiva dell'animo e sospensiva
dell'uso della ragione, {+anzi quasi di
tutte le facoltà dell'animo, ed anche de' sensi del corpo.}
2804 Nondimeno la prima di queste passioni non cade
nell'uomo perfettamente coraggioso o savio, la seconda sì. Egli non teme {mai,} ma può sempre essere atterrito. Nessuno può
debitamente vantarsi di non poter essere spaventato. (21. Giugno
1823.).
[3107,1] Altra proprietà dell'uomo si è che laddove la
superiorità, laddove la virtù congiunta colla fortuna non produce se non un
interesse debole, cioè l'ammirazione; per lo contrario la sventura in qualunque
{caso}, ma molto più la sventura congiunta colla
virtù, produce un interesse vivissimo, durevole e dolcissimo. Perocchè l'uomo si
compiace nel sentimento della compassione, perchè nulla sacrificando, ottiene
con essa quel sentimento che in ogni cosa e in ogni occasione gli è gratissimo,
cioè una quasi coscienza di proprio eroismo e nobiltà d'animo. La sventura è
naturalmente cagione di dispregio e anche d'odio verso lo sventurato, perchè
l'uomo per natura odia, come il dolore, così le idee dolorose. Mirando dunque,
malgrado la sciagura, alla virtù dello sciagurato, e non {abbominandolo nè} disdegnandolo quãtunque[quantunque] tale, e finalmente giungendo a compassionarlo, cioè a
voler coll'animo entrare a parte de' suoi
3108 mali,
pare all'uomo di fare uno sforzo sopra se stesso, di vincere la propria natura,
di ottenere una prova della propria magnanimità, di avere un argomento con cui
possa persuadere a se medesimo di esser dotato di un animo superiore
all'ordinario; tanto più ch'essendo proprio dell'uomo l'egoismo, e il
compassionevole interessandosi per altrui, stima con questo interesse che niun
sacrifizio gli costa, mostrarsi a se stesso straordinariamente magnanimo,
singolare, eroico, più che uomo, poichè può non essere egoista, e impegnarsi
seco medesimo per altri che per se stesso. L'uomo nel compatire s'insuperbisce e
si compiace di se medesimo: quindi è ch'egli goda nel compatire, e ch'ei si
compiaccia della compassione. {Veggansi le pagg. 3291-97. e
3480-2.}
L'atto della compassione è un atto d'orgoglio che l'uomo fa tra se stesso. Così
anche la compassione che sembra l'affetto il più lontano, anzi il più contrario,
all'amor proprio, e che sembra non potersi in nessun modo e per niuna parte
ridurre o riferire a questo amore, non
3109 deriva in
sostanza (come tutti gli altri affetti) se non da esso, anzi non è che amor
proprio, ed atto di egoismo. {+Il quale arriva a prodursi e fabbricarsi un piacere
col persuadersi di morire, o d'interrompere le sue funzioni, applicando
l'interesse dell'individuo ad altrui. Sicchè l'egoismo si compiace
perchè crede di aver cessato o sospeso il suo proprio essere di egoismo.
V. p.
3167.}
[3117,1] Come la stima, così la compassione verso il nimico,
ancorchè vinto e virtuoso era impropria di quei tempi. (Vedi quello che altrove
ho detto p. 2760
pp.
3108-109 in proposito d'un'azione d'Enea appo Virgilio, dopo
morto Pallante). Gli animi naturali
non provano nella vittoria altro piacere che quello della vendetta. La
compassione, anche generalmente parlando (cioè quella ancora che cade sulle
persone non inimiche) nasce bensì, come di sopra ho detto,
3118 dall'egoismo, ed è un piacere, ma non è già propria nè degli
animali nè degli uomini in natura, nè anche, se non di rado e scarsamente, degli
animi ancora quasi incolti (quali erano i più a' tempi eroici). Questo piacere
ha bisogno di una delicatezza e mobilità di sentimento o facoltà sensitiva, di
una raffinatezza e pieghevolezza di egoismo, per cui egli possa come un serpente
ripiegarsi fino ad applicarsi ad altri oggetti e persuadersi che tutta la sua
azione sia rivolta sopra di loro, benchè realmente essa riverberi tutta ed operi
in se stesso e a fine di se stesso, cioè nell'individuo che compatisce. Quindi è
che anche nei tempi moderni e civili la compassione non è propria se non degli
animi colti e dei naturalmente delicati e sensibili, cioè fini e vivi. Nelle
campagne dove gli uomini sono pur meno corrotti che nelle città, rara, e poco
intima e viva, e di poca efficacia e durata è la compassione. Ma lo spirito di
Omero era certamente
3119 vivissimo e mobilissimo, e il sentimento
delicatissimo e pieghevolissimo. Quindi egli provò il piacere della compassione,
lo trovò, qual egli è, sommamente poetico, perocch'egli, oltre alla dolcezza,
induce nell'animo un sentimento di propria nobiltà e singolarità che l'innalza e
l'aggrandisce a' suoi occhi, vero e proprio effetto della poesia. {Veggasi la p. 3167-8. e pagg. 3291-7.
} Volle dunque introdurlo nel suo poema, anzi farne l'uno de'
principali fini del medesimo, l'uno de' principali piaceri prodotti dalla sua
poesia. Volle accompagnar questo piacere e questo affetto con quello della
maraviglia, affetto appartenente all'immaginazione e non al cuore, che fino a
quel tempo era forse stato l'unico {+o il
principal} effetto della poesia. Volle che il suo poema operasse
continuamente del pari e sulla immaginazione e sul cuore, e dall'una e
dall'altra sua facoltà volle trarlo, cioè da quella d'immaginare e da quella di
sentire. Questo suo intento è manifestissimo
3120 nel
suo poema, più manifesto che appo gli altri poeti greci venuti a tempi più
colti, più eziandio che ne' tragici appo i quali il terrore e la maraviglia
prevalgono ordinariamente alla pietà, e spesso son soli, sempre tengono il primo
luogo. Vedesi apertamente che Omero si
compiace nelle scene compassionevoli, che se il soggetto e l'occasione gliene
offrono, egli immediatamente le accetta, che altre ne introduce a bella posta e
cercatamente (come l'abboccamento d'Ettore e Andromaca
{a introdurre} il quale, e non ad altro, è destinata e
ordinata quella improvvisa venuta d'Ettore in troia, nel maggior
fuoco della battaglia, e in tempo che può veramente parere inopportuno {intempestivo} e imprudente), e che nell'une e nell'altre
ei non trascorre, ma ci si ferma e ci si diletta, e raccoglie tutte le
circostanze che possono {eccitare e} accrescere la
compassione, e le sminuzza, e le rappresenta con grandissima arte e intelligenza
del cuore umano. E il soggetto di tutte
3121 queste
scene dove l'animo de' lettori è sommamente interessato non sono altri che
quegli stessi che Omero ha tolto a
deprimere, i nemici de' greci ch'egli ha preso ha[ad] esaltare. Nè pertanto egli s'astiene dal volere a ogni modo far
piangere sopra i troiani, e deplorare ai medesimi greci quelle sventure ch'essi
avevano cagionate, del che egli nel tempo stesso sommamente li celebra.
[3152,1] Da questa digressione, non aliena, cred'io, dal
proposito, tornando in via, ci resta a considerare come sia strano e quasi
assurdo che Omero in tempi feroci abbia
tanto fatto giuocare la compassione nel suo poema, n'abbia fatto un interesse
principale e finale, abbia seguito e ottenuto il suo intento in modo che anche
oggidì, mancato l'altro interesse all'iliade, non si può forse
tuttavia legger cosa che
3153 tanto interessi, non
avesse riguardo di far cadere ed esaggerare la compassione {quasi unicamente}
sopra i nemici de' greci suoi compatriotti, a' quali scriveva, i quali non
istimavano gran fatto la gerosità[generosità]
verso il nemico, anzi apprezzavano la qualità opposta; e che i poeti moderni
abbiano fatto ed espressamente esclusa la compassione dal grado d'interesse
finale, abbiano per lo più evitato di farne cader più che tanta sopra i nemici
della parte e dell'Eroe da lor presi a lodare (la compassione per Clorinda nella
Gerusalemme non dava scrupolo al Tasso perch'ei la fa morir convertita, {e nel med. canto la scuopre per cristiana di genitori e di
nazione;} sì ch'ella cade in ultimo, secondo l'intenzione finale del
poeta, sopra una Cristiana), ec. ec. In verità egli sarebbe stato credibile, e
certo {egli avrebbe dovuto} accadere, tutto
l'opposto.
[3265,1]
3265 Si può dire che le viste, i disegni, {i proponimenti, i fini,} le speranze, i desiderii
dell'uomo, tutto ciò in somma che ne' suoi pensieri ha relazione al futuro,
tanto più si stendono, cioè tanto più mirano e tendono, o giungono, lontano,
quanto minore naturalmente è lo spazio di vita che gli rimane, {e viceversa.} Niun pensiero del bambino appena nato ha
relazione al futuro, se non considerando come futuro l'istante che dee succedere
al presente momento, perocchè il presente non è in verità che istantaneo, e
fuori di un solo istante, il tempo è sempre e tutto o passato o futuro. Ma
considerando il presente e il futuro non esattamente e matematicamente, ma in
modo largo, secondo che noi siamo soliti di concepirlo e chiamarlo, si dee dire
che il bambino non pensa che al presente. Poco più là mira il fanciullo; ond'è
che proporre al fanciullo (p. e. negli studi) uno scopo lontano (come la gloria
e i vantaggi ch'egli acquisterà nella maturità della vita o nella vecchiezza, o
anche pur nella giovanezza), è assolutamente inutile per muoverlo (onde è
sommamente giusto ed utile l'adescare il fanciullo allo studio col proporgli
onori o vantaggi ch'egli
3266 possa e debba conseguire
ben tosto, e quasi di giorno in giorno, che è come un ravvicinare a' suoi occhi
lo scopo della gloria e della utilità {degli studi,}
senza il quale ravvicinamento è impossibile ch'ei fissi mai gli occhi in detto
scopo, e per conseguirlo si assoggetti volentieri alle fatiche e alle sofferenze
ripugnanti alla natura, che gli studi richieggono). Più si stendono le viste del
giovane, ma meno assai di quelle dell'uomo maturo e riposato, i cui calcoli sul
futuro oltrepassano bene spesso, senza ch'ei se n'avvegga, lo spazio di vita
naturalmente concesso ai mortali. Perciocchè l'uomo maturo comincia già a
compiacersi supremamente e contentarsi della speranza, e pascerne la sua vita.
Della quale speranza si nutre parimente, e con essa favella e delira anche il
giovane, e il fanciullo altresì; ma non in modo che d'essa si contentino, e che
non cerchino di prontamente effettuarla e recarla in opera, e venire al fatto.
Il che nasce dall'ardore di quelle età, dall'attività dell'animo unita e
cospirante con quella del corpo, dalla
3267 freschezza
e forza del loro amor proprio, e quindi dall'energia ed efficacia de' loro
desiderii impazienti d'indugio, e però non sofferenti di proporsi un oggetto
ch'ei non possano o ch'ei non credano di potere in poco spazio e dentro un
picciolo termine conseguire; finalmente dall'inesperienza ch'egli hanno intorno
alla vanità delle umane speranze, alla difficoltà che l'uomo prova in condurle a
fine, e alla nullità eziandio degli stessi beni sperati, la quale
inevitabilmente apparisce così tosto com'ei sono posseduti. Le contrarie cagioni
producono la lunghezza e lontananza delle viste nell'uomo maturo; e l'eccesso di
dette contrarie qualità producono l'eccesso del contrario effetto nella
vecchiezza, la quale ridotta a non potersi ragionevolmente promettere più che un
brevissimo avanzo di vita, pure nella estensione delle sue viste supera {+di gran lunga} tutte le altre età
dell'uomo. Perocchè il vecchio per la debolezza di corpo e d'animo, e pel
disinganno de' beni umani già provati, e per lo illanguidimento dell'amor
proprio che va di pari colla quasi diminuzione e raffreddamento
3268 della vita, non è capace se non di fievoli
desiderii, e quindi si contenta di propor loro uno scopo lontano e in esso
fermarli, e i suoi desiderii si contentano di rimanervi; per la {diuturna} esperienza fatta della vanità e del tristo
esito delle speranze, con un quasi stratagemma, le indirizza a luoghi così
lontani ch'elle non possano se non assai tardi o non mai, avvicinandosi a quelli
e giungendovi, scomparire; per la irresoluzione propria dell'età sua, rimettendo
ogni azione al dipoi, e costretto di rimettere eziandio e quasi differire le sue
speranze, e gli oggetti de' suoi desiderii e il loro conseguimento ch'ei si
propone, o ch'ei si compiace, per dir meglio, di vagheggiare; e per {l'abito della} tardità e lentezza nell'operare a cui la
gravezza e l'impotenza dell'età lo costringe, e per la pigrizia e negligenza e
torpore dell'animo che ne deriva {+e n'è
pur cagione,} i suoi desiderii altresì e le sue speranze ne divengono
tarde e pigre e lente e quasi trascurate (benchè sempre però bastantemente vive
per mantenerlo e quasi allattarlo, come alla vita umana
3269 indispensabilmente ricercasi), ed ei giunge a persuadersi fra se
stesso non con l'intelletto, ma con l'immaginazione e con la non ragionata
abitudine dell'altre facoltà del suo spirito, che il tempo e la natura {e le} cose sian {divenute} ed
abbiano a riuscir così lente e pigre com'esso {necessariamente} è. (26. Agosto. 1823.)
[3271,1] Secondo ch'io osservo e che si potrà spiegare colle
ragioni da me recate in altri luoghi pp. 97-99
p.
1589
p.
1605, l'abito di compatire, quello di beneficare, o di operare in
qualunque modo per altrui, e, mancando ancora la facoltà, l'inclinazione alla
beneficenza e all'adoperarsi in pro degli altri, sono sempre (supposta la parità
delle altre circostanze di carattere o indole, educazione, coltura di spirito, o
rozzezza, e simili cose) in ragion diretta della forza, della felicità, del poco
o niun bisogno che l'individuo ha dell'opera e dell'aiuto altrui, ed in
proporzione inversa della debolezza, della infelicità, dell'esperienza delle
sventure e dei mali, sieno passati, o massimamente presenti, del bisogno che
l'uomo ha degli altrui soccorsi ed uffici. {Veggansi le pagg.
3765-68.} Quanto più l'uomo è in istato di esser
3272 soggetto di compassione, o di bramarla, o di
esigerla, e quanto più egli la brama o l'esige, anche a torto, e si persuade di
meritarla, tanto meno egli compatisce, perocch'egli allora rivolge in se stesso
tutta la natural facoltà, e tutta l'abitudine che forse per lo innanzi egli
aveva, di compatire. Quanto l'uomo ha maggior bisogno della beneficenza altrui,
tanto meno egli è, non pur benefico, ma inclinato a beneficare; tanto meno egli
non solo esercita, ma ama in se quella beneficenza che dagli altri desidera o
pretende, e crede a torto o a ragione di meritare, o di abbisognarne. L'uomo
debole, e sempre bisognoso di quegli uffici maggiori o minori che si ricevono e
si rendono nella società, e che sono il principale oggetto a cui la società è
destinata, o quello a cui principalmente dovrebbe servire la scambievole
comunione degli uomini; pochissimo o nulla inclina a prestar la sua opera
altrui, e di rado o non mai, o bene scarsamente la presta, ancor dov'ei può, ed
{ancora} agli uomini più deboli e più bisognosi di
lui. L'uomo assuefatto alle sventure, e
3273 massime
quegli a cui la vita è sinonimo e compagno del patimento, nulla sono mossi, o
del tutto inefficacemente, dalla vista o dal pensiero degli altri mali e
travagli e dolori. L'amor proprio in un essere infelice è troppo occupato
perch'egli possa dividere il suo interesse tra questo essere e i di lui simili.
Assai egli ha da esercitarsi quando egli ha le sue proprie sventure; sieno pur
molto minori di quelle che se gli rappresentano in qualunque modo in altrui. Se
le proprie sventure sono presenti, la compassione, come ho detto, tutta rivolta
e impiegata sopra se stesso, in esso lui si consuma, e nulla n'avanza per gli
altri. Se sono passate, posto ancora che piccolissime fossero, la rimembranza di
esse fa che l'uomo non trovi nulla di straordinario nè di terribile ne'
patimenti e disastri degli altri, nulla che meriti di farlo {come} rinunziare al suo amor proprio per impiegarlo in altrui
beneficio; come già pratico del soffrire, egli si contenta di consigliar
tacitamente e fra se stesso agl'infelici, che si rassegnino alla lor sorte, e si
crede in diritto di esigerlo, quasi
3274 egli medesimo
n'avesse già dato l'esempio; perocchè ciascuno in qualche modo si persuade di
aver tollerato o di tollerare le sue disgrazie e le sue pene virilmente al
possibile, e con maggior costanza, che gli altri, o almeno il più degli uomini,
nel caso suo, non farebbero o non avrebbero fatto; nella stessa guisa che
ciascuno si pensa sopra tutti gli altri essere o essere stato indegno de' mali
ch'ei sostiene o sostenne. Oltre di che l'abito d'insensibilità verso l'altrui
sciagure, contratto nel tempo ch'ei fu sventurato, non è facile a
dispogliarsene, sì perch'esso è troppo conforme all'amor proprio, che vuol dire
alla natura dell'uomo; sì perchè grande e profonda è l'impressione che fa nel
mortale la sventura, e quindi durevole l'effetto che produce e che lascia, e ben
sovente decisivo del suo carattere per tutta la vita, e perpetuo.
[3432,1] Per molte cagioni, anche lievi, l'uomo si getta al
pericolo, anche della morte; di più sacrifica
3433
determinatamente se stesso, danari, robba, comodità, speranze ec. Ma ben pochi
si trovano che per cagioni anche gravi, anche per vive passioni, per amore
ardente ec. si sottopongano o sieno veramente capaci di sottoporsi a un dolore
corporale, anche non grande. S'incontra spesso e facilmente, a occhi veggenti e
volontariamente il pericolo della morte, e quegli stessi non son capaci
d'incontrar volontariamente e scientemente un dolor corporale certo. (15.
Sett. 1823.)
[3433,1] Che il timore sia, come ho detto altrove pp.
458-59
pp.
1303-304, più naturale all'uomo della speranza, e che l'uomo inclini
più a questo che a quello[quella], veggasi che
qualora gli uomini ignorano le cagioni degli effetti o naturali o artifiziali,
ordinariamente ne temono; e tanto è quasi, per gl'ignoranti massimamente e
primitivi e selvaggi e fanciulli, effetto di cagione nascosta, quanto effetto
spaventoso. Or quando mai la speranza è così temeraria? Di più se l'ignoranza,
{+superstizione ec.} portò
anticamente
3434 o porta oggidì a pigliar
qualch'effetto nuovo o sconosciuto per presagio dell'avvenire o per segno del
presente ignoto, osservisi che generalmente questi presagi e questi segni furono
creduti sinistri. Lascio l'ecclissi le quali possono parere spaventose
naturalmente a chi ne ignora la cagione, non ne ha mai veduto ec., e da questo
primitivo spavento può {ben} esser nata l'opinione del
cattivo augurio che loro si attribuì, e che le rese spaventose per sì lungo
tempo presso tutte le nazioni, e fin anche al di d'oggi, benchè già si sapesse e
si sappia che l'oscurazione non era per durar sempre ma passeggera ec. Ma le
comete che cosa hanno di spaventevole per se, più ch'altro corpo celeste, o che
la via lattea ec.? E volendole pigliare per segni o presagi, perchè non di bene?
ma non si troverà nazione dov'elle fossero o sieno stimate annunziare altro che
male. Quelli che gli antichi chiamavano mostri, cioè cose straordinarie, benchè
nulla terribili per se stesse e materialmente tutte erano stimate cattivi
augurii. Così nelle vittime il mancare del cuore, s'è pur vero che ciò accadesse
talvolta, come gli antichi narrano,
3435 o che paresse
così per errore di chi inspiciebat le viscere ec.
Tutti segni che l'uomo è più facile e proclive a temere che a sperare; e che
questo è di rado così irragionevole e precipitoso come quello; o certo ben più
di rado ec. Massimamente in natura, ne' fanciulli, negl'ignoranti e negli uomini
naturali. (15 Sett. 1823.).
[3488,2] Molti sono timidi i quali sono insieme
coraggiosissimi. Voglio dire che molti si perdono d'animo nella società, i quali
nè fuggono nè temono ed anche volontariamente incontrano i pericoli
3489
{e i danni e le fatiche e le sofferenze ec.;} e non
sostengono gli sguardi o le parole amichevoli o indifferenti di tali di cui
sosterrebbero facilissimamente l'aspetto minaccioso e l'armi nemiche in
battaglia o in duello. La timidità spetta per così dire ai mali dell'animo, il
coraggio a quelli del corpo. L'una teme de' danni e delle pene interne, l'altro
brava i danni e le sofferenze esteriori. L'una s'aggira intorno allo spirituale,
l'altro al materiale. E tanto è lungi che la timidità escluda il coraggio, che
anzi ella piuttosto lo favorisce, e da essa si può dedurre {con verisimiglianza} che l'uomo che n'è affetto sia coraggioso.
Perocchè la timidità è abito di temer la vergogna, la quale assai facilmente e
spesso incontra chi teme e fugge i pericoli. Onde il temer la vergogna, ch'è
male, per così dire, interno e dell'animo, giacchè nulla nuoce al corpo nè alle
cose esteriori, ed opera sul pensiero solo, ed ai sensi non dà noia; fa che
l'uomo non tema i danni esteriori, e non fugga e, bisognando, affronti il
pericolo {+ed eziandio la certezza}
di soffrirli, preponendo i mali o i pericoli esterni e materiali agl'interni e
spirituali,
3490 e l'anima, per così dire, al corpo; e
volendo innanzi soffrire ne' sensi, nella roba ec. che nello spirito, e morire
piuttosto che patir la {pena della} vergogna. Chè {in} questo e non altro consiste quel coraggio che viene
da sentimento di onore, e gli effetti del medesimo. Il qual coraggio ha origine
e fondamento, anzi è esso stesso una spezie di timidità, o certo {una spezie} di qualità contraria alla sfrontatezza,
all'impudenza, all'inverecondia. (21. Sett. Festa della Beatissima Vergine
Addolorata. 1823.). {{V. la pag. seg. [p.
3491,3].}}
[3497,1] Le speranze che dà all'uomo il Cristianesimo sono
pur troppo poco atte a consolare l'infelice e il travagliato in questo mondo, a
dar riposo all'animo di chi si trova impediti quaggiù i suoi desiderii,
ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l'adito ai
piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla
fortuna. La {promessa e l'aspettativa}
{di} una felicità grandissima e somma ed intiera bensì,
ma 1.o che l'uomo non può comprendere nè immaginare nè pur concepire o
congetturare in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione, 2.o
ch'egli sa bene di non poter mai nè concepire nè immaginare nè averne veruna
idea finchè gli durerà questa vita, 3.o ch'egli sa espressamente esser di natura
affatto diversa ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da quella
che quaggiù gli è negata, da quella il cui desiderio e la cui privazione forma
il soggetto e la causa della sua infelicità; una tal promessa, dico, e una tale
3498 espettativa è ben poco atta a consolare in
questa vita l'infelice e lo sfortunato, a placare {e
sospendere} i suoi desiderii, a compensare quaggiù le sue privazioni.
La felicità che l'uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una
felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo
tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di
questa vita e di questa esistenza, non di un'altra vita e di una esistenza che
noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo
concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la perfezione e il fine
dell'esistenza. Noi desideriamo di esser felici perocchè esistiamo. Così
chiunque vive. È chiaro adunque che noi desideriamo di esser felici, non
comunque si voglia, ma felici secondo il modo nel quale infatti esistiamo. {#1. L'uomo non desidera la felicità
assolutamente, ma la felicità umana (così gli altri animali), nè la felicità
qualch'ella sia, ma una tale, benchè non definibile, felicità. Ei la
desidera somma e infinita, ma nel suo genere, non infinita in questo senso
ch'ella comprenda la felicità del bue, della pianta, dell'Angelo e tutti i
generi di felicità ad uno ad uno. Infinita è realmente la sola felicità di
Dio. Quanto all'infinità, l'uomo desidera una felicità come la divina, ma
quanto all'altre qualità ed al genere di essa felicità, l'uomo non potrebbe
già veramente desiderare la felicità di Dio. L'uomo che invidia al suo
simile un vestito, una vivanda, un palagio, non è propriamente mai tocco nè
da invidia nè da desiderio dell'immensa e piena felicità di Dio, se non solo
in quanto immensa, e più in quanto piena e perfetta. Veggasi la p. 3509. massime in
margine.} È chiaro che la nostra esistenza desidera la
perfezione e il fin suo, non già di un'altra esistenza, e questa a lei
inconcepibile. La nostra esistenza desidera dunque la sua propria felicità; chè
desiderando quella di un'altra esistenza, ancorch'ella in questa s'avesse poi a
tramutare, desidererebbe, si può dire, una felicità non propria ma altrui,
3499 ed avrebbe per ultimo e vero fine non se stessa,
ma altrui, il che è essenzialmente impossibile a qualsivoglia Essere in
qualsivoglia operazione o inclinazione o pensiero ec. Laonde la felicità che
l'uomo desidera è necessariamente una felicità conveniente e propria al suo
presente modo di esistere, e della quale sia capace la sua presente esistenza.
Nè egli può mai lasciare di desiderar questa felicità per niuna ragione, nè per
niuna ragione può mai desiderare altra felicità che questa. E non è più
possibile che l'uomo mortale desideri veramente la felicità de' Beati, di quello
che il cavallo la felicità dell'uomo, o la pianta quella dell'animale; di quel
che l'animale erbivoro invidii al carnivoro o la sua natura, o la carne di cui
lo vegga cibarsi, all'uomo il piacere degli studi e delle cognizioni, piacere
che l'animale non può concepire nè che possa esser piacere, nè come, nè qual
piacere sia; e così discorrendo. E ben vero che nè l'uomo, nè forse l'animale nè
verun altro essere, può esattamente definire {+nè a se stesso nè agli altri,} qual sia
assolutamente e in generale la felicità ch'ei desidera; perocchè
3500 niuno forse l'ha mai provata, nè proveralla, e
perchè infiniti altri nostri concetti, ancorchè ordinarissimi e giornalieri,
sono per noi indefinibili. Massime quelli che tengono più della sensazione che
dell'idea; che nascono più dall'inclinazione e dall'appetito, che
dall'intelletto, dalla ragione, dalla scienza; che sono più materiali che
spirituali. Le idee sono per lo più definibili, ma i sentimenti quasi mai;
quelle si possono bene e chiaramente e distintamente comprendere ed abbracciare
e precisar col pensiero, questi assai di rado o non mai. Ma ciò non ostante, sì
l'animale che l'uomo sa bene e comprende, o certo sente, che la felicità ch'ei
desidera è cosa terrena. Quell'infinito medesimo a cui tende il nostro spirito
(e in qual modo e perchè, s'è dichiarato altrove pp. 165. sgg.
pp.
179-81
pp.
3027-29), quel medesimo è un infinito terreno, bench'ei non possa aver
luogo quaggiù, altro che confusamente nell'immaginazione e nel pensiero, o nel
semplice desiderio ed appetito de' viventi. Oltre di ciò niuno è che viva
senz'alcun desiderio determinato e chiaro e definibilissimo, negativo o
positivo, nel conseguimento
3501 del quale o di più
d'uno di loro, ei ripone sempre o espressamente o confusamente, benchè pur
sempre per errore, la sua felicità e 'l suo ben essere. Quel trovarsi senz'alcun
desiderio al mondo, se non quello di un non so che, {#1. quell'essere infelice senza mancare di niun bene nè
patire assolutamente niun male,} è impossibile; e se Augusto diceva d'essere in questo caso,
poteva parergli che così fosse, ma s'ingannava; e niuno mai si trovò veramente
in tal caso nè è per trovarvisi, perchè a niuno mai mancò nè è per mancar
materia di qualche desiderio determinato, più o men vivo, o ch'esso miri a cosa
che ci manchi, o a cosa che noi abbiamo e ci dispiaccia. {#2. Anzi a nessuno è per mancar mai materia di molti e
vivi desiderii determinati di questa specie.} Or tutti questi
desiderii determinati che noi abbiamo, ed avremo sempre, e che non soddisfatti,
ci fanno infelici, sono tutti di cose terrene. Promettere all'uomo, promettere
all'infelice una felicità celeste, benchè intera e infinita, {e superiore senza paragone alla terrena, e a' piccoli beni ch'egli
desidera,} si è come a un che si muor di fame e non può ottenere un
tozzo di pane, preparargli un letto morbidissimo, o promettergli degli
squisitissimi e beatissimi odori. Con questo divario che l'affamato concepirebbe
pure il piacer che fosse per provare il suo odorato da quella sensazione,
3502 e questo piacere sarebbe della medesima natura di
quello ch'ei desidera e non ottiene, cioè materiale e sensibile come l'altro.
Non così possiamo dire de' piaceri celesti promessi a chi desidera e non ottiene
i terreni, nel qual caso l'uomo si trova naturalmente e necessariamente sempre,
e l'infelice massimamente, benchè tutti a rigore sono infelici, e lo sono perchè
tutti e sempre si trovano nel detto caso. Ora i piaceri celesti, al contrario di
ciò che s'è detto qui sopra, son di natura affatto diversi da quelli che noi
desideriamo e non ottenghiamo, e non ottenendo siamo infelici; e questa lor
natura non può da noi per verun modo mai essere conceputa. Onde segue che la
consolazione che può derivare dallo sperarli, sia nulla in effetto; perchè a chi
desidera una cosa si promette un'altra ch'è diversissima da quella; a chi è
misero per un desiderio non soddisfatto, si promette di soddisfare un desiderio
ch'ei non ha e non può per sua natura avere nè formare; a chi brama un piacer
noto, e si duole di un male noto, si promette un piacere e un bene ch'ei non
conosce nè può conoscere, {e} ch'ei non vede nè può
vedere come sia per esser bene, {e} come possa
piacergli;
3503 a chi è misero in questa vita, e
desidera necessariamente la felicità di questa esistenza, ed altra esistenza non
può concepire nè desiderarne la felicità, si promette la beatitudine di una
tutt'altra esistenza e vita, di cui questo solo gli si dice, ch'ella è
sommamente e totalmente e più ch'ei non può immaginare diversa dalla sua
presente, e ch'ei non può figurarsi per niun conto qual ella sia. Come l'uomo
non può nè collo intelletto nè colla immaginazione nè con veruna facoltà nè
veruna sorta d'idee oltrepassare d'un sol punto la materia, e s'egli crede
oltrepassarla, e concepire o avere un'idea qualunque di cosa non materiale,
s'inganna del tutto; così egli non può col desiderio passare d'un sol punto i
limiti della materia, nè desiderar bene alcuno che non sia di questa vita e di
questa sorta di esistenza ch'ei prova; e s'ei crede desiderar cosa d'altra
natura, s'inganna, e non la desidera, ma gli pare di desiderarla. Come dunque ei
non può desiderar bene alcuno d'altra natura, così la promessa e la speranza di
tali beni, non può per modo alcuno
3504 consolarlo
realmente nè de' mali di questa vita nè della mancanza de' di lei beni, {+nè (quando e' non fosse infelice)
rallegrarlo e dilettarlo e compiacerlo colla dolcezza dell'aspettativa, e
intrattenerlo e contribuire quaggiù al suo contento.} Di più, l'uomo
si pasce per verità e si sostiene e vive grandissima parte della sua vita, anzi
pur tutta la vita sua, della speranza, ancorchè lontana, la qual è un piacere,
ma come e perchè? Perchè l'uomo va immaginando e contemplando seco stesso {a parte} a parte il godimento ch'egli attende o spera, e
prova diletto nel considerare e rappresentarsi il modo in che egli ne godrà,
{+e le sue qualità e condizioni e
circostanze,} anticipando ed {anzi}
assaporando {effettivamente} colla immaginazione mille
volte il piacer futuro. Ma questa contemplazione, questa rappresentazione,
quest'anticipazione, questo gusto o assaggio, questo deliro o sogno che ci fa
parere e ci rende infatti presente il piacer futuro, ancor più ch'ei nol sarà
quando si troverà presente in effetto (se egli si troverà mai presente), come
può aver luogo intorno a un piacere assolutamente inconcepibile, non solo nel
più e nel meno, o nella specie, ma nel genere, di modo che le nostre idee non
hanno alcun potere di abbracciarne o di avvicinarne nè pure una menoma parte?
Come ci può per verun deliro {o veruno sforzo}
dell'immaginazione {o dell'intelletto} parer presente
3505 quello a cui nè l'immaginazione nè
l'intelletto non si possono {neppure} a grandissimo
tratto avvicinare; quello che non è fatto nè per questa immaginazione nè per
questo intelletto; quello ch'è di natura affatto diversa da ciò che
l'immaginazione o l'intelletto può concepire o congetturare; quello che non
sarebbe ciò ch'egli è, s'a noi fosse possibile pure il congetturarlo; quello che
spetta a tutt'altra natura che la nostra presente? Come può per alcun modo o in
alcuna parte entrar nella mente nostra {una tutt'}altra
natura?
[3518,1] Superiorità della natura sulla ragione,
dell'assuefazione (ch'è seconda natura) sulla riflessione. - Mio timor panico
d'ogni sorta di scoppi, non solo pericolosi, (come tuoni ec.), ma senz'ombra di
pericolo (come spari festivi ec.); timore che stranamente e invincibilmente
3519 mi possedette non pur nella puerizia, ma
nell'adolescenza, quando io era bene in grado di riflettere e di ragionare, e
così faceva io infatti, ma indarno per liberarmi da quel timore, benchè ogni
ragione mi dimostrasse ch'egli era tutto irragionevole. {Io non credeva che vi fosse pericolo, e sapeva che non
v'era pericolo nè che temere; ma io temeva niente manco che se io avessi
saputo e creduto e riflettuto il contrario. (puoi vedere la p. 3529.).} Non potè nè la
ragione nè la riflessione liberarmi di quel timore irragionevolissimo,
perch'esso m'era cagionato dalla natura. Nè io certo era de' più stupidi e
irriflessivi, nè di quelli che men vivono secondo ragione, e meno ne sentono la
forza, e son meno usi di ragionare, e seguono più ciecamente l'istinto o le
disposizioni naturali. Or quello che non potè per niun modo la ragione nè la
riflessione contro la natura, lo potè in me la natura stessa e l'assuefazione; e
il potè contro la ragione medesima e contro la riflessione. Perocchè coll'andar
del tempo, anzi dentro un breve spazio, essendo io stato forzato in certa
occasione a sentire assai da vicino e frequentemente di tali scoppi, perdei
quell'ostinatissimo e innato timore in modo, che non solo trovava piacere in
quello
3520 che per l'addietro m'era stato sempre di
grandissimo odio e spavento senza ragione, ma lasciai pur di temere e presi
anche ad amare nel genere stesso quel che ragionevolmente sarebbe da esser
temuto; nè la ragione o la riflessione che già non poterono liberarmi dal timor
naturale, poterono poscia, nè possono tuttavia, farmi temere o solamente non
amare, quello che per natura o assuefazione, irragionevolmente, io amo e non
temo. {#1. Nè io son pur, come ho detto,
de' più irriflessivi, nè manco di riflettere ancora in questo proposito
all'occasione, ma indarno per concepire un timore che non mi è più
naturale.} Questo ch'io dico di me, so certo essere accaduto e
accadere in mille altri tuttogiorno, o quanto all'una delle due parti solamente,
o quanto ad ambedue. - Quello che non può in niun modo la riflessione, può {{e fa}} l'irriflessione. (25. Sett. 1823.).
{{V. p. 3908.}}
[3526,1] Sopravvenendo il pericolo, ridere, diventare allegro
fuor dell'uso, o più che il momento prima non si era, o di malinconico farsi
giulivo; divenir loquace essendo taciturno {di natura,}
o rompere il silenzio fino allora per qualunque ragione tenuto; scherzare,
saltare, cantare, e simili cose, non sono già segni di coraggio, come si
stimano, ma per lo contrario son segni di timore. Perciocchè dimostrano che
l'uomo ha bisogno di distrarsi dall'idea del pericolo, e particolarmente di
scacciarla col darsi ad intendere ch'e' non sia pericolo, o non sia grave. E
questo è ciò
3527 che l'uomo proccura di fare dando
segni straordinarii d'allegrezza in tali occasioni; ingannar se stesso
dimostrandosi di non aver nulla a temere, perocch'ei fa cose contrarie a quelle
che il timore propriamente e immediatamente {suol}
cagionare. Affine di non temere, l'uomo proccura di persuadersi ch'ei non teme,
ond'ei possa dedurre che non v'è ragion sufficiente o necessaria di timore. Egli
è un effetto molto ordinario di questa passione il muover l'uomo a cose
contrarie a quelle {a} che immediatamente ella il
moverebbe, ma e quelle e queste sono ugualmente effetti di vero timore. E quelle
sono in gran parte, o sotto un certo aspetto, finte; queste veraci. Il timore
muove l'uomo a far quasi una pantomima appresso se stesso. Per questo nelle
solitudini e fra le tenebre e in luoghi, cammini, occasioni pericolose o che
tali paiono, è uso naturale dell'uomo il cantare, non tanto ad effetto di
figurarsi e fingersi una compagnia, o di farsi compagnia (come si dice) da se
stesso; quanto perchè il cantare par proprio onninamente di chi non teme:
appunto perciò chi teme, canta. (Vedi a tal
3528
proposito un luogo molto opportuno del
Magalotti segnato da me nelle
prime carte di questi pensieri, sul principio, se non erro, del 1819.
p.
43). Dai medesimi principii (più che dal bisogno di distrazione) nasce
che in un pericolo comune o creduto tale, e vero o immaginario assolutamente,
piace, conforta, rallegra l'udire il canto degli altri, il vedergli intenti alle
lor solite operazioni, l'accorgersi o il credere ch'essi o non istimino che vi
sia pericolo, o nulla per sua cagione tralascino o mutino del loro ordinario, e
di quello che infino allora facevano o che, senza il pericolo, avrebbero fatto;
o che non lo temano, e sieno intrepidi ec. Il coraggio veduto o creduto negli
altri, o l'opinione che non vi sia pericolo, veduta o creduta in essi,
incoraggisce l'individuo che teme. Nello stesso modo il mostrar di non temere a
se stesso è un farsi coraggio, o col persuadersi che non vi sia pericolo, o col
dare a se stesso in se stesso un esempio di coraggio e di non temere questo
pericolo, ancorchè vi sia. Or chi ha bisogno che gli sia fatto coraggio e di
aver nello stesso pericolo esempi di coraggio, e altrimenti teme, non
3529 è certamente coraggioso, o in tale occasione non
ha coraggio. E chi ha bisogno per non temere, di credere che non vi sia
pericolo, cioè ragion di temere, o di sminuirsi l'opinion del pericolo, {e} di credere che questo pericolo, questa ragione sia
piccola, o minore e più leggera ch'ella non è, ed altrimenti teme; non è
coraggioso, perchè niun teme quello ch'ei non crede da temersi, e niun teme
fuori dell'opinion del pericolo, vera o falsa, o ancor menoma ch'ella sia, {+o non ragionata, ma quasi istinto e
passione} (come quella di cui vedi la p. 3518-20. e massime 3519. marg.)
[3553,2] Ho notato altrove p. 108 che la
debolezza per se stessa è cosa amabile, quando non ripugni alla natura del
subbietto in ch'ella si trova, o piuttosto al modo in che noi siamo soliti di
vedere e considerare la rispettiva specie di subbietti; o ripugnando, non
distrugga però la sostanza d'essa natura, e non ripugni più che tanto:
3554 insomma quando o convenga al subbietto, secondo
l'idea che noi della perfezione di questo ci formiamo, e concordi colle {altre} qualità d'esso subbietto, secondo la stessa idea
{+(come ne' fanciulli e nelle
donne);} o non convenendo, nè concordando, non distrugga però
l'aspetto della convenienza nella nostra idea, ma resti dentro i termini di
quella sconvenienza che si chiama grazia (secondo la mia teoria della grazia), come può esser negli
uomini, o nelle donne in caso ch'ecceda la proporzione ordinaria, ec. Ora
l'esser la debolezza per se stessa, e s'altro fuor di lei non si oppone,
naturalmente amabile, è una squisita provvidenza della natura, la quale avendo
posto in ciascuna creatura l'amor proprio in cima d'ogni altra disposizione, ed
essendo, come altrove ho mostrato pp. 872. sgg. , una necessaria e propria conseguenza
dell'amor proprio in ciascuna creatura l'odio dell'altre, ne seguirebbe che le
creature deboli fossero troppo sovente la vittima delle forti. Ma la debolezza
essendo naturalmente amabile e dilettevole altrui per se stessa, fa che altri
ami il subbietto in ch'ella si trova, e l'ami per amor proprio, cioè perchè da
esso riceve diletto. {La debolezza
ordinariamente piace ed è amabile e bella nel bello. Nondimeno può piacere
ed esser bella ed amabile anche nel brutto, non in quanto nel brutto, ma in
quanto debolezza, (e talor lo è) purch'essa medesima non sia {la} cagione della bruttezza nè in tutto nè in
parte.} Senza ciò i fanciulli,
3555 massime
dove non vi fossero leggi sociali che tenessero a freno il naturale egoismo
degl'individui, sarebbero tuttogiorno écrasés dagli
adulti, le donne dagli uomini, e così discorrendo. Laddove anche il selvaggio
mirando un fanciullo prova un certo piacere, e {quindi}
un certo amore; e così l'uomo civile non ha bisogno delle leggi per contenersi
di por le mani addosso a un fanciullo, benchè i fanciulli sieno per natura
esigenti ed incomodi, ed in quanto sono (altresì per natura) apertissimamente
egoisti, offendano l'egoismo degli altri più che non fanno gli adulti, e quindi
siano per questa parte naturalmente odiosissimi (sì a coetanei, sì agli altri).
Ma il fanciullo è difeso {per se stesso} dall'aspetto
della sua debolezza, che reca un certo piacere a mirarla, e quindi ispira
naturalmente (parlando in genere) un certo amore verso di lui, perchè l'amor
proprio degli altri trova in lui del piacere. E ciò, non ostante che la stessa
sua debolezza, rendendolo assai bisognoso degli altri, sia cagione essa medesima
di noia e di pena agli altri, che debbono provvedere in qualche modo a' suoi
bisogni, e lo renda per natura molto esigente ec. Similmente discorrasi
3556 delle donne, nelle quali indipendentemente
dall'altre qualità, la stessa debolezza è amabile perchè reca piacere ec. Così
di certi animaletti o animali (come la pecora, {i cagnuolini,
gli agnelli,} gli uccellini ec. ec.) in cui l'aspetto della lor
debolezza rispettivamente a noi, in luogo d'invitarci ad opprimerli, ci porta a
risparmiarli, a curarli, ad amarli, perchè ci riesce piacevole. {ec.} E si può osservare che tale ella riesce anche ad
altri animali di specie diversa, che perciò gli risparmiano e mostrano talora di
compiacersene e di amarli ec. Così i piccoli degli animali non deboli quando son
maturi, sono risparmiati ec. dagli animali maturi della stessa specie (ancorchè
non sieno lor genitori), ed eziandio d'altre specie (eccetto se non ci hanno
qualche nimicizia naturale, o se per natura non sono portati a farsene cibo
ec.); ed apparisce in essi animali una certa o amorevolezza o compiacenza verso
questi piccoli. Similmente negli uomini verso i piccoli degli animali che
cresciuti non son deboli. E di questa compiacenza non n'è solamente cagione la
piccolezza per se (ch'è sorgente di grazia, come ho detto altrove), p.
200
pp.
1880-81
{#1. nè la sola sveltezza che in questi
piccoli suole apparire (siccome ancora nelle specie piccole di animali) e
che è cagion di piacere per la vitalità che manifesta e la vivacità ec.
secondo il detto altrove p. 221
pp. 1716-17
p. 1999
pp. 2336-37 da me
sull'amor della vita, onde segue quello del vivo ec.} ma v'ha la
3557 sua parte eziandio la debolezza. (29-30.
Sett. 1823.). {{V. p. 3765.}}
[3604,1] Richiedendosi necessariamente, come s'è mostrato, al
poeta epico (e similmente al drammatico, al romanziere ec. ed anche allo
storico) ch'egli renda in alcun modo, qualunque siasi, amabile colui ch'e'
voglia rendere interessante, e grandemente amabile, colui ch'abbia ad essere
sommamente interessante; è da considerare che a tal effetto giova
grandissimamente la sventura, la quale accresce a più doppi l'amabilità ove la
trova, e rende spesse volte amabile chi non lo è, ancorchè sia meritevole delle
disgrazie; molto più quando e' ne sia immeritevole. L'uomo poi amabilissimo, che
sia indegnamente sventuratissimo, è la più amabil cosa che possa concepirsi.
3605 L'uomo amabile e sventurato meritatamente, è
sempre molto più caro e compatito e interessante, che il non amabile e
immeritatamente sventurato, il quale può non esser nulla compatito e nulla
interessare (e così spessisimo accade), quando eziandio le sue sventure sieno
estreme, e quelle dell'altro menome, nel qual caso ancora, colui non può mancare
d'esser compatito e riuscir più amabile dell'ordinario. Ma non entriamo in tante
sottigliezze e distinzioni. La infelicità nel principal Eroe dell'impresa ch'è
il {proprio} soggetto del poema, non può aver luogo, se
non come accidentale, e risolvendosi all'ultimo in felicità, secondo che a suo
luogo ho spiegato e mostrato pp. 3097. sgg. Per tanto queste osservazioni confermano grandemente
il mio discorso sulla necessità di raddoppiar l'interesse nel poema epico, a
voler ch'esso poema riesca sommamente interessante e produca grandissimo
effetto; e giustificano ed esaltano il fatto di Omero nell'iliade. Perocchè non dandosi
sommo interesse senza somma amabilità, e la sventura essendo principalissima
3606 fonte di amabilità, e quasi perfezione e sommità
di essa, e non potendo una grandissima e piena e finale infelicità aver luogo
nell'eroe dell'impresa, resta che sia bisogno, a far che il poema sia sommamente
interessante, duplicarne formalmente l'interesse, e diversificar l'uno interesse
dall'altro, introducendo un altro eroe sommamente amabile, e sommamente
sventurato, dalla cui finale sventura sia prodotto {#1. e intorno ad essa si aggiri, e ad essa sempre tenda e
sia spinto, e in vista di essa per tutto il poema sia proccurato,}
questo secondo interesse di cui parliamo, il quale renda il poema sommamente
interessante e capace di lasciar l'interesse nell'animo de' lettori per buono
spazio dopo la lettura ec. Questo è ciò che fece Omero nell'iliade, nella quale Ettore è per le sue
proprie qualità ed azioni, e per la sua somma, piena e finale sventura,
sommamente amabile, e quindi sommamente interessante. Quanto ad Achille, ch'è l'altro protagonista, e
l'Eroe dell'impresa (così lo chiameremo per esser brevi), Omero non potea farlo sfortunato e infelice, massime
considerando la natura e le opinioni di quei tempi, che riponeano il sommo
pregio degli uomini nella fortuna, ed anche ragionando (nel modo che altrove ho
3607 detto pp. 3097. sgg.
pp.
3342-43), dalla fortuna o buona o ria argomentavano o la malvagità o
la bontà, o il merito o il demerito di ciascuno, non istimando che nè la
sventura nè la buona sorte potesse toccare agl'immeritevoli. Pur quanto gli fu
possibile, Omero non mancò di cercar di
conciliare ad Achille, cogli altri
affetti i più favorevoli, anche l'affetto dolcissimo della pietà, madre o
mantice dell'amore. Ciò non solo coll'accidentale sventura della morte del suo
amico Patroclo e con altre tali, ma
col mostrare eziandio, come in lontananza, la finale sventura e l'infelice
destino del bravo Achille, che per
immutabile decreto del fato aveva a morire nel più bel fiore degli anni, {{e questo in}} prezzo della sua gloria, ch'egli
scientemente {e liberamente aveva scelta e preposta,}
insieme con una morte immatura, a una vita lunga e senza onore. Tratto sublime
che perfeziona il poetico e l'epico del carattere di Achille, e della sua virtù, coraggio, grandezza
d'animo, ec. e che finisce di renderlo un personaggio sommamente amabile e
interessante.
[3607,1] Il carattere di Enea partecipa molto de' difetti di quel di Goffredo. Egli ha più fuoco, ma e'
3608 non lascia però di essere alquanto freddo (e un carattere freddo
sì nella vita sì ne' poemi lascia freddo e senza interesse il lettore, o chi ha
qualunque relazione reale con esso lui, o di lui ode o pensa); egli ha o mostra
più coraggio personale e valor di mano, ma queste qualità ci appariscono in lui
come secondarie, e poco spiccano, e tale si è l'intenzion di Virgilio, il quale volle che ad esse nel suo Eroe
prevalessero altre qualità, che non molto conducono, o piuttosto nuocono
all'essere amabile. La pazienza in lui è simile a quella di Ulisse. La prudenza e il senno soverchiano ed
offuscano le altre sue doti, non quanto in Goffredo, ma tuttavia troppo risaltano, e troppo sono superiori
all'altre sue qualità, e troppo è maggiore la parte ch'esse hanno. Troppa virtù
morale, poca forza di passione, troppa ragionevolezza, troppa rettitudine,
troppo equilibrio e tranquillità d'animo, troppa placidezza, troppa benignità,
troppa bontà. Virgilio descrive
divinamente l'amor di Didone per lui:
da questo, e quasi da questo solo, ci accorgiamo ch'egli è ancor giovane e
bello; e sebben questo in lui non ripugna alla
3609
natura e al verisimile naturale, come in Ulisse, pur tanta è la serietà dell'idea che Virgilio ci fa concepir del suo Eroe, che la gioventù e
la bellezza ci paiono in lui fuor di luogo, e quasi ci giungono nuove e ci fanno
meraviglia (la meraviglia poetica non dev'esser certo di questo genere), e quasi
non ce ne persuadiamo, benchè sieno naturalissime; o per lo meno vi passiamo
sopra, senza valutarle, senza fermarci il pensiero, senza formarne l'immagine,
senza considerarli come pregi notabili di Enea, perchè Virgilio avrebbe
creduto quasi far torto al suo eroe ed a se stesso, s'egli ce gli avesse
rappresentati come pregi veramente importanti e degni di considerazione, e
notabili in lui fra le altre doti. E così mentre Virgilio si ferma e si compiace in descrivere la
passion di Didone e i suoi vari
accidenti, progressi, andamenti, ed effetti; dà bene ad intendere ch'ella non
era senza corrispondenza, e nella grotta, come ognun sa quel che Didone patisse, così niun si può
nascondere quello ch'Enea facesse; ma
Virgilio a riguardo d'Enea e della sua passione
3610 parla così coperto, anzi dissimulato, (dico della
passione, e non di ciò che ne segue d'inonesto a descrivere, nel che giustamente
egli è copertissimo anche rispetto a Didone), anzi serba quasi un così alto silenzio, che e' non mostra
essa passione se non indirettamente e per accidente, e in quanto ella si
congettura e si lascia supporre per necessità da quel ch'ei narra di Didone, e sempre volgendosi alla sola
Didone. E par che volentieri, se
si fosse potuto, egli avrebbe fatto che il lettore non istimasse Enea per niun modo tocco dalla passion
dell'amore (di donna pur sì alta e sì degna e sì magnanima e sì bella e sì
amante e tenera), e giudicasse che Didone avesse ottenuto il piacer suo, senza che quegli avesse
conceduto. E chi potesse così stimare seconderebbe il desiderio di Virgilio. Tanto egli ebbe a schivo di far
comparire nel suo Eroe {un errore,} una debolezza,
laddove non v'è cosa più amabile che la debolezza nella forza, nè cosa meno
amabile che un carattere e una persona senza debolezza veruna. E tanto egli
giudicò che dovesse nuocere
3611 appo i lettori alla
stima non solo, ma all'interesse pel suo Eroe (che mal ei confuse colla stima),
il concepirlo e il vederlo capace di passione, capace di amore, tenero,
sensibile, di cuore. Come se potesse interessare il cuore chi non mostra, o
dissimula a tutto potere, di averlo, o di averlo capace della più dolce, più
cara, più umana, più potente, più universale delle passioni, che si fa pur luogo
in chiunque ha cuore, e maggiormente in chi l'ha più magnanimo, e similmente
ancora ne' più gagliardi ed esercitati di corpo, e ne' più guerrieri (v. Aristot.
Polit. l. 2. ed Flor. 1576. p. 142.); e che {sovente} rende ancora amabili chi la prova, eziandio
agl'indifferenti, al contrario di quel che fanno molte altre passioni per se
stesse. Il giudizio del Tasso,
rispetto a Rinaldo, fu in questa
parte migliore assai di quel di Virgilio. Egli non si fece coscienza di mostrare Rinaldo soggetto alle passioni, alle debolezze e
agli errori umani e giovanili. Egli non dissimula i suoi amori descrivendo
quelli di Armida per lui, ma si ferma
e si compiace in descrivergli anch'essi direttamente. Egli non ha neppure
riguardo di farlo
3612 assolutamente reo di un grave,
benchè perdonabile misfatto cagionato da una passione propria e degna dell'uomo,
e quasi richiesta al giovane, e più al giovane d'animo nobile, e pronto di cuore
e di mano, dico dall'ira mossa dalle contumelie. Passione, che, massime colle
dette circostanze, suol essere amabilissima, malgrado i tristi effetti ch'ella
può produrre, e malgrado ch'ella soglia altresì essere biasimata (perocchè altro
è il biasimare altro l'odiare), e che i filosofi o gli educatori prescrivano di
svellerla dall'animo o di frenarla. E certo in un giovane, {e
quasi anche generalmente,} ella è molto più amabile che la pazienza. E
ciò si vede tuttodì nella vita. Però il carattere di Rinaldo è molto più simile ad Achille, e molto più poetico, amabile e interessante
che quello di Enea. O si può, se non
altro, dire con verità che Rinaldo è
tanto più amabile di Enea, quanto Enea di Goffredo. Del resto Enea ha passato e passa molte sciagure prima di giungere a stato
felice. Ma la compassione ch'elle cagionano non è grande, perch'ella cade sopra
un soggetto che il poeta ha creduto di dover fare più
3613 stimabile che amabile; e perchè in oltre non si compatisce molto
colui che nella sciagura e nel male mostra quasi di non soffrire.
[3909,2]
Alla p. 3310.
Quanto influisca sempre l'immaginazione, l'opinione, la prevenzione ec.
sull'amore anche corporale, sui sentimenti che un uomo prova in particolare
verso una donna, o una donna verso un uomo, è cosa notissima. E in particolare
ha forza sull'amore, non solo platonico o sentimentale, ma eziandio corporale
verso gl'individui particolari, tutto ciò che ha del misterioso, e che serve a
rendere poco noto all'amante l'oggetto del suo amore, e quindi a dar campo alla
sua immaginazione di fabbricare, per dir così, intorno ad esso oggetto. Perciò
moltissimo contribuisce all'amore e al desiderio anche corporale, tutto ciò che
ha relazione ai pregi {+o alle qualità
comunque amabili} dell'animo nell'oggetto amabile, e in particolare un
certo carattere profondo, malinconico, sentimentale, o un mostrar di rinchiudere
in se più che non apparisce di fuori. Perocchè l'animo e le sue qualità, e
massimamente queste che ho specificate, son cose occulte, ed ignote all'altre
persone, e dan luogo in queste all'immaginare, ai concetti vaghi e
indeterminati; i quali concetti e le quali immaginazioni congiungendosi al
natural desiderio che porta l'individuo dell'un sesso verso quello dell'altro,
danno un infinito risalto a questo desiderio, accrescono strabocchevolmente
3910 il piacere che si prova nel soddisfarlo; le idee
misteriose e naturalmente indeterminate, che hanno relazione all'animo
dell'oggetto amato, che nascono dalle qualità e parti apparenti del suo spirito,
e massime se da qualità che abbiano del profondo e del nascosto e dell'incerto,
e che promettano o dimostrino {+altre lor
parti o} altre qualità occulte ed amabili ec., queste idee dico,
congiungendosi alle idee chiare e determinate che hanno relazione al materiale
dell'oggetto amato, e comunicando loro del misterioso e del vago, le rendono
infinitamente più belle, e il corpo della persona amata o amabile, infinitamente
più amabile, pregiato, desiderabile; e caro quando si ottenga.
[4010,3] Avvi due sorte di coraggio ben contrarie fra loro.
L'una che dirittamente e propriamente nasce dalla riflessione, l'altra
dall'irriflessione. Quello è sempre e malgrado qualunque sforzo, debole,
incerto, breve e da farci poco fondamento sì dagli altri, sì da quello in cui
esso si trova ec. (10. Gen. 1824.).
[4014,1]
4014
Tacendo Un gran piacer
*
(cioè, s'egli è taciuto),
non è piacer
intero.
*
Machiavelli
Asino d'oro, Capitolo 4. verso 86-7.
(14. Gen. 1824.)
[4024,5] Gli uomini di natura, costume, o circostanza ed
occasione, allegri, sono generalmente disposti a far servigio o beneficio, e
compatire,
4025 e i malinconici in contrario, o certo
meno. Di ciò equivalentemente ho detto altrove molto a lungo pp.
69-70
p.
255. (31. Gen. 1824.).
[4037,6] Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel
conversare, e massime gli sprezzanti avessero più amor proprio degli altri e più
stima di se, e i timidi meno. Tutto al contrario. I timidi per eccesso di amor
proprio e per il troppo conto che fanno di se, temendo sempre di sfigurare e
perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di acquistarla e di
figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del proprio onore, del
proprio concetto, del proprio amore, e occupati e legati da questo pensiero,
sono senza coraggio, e non si ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti fanno al
contrario
4038 per la contraria cagione, cioè per aver
poca cura e poco concetto concetto di se, o desiderio della stima degli altri
(che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura, o per
abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano
di offendere l'amor proprio degli altri, e n'hanno poca cura, per poco amor di
se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille scrupoli e riguardi, e non
impetrano mai da se stessi non che di lederlo menomamente, ma di porsene a
rischio benchè leggero e lontano, e ciò per soverchio amor proprio, il quale
parrebbe che dovesse principalmente offendere e muoverli ad offendere quello
degli altri. E così per soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar
dispregio degli altri, e infatti non gli spregiano, anzi gli stimano
eccessivamente non per altro che per lo smisurato desiderio e conto che fanno
della loro stima, anche conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema
che hanno di perderla, eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per
rispetto al merito di coloro. Tali sono ordinariamente i fanciulli e i giovani
ancora inesperti e inesercitati nel commercio umano e nelle palestre dell'amor
proprio, dov'esso riporta tanti colpi, che alla fine incallisce; e tali sono più
o manco, per più o men lungo tempo, ed alcune per tutta la vita, le persone
sensibili e immaginose, le quali restano {sovente}
fanciulle anche in età matura, e vecchia, sì quanto a {molte} altre cose, sì quanto a questa della timidità {nel consorzio umano,} che in esse è sempre difficile a
vincere più {assai} che negli altri, e in alcune è
assolutamente invincibile, come {fu} in Rousseau. La cagione si è l'eccesso
dell'amor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza
dell'animo; ed insieme la vivacità della immaginazione, la quale non mai
veramente spenta {in loro,} nè anche quando pare
affatto agghiacciata, e quando effettivamente ha cessato affatto di partorire
alcun piacere all'individuo medesimo, continuamente,
4039 secondo la sua natura, va fingendo ad esso amor proprio che è per se
vivissimo, mille falsi pericoli e difficoltà, o smisuratamente accrescendo e
moltiplicando i veri. Sì, Rousseau e gli
altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da
un'invincibile e irrepugnabile timidità, anzi mauvaise
honte ed erubescenza, non furono e non son tali se non
per eccesso di amor proprio e d'immaginazione. Altro danno e infelicità somma
della soprabbondanza della vita interna dell'anima (oltre i tanti da me altrove
notati p. 1382
p.
1584
pp. 2410-14
pp.
2629-30
pp. 2736-39
p.
2861
pp.
3921. sgg.), della sensibilità, della squisitezza dell'ingegno, della
natura riflessiva, immaginosa ec. Poichè in essa l'amor proprio essendo
eccessivo e però tanto più bisognoso di successi, e desiderando la stima altrui
e temendo la disistima molto più che gli altri non fanno, e impedito di
conseguire e costretto ad incontrare quelli che gli altri con molto minor
desiderio e bisogno conseguono facilissimamente ogni dì, ed evitano con molto
minor tema, e che quando nol conseguissero o non lo evitassero, ne sarebbero
molto meno afflitti e infelicitati, per la minore vivacità {e
sensibilità} dell'amor proprio, ed anche della immaginazione, la quale
a quegli altri accresce eziandio per se stessa e con mille false esagerazioni e
finzioni la grandezza delle perdite fatte, di quello che essi desiderano
naturalmente di conseguire, di quello che non ottengono, dei mali successi
incontrati nella società, delle ἀσχημοσύναι, che anche bene spesso non son vere
affatto, ma fabbricate di pianta dall'immaginazione, e non esistono se non
nell'idea di questi tali, e così anche i buoni successi o gli oggetti che essi
si propongono di conseguire che spessissimo sono vani e immaginari, e da niuno
ottenuti nè possibili ad ottenere ec. ec. (1. Marzo. penultimo dì di
Carnevale. 1824.) Ciò che ho detto dell'immaginazione, dico
4040 dell'amor proprio, il quale in questi tali, anche
quando sembra rotto e fiaccato dall'uso de' mali, {dispiaceri, punture ec.} anzi minore assai che non è negli altri, e
quasi al tutto agghiacciato, addormentato e spento, è sempre in verità vivissimo
assai più che negli altri anche giovani e principianti, caldissimo, e {ancora} in istato da esser chiamato tenerezza di se
stesso (come suol essere nella gioventù) benchè sia in loro più {negativo che} positivo, più atto a impedire che a
cagionare, piuttosto causa di passione che d'azione ec. quale egli è
proporzianatamente[proporzionatamente] anche
ne' primi anni di questi tali. (3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri.
1824.).
[4103,6]
Il est
aisé de voir la prodigieuse révolution que cette époque
*
(celle
du Christianisme) dut produire dans les mœurs. Les
femmes, presque toutes d'une imagination vive et d'une ame ardente, se
livrèrent à des vertus qui les flattoient d'autant plus, qu'elles
étoient pénibles. Il est presque égal pour le bonheur de satisfaire de
grandes passions, ou de les vaincre. L'ame est heureuse par ses efforts;
et pourvu qu'elle s'exerce, peu lui importe d'exercer son activité
contre elle - même.
*
Thomas
Essai sur les Femmes.
Oeuvres, Amsterdam 1774. tome 4.
p. 340. (24. Giugno. Festa di S. Giovanni Battista.
1824.).
[4105,2] L'infelicità abituale, ed anche il solo essere
abitualmente privo di piaceri e di cose che lusinghino l'amor proprio, estingue
a lungo andare nell'anima la più squisita ogn'immaginazione, ogni virtù di
sentimento, ogni vita ed attività e forza, e quasi ogni facoltà. La cagione è
che una tale anima, dopo quella prima inutile disperazione, e contrasto feroce o
doloroso colla necessità, finalmente riducendosi in istato tranquillo, non ha
altro espediente per vivere, nè altro produce in lui la natura stessa ed il
tempo, che un abito di tener continuamente represso e prostrato l'amor proprio,
perchè l'infelicità offenda meno e sia tollerabile e compatibile colla calma.
Quindi un'indifferenza e insensibilità verso se stesso maggior che è possibile.
Or questa è una perfetta morte dell'animo e delle sue facoltà. L'uomo che non
s'interessa a se stesso, non e capace d'interessarsi a nulla, perchè nulla può
interessar l'uomo se non in relazione a se stesso, più o men vicina e palese, e
di qualunque sorte ella sia. Le bellezze della
4106
natura, la musica, le poesie più belle, gli avvenimenti del mondo, felici o
tragici, le sventure o le fortune altrui, anche dei suoi più stretti, non fanno
in lui nessuna impressione viva, non lo risvegliano, non lo riscaldano, non gli
destano immagine, sentimento, interesse alcuno, non gli danno nè piacere nè
dolore, se bene pochi anni avanti lo empievano di entusiasmo e lo eccitavano a
mille creazioni. Egli stupisce stupidamente della sua sterilità e della sua
immobilità e freddezza. Egli è divenuto incapace di tutto, inutile a se e agli
altri, di capacissimo ch'egli era. La vita è finita quando l'amor proprio ha
perduto il suo ressort. Ogni potenza dell'anima si
estingue colla speranza. Voglio dire colla disperazione placida, perchè la
furiosa è pienissima di speranza, o almeno di desiderio, ed anela smaniosamente
alla felicità nell'atto stesso che impugna il ferro o il veleno contro se
medesimo. Ma il desiderio è più spento che sia possibile in un'anima avvezza a
vederli sempre contrariati, e ridotta o per riflessione o per abito o per
ambedue a sopirli e premerli. L'uomo che non desidera per se stesso e non ama se
stesso non è buono agli altri. Tutti i piaceri, i dolori, i sentimenti e le
azioni che gl'inspiravano le cose dette di sopra, cioè la natura e il resto, si
riferivano in un modo o nell'altro a se stesso, e la loro vivezza consisteva in
un ritorno vivo sopra se medesimo. Sacrificandosi ancora agli altri, non
d'altronde egli ne aveva la forza se non da questo ritorno e rivolgimento sopra
di se. Ora
4107 senz'alcuna ferocia, nè misantropia nè
rancore nè risentimento, senza neppure egoismo, {+quell'anima già poco prima sì tenera} è
insensibile alle lagrime, inaccessibile alla compassione. Si moverà anche a
soccorrere, ma non a compatire. Beneficherà o sovverrà, ma per una fredda idea
di dovere o piuttosto di costume, senza un sentimento che ve lo sproni, un
piacere che gliene venga. La noncuranza vera e pacifica di se stesso è
noncuranza di tutto, e quindi incapacità di tutto, ed annichilamento dell'anima
la più grande e fertile per natura.
[4118,2] Compassione nata dalla bellezza anche verso chi per
molti capi non la merita, perpetuata anche nella posterità che si stima esser
sempre un giudice giusto. Vedi Thomas
loc. cit. qui dietro, chapitre
26. p. 46-7.
(26. Agos. 1824.).
[4194,1] La condotta di Tiberio nell'impero, da principio non pur
affabile, benigna, moderata, ma eziandio umile; insomma più che civilis
(v. Sueton.
Tiber. c. 24-33), le sue
difficoltà di accettar l'impero ec. paragonate colla
seguente condotta tirannica, si attribuiscono a profonda politica,
dissimulazione e simulazione. Io non vi so veder niente di finto, nè di
artifiziale. Tiberio era certamente, a
differenza di Cesare, di natura timida.
A differenza poi e di Cesare che fin da
giovanetto andò continuamente elevandosi, ed abituando successivamente l'animo e
il carattere a grandezze sempre maggiori; e di Augusto che pure fin da giovanetto si vide alla testa degli affari;
Tiberio, nato privato, vissuto la
gioventù e l'età matura in sospetto di Augusto e de' costui parenti, ed anche in non piccolo pericolo (otto
anni passò ritirato in Rodi per fuggirlo o scemarlo), non
aveva l'animo nè il carattere formato al potere, quando la fortuna gliel pose in
mano. Però nel principio fu modesto, anzi timido ed umile, anche dopo liberato
da ogni timore, come dice espressamente Suetonio (c. 26.); {+v.
p. 4197. capoverso 6.} nè qui v'era dissimulazione: io non
ci veggo altro che un uomo avvezzo a soggiacere, avvezzo a temere ed evitar di
offendere, che ridotto a soprastare, conserva ancora l'abito di tal timore e di
tale evitamento. Egli lo perdè col tempo, e coll'esperienza continuata del suo
potere, e della soggezione, anzi abbiezione, degli altri. Questo non è
smascherarsi; questo è mutar carattere e natura, per mutazione di circostanze.
4195
Tiberio era certamente cattivo, perchè
vile, e debole. {+V. p. 4197. capoverso 7.} Questo fu causa
che il potere lo rendesse un tiranno, perchè la sua natura era tale che
l'influenza del principato doveva farne un cattivo carattere di principe. Ma qui
non ci entra simulazione. Io non sono mai stato nè principe nè cattivo. Pur
disprezzato e soggetto sempre fino all'età quasi matura; vedutomi poi per le
circostanze, uguale a molti e superiore ad alcuni; da principio benignissimo ed
umile cogl'inferiori, sono poi divenuto verso loro un poco esigente, {un poco intollerante, φιλόνεικος, μεμψίμοιρος,} ed anche
cogli uguali un poco chagrin, e più difficile a
perdonare un'ingiuria, {una piccola mancanza,} più
risentito, più facile a concepir qualche seme di avversione, {più desideroso, se non altro, di vendettucce,} ec. Se la mia natura
fosse stata cattiva, io sarei divenuto tanto più insopportabile quanto più tardi
sono pervenuto alla superiorità, ed in età men facile ad accostumarmici. Noi
siamo tutti inclinati a suppor negli uomini antichi o moderni, assenti o
presenti, noti o ignoti, e nelle loro azioni e condotta, una politica, un'arte,
una simulazione quasi continua, e qualche fine occulto. Ma credete a me che v'è
{al mondo} assai meno politica, assai meno
finzione, assai meno tendenze occulte, meno intrighi, meno maneggi, meno arte,
{e più di sincerità e di vero} che non si crede. 1.
Gli uomini di talento (indispensabile fondamento a simil condotta) sono assai
più rari che non si stima. 2. Anche gli uomini i più persuasi della necessità o
utilità dell'arte nel consorzio umano, {e i più disposti ad
essa per volontà,} non hanno la pazienza di usarla troppo spesso, di
fingere, di nascondere e dissimulare troppo a lungo. 3. Condotte calcolate e
dirette costantemente a qualche fine, sono più immaginarie che reali, perchè è
natura di qualunque uomo d'essere incostante, ne' suoi gusti, desiderii,
opinioni, in tutto; di esser contraddittorio
4196 ed
incoerente nelle sue azioni, massime ec.; di operare contro i proprii principii;
di operare contro i proprii interessi. ec. 4. Finalmente la natura per
combattuta che sia, per quanto la vogliam credere abbattuta, può ancora, ed
opera nel mondo, assai più che non si crede. Ora la natura è l'opposto
dell'arte: la finzione tende a nasconder la natura, ma questa trapela ad ogni
momento, in dispetto d'ogni massima, d'ogni volontà, d'ogni disciplina.
(Bologna. 3. Sett. Domenica. 1826.).
Del resto le atrocissime crudeltà usate scopertamente in seguito da Tiberio, e gran parte di queste senza
nessuna utilità proposta, ma per solo piacere e soddisfazione del gusto e
dell'animo suo, mostrano che l'anima di Tiberio era più vile che doppia per sua natura, e col regno era
divenuta più malvagia che politica. (Bologna 4.
Sett. 1826.).
[4229,4] È naturale all'uomo, debole, misero, sottoposto a
tanti pericoli, infortunii e timori, il supporre, il figurarsi, il fingere anco
gratuitamente un senno, una sagacità e prudenza, un intendimento e
discernimento, {una perspicacia, una esperienza}
superiore alla propria, in qualche persona, alla quale poi mirando in ogni suo
duro partito, si riconforta o si spaventa secondo che vede quella o lieta o
trista, o sgomentata o coraggiosa, e sulla sua autorità si riposa senz'altra
ragione; spessissimo eziandio, ne' più gravi pericoli e ne' più miseri casi, si
consola e fa cuore, solo per la {buona speranza e}
opinione, ancorchè manifestamente falsa o senza niuna apparente ragione, che
egli vede o s'immagina essere in quella tal persona; o solo anco per una ciera
lieta o ferma che egli vede in quella. Tali sono assai sovente i figliuoli,
massime nella età tenera, verso i genitori. Tale sono stato io, anche in età
ferma e matura, verso mio padre; che in ogni cattivo caso, o timore, sono stato solito per
determinare, se non altro, il grado della mia afflizione o del timor mio
proprio, di aspettar di vedere o di congetturare il suo, e l'opinione e il
giudizio che
4230 egli portava della cosa; nè più nè
meno come s'io fossi incapace di giudicarne; e vedendolo {o
veramente o nell'apparenza} non turbato, mi sono ordinariamente
riconfortato d'animo sopra modo, con una assolutamente cieca sommissione alla
sua autorità, o fiducia nella sua provvidenza. E trovandomi lontano da lui, ho
sperimentato frequentissime volte un sensibile, benchè non riflettuto, desiderio
di tal rifugio. Ed è cosa {mille volte} osservata {e veduta per prova} come gli uomini di guerra, anche
esperimentatissimi e veterani, sogliano pendere nei pericoli, nei frangenti,
nelle calamità della guerra, dalle opinioni, dalle parole, dagli atti, dal
volto, di qualche lor capitano, eziandio giovane e immaturo, che si abbia
guadagnato la lor confidenza; e secondo che veggono, o credono di veder fare a
lui, sperare o temere, dolersi o consolarsi, pigliar animo o perdersi di
coraggio. Onde suol tanto giovare nel Capitano la fermezza d'animo, e la
dissimulazione del dolore o del timore nei casi ov'è sommamente da temere o
dolersi. E questa qualità dell'uomo è ancor essa una delle cagioni per cui tanto
universalmente e così volentieri si è abbracciata e tenuta, come ancor si tiene,
la opinione di un Dio provvidente, cioè di un ente superiore a noi di senno e
intelletto, il qual disponga ogni nostro caso, e indirizzi ogni nostro affare, e
nella cui provvidenza possiamo riposarci dell'esito delie cose nostre. (9.
Dic. Vigilia della Venuta della S. Casa di Loreto. 1826.
Recanati.). La credenza di un ente senza
misura più savio e più conoscente di noi, il quale dispone e conduce di continuo
tutti gli avvenimenti, e tutti a fin di bene, eziandio quelli che hanno maggior
sembianza di mali per noi, e che veglia sulla nostra sorte; e tutto ciò con
ragioni e modi a noi sconosciuti, e che noi non possiamo in guisa alcuna
scoprire nè intendere, di maniera che non dobbiamo darcene pensiero veruno;
questa credenza è agli uomini universalmente, e massime ai deboli ed infelici,
un conforto maggior d'ogni altro possibile: il qual conforto non da altro
procede, nè consiste in altro, che un riposo, uno acquetamento, ed una
confidenza
4231 cieca nell'autorità, nel senno, e nel
provvedimento altrui. (9. Dic. 1826.).
[4255,6] Dei nostri sommi poeti, due sono stati
sfortunatissimi, Dante e il Tasso. Di ambedue abbiamo e visitiamo i
sepolcri: fuori delle patrie loro ambedue. Ma io, che ho pianto sopra quello del
Tasso, non ho sentito alcun moto
di tenerezza a quello di Dante: e così
credo che avvenga generalmente. E nondimeno non mancava in me, nè manca negli
altri, un'altissima stima, anzi ammirazione, verso Dante; maggiore forse (e ragionevolmente) che verso
l'altro. Di più, le sventure di quello furono senza dubbio reali e grandi; di
questo appena siamo certi che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie:
tanta è la scarsezza e l'oscurità delle notizie che abbiamo in questo
particolare: tanto confuso, e pieno continuamente di contraddizioni, il modo di
scriverne del medesimo Tasso. Ma noi
veggiamo in Dante un uomo d'animo forte,
d'animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; oltracciò un uomo che
contrasta e combatte con essa, colla necessità col fato. Tanto più ammirabile
certo, ma tanto meno amabile e commiserabile. Nel Tasso veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria,
soccombente, atterrato, che ha ceduto all'avversità, che soffre continuamente e
patisce oltre modo. Sieno ancora immaginarie
4256 e
vane del tutto le sue calamità; la infelicità sua certamente è reale. Anzi senza
fallo, se ben sia meno sfortunato di Dante, egli è molto più infelice.
(Recanati. 14. Marzo. 1827.). {{(Si può applicare all'epopea, drammatica ec.)}}.
[4261,2] Tutti siamo naturalmente inclinati a stimar noi
medesimi uguali a chi ci è superiore, superiori agli uguali, maggiori di ogni
comparazione cogl'inferiori; in somma ad innalzare il merito proprio sopra {quel degli altri fuor di modo e ragione.} Questo è
natura universale, e vien da una sorgente comune a tutti. Ma un'altra sorgente
d'orgoglio {e di disistima altrui,} sconosciuta affatto
a noi; divenuta, per l'assuefazione incominciata sin dall'infanzia, naturale e
propria; è ai Francesi e agl'Inglesi la stima della propria nazione. Tant'è: il
più umano e ben educato e spregiudicato francese o inglese, non può mai far che
trovandosi con forestieri, non si creda cordialmente e sinceramente di trovarsi
con un inferiore a se (qualunque si sieno le altre circostanze); che non
disprezzi più o meno le altre nazioni prese in grosso; e che in qualche modo,
più o meno, non dimostri {esteriormente} questa sua
opinione di superiorità. Questa è una molla, una fonte {ben
distinta} di orgoglio, e di stima di se in pregiudizio o abbassamento
d'altrui, della quale niun altro fra i popoli civili, se non gli uomini delle
dette nazioni, possono avere o formarsi una giusta idea. I Tedeschi che
potrebbero con altrettanto diritto aver lo stesso sentimento, ne sono impediti
dalla lor divisione, dal non esserci nazion tedesca. I Russi sentono di esser
mezzo barbari; gli Svedesi, i Danesi, gli Olandesi, di essere troppo piccoli, e
di poter poco. Gli Spagnuoli del tempo di Carlo quinto e di Filippo
secondo, ebbero certamente questo sentimento, come veggiamo dalle
storie, niente meno che i francesi e gl'inglesi di oggidì, e con diritto uguale;
forse, senza diritto alcuno, l'hanno anche oggi; e così i Portoghesi: ma chi
pone oggi in conto gli Spagnuoli e i Portoghesi, parlando di popoli civili?
Gl'italiani forse l'ebbero (e par veramente di sì) nei secoli 15.o e 16.o e
parte del precedente e del susseguente; per conto della lor civiltà, che essi
ben conoscevano, e gli altri riconoscevano, esser superiore a quella di tutto il
resto d'europa. Degl'italiani d'oggi non parlo; non so
ben se ve n'abbia.
[4272,2] Un uomo disarmato, alle prese con una bestia di
corporatura e di forze uguale a lui, {p. e. con un grosso
cane,} difficilmente resterà superiore, verisimilmente sarà vinto. Per
vincere, gli bisogna qualche arma, che diagli una forza non naturale, e una
decisa superiorità. La ragione è perchè il cane vi adopra e vi mette tutto se
stesso, fa ancor più del suo potere; dove che l'uomo riserva sempre una gran
parte di se medesimo fuor di fazione, e fa sempre meno di quello che può. Il
cane non guarda a pericolo, non considera, non usa prudenza. L'uomo al
contrario, se non è disperato affatto, stato al quale egli arriva difficilmente,
eziandio che abbia piena ragione di disperarsi. Egli si risparmia sempre, perchè
sempre spera; e così risparmiandosi, non ottiene quello che la speranza gli
promette, o non fugge quello che egli sperasi di fuggire; quello che, {se} non lo sperasse, otterrebbe o fuggirebbe. E che
questa sia veramente la cagion di ciò, vedetelo in un fanciullo: il quale assai
più facilmente che un uomo riuscirà pari o superiore in una zuffa con un animale
di forze uguali alle sue; zuffa che egli medesimo talvolta attaccherà
volontariamente. Il fanciullo, {e più il bambino,}
adopra tutto se stesso, come una bestia, o poco meno. E per questo lato io non
trovo niente d'inverisimile nella favola di Ercole bambino, strozzatore dei due serpenti. E la crederò vera più
facilmente che quella del medesimo Ercole adulto, sbranatore del leone nemeo, senza altre armi che le
sue braccia, come nell'altra battaglia, cioè in quella de' serpenti. (3.
Aprile. 1827.).
[4277,1]
4277 Allegano in favore della immortalità dell'animo il
consenso degli uomini. A me par di potere allegare questo medesimo consenso in
contrario, e con tanto più di ragione, quanto che il sentimento ch'io sono per
dire, è un effetto della sola natura, e non di opinioni e di raziocinii o {di} tradizioni; o vogliamo dire, è un puro sentimento e
non è un'opinione. Se l'uomo è immortale, perchè i morti si piangono? Tutti sono
spinti dalla natura a piangere la morte dei loro cari, e nel piangerli non hanno
riguardo a se stessi, ma al morto; in nessun pianto ha men luogo l'egoismo che
in questo. Coloro medesimi che dalla morte di alcuno ricevono qualche
grandissimo danno, se non hanno altra cagione che questa di dolersi di quella
morte, non piangono; se piangono, non pensano, non si ricordano punto di questo
danno, mentre dura il lor pianto. Noi c'inteneriamo veramente sopra gli estinti.
Noi naturalmente, e senza ragionare; avanti il ragionamento, e mal grado della
ragione; gli stimiamo infelici, gli abbiamo per compassionevoli, tenghiamo per
misero il loro caso, e la morte per una sciagura. Così gli antichi; presso i
quali si teneva al tutto inumano il dir male dei morti, e l'offendere la memoria
loro; e prescrivevano i saggi che i morti e gl'infelici non s'ingiuriassero,
congiungendo i miseri e i morti come somiglianti: così i moderni; così tutti gli
uomini: così sempre fu e sempre sarà. Ma perchè aver compassione ai morti,
perchè stimarli infelici, se gli animi sono immortali? Chi piange un morto non è
mosso già dal pensiero che questi si trovi in luogo e in istato di punizione: in
tal caso non potrebbe piangerlo: l'odierebbe, perchè lo stimerebbe reo. Almeno
quel dolore sarebbe misto di orrore {e di avversione}:
e ciascun sa per esperienza che il dolor che si prova per morti, non è nè misto
di orrore {o avversione,} nè proveniente da tal causa,
nè di tal genere in modo alcuno. Da che vien dunque la compassione che abbiamo
agli estinti se non dal credere, seguendo un sentimento intimo, e senza
ragionare, che essi abbiano perduto la vita
4278 e
l'essere; le quali cose, pur senza ragionare, e in dispetto della ragione, da
noi si tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque
noi non crediamo {naturalmente} all'immortalità
dell'animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi; e che
colui ch'è morto, non sia più.
[4280,1] Il vedersi nello specchio, ed immaginare che v'abbia
un'altra creatura simile a se, eccita negli animali un furore, una smania, un
dolore estremo. Vedilo di una scimmia nel Racconto di Pougens, intitolato Joco, Nuovo Ricoglitore di Milano, Marzo 1827. p. 215-6.
Ciò accade anche nei nostri bambini. V.
Roberti
Lettera di un bambino di 16
mesi. Amor grande datoci dalla natura verso i nostri simili!!
(Recanati. 13. Apr. Venerdì santo.
1827.). {{
V. p.
4419.}}
[4284,1] È ben trista quella età nella quale l'uomo sente di
non ispirar più nulla. Il gran desiderio dell'uomo, il gran mobile de' suoi
atti, delle sue parole, de' suoi sguardi, de' suoi contegni fino alla
vecchiezza, è il desiderio d'inspirare, di communicar qualche cosa di se agli
spettatori o uditori. (Firenze. 1. Luglio.
1827.).
[4285,5] L'amore e la stima che un letterato porta alla
letteratura, o uno scienziato alla sua scienza, sono il più delle volte in
ragione inversa dell'amore e della stima che il letterato o lo scienziato porta
a se stesso. (Firenze. 5. Luglio.
1827.).
[4286,6]
Memorie della mia vita. Cangiando
spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno o mesi o
anni, m'avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai
naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantochè io non
aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io
dimorava, alle vie, alle case che io frequentava; le quali rimembranze non
consistevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi
sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun
momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva importante e
dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e copia di ricordanze annesse ai luoghi
abitati da me, io non poteva averla se non con successo di tempo, e col tempo
non mi poteva mancare. Però io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi
mesi, e coll'andar del tempo mi trovava
4287 sempre
divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo.
(Firenze. 23. Luglio. 1827.). {{Colla rimembranza, egli mi diveniva quasi il luogo
natio.}}
[4287,1] Veramente e perfettamente compassionevoli, non si
possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero più atti che gli altri,
quando sono nel fior dell'età, quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono
nulla, perchè se anche hanno materia di sofferire, non la sentono. Ma i giovani
non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le
considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d'un altro mondo,
perchè essi non hanno negli occhi che felicità. Chi patisce non è atto a
compatire. Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse
patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e
delle facoltà estrinseche. Ma non v'ha che il giovane (il quale non ha patito)
che sia così pieno di facoltà, e che non patisca nulla. Se altro non fosse, lo
stesso declinar della gioventù, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto
più si sente, quanto uno è d'altronde meno sventurato. Passati i venticinque
anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della
decadenza del suo corpo, dell'appassimento del fiore de' giorni suoi, della fuga
e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù.
(Firenze. 23. Lugl. 1827.).
[4283,2] Il primo fondamento del sacrificarsi o adoperarsi
per gli altri, è la stima di se medesimo e l'aversi in pregio; siccome il primo
fondamento dell'interessarsi per altrui, è l'aver buona speranza per se
medesimo. (Firenze. 1. Luglio. 1827.).
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Sacrifizi di se stesso ec. (1827) (2)
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non dispiacevole ne' deboli. (1827) (1)
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. (1827) (1)
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Timidi. Timidezza nella società ec. (1827) (2)
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Morte. Desiderio della morte. (1827) (1)
Immortalità dell'anima. (1827) (1)
Compassione verso i morti. (1827) (1)
Genitori. Casa paterna. Vita domestica. (1827) (1)
Superbia nazionale. (1827) (1)
Spagnuoli. (1827) (1)
. Suo stato, costumi ec. antichi e moderni. (1827) (1)
Carattere, lingua ec. ec. (1827) (1)
e , ambo poeti sventurati; pur quello interessante e compassionevole, questo no: e perchè. (1827) (1)
Interesse in poesia ec. (1827) (1)
Epopea. (1827) (1)
153. L'allegrezza tende a dilatare, la tristezza a ristringere e contrarre, e ciò come moralmente, così anche fisicamente. (varia_filosofia) (1)
Mire (le) dell'uomo tanto più si stendono, quanto meno di vita egli si può promettere; e viceversa. (1827) (1)
Drammatica. (1827) (3)
Amore che ha l'uomo alle opinioni. (1827) (1)
Opinioni (diversità delle). (1827) (2)
Noia. (1827) (3)
Vino. (1827) (1)
Vecchiezza. (1827) (5)
Amor patrio. (1827) (1)
Delicatezza delle forme. (1827) (2)
Bellezza, segno di bontà. (1827) (1)
Vecchi, perchè amino tanto la vita. (1827) (2)
Uomo, perchè si creda il supremo degli enti. (1827) (1)
Grazia. (1827) (4)
Donne. (1827) (2)
Tempo. Uso del tempo. (1827) (1)
Fisonomia. Occhi. (1827) (2)
Ostinazione. (1827) (1)
alla vivacità, alla vita. (1827) (4)
Cause dell'amore dei vecchi alla vita. (danno) (1)
Vita. Perchè si vive. (1827) (1)
Estinguono la compassione. (1827) (1)
Solitudine. (1827) (1)
Gioia. (1827) (1)
Dolore antico. (1827) (1)
Inazione. L'uomo non vi si abitua mai. (1827) (1)
Piacere della disperazione. (1827) (1)
Egoismo del timore. (1827) (1)
Memoria. (1827) (1)
Doveri morali. (1827) (1)
Uomini riflessivi. (1827) (1)
Riflessione. Irriflessione. (1827) (4)
Irresoluzione. (1827) (1)
Sommo egoismo del timore. (danno) (1)