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[69,6]  Dev'esser cosa già notata che come l'allegrezza ci porta a communicarci cogli altri (onde un uomo allegro diventa loquace quantunque per ordinario sia taciturno, e s'accosta facilmente a persone che in altro tempo avrebbe o schivate, o non facilmente trattate ec.) così la tristezza a fuggire il consorzio altrui e rannicchiarci in noi stessi co' nostri pensieri e col nostro dolore. Ma io osservo che questo[questa] tendenza al dilatamento nell'allegrezza, e al ristringimento nella tristezza, si trova anche negli atti dell'uomo occupato dall'  70 uno di questi affetti, e come nell'allegrezza egli passeggia muove e allarga le braccia le gambe, dimena la vita, e in certo modo si dilata col trasportarsi velocemente qua e là, come cercando una certa ampiezza; così nella tristezza si rannicchia, piega la testa, serra le braccia incrociate contro il petto, cammina lento, e schiva ogni moto vivace e per così dire, largo. Ed io mi ricordo, (e l'osservai in quell'istesso momento) che stando in alcuni pensieri o lieti o indifferenti, mentre sedeva, al sopravvenirmi di un pensier tristo, immediatamente strinsi l'una contro l'altra le ginocchia che erano abbandonate e in distanza, e piegai sul petto il mento ch'era elevato.

[45,1]  Soleva considerar come una pazzia quello che dicono i Cappuccini per iscusarsi del trattar male i loro novizzi, il che fanno con gran soddisfazione, e con intimo sentimento di piacere, cioè che anch'essi sono stati trattati così. Ora l'esperienza mi ha mostrato che questo è un sentimento naturale, giacch'io giunto appena {per l'età} a svilupparmi dai legami di una penosa e strettissima educazione e tuttavia convivendo ancora nella casa paterna con un fratello minore di parecchi anni, ma non tanti ch'egli non fosse nel pienissimo uso di tutte le sue facoltà vizi ec. siccome non per altro (giacchè non era punto per predilezione de' genitori) se non perch'era mutato il genere della vita nostra che convivevamo con lui, anch'egli partecipava non poco alla nostra larghezza, ed avea molto più comodi e piaceruzzi che non avevamo noi in quella età, e molto meno incomodi e noie e lacci e strettezze e gastighi, ed era perciò molto più petulante ed ardito di noi in quell'età, perciò io ne risentiva naturalmente una verissima invidia, cioè non di quei beni giacch'io gli avea allora, e pel tempo passato non li potea più avere, ma mero e solo dispiacere ch'ei gli avesse, e desiderio che fosse incomodato e tormentato come noi, ch'è la pura e legittima invidia del pessimo genere, e io la sentiva naturalmente e senza volerla sentire, ma in somma compresi allora (e allora appunto scrissi queste parole) che tale è la natura umana, onde mi erano men cari quei beni ch'io aveva qualunque fossero, perch'io li comunicava con lui, forse parendomi che non fossero più degno termine di tanti stenti dopo che non costavano niente a un altro che si trovava nelle mie circostanze, e con meno merito di me, ec. Quindi applico ai Cappuccini, i quali trovando la sorte dei fratelli minori che sono i novizzi dipendente da loro, seguono gl'impulsi di questa inclinazione che ho detto, e non soffrono che si possano dire a se stessi essere scarso quel bene a cui son giunti poichè altri gli acquista con assai meno travaglio di loro, nè che abbiano a provare il dispiacere che questi tali non soffrano quegl'incomodi ch'essi in quelle circostanze hanno sofferti.

[73,1]   73 Io non ho mai provato invidia nelle cose in cui mi son creduto abile, come nella letteratura, dove anzi sono stato proclivissimo a lodare. L'ho provata posso dire per la prima volta (e verso una persona a me prossimissima) quando ho desiderato di valer qualche cosa in un genere in cui capiva d'esser debolissimo. Ma bisogna che mi renda giustizia confessando che questa invidia era molto indistinta e non al tutto e per tutto vile, e contraria al mio carattere. Tuttavia mi dispiaceva assolutamente di sentire le fortune di quella tal persona in quel tal genere, e raccontandomele essa, la trattava da illusa, ec.

[104,1]  Dopo che l'eroismo è sparito dal mondo, e in vece v'è entrato l'universale egoismo, amicizia vera e capace di far sacrificare l'uno amico all'altro, in persone che ancora abbiano interessi e desideri, è ben difficilissimo. E perciò quantunque si sia sempre detto che l'uguaglianza è l'una delle più certe fautrici dell'amicizia, io trovo oggidì meno verisimile l'amicizia fra due giovani che fra un giovane, e un uomo di sentimento già disingannato del mondo, e disperato della sua propria felicità. Questo non avendo più desideri forti è capace assai più di un giovane d'unirsi ad uno che ancora ne abbia, e concepire vivo {ed efficace} interesse per lui, formando così un'amicizia reale e solida quando l'altro abbia anima da corrispondergli. È[E] questa circostanza mi pare anche più favorevole all'amicizia, che quella di due persone egualmente disingannate, perchè non restando desideri nè interessi in veruno, non resterebbe materia all'amicizia e questa rimarrebbe limitata alle parole e ai sentimenti, ed esclusa dall'azione. Applicate questa osservazione al caso mio col mio degno e singolare amico, e al non averne trovato altro {tale}, quantunque conoscessi ed amassi e fossi amato da uomini d'ingegno e di ottimo cuore. (20 Gen. 1820.)

[108,1]   108 Vedi come la debolezza sia cosa amabilissima a questo mondo. Se tu vedi un fanciullo che ti viene incontro con un passo traballante e con una cert'aria d'impotenza, tu ti senti intenerire da questa vista, e innamorare di quel fanciullo. Se tu vedi una bella donna inferma e fievole, o se ti abbatti ad esser testimonio a qualche sforzo inutile di qualunque donna, per la debolezza fisica del suo sesso, tu ti sentirai commuovere, e sarai capace di prostrarti innanzi a quella debolezza e riconoscerla per signora di te e della tua forza, e sottomettere e sacrificare tutto te stesso all'amore e alla difesa sua. Cagione di questo effetto è la compassione, la quale io dico che è l'unica qualità e passione umana che non abbia nessunissima mescolanza di amor proprio. L'unica, perchè lo stesso sacrifizio di se all'eroismo alla patria alla virtù alla persona amata, e così qualunque altra azione la più eroica e più disinteressata (e qualunque altro affetto il più puro) si fa sempre perchè la mente nostra trova più soddisfacente quel sacrifizio che qualunque guadagno in quella occasione. Ed ogni qualunque operazione dell'animo nostro ha sempre la sua certa e inevitabile origine nell'egoismo, per quanto questo sia purificato, e quella ne sembri lontana. Ma la compassione che nasce nell'animo nostro alla vista di uno che soffre è un miracolo della natura che in quel punto ci fa provare un sentimento affatto indipendente dal nostro vantaggio o piacere, e tutto relativo agli altri, senza nessuna mescolanza di noi medesimi. E perciò appunto gli uomini compassionevoli sono sì rari, e la pietà è posta, massimamente in questi tempi, fra le qualità le più riguardevoli e distintive dell'uomo sensibile e virtuoso.  109 Se già la compassione non avesse qualche fondamento nel timore di provar noi medesimi un male simile a quello che vediamo. (Perchè l'amor proprio è sottilissimo, e s'insinua da per tutto, e si trova nascosto ne' luoghi i più reconditi del nostro cuore, e che paiono più impenetrabili a questa passione) Ma tu vedrai, considerando bene, che c'è una compassione spontanea, del tutto indipendente da questo timore, e intieramente rivolta al misero.

[29,5]  Un villano del territorio di Recanati avendo portato un suo bue, già venduto, al macellaio compratore per essere ammazzato, e questo sul punto dell'operazione, da principio dimorò sospeso e incerto di partire o di restare, di guardare o di torcere il viso, e finalmente avendo vinto la curiosità, e veduto stramazzare il bue, si mise a piangere dirottamente. L'ho udito da un testimonio di vista.

[126,2]  L'impressione che produce l'annunzio improvviso di una grave sventura, non si accresce in proporzione della maggiore o minor gravità di essa. L'uomo in quel punto la considera quasi come somma, e tutto l'impeto del dolore si scarica sopra di essa, in maniera che non avrebbe potuto raddoppiarsi, se la sventura annunziatagli fosse stata del doppio maggiore, voglio dire però, se sin da principio gli fosse stata annunziata così, perchè sopravvenendo un altro annunzio, la successione della cosa lascia luogo all'accrescimento del dolore, sebbene neanche allora l'accrescimento sarebbe in proporzione del raddoppiamento della sventura, perchè l'anima è già esaurita e come intorpidita dal  127 dolore passato. Ieri in mezzo a una festa, due fanciulli restano oppressi da una pietra caduta da un tetto. Si sparge voce che tutti due sieno figliuoli di una stessa madre. Poi la gente si consola perchè viene in chiaro che sono di due donne. Che altro è questo se non rallegrarsi perchè il dolore si raddoppia veramente, essendo ugualmente grave in ambedue? quando in una sola appresso a poco sarebbe stato lo stesso in {tutti} due i casi. E quella che tramortì all'annunzio, non avrebbe potuto soffrir di più se la sventura per se stessa fosse stata doppia. Prescindendo dal caso che la morte di due figli la privasse di tutta la figliuolanza, il che muterebbe la specie della disgrazia, ed è fuor del caso. E potrebbe anche darsi che quel solo figlio ch'ella perdè, fosse unico, laonde questa considerazione qui non ha luogo. (16. Giugno 1820.).

[127,1]  La gloria non è una passione dell'uomo primitivo affatto e solitario, ma la prima volta che una truppa d'uomini s'unì per uccidere qualche fiera, o per qualche altro fatto dov'ebbero mestieri dell'aiuto scambievole, quegli che mostrò più valore, sentì dirsi bravo schiettamente e senza adulazione da quella gente che ancora non conoscea questo vizio. La qual parola gli piacque forte, e così egli come qualche altro spirito magnanimo che sarà stato presente, sentirono per la prima volta il desiderio della lode. E così  128 nacque l'amor della gloria. (18. Giugno 1820.).

[128,1]  La qual passione è così propria dell'uomo in società, e così naturale, che anche ora in tanta morte del mondo, e mancanza di ogni sorta di eccitamenti, nondimeno i giovani sentono il bisogno di distinguersi, e non trovando altra strada aperta come una volta, consumano le forze della loro giovanezza, e studiano tutte le arti, e gettano la salute del corpo, e si abbreviano la vita, non tanto per l'amor del piacere, quanto per esser notati e invidiati, e vantarsi di vittorie vergognose, che tuttavia il mondo ora applaude, non restando a un giovane altra maniera di far valere il suo corpo, e procacciarsene lode, che questa. Giacchè ora pochissimo anche all'animo, ma tuttavia all'animo resta qualche via di gloria, ma al corpo ch'è quella parte che fa il più, e nella quale consiste per natura delle cose, il valore della massima parte degli uomini, non resta altra strada.

[130,2]  A quello che ho detto p. 128. aggiungi. Il giovane che entra nel mondo vuol diventarci qualche cosa. Questo è un desiderio comune e certo di tutti. Ma oggidì il giovane privato non ha altra strada a conseguirlo fuorchè quella che ho detto, o l'altra della letteratura che rovina parimente il corpo. Così la gloria d'oggidì è posta negli esercizi che nuocciono alla salute, in luogo che una volta era posta nei contrarii. E così per conseguenza s'infiacchiscono sempre più le generazioni degli uomini, e questo effetto della mancanza d'illusioni esistenti nel mondo come una volta, divien cagione di questa stessa mancanza, a motivo del poco vigore secondo quello che ho detto negli altri pensieri, p. 96 p. 115 della necessità del vigor del corpo alle grandi illusioni dell'animo. Sono poi troppo noti gli spaventosi effetti della ordinaria vita giovanile d'oggidì, che a poco a poco ridurranno il mondo a uno spedale. Ma che rimedio ci trovereste? Che altra occupazione resta oggi a un giovane privato, o che altra speranza? E credete che un giovane si possa contentare di una vita inattiva,  131 senza nessuna vista, e nessuna aspettativa fuorchè di un'eterna monotonia, e di una noia immutabile? Anticamente la vanità era considerata come propria delle donne, perchè anche nelle donne c'è lo stesso desiderio di distinguersi, e ordinariamente non ne hanno avuto altro mezzo che quello della bellezza. Quindi il loro cultus sui, * il quale diceva Celso che adimi feminis non potest. * Ora resta intorno alla vanità la stessa opinione, che sia propria delle donne, ma a torto, perchè è propria degli uomini quasi egualmente, essendo anche gli uomini ridotti alla condizione appresso a poco delle femmine, rispetto alla maniera di figurare nel mondo, e l'uomo vecchio per la massima parte, è divenuto inutile e spregevole, e senza vita nè piaceri nè speranze, come la donna comunemente soleva e suol divenire, che dopo aver fatto molto parlar di se, sopravvive alla sua fama invecchiando. (22. Giugno 1820.).

[131,1]  Bisogna escludere dai sopraddetti, {i negozianti} gli agricoltori, gli artigiani, e in breve gli operai, perchè in fatti la strage del mal costume non si manifesta altro che nelle classi disoccupate.

[164,1]  In proposito di quello che ho detto p. 108. notate come ci muova a compassione e c'intenerisca il veder qualunque persona che nell'atto di provare un dispiacere, una sventura, un dolore ec. dà segno della propria debolezza, e impotenza di liberarsene. Come anche il veder maltrattare anche leggermente una persona che non possa resistere. (11. Luglio 1820.).

[66,2]  Se tu hai un nemico mortale nella tal città e vedi che v'è sopra un temporale, ti passa pur per la mente la speranza ch'egli ne possa restare ucciso? Or come dunque ti spaventi se quel temporale viene sopra di te, quando la probabilità ch'egli uccida è tanto piccola che tu non ci sai neppur fondare quella cosa che ha pur bisogno di sì poco fondamento per sorgere in noi, dico la speranza? Lo stesso intendo dire di cento altri pericoli, i quali se in vece fossero probabilità di bene, ci parrebbe ridicolo il porci per esse in nessuna speranza, e pure ci poniamo per quei pericoli in timore. Tant'è: bisogna bene che per quanto la speranza sia facile a nascere, e insussistente, il timore lo sia di più. Ma questa riflessione mi pare molto atta a temperarlo. {{Il timore è dunque più fecondo d'illusioni che la speranza.}}

[105,3]  Come nella speranza o in qualunque altra disposizione dell'animo nostro, il bene lontano è sempre maggiore del presente, così per l'ordinario nel timore è più terribile il male.

[188,3]  Così il bene come il male aspettato sono ordinariamente più grandi che il bene o il male presente. La cagione di tutte due le cose è la stessa, cioè l'immaginazione determinata dall'amor proprio occupato nel primo caso dalla speranza, nel secondo dal timore.

[188,2]  Nessun dolore cagionato da nessuna sventura, è paragonabile a quello che cagiona una disgrazia grave e irrimediabile, la quale sentiamo ch'è venuta da noi, e che potevamo schivarla, in somma al pentimento vivo e vero.

[65,1]  Diceva una volta mia madre a Pietrino che piangeva per una cannuccia gittatagli per la finestra da Luigi: non piangere, non piangere che a ogni modo ce l'avrei gittata io. E quegli si consolava perchè anche in altro caso l'avrebbe perduta. Osservazioni intorno a questo effetto comunissimo negli uomini, e a quell'altro suo affine, cioè che noi ci consoliamo e ci diamo pace quando ci persuadiamo che quel bene non era in nostra balìa d'ottenerlo, nè quel male di schivarlo, e però cerchiamo di persuadercene, e non potendo, siamo disperati, quantunque il male in tutti i modi si rimanga lo stesso. {{v. p. 188.}} {{v. a questo proposito il Manuale di Epitteto.}}

[196,1]  Alla p. 164. pensiero primo, aggiungi. Se tu vedi un fanciullo, una donna, un vecchio affaticarsi impotentemente per qualche operazione in cui la loro debolezza impedisca loro di riuscire, è impossibile che tu non ti muova a compassione, e non proccuri, potendo, d'aiutarli. E se tu vedi che tu dai incomodo {o dispiacere} ec. ad uno il quale soffre senza poterlo impedire, sei di marmo, o di una irriflessione bestiale, se ti dà il cuore di continuare.

[197,1]  Dice Diogene Laerzio di Chilone che προσέταττε... ἰσχυρὸν ὄντα πρᾷον εἶναι ὅπως οἱ πλησίον αἰδῶνται μᾶλλον ἢ ϕοβῶνται * . E questo precetto si deve estendere, massimamente oggidì in tanta propagazione dell'egoismo, a tutti i vantaggi particolari di cui l'individuo può godere. Perchè se tu sei bello non ti resta altro mezzo per non essere odiosissimo agli uomini che un'affabilità particolare, e come una certa noncuranza di te stesso, che plachi l'amor proprio altrui offeso dall'avvantaggio che tu hai sopra di loro, o anche dall'uguaglianza. Così se tu sei ricco, dotto, potente ec. Quanto maggiore è l'avvantaggio che tu hai sopra gli altri, tanto più per fuggir l'odio, t'è necessaria una maggiore amabilità, e quasi dimenticanza e disprezzo di te stesso in faccia agli altri, perchè tu devi medicare una cagione d'odio che tu hai in te stesso e che gli altri non hanno: una cagione assoluta, che ti fa odioso per se sola, senza che tu sia nè ingiusto nè superbo nè ec. Ed era questa una cosa notissima agli antichi, tanto persuasi della odiosità dei vantaggi individuali, che ne credevano invidiosi gli stessi dei, e nella prosperità avevano cura dell'invidiam deprecari tanto divina che umana, e quindi un  198 seguito non interrotto di felicità li rendeva paurosi di gravi sciagure. V. Frontone de Bello Parthico. (4. Agosto 1820.). {{v. p. 453. capoverso ult.}}

[204,1]  In proposito di quello che ho detto p. 197. io so di una donna desiderosa di concepire che bastonava fieramente una cavalla pregna, dicendo, tu gravida e io no. L'invidia e l'odio altrui per le felicità che hanno, cade ordinariamente sopra quei beni che noi desideriamo di avere e non abbiamo, o de' quali vorremmo esser gli unici o i principali possessori ed esempi. Sopra gli altri beni non è cosa ordinaria l'invidia, ancorchè sieno beni grandissimi. Del resto quantunque l'invidia riguardi per lo più i nostri simili, coi quali solamente sogliamo entrare in competenza, nondimeno si vede che il furore di questa passione può condurre all'invidia e all'odio anche delle altre cose. (10. Agosto 1820.).

[210,2]  Come l'amore così l'odio si rivolge principalmente sopra i nostri simili, nè si desidera mai così intensamente {la vendetta di} una bestia come {di} un nemico. E notate: quando altri ci abbia fatto del male non volendo, tuttavia il risentimento che  211 ne proviamo è maggiore che per una bestia la quale volendo ci abbia fatto un maggior male.

[211,1]  Alla p. 196 capoverso primo, aggiungi. Ci commuove molto più una rondinella che vede strapparsi i suoi figli, e si travaglia impotentemente a difenderli, di quello che una tigre, o altra tal fiera nello stesso caso. {+V. Virg. Georg. 4. Qualis populea moerens philomela sub umbra * ec.}

[220,3]  La compassione spesso è fonte di amore, ma quando cade sopra oggetti amabili o per se stessi, o in modo che aggiunta la compassione lo possano divenire. E questa è la compassione che interessa e dura e si riaffaccia più volte all'anima. Maggiori calamità in un oggetto anche innocentissimo ma non amabile, come in persona vecchia e brutta, non destano che una compassione passeggera, la quale  221 finisce ordinariamente colla presenza dell'oggetto, o dell'immagine che ce ne fanno i racconti ec. {(E l'anima non se ne compiace, e non la richiama.)} I quali ancora bisogna che sieno ben vivi ed efficaci per commuoverci momentaneamente, laddove poche parole bastano per farci compatire una giovane e bella, ancorchè non conosciuta, al semplice racconto della sua disgrazia. Perciò Socrate sarà sempre più ammirato che compianto, ed è un pessimo soggetto per tragedia. E peccherebbe grandemente quel romanziere che fingesse dei brutti sventurati. Così il poeta ec. Il quale ancora in qualsivoglia caso o genere di poesia, si deve ben guardare dal dar sospetto ch'egli sia brutto, perchè nel leggere una bella poesia noi subito ci figuriamo un bel poeta. E quel contrasto ci sarebbe disgustosissimo. Molto più s'egli parla di se, delle sue sventure, de' suoi amori sfortunati, come il Petrarca ec.

[221,2]  Quella tal compassione che ho detto per oggetti non amabili, si rassomiglia molto e partecipa del ribrezzo, come se noi vediamo tormentare una bestia ec. E perciò a destarla ci vogliono grandi calamità, altrimenti la compassione per li piccoli mali di quei tali oggetti, appena, o forse neppur si desta negli stessi animi ben fatti. (21. Agosto 1820.).

[233,4]  La compassione come è determinata in gran parte dalla bellezza rispetto ai nostri simili, così anche rispetto agli altri animali, quando noi li vediamo soffrire. Che poi oltre la bellezza, una grande e somma origine di compassione sia la differenza  234 del sesso, è cosa troppo evidente, quando anche l'amore non ci prenda nessuna parte. P. e. ci sono molte sventure reali e tuttavia ridicole, delle quali vedrete sempre ridere molto più quella parte degli spettatori che è dello stesso sesso col paziente, di quello che faccia o sia disposta o inclinata a fare l'altra parte, massimamente se questa è composta di donne, perchè l'uomo com'è più profondo nei suoi sentimenti, così è molto più duro e brutale nelle sue insensibilità e irriflessioni. E questo, tanto nel caso della bellezza, quanto della bruttezza o mediocrità del paziente. Del resto è così vero che le piccole sventure dei non belli non ci commuovono quasi affatto, che bene spesso siamo inclinati a riderne.

[206,1]  Cleobulo dice Diog. Laerz. συνεβούλευε... γυναικὶ * {(uxori)} μὴ ϕιλοϕρονεῖσϑαι μηδὲ μάχεσϑαι ἀλλοτρίων παρόντον∙ τὸ μὲν γὰρ ἄνοιαν, τὸ δὲ μανίαν σημαίνει * . {{V. p. 233.}}

[233,2]  Al capoverso primo della p. 206. aggiungi: Et si elles * (les Françoises) ont un amant, elles ont autant de soin de ne pas {donner} à l'heureux mortel des marques de prédilection en public, qu'un Anglois du bon ton de ne pas paroître amoureux {de sa femme} en compagnie. * Morgan, France. t. 1. 1818. p. 253. liv. 3.

[255,1]  L'allegria bene spesso è madre di benignità e d'indulgenza, al contrario delle cure e dei mali umori. Questa è cosa nota e osservata, sicchè non mi fermerò a cercarne la ragione, ch'è facile a trovare. Ma solamente considererò l'armonia della natura, la quale mirando sempre alla felicità degli esseri, e per conseguenza l'allegria nel sistema naturale dovendo essere la condizione più frequente della vita, ha voluto che fosse compagna della piacevolezza verso i suoi simili, virtù somma nella società, e per conseguenza che l'allegria fosse utile non solo all'individuo, ma anche agli altri, e servisse alla società, e rendesse l'uomo verso altrui, tale quale dev'essere.

[262,3]  Lo spavento e il terrore sebbene di un grado maggior del timore, contuttociò bene spesso sono molto meno vili, anzi talvolta non contengono nessuna viltà: e possono cadere anche negli uomini perfettamente coraggiosi, al contrario del timore. P. e. lo spavento che cagiona l'aspetto di una vita infelicissima o noiosissima e lunga, che ci aspetti ec. {{Lo spavento degli spiriti, così puerile esso, e fondato in opinione così puerile, è stato (ed ancora è) comune ad uomini coraggiosissimi. V. la p. 531, e 535.}}

[266,1]  Le passioni e i sentimenti dell'uomo si può dire che da principio stessero nella superficie, poi si rannicchiassero nel fondo più cupo dell'anima, e finalmente siano venuti e rimasti nel mezzo. Perchè l'uomo naturale, sebbene sensibilissimo, tuttavia si può dire che abbia le sue passioni nella superficie, sfogandole con ogni sorta di azioni esterne, suggerite e volute dalla natura per aprire una strada alla soverchia foga ed impeto del sentimento, il quale appunto perchè violentissimo nel dimostrarsi, e perchè richiamato {subito} al di fuori, dopo un grand'empito esterno, presto veniva meno, {se bene fosse molto più frequente.} L'uomo non più naturale, ma che tuttavia conserva un poco di natura, risentendo tutta o quasi tutta la forza della passione, come l'uomo primitivo, la contiene tutta al di dentro, non ne dà segni se non leggeri ed equivoci, e però il sentimento si rannicchia tutto nel profondo, ed acquista maggior forza e durevolezza, e se il sentimento è doloroso, non avendo lo sfogo voluto dalla natura, diventa capace anche di uccidere o di tormentare più o meno, secondo la qualità sua e dell'individuo. Di queste persone si trovano anche oggidì,  267 perchè, tolto qualche parte del volgo, nessuno conserva tanta natura da lasciar tutta la passione lanciarsi alla superficie (eccetto in alcuni casi eccessivi, dove la natura trionfa); ma molti ne hanno quanto basta per sentirla vivamente, e poterla provare contenuta e chiusa nel fondo dell'animo. Tuttavia è certo che questi tali appartengono ad un'epoca di mezza natura, a quel tempo in cui la vera sensibilità non era nè così ordinaria nelle parole, nè così straordinaria nel fatto, come presentemente. L'uomo perfettamente moderno, non prova quasi mai passione o sentimento che si lanci all'esterno o si rannicchi nell'interno, ma {quasi} tutte le sue passioni si contengono per così dire nel mezzo del suo animo, vale a dire che non lo commuovono se non mediocremente, gli lasciano il libero esercizio di tutte le sue facoltà naturali, abitudini ec. In maniera che la massima parte della sua vita si passa nell'indifferenza e conseguentemente nella noia, mancando d'impressioni forti e straordinarie. Esempio. Un amico o persona desiderata che ritorni dopo lungo tempo, o che vediate per la prima volta. Il fanciullo e l'uomo selvaggio l'abbraccerà, lo carezzerà, salterà, darà mille segni esterni di quella gioia che l'anima veramente e vivamente; segni non fallaci, ma verissimi  268 e naturalissimi. L'uomo di sentimento, senza gesti nè moti forti, lo prenderà per la mano, o al più l'abbraccerà lentamente, e resterà qualche tempo in questo abbracciamento, o in altra positura, non dando segno della gioia che prova se non colla immobilità della persona e dello sguardo, e forse con qualche lacrima, {e mentre il di dentro è diversissimo, il di fuori sarà quasi quello di prima.} L'uomo ordinario, o l'uomo di sentimento affievolito e intorpidito dall'esperienza del mondo, e dalla misera cognizione delle cose, {insomma l'uomo moderno,} conserverà di dentro e di fuori il suo stato giornaliero, non proverà emozione se non piccola, minore ancora di quello che forse si aspettava, ed o che lo prevedesse o no, quello sarà per lui un avvenimento ordinario della vita, uno di quei piaceri che si gustano con indifferenza, e che appena arrivati, quando anche voi lo desideraste ansiosamente, vi par freddo e ordinario e incapace di riempiervi o di scuotervi. V. p. 270 capoverso 1.

[281,1]  Quell'usignuolo di cui dice Virgilio nell'episodio d'Orfeo, che accovacciato su d'un ramo, va piangendo tutta notte i suoi figli rapiti, e colla miserabile sua canzone, esprime un dolor profondo, continuo, ed acerbissimo, senza moti di vendetta, senza cercare riparo al suo male, senza proccurar di ritrovare il perduto ec. è compassionevolissimo, a cagione di quell'impotenza ch'esprime, secondo quello che ho detto in altri pensieri. p. 108 p. 164 p. 196 p. 211.

[183,3]  La speranza non abbandona mai l'uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano stoltamente quelli che dicono (gli autori della Morale universelle t. 3.) che il suicidio non possa seguire senza una specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla speranza ec. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice {e naturale,} ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare, e a vivere, ed è contrarissimo alla ragione, la quale ci mostra troppo chiaro che non v'è speranza nessuna per noi. (23. Luglio 1820.).

[285,1]  La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei, non abbandona l'uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la più diametralmente contraria ad essa speranza, e la più decisiva. (18. 8.bre 1820.).

[293,1]  Ho detto altrove; {(p. 55).} domandate piacere ad uno, che non vi si possa fare senza incorrere nell'odio di un altro ec. La cagione di questo è che l'odio è passione, la gratitudine ragione e dovere, eccetto il caso che il benefizio produca l'amore passione, giacchè questa non si può dubitare che spesso non sia più efficace ed attiva dell'odio e di tutte le altre. Ma la semplice gratitudine è tutta relativa ad altrui, laddove l'amore passione, benchè sembri, non è tale, ma è fondata sommamente nell'amor proprio, giacchè si ama quell'oggetto come cosa che c'interessa, ci piace, e la nostra persona entra in questo affetto per grandissima parte. Ma la ragione non è mai efficace come la passione. Sentite i filosofi. Bisogna fare che l'uomo si muova per la ragione come, anzi più assai che per la passione, anzi si muova per la sola ragione e dovere. Bubbole. La natura degli uomini e delle cose, può ben  294 esser corrotta, ma non corretta. E se lasciassimo fare alla natura, le cose andrebbero benissimo, non ostante la detta superiorità della passione sulla ragione. Non bisogna estinguer la passione colla ragione, ma convertir la ragione in passione; fare che il dovere la virtù l'eroismo ec. diventino passioni. Tali sono per natura. Tali erano presso gli antichi, e le cose andavano molto meglio. Ma quando la sola passione del mondo è l'egoismo, allora si ha ben ragione di gridar contro la passione. Ma come spegner l'egoismo colla ragione che n'è la nutrice, dissipando le illusioni? E senza ciò, l'uomo privo di passioni, non si muoverebbe per loro, ma neanche per la ragione, perche[perchè] le cose son fatte così, e non si possono cambiare, che la ragione non è forza viva nè motrice, e l'uomo non farà altro che divenirne indolente, inattivo, immobile, indifferente, infingardo, com'è divenuto in grandissima parte. (22. 8.bre 1820.).

[302,4]  Une résistance inutile (aux malheurs) retarde l'habitude qu'elle (l'ame) contracteroit avec son état. Il faut céder aux malheurs. Renvoyez-les à la patience: c'est à elle seule à les adoucir. *  303 La même, ibid. p. 88. (5 Nov. 1820.)

[324,2]  Demetrio Falereo τῶν τετυϕωμένων ἀνδρῶν ἔϕη τὸ μὲν ὕψος δεῖν περιαιρεῖν, τὸ δὲ ϕρόνημα καταλιπεῖν * . (Laerz in Demetr. l. 5. seg. 82.) Cioè, hominum fastu turgidorum aiebat circumcidi oportere altitudinem, opinionem autem de se relinquere * . Così l'interprete benissimo. Scioccamente Merico Casaubono nella nota ad alcune parole dello stesso segm. poco addietro.

[333,1]  La natura può supplire e supplisce alla ragione infinite volte, ma la ragione alla natura non mai, neanche quando sembra produrre delle grandi azioni: cosa assai rara: ma anche allora la forza impellente e movente, non è della ragione ma della natura. Al contrario togliete le forze somministrate dalla natura, e la ragione sarà sempre inoperosa e impotente.

[364,2]  Quegli stessi che credono grave, o maggiore che non è, ogni leggera malattia che loro sopravviene, caduti in qualche malattia grave o mortale, la credono leggera, o minore che non è. E la cagione d'ambedue le cose è la codardia che gli sforza a temere dove non è timore, e a sperare dove non è speranza.

[369,1]  Non è forse cosa che tanto promuova l'attività e l'impazienza di ottenere il fine che si desidera, quanto l'incertezza di ottenerlo, quando però questo vi prema, e l'idea di non ottenerlo vi attristi. Non {già} solamente perchè l'incertezza, obbliga all'azione (laddove la certezza può dar luogo alla pigrizia) in quanto un fine incerto domanda maggior cura per ottenerlo. Ma quando anche non domandi maggior cura, il che può ben accadere (perchè un fine può esser certo, posta però una grande attività per conseguirlo) e indipendentemente affatto dall'utilità e dal bisogno delle cure, tu sarai attivissimo e impazientissimo di ottenerlo, per questo solo che tu non puoi sopportare quell'incertezza, e che tu spasimi di liberarti dall'angustia che ti deriva dal dubbio di non riuscire ad un fine che tu desideri grandemente. Angustia alla quale forse preferirai la certezza di non poterlo conseguire. Anche materialmente m'{è} accaduto più volte di dubitare se alcuni miei sforzi corporali avrebbero potuto ottenere un fine che  370 mi premeva, e perciò raddoppiarli impazientemente, sebbene altri mi consigliava di riposare {perchè la dilazione non faceva alcun danno.} Ma io non poteva sostere[sostenere] l'incertezza di una cosa che m'importava, laddove se non avessi dubitato non avrei avuto difficoltà di aspettare. E così la stessa mia impazienza poteva pregiudicare al fine, togliendomi il riposo necessario ec. Così nel comporre ec. Parimenti se tu devi compire una tale operazione in un dato spazio, e temi di non riuscirvi, l'impazienza e la sollecitudine tua non cresce in ragione del bisogno, ma ben da vantaggio, e, s'è possibile, tu vieni a capo dell'opera prima del termine prefisso. (1. Dec. 1820.). {{V. p. 712. capoverso 2. }}

[453,2]  Quale idea avessero gli antichi della felicità (e quindi dell'infelicità) dell'uomo in questa vita, della sua gloria, delle sue imprese; e come tutto ciò paresse loro solido e reale,  454 si può arguire anche da questo, che delle grandi felicità ed imprese umane, ne credevano invidiosi gli stessi Dei, e temevano perciò l'invidia loro, ed era lor cura in tali casi deprecari la divina invidia, in maniera che stimavano anche fortuna, e (se ben mi ricordo) si proccuravano espressamente qualche leggero male, per dare soddisfazione agli Dei, e mitigare l'invidia loro pp. 197-98. Deos immortales precatus est, ut, si quis eorum invideret operibus ac fortunae suae, in ipsum potius saevirent, quam in remp. * Velleio I. c. 10. di Paolo Emilio. E così avvenne essendogli morti due figli, l'uno 4 giorni avanti il suo trionfo, e l'altro 3 giorni dopo esso trionfo. E v. quivi le note Variorum. V. pure Dionigi Alicarnasseo l. 12. c. 20. e 23. edizione di Milano, e la nota del Mai al c. 20. V. ancora questi pensieri p. 197. fine. Così importanti stimavano gli antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle divine operazioni altri fini che i nostri, mettevano i dei in comunione della nostra vita e de' nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre felicità ed imprese, come i nostri simili,  455 non dubitando ch'elle non fossero degne della invidia degl'immortali. (23. Dic. 1820.). {{V. p. 494. capoverso 1.}}

[458,1]  Quanta parte abbia nell'uomo il timore più della speranza si deduce anche da questo, che la {stessa} speranza è madre di timore, tanto che gli animi meno inclinati a temere, e più forti, sono resi timidi dalla speranza, massime s'ella è notabile. E l'uomo non può quasi sperare senza temere, e tanto più quanto la speranza è maggiore. Chi spera teme, e il disperato non teme nulla. Ma viceversa la speranza non  459 deriva dal timore, {+benchè chi teme speri sempre che il soggetto del suo timore non si verifichi.} (26. Dic. 1820.). {{Osservate che la passione direttamente opposta al timore, è la speranza. E nondimeno ella non può sussistere senza produrre il suo contrario.}}

[466,1]   466 Sopra ogni dolore d'ogni sventura si può riposare, fuorchè sopra il pentimento. Nel pentimento non c'è riposo nè pace, e perciò è la maggiore o la più acerba di tutte le disgrazie, come ho detto in altri pensieri p. 65 p. 188. (2. Gen. 1821.) {{V. p. 476. capoverso 1.}}

[476,1]  Alla p. 466. pensiero 1. Quippe ita se res habet, ut plerumque, qui fortunam mutaturus Deus, * (Voss. leg. cui fortunam. al. delent τὸ qui, et melius) consilia corrumpat, efficiatq., quod miserrimum est, ut quod accidit, etiam merito accidisse videatur, et casus in culpam transeat. * Velleio II. 118. sect. 4. (6. Gen. 1821.)

[230,1]   230 Dice il Casa (Galateo c. 3.) che non è dicevol costume, quando ad alcuno vien veduto per via, come occorre alle volte, cosa stomachevole, il rivolgersi a' compagni, e mostrarla loro. E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa puzzolente, come alcuni soglion fare, con grandissima istanza pure accostandocela al naso, e dicendo: Deh sentite di grazia come questo pute. * Non solo dunque il piacere che si prova, ma anche alcuni incomodi {+(oltre i dolori delle sventure ec.)} si vogliono quasi per naturale inclinazione partecipare agli altri, e questa partecipazione ci diletta, e ci dà pena il non conseguirla. Ne inferirai che dunque l'uomo è fatto per vivere in società. Ma io dico anzi che questa inclinazione o desiderio, benchè paia naturale, è un effetto della società, bensì effetto prontissimo e facile, perchè si dimostra anche ne' fanciulli, e forse più spesso che negli adulti. V. p. 208. e 85. fine. (4. Settembre 1820.).

[339,2]  Alla inclinazione degli uomini di partecipare altrui il piacere e il dolore, notata in altri pensieri, p. 85-86 p. 230 pp. 266-68 si dee riferire in gran parte la smania (attribuita principalmente alle donne, e propria soprattutto de' fanciulli, insomma degli uomini più leggeri e naturali) di rivelare il segreto  340 o la cosa che si dovrebbe, e spesso anche d'altronde si vorrebbe tener nascosta, di raccontar subito una nuova, una cosa scoperta, un piacere un timore un dolore una noia provata ec. e tutta la loquacità che appartiene al riferire, (20. Nov. 1820.) {{o al dir quello che si pensa nel momento, o si è pensato ec. come i fanciulli non si possono tenere di ciarlare su qualunque soggetto.}}

[486,1]   486 Il {desiderio di} mettere gli altri a parte delle proprie sensazioni (o piacevoli o dispiacevoli come ho detto in altri pensieri pp. 85-86 p. 230 pp. 266-68 p. 339 p. 393) si può notare massimamente, ed ha tanto maggior forza quanto ciascun individuo è più vicino alla natura. I fanciulli non lo possono frenare in nessun modo, tanto che per amore, per preghiere, o per forza d'importunità,  487 non communichino ai circostanti, o a quelli ch'essi vanno a cercare a posta, quei piaceri, quei dispiaceri, in somma quelle sensazioni notabili, e per loro alquanto straordinarie, che hanno sperimentato o sperimentano; come udendo una buona o cattiva musica, o suono o canto di qualunque sorta, che li colpisca: vedendo qualunque oggetto che faccia loro impressione ec. e tanto in bene quanto in male. Gli uomini poi più rozzi e ignoranti e incolti, e generalmente il volgo, non si può tenere che in simili circostanze, non gridi al vicino, vedi vedi, senti senti. E questa esclamazione è così naturale che anche in una gran moltitudine presente allo stesso spettacolo ec. tutti o moltissimi esclameranno lo stesso, senza o essere ascoltati da nessuno in particolare, o anche curarsi precisamente di farsi udire da questo o da quello. Ma nessuno si può tenere dall'esclamare in quel modo, dando evidente indizio della inclinazione naturale che li porta al desiderio e voglia di partecipare. E osservate che questa esclamazione si pronunzia bene spesso anche  488 nella solitudine e senza nessuno uditore, quando l'uomo provi simili sensazioni in tal circostanza: e noi diciamo vedi e senti quando anche non c'è chi possa vedere o sentire, e cerchiamo così in tutti i modi di soddisfare illusoriamente una voglia che non può essere soddisfatta realmente. E sebben questo accade tanto più, quanto l'individuo tiene del primitivo, e tanto più frequentemente, quanto più spesso egli è suscettibile di maravigliarsi, o di provar sensazioni forti e vive; contuttociò è frequentissimo anche negli uomini più colti ec. e basterebbe fare attenzione per vedere quanto spesso ci avvenga nella giornata senza che noi ce ne accorgiamo. Ci avvenga, dico, o in solitudine {e fra noi stessi,} o in compagnia. Ed io non credo che vi sia uomo sì taciturno, e nemico del parlare, del conversare, e del communicarsi altrui, che provando una sensazione straordinariamente forte e viva, non sia costretto {quasi} suo malgrado, o senza riflessione, e senza avvedersene, a prorompere in simili esclamazioni, dinotanti il desiderio e l'intenzione di communicare e far parte altrui di ciò ch'egli prova. (10. Gen. 1821.).

[516,2]  Oltre la compassione, si può notare come indipendente affatto dall'amor proprio, un altro moto naturale, che sebbene somiglia alla compassione, non per ciò è la stessa cosa. Ed è quella certa sensibilissima pena che noi proviamo nel vedere p. e. un fanciullo fare una cosa la quale noi sappiamo che gli farà male: un uomo che si esponga a un manifesto pericolo; una persona vicina a cadere in qualche precipizio, senz'avvedersene.  517 E simili. Questo dei mali non ancora accaduti. Allora proviamo ancora un'assoluta necessità d'impedirlo, se possiamo, e se no una pena assai maggiore. Certo è che il veder uno che si fa male o sta per soffrire, o volontariamente, o non sapendo ec. il vederlo, e non impedirlo, o non sentirsi accorare non potendo, è contro natura. Nell'atto dei mali parimente, vedendo qualcuno cadere ec. ancorchè quel male non sia degli orribili e stomachevoli all'apparenza, contuttociò ne proviamo naturalmente e indeliberatamente gran pena. E chi osserverà bene, questi moti sono distinti dalla compassione, la quale vien dietro al male, e non lo precede, o accompagna. Anche nelle cose inanimate, o negli esseri d'altra specie dalla nostra, vedendo a perire, o in pericolo di perire o guastarsi, un oggetto bello, prezioso, raro, {utile, e} che so io, un animale ec. proviamo lo stesso sentimento doloroso, la stessa necessità di esclamare, d'impedirlo potendo. ec. E ciò, quantunque quella cosa  518 non appartenga a veruno in particolare, e la sua perdita o guasto non danneggi nessuno in particolare. Così che quel sentimento dispiacevole che noi proviamo allora, si riferisce immediatamente all'oggetto paziente, forse ancora quand'esso abbia un possessore, e che questo c'interessi. Dicono che la donna è ben forte, quando può vedere a rompere la sua porcellana senza turbarsi. Ma non solamente le donne; anche gli uomini; e non solamente nelle cose proprie, anche nelle altrui, o comuni, o di nessuno, purch'elle sieno di un certo conto, provano nei detti casi la detta sensazione, indipendentemente dalla volontà. La radice di questo sentimento non par che si possa trovare nell'amor proprio. Par che la natura nostra abbia una certa cura di ciò ch'è degno di considerazione, e una certa ripugnanza a vederlo perire, sebbene affatto alieno da noi pp. 108-109. {v. la p. seguente [p. 519,1].} L'orrore della distruzione (il quale si potrebbe in ultima analisi riportare all'amor proprio) non par che  519 abbia parte in questo, almeno principalmente. Noi vediamo perire {tuttogiorno} senza ripugnanza, o cura d'impedirlo, mille cose di cui non facciamo conto. (17. Gen. 1821.)

[183,3]  La speranza non abbandona mai l'uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano stoltamente quelli che dicono (gli autori della Morale universelle t. 3.) che il suicidio non possa seguire senza una specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla speranza ec. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice {e naturale,} ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare, e a vivere, ed è contrarissimo alla ragione, la quale ci mostra troppo chiaro che non v'è speranza nessuna per noi. (23. Luglio 1820.).

[522,2]  Nisi quod magnae indolis signum est, sperare  523 semper. * Floro IV. 8.

[528,1]  Come i piaceri così anche i dolori sono molto più grandi nello stato primitivo e nella fanciullezza, che nella nostra età e condizione. E ciò per le stesse ragioni per le quali è maggiore il diletto. Primieramente (massime ne' fanciulli) manca l'assuefazione al bene e al male. Il bene dunque e il male dev'essere molto più sensibile ed energico relativamente all'animo loro, che al nostro. Poi (e questo è il punto principale, e comune a tutti gli uomini naturali) il dolore, la disgrazia ec. nel fanciullo, e nel primitivo, sopravviene all'opinione della felicità possibile, o anche presente; contrasta vivissimamente coll'aspetto del bene, creduto e reale e grande, del bene o già provato, o sperato con ferma speranza, o veduto attualmente negli altri; è l'opposto e la privazione di quella felicità che si crede vera, importante, possibilissima, anzi destinata all'uomo, posseduta dagli altri,  529 e che sarebbe posseduta da noi, se quell'ostacolo non ce l'impedisse, o per ora, o per sempre. Ed anche l'idea del male assoluto, cioè indipendentemente dalla comparazione del bene, è forse maggiore in natura, che nello stato di civiltà e di sapere.

[532,1]  Quid dulcius, quam habere, quicum omnia audeas sic loqui, ut tecum? Quis esset tantus fructus in prosperis rebus, nisi haberes, qui illis aeque, ac tu ipse, gauderet? * Cic. {Lael. sive} de Amicitia. Cap. 6. (20. Gen. 1821.).

[88,2]  Les habitans du midi craignant beaucoup la mort, l'on s'étonne d'y trouver des institutions qui la rappellent à ce point; mais il est dans la nature d'aimer à se livrer a[à] l'idée même que l'on redoute. Il y a comme un enivrement de tristesse qui fait à l'ame le bien de la remplir tout entière * . Corinne. l. 10. ch. 1 t. 2. p. 115. edizione cit. {qui dietro}.  89 A questo proposito si può notare quella indistinta e pur vera voglia che noi proviamo avendo p. e. in mano una cosa fetente di sentirne fuggitivamente l'odore. Così se ti abbatti a passare, poniamo, per un luogo dove si faccia giustizia, tu senti ribrezzo di quella esecuzione, e pure io metto pegno che non ti puoi tenere che non alzi gli occhi per vederla così di sfuggita, e poi rivolgerli immediatamente altrove. {+V. a tal proposito un luogo notabile di Platone, opp. ed. Astii, t. 4. p. 236. lin. 8-16.} E così di ogni cosa che ci faccia ribrezzo, così se tu hai corso un pericolo che ti spaventi, ti si stringe il cuore in pensarci, non hai forza di fermarti in quel pensiero di quel momento di quel caso di quella vicinanza della morte ec. ma neanche hai forza di cacciarlo, anzi bisogna pur che tra il volere e il non volere ci lasci andare un'occhiata. Similmente se ti si affaccia qualche pensiero che ti addolori, la ricordanza di qualche {cosa} che ti faccia vergognare teco stesso ec. La ragione di questo effetto non è certo quell'inebbriamento che dice la Staël, e nemmeno la curiosità come può vedere chiunque ci faccia un poco di considerazione. Piuttosto direi che quell'ignoto ci fa più pena che il noto, e siccome quell'oggetto ci spaventa {o ci abbrividisce} o ci attrista, non sappiamo lasciarlo stare così intatto, e anche con ribrezzo, abbiamo pure una certa voglia di dargli una tal quale squadrata che ce lo faccia conoscere alquanto. Forse anche, e così credo, proviene dall'amore dello straordinario, e odio naturale della monotonia e della noia ch'è ingenito in tutti gli uomini, e offrendosi un oggetto che rompe questa monotonia, ed esce dell'ordine comune, quantunque ci paia  90 più grave assai della noia, di cui forse anche, in quel punto non ci accorgiamo e non abbiamo nessun pensiero, pur troviamo un certo piacere in quella scossa in quell'agitazione, che ci produce la vista fuggitiva di esso oggetto. La quale spiegazione si ravvicina a quella della Staël, giacchè la noia non è altro che il vuoto dell'anima {ch'è} riempito, come ella dice da quel pensiero, e occupato intieramente per quel punto. E in fine può anche derivare, e penso che almeno in parte derivi dallo stesso timore che abbiamo di quel pensiero, per la ragione che in tutte le cose fisiche e morali, il voler troppo intensamente e il timore di non conseguire, distorna le nostre azioni dal loro fine, e il mettersi ad un'operazione di mano p. e. chirurgica con troppa intenzion d'animo e timore di non riuscire, la manda a male, e nelle lettere, o belle arti, il cercar la semplicità con troppa cura, e paura di non trovarla, la fa perdere ec.

[592,1]  Della nostra naturale inclinazione di partecipare agli altri le nostre alquanto straordinarie sensazioni o piacevoli o dispiacevoli, v. un luogo insigne di Cic. (Lael. sive de Amicit. {tutto il} c. 23.) il qual passo, io credo che sia stata la prima fonte di questa osservazione, tanto familiare e nota ai moderni. (31 Gen. 1821.)

[614,2]  È cosa notabile come l'uomo sommamente sventurato, o scoraggito della vita, e deposta già e complorata la speranza della propria felicità, ma non perciò ridotto a quella disperazione che non si acquieta se non colla morte; naturalmente, e senza veruno sforzo sia portato a servire e beneficar gli altri, anche quelli che o gli sono del tutto indifferenti, o anche odiosi. E non già per vigore di eroismo, chè l'uomo in tale stato non è capace di nessun vigore d'animo; ma in certo modo, come non avendo più interesse nè speranza per te, trasporti l'interesse e la speranza agli affari altrui, e così cerchi di riempiere l'animo tuo, di occuparlo, e di rendergli i due sopraddetti sentimenti, cioè cura di qualche cosa, {ossia scopo,} e speranza, senza  615 i quali la vita non è vita, non si conosce, manca del senso di se stessa. Il fatto sta che quando l'uomo si trova in tali circostanze, cioè disperato in maniera, non da odiarsi, (ch'è la ferocia della disperazione) ma da noncurarsi, e metter se stesso fuori della sfera de' suoi pensieri; non solo prova compiacenza nel servir gli altri, ma prende anche per gli affari loro (ancorchè, come ho detto di persone indifferenti) una certa affezione, un certo impegno, un desiderio ec. tutto languido bensì, perchè l'animo suo non è più capace di sentimento vivo e forte, ma pur tale, ch'egli non è stato mai animato verso {il bene altrui} così sensibilmente. E ciò accade anche appena l'uomo si riduce alla detta condizione, così che avviene in lui come un cangiamento improvviso: ed accade anche negli uomini stati infetti di egoismo. In somma la persona degli altri sottentra nell'animo suo, quasi intieramente, alla persona propria, ch'è sparita, e messa in non cale e per perduta, come quella che non può più sperare, e non è più capace della felicità, senza cui la vita manca del suo fine, e scopo. E il desiderio e la cura  616 e la speranza della felicità, che non possono più diriggersi alla felicità propria, riconosciuta impossibile, e nel cercar la quale sarebbero vane, e quindi non più sufficienti all'animo umano; si rivolgono alla felicità altrui: e ciò spontaneamente, e senz'ombra di eroismo. E l'animo dell'uomo che mancatogli lo scopo della felicità, è moralmente morto, risorge a una languida vita, ma tuttavia risorge e vive in altrui, cioè nello scopo dell'altrui felicità, divenuto lo scopo suo. Come quei corpi di sangue corrotto e malsano, e quindi incapaci di vita, che alcuni medici spogliavano {(o proponevano di spogliare)} del sangue proprio, e restituivano ad una certa salute, colla introduzione del sangue altrui, o di qualche animale; quasi cangiando la persona, e trasformando quella che non poteva più vivere, in un'altra capace di vita: e così conservando la vita di una persona, per se stessa inetta a vivere.

[644,1]  Non c'è forse persona tanto indifferente per te, la quale salutandoti nel partire per qualunque luogo, o lasciarti in qualsivoglia maniera, e dicendoti, non ci rivedremo mai più, per poco d'anima che tu abbia, non {ti} commuova, non ti produca una sensazione più o meno trista. L'orrore e il timore che l'uomo ha, per una parte, del nulla, per l'altra, dell'eterno, si manifesta da per tutto, e quel mai più non si può udire senza un certo senso. Gli effetti naturali bisogna ricercarli nelle persone naturali, e non ancora, o poco, o quanto meno si possa, alterate. Tali sono i fanciulli: quasi l'unico soggetto dove si possano esplorare, {notare,} e notomizzare oggidì, le qualità, le inclinazioni, gli affetti veramente naturali. Io dunque da fanciullo aveva questo costume. Vedendo partire una persona, quantunque a me indifferentissima, considerava  645 se era possibile o probabile ch'io la rivedessi mai. Se io giudicava di no, me le poneva intorno a riguardarla, ascoltarla, e simili cose, e la seguiva o cogli occhi o cogli orecchi quanto più poteva, rivolgendo sempre fra me stesso, e addentrandomi nell'animo, e sviluppandomi alla mente questo pensiero: ecco l'ultima volta, non lo vedrò mai più, o, forse mai più. E così la morte di qualcuno ch'io conoscessi, e non mi avesse mai interessato in vita, mi dava una certa pena, non tanto per lui, o perch'egli mi interessasse allora dopo morte, ma per questa considerazione ch'io ruminava profondamente: è partito per sempre - per sempre? sì: tutto è finito rispetto a lui: non lo vedrò mai più: e nessuna cosa sua avrà più niente di comune colla mia vita. E mi poneva a riandare, s'io poteva, l'ultima volta ch'io l'aveva o veduto, o ascoltato ec. e mi doleva di non avere allora saputo che fosse l'ultima volta, e di non  646 essermi regolato secondo questo pensiero. (11. Feb. 1821.).

[651,1]  La curiosité est une connoissance commencée, qui vous fait aller plus loin et plus vîte dans le chemin de la vérité. * Mme de Lambert, lieu cité ci-dessus, p. 72. Non intendo pienamente il sentimento della marchesa, ma il fatto è questo. La curiosità o il desiderio di conoscere, non è per la massima parte, se non l'effetto della conoscenza. Esaminate la natura, e  652 vedrete quanto la curiosità sia piccola, leggera e debole nell'uomo primitivo; come non gli cada mai nella testa il desiderio di saper quelle cose che non gli appartengono, o che sono state nascoste dalla natura (p. e. le cose fisiche, astronomiche ec. le origini i destini dell'uomo, degli animali, delle piante, del mondo); com'egli sia incapace d'intraprendere qualche seria operazione per informarsi di cosa veruna, e molto meno di cosa difficile a conoscersi (e queste sono appunto quelle che non si dovevano conoscere, e l'ignoranza delle quali, basta alla felicità dell'uomo, ancorchè informato di altre cose facili ed ovvie). Piuttosto l'immaginazione sua supplisce, e gli fa credere di sapere una causa, che realmente non è quella ec. In somma non è niente vero, che l'uomo sia portato irresistibilmente verso la verità e la cognizione. La curiosità, qual è oggidì, e da gran tempo, è una di quelle qualità corrotte, con uno sviluppo e un andamento non dovuto, come tante altre qualità, passioni ec. buone ed utili, anzi necessarie in  653 quel grado che la natura aveva dato loro, ma pessime e mortifere, quando sono passate ad altri gradi, e sviluppatesi più del dovere, e modificatesi diversamente. Così che sebbene queste qualità e passioni sieno naturali in radice, ed umane, non perciò sono naturali, quali si trovano oggidì, nè dal loro stato presente si deve giudicare della natura e costituzione dell'uomo, nè dedurne intorno ai nostri destini quelle conseguenze che se ne deducono. (13. Feb. 1821.). {{V. p. 657. capoverso 1.}}

[653,1]  Les femmes apprennent volontiers l'Italien, qui me paroît dangereux, c'est la langue de l'Amour. Les Auteurs Italiens sont peu châtiés; il règne dans leurs ouvrages un jeu de mots, une imagination sans règle, qui s'oppose à la justesse de l'esprit. * Mme Lambert, lieu cité ci-dessus, p. 73 - 74. (13. Feb. 1821.).

[655,1]  Examinez votre caractère, et mettez à profit vos défauts; il n'y en a point qui ne tienne à quelques vertus, et qui ne les favorise. La Morale n'a pas pour objet de détruire la nature, mais de la perfectionner. * Mme Lambert, Avis d'une Mère a sa fille, lieu cité ci-dessus, p. 84. E segue mostrando con parecchi esempi, come ciascuna  656 imperfezione conduca, serva, e quasi racchiuda qualche virtù, conchiudendo: Il n'y a pas une foiblesse, dont, si vous voulez, la vertu ne puisse faire quelque usage. * ib. p. citée. Da queste osservazioni fatte anche da molti altri, si può dedurre una verità molto generale ed importante, cioè con quanto leggere modificazioni quelle qualità umane che si chiamano viziose, e si presumono vizi naturali e inerenti, si riducano e si trovino, non esser altro che buone e giovevoli qualità, e come in origine e nella prima costituzione dell'uomo fosse buono ancor quello che ora pare essenzialmente e primitivamente cattivo, perciocchè essendosi facilmente corrotte quelle prime qualità naturali, e distoltesi dal loro fine, e non conoscendosi più a qual buon fine potessero esser destinate; la depravazione nostra ch'è opera dell'uomo, si prende per vizio naturale ed innato; e si confonde il mal uso delle qualità che si chiamano naturali, col buon uso a cui la natura le aveva destinate, e che ora non si scuopre più facilmente.  657 In somma da tutto ciò si conferma la dottrina della perfezione naturale, e primitiva dell'uomo, considerando come sieno originalmente buone {anche} quelle qualità, che per una parte si hanno per naturali ed innate, e sono; per l'altra, si hanno per naturalmente cattive, e non sono: ma questo errore fa che la natura si creda viziosa, e bisognosa della ragione. La qual ragione, anch'essa, abbiamo spessissimo dimostrato ch'è un sommo vizio, e contuttociò ell'è innata. Ma tal quale era innata, non era vizio; bensì è vizio tal quale ella si trova, ed è adoperata oggidì. (14. Feb. 1821.).

[47,2]  Si suol dire che la resistenza stimola e dà forze di compire, e condurre a fine quello che si è tentato. Ora io soggiungo che spessissimo se io senza resistenza avrei fatto dieci, sopraggiunta la resistenza farò quindici e venti. E questo spesso di assoluta e determinata volontà, non già per soprabbondanza meccanica degli effetti della forza impiegata maggiore del bisognevole per la resistenza incontrata, e non contrappesata diligentemente alla resistenza, come se io voglio spingere una cosa da un luogo all'altro, provo che {non} cede alla prima spinta, accresco la forza, e questa me la caccia più lontano ch'io non voleva. Ma dico per deliberata volontà. p. e. do una spinta e non giova, un'altra e non fa, la terza parimente, alla fine mi piglia la rabbia, acchiappo la cosa colle mani, {e} la strascino molto più in là ch'io non voleva prima ch'ella andasse, e volendo ch'ella stia dove dee, bisogna che la riporti {indietro} al luogo conveniente, e così fo. E la distanza alla quale l'ho portata è spesso più che doppia ed anche tripla di quella a cui la voleva spingere. Questo accade perch'io allora non considero più e non ho per fine della mia azione, di farla andare in quel tal luogo, ma propriamente di vincere e vendicare quella resistenza, e mostrare la superiorità del mio volere e della mia forza sopra il suo volere e la sua forza, la quale tanto più si dimostra, e la vendetta e la vittoria è tanto maggiore quanto io la porto più lontano, e insomma volti allora a quel fine miriamo alla perfezione di esso che così si conseguisce, e perciò non c'importa che veniamo a nuocere a quel primo fine del quale effettivamente in quel punto siamo dimenticati. Applico ora questo caso fisico ai morali.

[669,1]  L'orgueil nous sépare de la société: notre amour-propre nous donne un rang à part qui nous est toujours disputé: l'estime de soi-même qui se fait trop sentir est presque toujours punie par le mépris universel. * Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p. 633), p. 99. fine. Così è naturalmente nella società, così porta la natura di questa istituzione umana, la quale essendo diretta al comun bene e piacere, non sussiste veramente, se l'individuo non accomuna  670 più o meno cogli altri la sua stima, i suoi interessi, i suoi fini, pensieri, opinioni, sentimenti ed affetti, inclinazioni, ed azioni; e se tutto questo non è diretto se non a se stesso. Quanto più si trova nell'individuo il se stesso, tanto meno esiste veramente la società. Così se l'egoismo è intero, la società non esiste se non di nome. Perchè ciascuno individuo non avendo per fine se non se medesimo, non curando affatto il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta al bene o piacere altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società a parte, ed intera, e perfettamente distinta, giacchè è perfettamente distinto il suo fine; e così il mondo torna qual era da principio, e innanzi all'origine della società, la quale resta sciolta quanto al fatto e alla sostanza, e quanto alla ragione ed essenza sua. Perciò l'egoismo è sempre stata la peste della società, e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata  671 la condizione della società; e quindi tanto peggiori essenzialmente quelle istituzioni che maggiormente lo favoriscono o direttamente o indirettamente, come fa soprattutto il dispotismo. (Sotto il quale stato la Francia, era divenuta la patria del più pestifero egoismo, mitigato assai dalla rivoluzione, non ostante gl'immensi suoi danni, come è stato osservato da tutti i filosofi.) L'egoismo è inseparabile dall'uomo, cioè l'amor proprio, ma per egoismo, s'intende più propriamente un amor proprio mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli che derivano dall'eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall'onore, dall'amicizia ec. Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità, e per universalità; e quando a motivo e dell'intensità, e massime dell'universalità si è levata la maschera (la quale non serve più a nasconderlo, perchè troppo vivo, e perchè tutti sono animati dallo stesso sentimento), allora la natura del commercio sociale (sia relativo alla conversazione,  672 sia generalmente alla vita) cangia quasi intieramente. Perchè ciascuno pensando per se (tanto per sua propria inclinazione, quanto perchè nessun altro vi pensa più, e perchè il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano tutti i riguardi, l'uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell'altro; gl'individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra più o meno aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme; il più forte sotto qualunque riguardo, la vince; il cedere agli altri qualsivoglia cosa, {o per creanza, o per virtù, onore ec.} è inutile, dannoso e pazzo, perchè gli altri non ti son grati, non ti rendono nulla, e di quanto tu cedi loro, o di quella minore resistenza che opponi loro, profittano in loro vantaggio solamente, e quindi in danno tuo. E così, per togliere un esempio dal passo cit. di Mad. di Lambert, si vede nel fatto che oggidì, il disprezzo degli altri, e la stima aperta e ostentata di se stesso, non solamente non è più così dannosa come  673 una volta, ma bene spesso è necessaria, e chi non sa farne uso non guadagna nulla in questo mondo presente. Perchè gli altri non sono disposti ad accordarti {spontaneamente, e in forza del vero, e del merito} nulla, come di nessuna altra cosa, così neanche di stima, e bisogna quindi che tu la conquisti come per forza, e con guerra aperta e ostilmente, mostrandoti persuasissimo del tuo merito, ad onta di chicchessia, disprezzando e calpestando gli altri, deridendoli, profittando d'ogni menomo loro difetto, rinfacciandolo loro, non perdonando nulla agli altri, cercando in somma di abbassarli e di renderteli inferiori, o nella conversazione o dovunque con tutti i mezzi più forti. Che se oggidì ti vuoi procacciare la stima degli altri, col rispetto, buona maniera verso loro, col lusingare il loro amor proprio, dissimulare i loro difetti ec. e quanto a te, colla modestia, col silenzio ec. ti succede tutto l'opposto. Essi profittano di te {e de' tuoi riguardi verso loro,} per innalzarsi, e della tua poca resistenza {quanto a te,} per deprimerti. Quello che concedi  674 loro, l'adoprano in loro mero vantaggio, e danno tuo; quello che non ti arroghi o non pretendi, o quel merito che tu dissimuli, te lo negano e tolgono, per vederti inferiore ec. Così, nel modo che ho detto, ritornano effettivamente nel mondo i costumi selvaggi, {e} di quella prima età, quando la società non esistendo, ciascuno era amico di se solo, e nemico di tutti gli altri esseri o dissimili o simili suoi, in quanto si opponevano a qualunque suo menomo interesse o desiderio, o in quanto egli poteva godere a spese loro. Costumi che nello stato di società son barbari, perchè distruttivi della società, e contrari direttamente all'essenza ragione, e scopo suo. Quindi si veda quanto sia vero, che lo stato presente del mondo, è propriamente barbare[barbarie], o vicino alla barbarie quanto mai fosse. Ogni così detta società dominata dall'egoismo individuale, è barbara, e barbara della maggior barbarie. (17. Feb. 1821.).

[714,1]   714 Spesse volte il troppo o l'eccesso è padre del nulla. Avvertono anche i dialettici che quello che prova troppo non prova niente. Ma questa proprietà dell'eccesso si può notare ordinariamente nella vita. L'eccesso delle sensazioni o la soprabbondanza loro, si converte in insensibilità. Ella produce l'indolenza e l'inazione, anzi l'abito ancora dell'inattività negl'individui e ne' popoli; e vedi in questo proposito quello che ho notato con Mad. di Staël, Floro ec. p. 620 fine - 625 principio. Il poeta nel colmo dell'entusiasmo, della passione ec. non è poeta, cioè non è in grado di poetare. All'aspetto della natura, mentre tutta l'anima sua è occupata dall'immagine dell'infinito, mentre le idee segli affollano al pensiero, egli non è capace di distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna: in somma non è capace di nulla, nè di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni: dico nessun frutto o di considerazione e di massima, ovvero di uso e di scrittura; di teoria nè di pratica. L'infinito non si  715 può esprimere se non quando non si sente: bensì dopo sentito: e quando i sommi poeti scrivevano quelle cose che ci destano le ammirabili sensazioni dell'infinito, l'animo loro non era occupato da veruna sensazione infinita; e dipingendo l'infinito non lo sentiva. {I sommi dolori corporali non si sentono, perchè o fanno svenire, o uccidono.} Il sommo dolore non si sente, cioè finattanto ch'egli è sommo; ma la sua proprietà, e[è] di render l'uomo attonito; confondergli, sommergergli, oscurargli l'animo in guisa, ch'egli non conosce nè se stesso, nè la passione che prova, nè l'oggetto di essa; rimane immobile, e senza azione esteriore, nè {si può dire}, interiore. E perciò i sommi dolori non si sentono nei primi momenti, nè tutti interi, ma nel successo dello spazio e de' momenti, e per parti, come ho detto p. 366. - 368. Anzi non solo il sommo dolore, ma ogni somma passione, ed anche ogni sensazione, ancorchè non somma, tuttavia tanto straordinaria, e, per qualunque verso, grande, che l'animo nostro non sia capace di contenerla  716 tutta intera simultaneamente. Così sarebbe anche la somma gioia.

[718,1]  L'uomo d'immaginazione di sentimento e di entusiasmo, privo della bellezza del corpo, è verso la natura appresso a poco quello ch'è verso l'amata un amante ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell'amore. Egli si slancia fervidamente verso la natura, ne sente profondissimamente tutta la forza, tutto l'incanto, tutte le attrattive, tutta la bellezza, l'ama con ogni trasporto, ma quasi che egli non fosse punto corrisposto, sente ch'egli non è partecipe di questo bello che ama ed ammira, si vede fuor della sfera della bellezza, come l'amante  719 escluso dal cuore, dalle tenerezze, dalle compagnie dell'amata. Nella considerazione e nel sentimento della natura e del bello, il ritorno sopra se stesso gli è sempre penoso. Egli sente subito e continuamente che quel bello, quella cosa ch'egli ammira ed ama e sente, non gli appartiene. Egli prova quello stesso dolore che si prova nel considerare o nel vedere l'amata nelle braccia di un altro, o innamorata di un altro, e del tutto noncurante di voi. Egli sente quasi che il bello e la natura non è fatta per lui, ma per altri (e questi, cosa molto più acerba a considerare, meno degni di lui, anzi indegnissimi del godimento del bello e della natura, incapaci di sentirla e di conoscerla ec.): e prova quello stesso disgusto e finissimo dolore di un povero affamato, che vede altri cibarsi dilicatamente, largamente, e saporitamente, senza speranza nessuna di poter mai gustare altrettanto. Egli insomma  720 si vede e conosce {escluso senza speranza, e} non partecipe dei favori di quella divinità che non solamente, ma gli è anzi così presente così vicina, ch'egli la sente come dentro se stesso, e vi s'immedesima, dico la bellezza astratta, e la natura. (5. Marzo 1821.).

[722,1]  Lo sventurato non bello, e maggiormente se vecchio, potrà esser compatito, ma difficilmente pianto. Così nelle tragedie, ne' poemi, ne' romanzi ec. come nella vita. (6. Marzo 1821.)

[724,2]  L'uomo è così inclinato alla lode, che anche in quelle cose dov'egli non ha mai nè cercato nè curato di esser lodevole, e ch'egli stima di nessun pregio, ancora in queste l'esser lodato lo compiace. Anzi spesso lo indurrà a cercar di rialzare presso se stesso il pregio e l'opinione di quella tal cosa minima nella quale è stato lodato; e a persuadersi che essa, o l'essere lodevole in essa, non sia del tutto minimo nell'opinione altrui. (7. Marzo 1821.).

[829,1]  La ingiuria eccita in tutti gli animi il desiderio di vederla punita, {ma} negli alti il desiderio di punirla. (20. Marzo 1821).

[940,2]  Quello che ho detto in parecchi pensieri della compassione che eccita la debolezza p. 108 p. 164 p. 196 p. 211 p. 234 p. 281, si deve considerare massimamente in quelli che sono forti, e che sentono in quel momento la loro forza, e ne' quali questo sentimento contrasta coll'aspetto della debolezza o impotenza di quel tale oggetto amabile o compassionevole: amabilità che in  941 questo caso deriva dalla sorgente della compassione, quantunque quel tale oggetto in quel punto non soffra, o non abbia mai sofferto, nè provato il danno della sua debolezza. Al qual proposito si ha una sentenza {o documento} de' Bardi Britanni rinchiusa in certi versi che suonano così: Il soffrire con pazienza e magnanimità, è indizio sicuro di coraggio e d'anima sublime; e l'abusare della propria forza è segno di codarda ferocia * . (Annali di Scienze e Lettere l. cit. di sopra (p. 932.) p. 378.) L'uomo forte ma nel tempo stesso magnanimo, deriva senza sforzo e naturalmente dal sentimento della sua forza un sentimento di compassione per l'altrui debolezza, e quindi anche una certa inclinazione ad amare, e {una certa facoltà di sentire l'amabilità,} trovare amabile un oggetto, maggiore che gli altri. Ed egli suol sempre soffrire con pazienza dai deboli, piuttosto che soverchiarli, ancorchè giustamente. (13. Aprile 1821).

[958,1]  Una delle principali cagioni per cui l'infelicità rende l'uomo inetto al fare, e lo debilita e snerva, onde l'infelicità toglie la forza, non è altra se non che l'infelicità debilità[debilita] l'amor di se stesso. E intendo massimamente della infelicità grave e lunga. La quale col continuo contrasto che oppone all'amor di se stesso che era nel paziente, {colla battaglia ostinatissima e fortissima che gli fa,} e coll'obbligarlo ad uno stato contrario del tutto a quello ch'è scopo, oggetto e desiderio di questo amore, finalmente illanguidisce questo amore, rende l'uomo meno tenero di se stesso, siccome avvezzo a sentirsi infelice malgrado gli sforzi che ci opponeva. Anzi una tale infelicità, se non riduce l'uomo alla disperazion viva, e al suicidio o all'odio di se stesso {ch'è il sommo grado, e la somma intensità dell'amor proprio in tali circostanze,} lo deve ridurre per necessità ad uno stato opposto, cioè alla freddezza e indifferenza verso se stesso; giacchè s'egli continuasse ad essere così infiammato verso se medesimo, com'era da principio, in che modo potrebbe sopportare la vita, o contentarsi di sopravvivere, vedendo e sentendo sempre infelice questo oggetto del suo sommo amore, e di tutta la sua vita sotto tutti i rispetti?

[960,2]  Le sopraddette considerazioni possono portare ad una gran generalità, e semplicizzare l'idea che abbiamo del sistema delle cose umane, {o la teoria dell'uomo,} facendo conoscere come sotto tutti i riguardi, ed in tutte le circostanze possibili della vita, agisca quell'unico principio ch'è l'amor proprio, e come tutti gli effetti della vita umana sieno proporzionati alla maggiore o minor forza, maggiore o minor debolezza, e diversa direzione di quel solo movente: per quanto i detti effetti si presentino a prima vista, come derivati da diverse cagioni. (19. Aprile 1821.).

[984,2]  La scoperta e l'uso delle armi da fuoco oltre agli effetti da me notati negli altri pensieri, p. 262 pp. 659-60 ha scemato ancora notabilissimamente il coraggio ne' soldati, e generalmente negli uomini. La victoire... s'obtient aujourd'hui par la regularité et la précision des manoeuvres, souvent sans en venir aux mains. Nos guerres ne se décident plus guère que de loin, à coups de canon et de fusil; et nos timides fantassins, sans armes défensives, effrayés par le bruit et l'effet de  985 nos armes à feu, n'osent plus s'aborder: les combats à l'armes blanches sont devenus fort rares. * Così il Barone Rogniat, Considérations sur l'Art de la guerre, Paris, de l'imprimerie de Firmin Didot, 1817. Introduction, p. 1. E come i soldati, così gli altri uomini che si servono delle armi da fuoco invece delle bianche, riducendosi ora ogni battaglia o pubblica o privata, a tradimenti, e {a} fatti di lontano, senza mai venire corpo a corpo: oltre l'influenza che ha l'educazione militare, e la natura delle guerre sopra l'intero delle nazioni. Sarà bene ch'io legga tutta intera l'opera citata, dove l'arte della guerra è chiarissimamente esposta, congiunta a molta filosofia, paragonati continuamente gli antichi coi moderni, e i diversi popoli fra loro, applicata alla detta arte la scienza dell'uomo ec. E certo la guerra appartiene al filosofo, tanto come cagione di sommi e principalissimi avvenimenti, quanto come connessa con infiniti rami della teoria della società, e dell'uomo e dei viventi. (25. Aprile 1821.).

[43,6]  Il cantare che facciamo quando abbiamo paura non è per farci compagnia da noi stessi come comunemente si dice, nè per distrarci puramente, ma (come trovo incidentemente e finissimamente notato anche nella 2.da lett. del Magalotti contro gli Atei) per mostrare e dare ad intendere a noi stessi di non temere. La quale osservazione potrebbe forse applicarsi a molte cose, e dare origine a parecchi pensieri. E già è manifesto che all'aspetto del male noi cerchiamo d'ingannarci e di credere che non sia tale, o minore che non è, e però cerchiamo chi se ne mostri o ne sia persuaso, e per ultimo grado, per persuaderlo a noi stessi, fingiamo d'esserne già persuasi, operando e discorrendo tra noi come tali. E questo è quello che accade nel caso detto di sopra. E già {è} costume di moltissimi è il detrarre quanto più possono colle parole e colla fantasia a' mali che loro sovrastanno, e con ciò si consolano e fortificano, mendicando il coraggio non dal disprezzo del male, ma dalla sua immaginata falsità o piccolezza, onde son molti che non si sgomentano se non di rarissimo perchè quando vien loro annunziato o prevedono qualche male, prima non lo credono affatto, (cioè si nascondono o impiccolissimo[impiccoliscono] tutti i motivi di credere) e così se il male non ha luogo effettivamente essi non han temuto, e altri sì, e con ragione; poi lo scemano immaginando quanto possono, e così non temono se non in quei rari casi nei quali sopraggiunge un male così evidente e reale e che li tocchi in modo che non possano ingannarsi, giacchè anche sopraggiunto che sia, molte volte non lo credono affatto male, cioè non lo voglion credere. E questi che  44 forse spesso passano per coraggiosi, sono i più vigliacchi che mai, giacchè non sanno sostenere non solo la realtà ma neppur l'idea dell'avversità, e quando hanno sentore di qualche disgrazia che loro sovrasti o sia accaduta, subito corrono col pensiero, ad arroccarsi {e trincerarsi} e chiudersi e incatenacciarsi poltronescamente in dire fra se che non sarà nulla. Onde si vede alla prova delle evidenti disgrazie, come sieno codardi e si disperino, e dieno in frenesie e smanie da femminucce con urli pianti preghiere, tutte cose vedute e notate effettivamente da me in uno di cui ho e naturalmente doveva avere una gran pratica, del quale per l'altra parte è un perfettissimo e appropriatissimo ritratto quello che ho detto di sopra. Del resto è cosa pur troppo evidente che l'uomo inclina a dissimularsi il male, e a nasconderlo a se stesso come può meglio, onde è nota l'εὐϕημία degli antichi greci che nominavano le cose dispiacevoli τὰ δεινά con nomi atti a nascondere o dissimulare questo dispiacevole, (del che v. Elladio appo il Meursio) la qual cosa certo non faceano solamente per cagione del mal augurio. E anche in italiano si dice, se Dio facesse altro di me, per dire, s'io morissi, (v. la Crusca in Altro) e in latino in questo istesso caso, si quid humanum paterer, mihi accideret etc. e così in cento altri casi.

[1017,1]   1017 Dalla mia teoria del piacere seguita che l'uomo, desiderando sempre un piacere infinito e che lo soddisfi intieramente, desideri sempre e speri una cosa ch'egli non può concepire. E così è infatti. Tutti i desiderii e le speranze umane, anche dei beni ossia piaceri i più determinati, ed anche già sperimentati altre volte, non sono mai assolutamente chiari e distinti e precisi, ma contengono sempre un'idea confusa, si riferiscono sempre ad un oggetto che si concepisce confusamente. E perciò {e non per altro,} la speranza è meglio del piacere, contenendo quell'indefinito, che {la realtà} non può contenere. E ciò può vedersi massimamente nell'amore, dove la passione e la vita e l'azione dell'anima essendo più viva che mai, il desiderio e la speranza sono altresì più vive[vivi] e sensibili, e risaltano più che nelle altre circostanze. Ora osservate che per l'una parte il desiderio e la speranza del vero amante è più confusa, vaga, indefinita che quella di chi è animato da qualunque altra passione: ed è carattere (già da molti notato) dell'amore, il presentare all'uomo un'idea infinita (cioè più sensibilmente indefinita di quella che presentano le altre passioni), e ch'egli può concepir meno di qualunque  1018 altra idea ec. Per l'altra parte notate, che appunto a cagione di questo infinito, inseparabile dal vero amore, questa passione in mezzo alle sue tempeste, è la sorgente de' maggiori piaceri che l'uomo possa provare. (6. Maggio 1821.).

[1044,2]  La rimembranza del piacere, si può paragonare alla speranza, e produce appresso a poco gli stessi effetti. Come la speranza, ella piace più del piacere; è assai più dolce il ricordarsi del bene (non mai provato, ma che in lontananza sembra di aver provato) che il goderne, come è più dolce lo sperarlo, perchè in lontananza sembra di poterlo gustare. La lontananza giova egualmente all'uomo nell'una e nell'altra situazione; e si può conchiudere che il peggior tempo della vita è quello del piacere, o del godimento. (13. Maggio 1821.).

[1075,2]  Quelli che non sogliono mai far nulla, e che per conseguenza hanno più tempo libero, e da potere impiegare, sono {ordinariamente} i più difficili a trovare il tempo per una  1076 occupazione, ancorchè di loro premura, a ricordarsi di una cosa che bisogni fare, di una commissione che loro sia stata data, e che anche prema loro di eseguire. Al contrario quelli che hanno la giornata piena, e quindi meno tempo libero, e più cose da ricordarsi. La cagione è chiara, cioè l'abito di negligenza nei primi, e di diligenza nei secondi (22. Maggio 1821.). {+E lo stesso differente effetto si vede anche in una stessa persona, secondo i diversi abiti e metodi temporanei di attività e diligenza, o inattività e negligenza.}

[1083,1]   1083 Alla considerazione della grazia derivante dallo straordinario, spetta in parte il vedere che uno de' mezzi più frequenti e sicuri di piacere alle donne, è quello di trattarle con dispregio e motteggiarle ec. Il che anche deriva da un certo contrasto ec. che forma il piccante. {+E ancora dall'amor proprio messo in movimento, e renduto desideroso dell'amore e della stima di chi ti dispregia, perch'ella ti pare più difficile, e quindi la brami di più ec. E così accade anche agli uomini verso le donne o ritrose, o motteggianti ec.} (24. Maggio 1821.).

[1164,3]  L'invidia, passione naturalissima, e primo vizio del primo figlio dell'uomo secondo la S. Scrittura, è un effetto, e un indizio manifesto dell'odio naturale dell'uomo verso l'uomo, nella società, quantunque imperfettissima, e piccolissima. Giacchè s'invidia anche quello che noi abbiamo, ed anche in maggior grado; s'invidia ancor quello che altri possiede senza il menomo nostro danno; ancor quello che ci è impossibile assolutamente di avere, e che neanche ci converrebbe; e finalmente quasi ancor quello che non desideriamo, e che anche potendo avere non vorremmo. Così che il solo e puro bene altrui, il solo aspetto dell'altrui supposta felicità, ci è grave naturalmente per se stessa, ed è il soggetto di questa passione, la quale per conseguenza non può derivare se non dall'odio verso gli altri, derivante dall'amor proprio, ma derivante, se m'è lecito di  1165 così spiegarmi, nel modo stesso nel quale dicono i teologi che la persona del Verbo procede dal Padre, e lo Spirito Santo da entrambi, cioè non v'è stato un momento in cui il Padre esistesse, e il Verbo o lo Spirito Santo non esistesse. (13. Giugno 1821.).

[1201,1]  Perchè la parzialità è sempre odiosa e intollerabile, quando anche colui che favorisce o benefica alcuno più degli altri, non tolga niente agli altri del loro dovuto, nè di quello che darebbe loro in ogni caso, nè li disfavorisca in nessun modo? Per l'odio naturale dell'uomo verso l'uomo, {inseparabile dall'amor proprio.} E v. in questo proposito la parabola del padre di famiglia e degli operai del Vangelo. (21. Giugno, dì del Corpus Domini. 1821.). {{V. p. 1205. fine.}}

[1291,1]  L'aspetto dell'uomo allegro e pieno o commosso anche mediocremente da qualche buona fortuna, da qualche vantaggio, da qualche piacere ricevuto ec. è per lo più molestissimo non solo alle persone afflitte, o pur malinconiche, o poco inclinate alla letizia per atto o  1292 per abito, ma anche alle persone d'animo indifferentemente disposto, {+e non danneggiate punto, nè soverchiate ec. da quella prosperità.} Questo ci accade ancora cogli amici, parenti i più stretti ec. E bisogna che l'uomo il quale ha cagione di allegria, o la dissimuli, o la dimostri con certa disinvoltura, indifferenza e spirito, altrimenti {la sua presenza, e la sua conversazione} riuscirà sempre odiosa e grave, anche a quelli che dovrebbero rallegrarsi del suo bene, o che non hanno materia alcuna di dolersene. {+Tale infatti è la pratica degli uomini riflessivi, padroni di se, e ben creati.} Che vuol dir questo, se non che il nostro amor proprio, ci porta inevitabilmente, e senza che ce ne avvediamo, all'odio altrui? Certo è che nel detto caso, anche all'uomo il più buono, è mestieri un certo sforzo sopra se stesso e un certo eroismo, per prender parte alla letizia altrui, della quale egli non aspetti nessun vantaggio {nè danno,} o solamente per non gravarsene. (8. Luglio 1821.).

[1303,2]  Altra prova che noi siamo più inclinati al timore che alla speranza, è il vedere che noi {per lo più} crediamo facilmente quello che temiamo, e difficilmente quello che desideriamo, anche molto più verisimile. E poste due persone delle quali una tema, e l'altra desideri una stessa cosa, quella la crede, e questa no. E se noi passiamo dal temere una cosa al desiderarla, non sappiamo più {credere} quello che prima non sapevamo non credere,  1304 come mi è accaduto più volte. E poste due cose, o contrarie o disparate, l'una desiderata, e l'altra temuta, e che abbiano lo stesso fondamento per esser credute, la nostra credenza si determina per questa e fugge da quella. Nell'esaminare i fondamenti di alcune proposizioni ch'io da principio temeva che fossero vere, e poi lo desiderava, io li trovava da principio fortissimi, e quindi insufficientissimi. (10. Luglio 1821.).

[1305,1]  L'uomo isolato crederebbe per natura, almeno confusamente, che il mondo fosse fatto per lui solo. E intanto crede che sia fatto per la sua specie intera, in quanto la conosce bene, e vive in mezzo a lei, e ragiona facilmente e pianamente sui dati che la società e le cognizioni comuni gli porgono. Ma non potendo ugualmente vivere nella società di tutti gli altri esseri, la sua ragione si ferma qui, e senza riflessioni che non possono esser comuni a molti, non arriva a conoscere che il mondo è fatto per tutti gli esseri che lo compongono. Ho veduto uomini vissuti gran tempo nel mondo, poi fatti solitarii, e stati sempre egoisti, credere in buona fede che il mondo appresso a poco fosse tutto per loro, la qual credenza appariva da' loro fatti d'ogni genere, ed anche dai detti implicitamente. E non  1306 potevano non solo patire o mancar di nulla, ma appena concepire come gli uomini e le cose non si prestassero sempre e interamente ai loro comodi, e ne manifestavano la loro maraviglia e la loro indignazione in maniere singolarissime, e talvolta incredibili in persone avvezze alle maniere civili, ed ai sacrifizi della società, nelle quali cose conservavano pur molta pretensione. Ma non si accorgevano, così facendo, di mancare a nessun debito loro verso gli altri, nè di esigger più di quello che loro convenisse ec. (10. Luglio 1821.).

[1328,1]  L'azione viva e straordinaria, è sempre, o bene spesso, cagione d'allegria, purchè non abbatta il corpo. (15. Luglio 1821.).

[1400,1]  Il pentimento il quale in altri pensieri ho detto p. 188 p. 466 che aggrava il male quasi della metà, quando non possiamo dissimularci che ci è avvenuto per nostra colpa, aggrava pure {nella stessa proporzione} il dispiacere della perdita o mancanza di un bene, anzi molte volte cagiona del tutto esso solo questo dispiacere, che non proveremmo in verun modo, se mancassimo di quel bene senza nostra colpa, se non avessimo avuta occasione di acquistarlo ec. Il qual sentimento umano che si fa sentire {{o prevedere,}} nella stessa occasione, e ci spinge, anzi sforza a profittarne, quasi anche contro nostra voglia, ho cercato di esprimerlo nella Telesilla. Molte volte un'occasione perduta, ancorchè senza nostra colpa, ci addolora sommamente della mancanza di un bene, che per l'addietro nulla ci pesava. Ed allora la nostra consolazione, e l'ordinaria operazione della nostra mente, è cercare di persuaderci che noi non abbiamo veruna colpa nella perdita di quella occasione, e che essa non poteva servirci, e doveva necessariamente esserci inutile,  1401 e quasi non fosse stata ec. (28. Luglio 1821.).

[1420,2]  La forza anche passeggera del corpo, oltre gli effetti altrove notati pp. 96-97 p. 115, rende anche più coraggiosi del solito, e meno suscettibili al timore, anche  1421 de' pericoli straordinari ec. Quindi i giovani sono più coraggiosi de' vecchi, e disprezzatori della vita, benchè abbiano tanto più da perdere ec. {contro quella osservazione} ordinarissima, che principal fonte di coraggio suol essere l'aver poco a perdere ec. (31. Luglio 1821.).

[1431,1]  Non c'è miglior modo di far colpo e fortuna con una giovane superba e sprezzante, che disprezzandola. Or chi crederebbe che l'amor proprio (giacchè dal solo amor proprio deriva l'amore altrui) potesse produrre questo effetto, che quando egli è punto, si provasse inclinazione per chi lo punge? Chi non crederebbe al contrario che una donna altera e innamorata di se stessa, dovesse vincersi, interessarsi, allettarsi cogli ossequi, cogli omaggi, ec.? Eppur così è. Non solo l'ossequio e l'omaggio ti farà sempre più disprezzar da costei, ma se disprezzandola tu sei pervenuto a fissarla, e a produrle una inclinazione per te, ed allora o per amore, o per abbandono, o per credere di aver fatto abbastanza, ec. tu cerchi di cattivartela coi mezzi più naturali, e le dai qualche piccolo segno di sommissione,  1432 di amore che si dimostri per vero ec. tu hai tutto perduto, ed ella immediatamente si disgusta di te, e ti disprezza. Conviene che tu segua imperturbabile a mostrarle noncuranza fino alla fine. Ed è questo un effetto semplicissimo di quel centiforme amor proprio, che produce gli effetti i più svariati e contrari. Tanto che, mentre quasi tutte le donne si cattivano col disprezzo, {+(sebbene alcune volte, e in certe circostanze, se ne offendono)} quelle però massimamente dove l'amor proprio è più vivo e tirannico, cioè le più superbe ed egoiste ec. {+V. in questo proposito les Mémoires secrets de Duclos à Lausanne 1791. t. 1. p. 95. e p. 271-273.} V. in questo proposito altro pensiero p. 1083 dove ho notato questo effetto, discorrendo della grazia. Certo è però che questa modificazione dell'amor proprio, non è delle più naturali, benchè non molto lontana dalla natura; e ricerca un carattere alquanto alterato, ma per altro comunissimo. (1. Agos. 1821.).

[1464,1]   1464 Da tutto ciò si conferma ciò che ho detto altrove pp. 1341-42 che il primo principio delle cose è il nulla. (7. Agos. 1821.).

[1522,1]  Ho discorso spesso del bello che proviene dalla debolezza p. 108 p. 164 p. 196 p. 211 p. 234 p. 281. Egli è un bello proveniente da pura inclinazione, e quindi non ha che far col bello ideale, anzi è fuori della teoria del bello. Infatti egli è del tutto relativo. Lasciando le infinite altre cose dove la debolezza sconviene e dispiace, osservate che agli uomini piace nelle donne la debolezza, perchè loro è naturale; alle donne negli uomini la forza e l'aspetto di essa. Ed è brutta la forza nelle donne, come la debolezza negli uomini. Se non che talvolta giova al contrasto, e dà grazia (ma perchè appunto è straordinario, cioè non conveniente) un non so che di maschile nelle donne, e di femminile negli uomini. (18. Agos. 1821.).

[1572,3]  Quanto l'uomo sia invincibilmente inclinato a misurar gli altri da se stesso, si può vedere anche nelle persone le più pratiche del mondo. Le quali se, p. e. sono fortemente morali, per quanto conoscano, e sentano e vedano, non si persuaderanno mai intimamente che la moralità non esista più, e  1573 sia del tutto esclusa dai motivi determinanti l'animo umano. Lo dirà ancora, lo sosterrà, in qualche accesso di misantropia arriverà a crederlo, ma come si crede momentaneamente a una viva e conosciuta illusione, e non se ne persuaderà mai nel fondo dell'intelletto. (Lascio i giovani i quali essendo ordinariamente virtuosi, non si convincono mai prima dell'esperienza, che la virtù sia nemmeno rara.) Così viceversa ec. ec. ec. Esempio, mio padre. (27. Agosto. 1821.).

[1589,1]  Chi ha perduto la speranza d'esser felice, non può pensare alla felicità degli altri, perchè l'uomo non può cercarla che per rispetto alla propria. Non può dunque neppure interessarsi dell'altrui infelicità. (30. Agos. 1821.).

[1594,2]  La bellezza è naturalmente compagna della virtù. L'uomo senza una lunga esperienza non si avvezza a credere che un bel viso possa coprire un'anima malvagia. Ed ha ragione, perchè la natura ha posto un'effettiva corrispondenza tra le forme esteriori e le interiori, e se queste non corrispondono, sono per lo più alterate da quelle ch'erano naturalmente. Pure è certo che i belli sono per lo più cattivi. Lo stesso dico degli altri vantaggi naturali o acquisiti. Chi li possiede, non è buono. Un brutto, un uomo sprovvisto di pregi e di vantaggi, più facilmente s'incammina alla virtù. Gli uomini senza talento sono più ordinariamente buoni, che quelli che ne son ricchi. E tutto ciò è ben naturale nella società. L'uomo insuperbisce del vantaggio che si accorge  1595 di avere sugli altri, e cerca di tirarne per se tutto quel partito che può. S'egli è più forte, fa uso della sua forza. Il più debole si raccomanda, e segue la strada che più giova e piace agli altri, per cattivarseli. Il forte non abbisogna di questo. Ecco l'abuso de' vantaggi. Abuso inevitabile e certo, posta la società. Così dico de' potenti ec. i quali non ponno essere virtuosi. Ne' privati a me pare che non si trovi vera affabilità, vera {e costante} amabilità e facilità di costumi, interesse per gli altri ec. se non che nei brutti, in chi ha qualche svantaggio, è nato in bassa condizione ed assuefattoci da piccolo, ancorchè poi ne sia uscito, è povero o lo fu, ovvero negli sventurati.

[1605,1]  È vero che l'uomo felice non suol esser molto compassionevole, ma l'uomo notabilmente infelice, ancorchè nato sensibilissimo non è quasi affatto capace di compassione spontanea e sensibile. Sviluppa questa verità nelle sue parti, e nelle sue cagioni. (1. Sett. 1821.).

[1603,1]   1603 Dalle sopraddette osservazioni risulta un'altra gran prova del come l'idea del bello sia relativa e mutabile, e dipendente non da modello alcuno invariabile, ma dalle assuefazioni che cambiano secondo le circostanze. Oggi l'idea del bello, racchiude quasi essenzialmente un'idea di delicatezza. Un robusto villano o villana, non paiono certamente belli alle persone di città. Il bello nelle nostre idee, esclude affatto il grossolano. Dovunque esso si trova, (se ciò non è in una certa misura che mediante lo straordinario e lo stesso sconveniente, produca la grazia) non si trova il bello per noi, almeno il bello perfetto. Ora egli è certo che gli uomini primitivi la pensavano ben altrimenti, perchè tutti gli uomini primitivi eran grossolani. Non esisteva allora una di quelle forme che noi chiamiamo belle, (ciò si può vedere fra' selvaggi i quali non sentono la bellezza meno di noi, benchè non sentano la nostra): e se avesse esistito, sarebbe stata e chiamata brutta. La delicatezza dunque non entra nell'idea che l'uomo naturale concepisce del bello. Quindi la  1604 presente idea del bello non è punto naturale, anzi l'opposto. E pur ci pare naturalissima, confondendo il naturale collo spontaneo: giacch'ella è spontanea, perchè derivata senza influenza della volontà dalle assuefazioni ec.

[1648,1]   1648 Pare assurdo, ma è vero che l'uomo forse il più soggetto a cadere nell'indifferenza e nell'insensibilità (e quindi nella malvagità che deriva dalla freddezza del carattere), si è l'uomo sensibile, pieno di entusiasmo e di attività interiore, e ciò in proporzione appunto della sua sensibilità ec. {Quasi si verifica in questo senso e modo ciò che quel vecchio disse a Pico p. 1178, della stupidità dei vecchi stati spiritosi straordinariamente da fanciulli.} Massime s'egli è sventurato; ed in questi tempi dove la vita esteriore non corrisponde, non porge alimento nè soggetto veruno all'interiore, dove la virtù e l'eroismo sono spenti, e dove l'uomo di sentimento e d'immaginazione e di entusiasmo è subito disingannato. La vita esteriore degli antichi era tanta che avvolgendo i grandi spiriti nel suo vortice arrivava piuttosto a sommergerli, che a lasciarsi esaurire. Oggi un uomo quale ho detto, appunto per la sua straordinaria sensibilità, esaurisce la vita in un momento. Fatto ciò, egli resta vuoto, disingannato profondamente e stabilmente, perchè ha tutto profondamente e vivamente provato: non si è fermato alla superficie, non si va affondando a poco a poco; è andato subito al fondo, ha tutto abbracciato, e tutto rigettato come effettivamente indegno e frivolo: non gli resta altro a vedere,  1649 a sperimentare, a sperare. Quindi è che si vedono gli spiriti mediocri, ed alcuni sensibili e vivi sino a un certo segno, durar lungo tempo ed anche sempre, nella loro sensibilità, suscettibili di affetto, capaci di cure e di sacrificj per altrui, non contenti del mondo, ma sperando di esserlo, facili ad aprirsi all'idea della virtù, a crederla ancora qualche cosa ec. (Essi non hanno ancora perduto la speranza della felicità). Laddove quei grandi spiriti che ho detto, fin dalla gioventù cadono in un'indifferenza, languore, freddezza, insensibilità mortale, e irrimediabile: che produce un egoismo noncurante, una somma incapacità di amare ec. La sensibilità e l'ardore dell'animo è così fatto, che s'egli non trova pascolo nelle cose circostanti, consuma se stesso, e si distrugge e perde in poco d'ora, lasciando l'uomo tanto al disotto della magnanimità ordinaria, quanto prima l'avea messo al disopra. Laddove la mediocre sensibilità si mantiene, perchè abbisogna di poco alimento. Quindi è che le virtù grandi non sono pe' nostri tempi.  1650 (7. Sett. 1821.). {{Puoi vedere p. 1653. fine.}}

[1653,2]  Ho detto altrove p. 714 pp. 1176-79 che il troppo produce il nulla, e citato le eccessive passioni e le estreme sventure, {il pericolo presente e inevitabile che dà una forza e tranquillità d'animo anche al più vile, una disgrazia sicura e che non può fuggirsi ec.} che non producono già l'agitazione, ma l'immobilità, la stupidità, una specie di rassegnazione non ragionata; in maniera che l'aspetto dell'uomo in tali casi è bene spesso affatto simile a quello dell'indifferente: ed un bravo pittore non lo farebbe distinguere dall'uomo il più noncurante ec. {+eccetto per un'aria di meditazione stupida, ed una fissazione di occhi in qualsivoglia parte.} Aggiungo  1654 ora che ciò non si deve solamente restringere all'atto, ma anche all'abito d'indifferenza, rassegnazione alla fortuna, insensibilità ec. che è prodotto dall'estrema infelicità e disperazione abituale ec. e puoi vedere la p. 1648. (8. Sett. 1821.).

[1669,2]  Il vedere che altri prova in nostra presenza un gusto vivo, ci è sempre grave, e ci rende odiosa quella persona. E perciò è prudenza e creanza il non dimostrare in presenza  1670 altrui di provare un piacere, o il portarsi con una disinvoltura che mostri di non curarsene ec. Similmente dico di un vantaggio. E v. un mio pensiero sul far carezze alla moglie in presenza altrui, e il costume degl'inglesi che ho notato in questo proposito p. 206 p. 233. Cosa spiacevolissima anche tra noi, e che m'è avvenuto di sentir condannare come insopportabile in due sposi che si facevano grandi carezze in presenza d'altri. Tanto è vero che l'uomo odia naturalmente l'uomo. Eccetto se quel gusto che ho detto è stato procacciato a quella persona da noi stessi volontariamente, nel qual caso egli ridonda in certo modo su di noi, e serve alla nostra ambizione, ec. insomma ne partecipiamo. Questo effetto si prova massimamente cogli eguali e co' superiori (meno cogl'inferiori, co' fanciulli ec.); ma cogli eguali soprattutto, e cogli amici e stretti conoscenti più che mai, perocchè con questi si esercita principalmente l'invidia, e si sente al vivo l'inferiorità nostra ec. in qualsivoglia genere. I superiori sono il soggetto di un odio più generale, che si stende su tutta la loro persona,  1671 condizione ec. e discende meno, o è meno sensibile alle cose particolari, tanto più che non si può entrare con essi in competenza di desiderii ec. Parimente riguardo agl'inferiori, bisogna che i loro vantaggi o piaceri siano d'un alto grado (nel qual caso l'odio è maggiore verso loro che verso qualunque altro) perchè arrivino a pungere il nostro amor proprio, e la nostra gelosia ec. Nondimeno è vero che sempre se ne prova qualche disgusto. (11. Sett. 1821.).

[1677,1]   1677 I dolori negli uomini naturali sono vivissimi, come si vede dagli atti e dalle azioni ch'essi ispirano, e ispiravano agli antichi. Nondimeno si vede e si ammira negli uomini di campagna una somma difficoltà (non solo di conservare lungo tempo il dolore, che questa è propria naturalmente delle passioni veementissime) ma anche di concepirlo, e sentirlo vivamente, e togliersi dal loro stato di abituale insensibilità. Preparano i funerali delle loro mogli o figli, gli accompagnano alla chiesa, assistono alla loro sepoltura, ridono un momento dopo, ne parlano con indifferenza, di rado spargono qualche lacrima, benchè se il dolore talvolta li coglie, esso sia tale qual dev'essere in persone poco lontane dalla natura. Nè solo gli uomini di campagna, ma tutti coloro che appartengono alle classi indigenti o laboriose ec. dimostrano gli stessi effetti. Ciò manifesta la misericordia della natura, e dimostra che ella ha sibbene dato agli uomini naturali, vivissimi e frequentissimi {e facilissimi} piaceri, ma contuttochè gli abbia resi {conseguentemente} soggetti alla veemenza straordinaria  1678 del dolore, non però, come parrebbe che dovesse essere, gli ha assoggettati alla frequenza, nemmeno di un dolor moderato, e quale si prova sì spesso dagli uomini civili. Parte la rozzezza del loro cuore, e il nessuno sviluppo (o piuttosto analoga modificazione) delle facoltà produttrici del dolore, della sensibilità ec.; parte la continua e viva distrazione prodotta nell'uomo naturale da' bisogni, dalle fatiche, ec. ec. l'assuefazione a certe sofferenze ec. li preserva dalla facilità di addolorarsi, gli addomestica alle disgrazie della vita, li rende più disposti a godere che a soffrire, facili a dimenticare il male, incapaci di sentirlo profondamente, se non di rado ec. Anche gli uomini civili, abitualmente, o straordinariamente occupatissimi, sono nello stesso caso. Così pure gli uomini avvezzi alle disgrazie ec. ec. (11. Sett. 1821.).

[1723,1]  Chi ha disperato di se stesso, o per qualunque ragione, si ama meno vivamente, è meno invidioso, odia meno i suoi simili, ed è quindi più suscettibile di amicizia {{per questa}} parte, o almeno in minor contraddizione con lei. Chi più si ama meno può amare. Applicate questa osservazione alle nazioni, ai diversi gradi di amor patrio sempre proporzionali a' diversi gradi di odio nazionale; alla necessità di render l'uomo egoista di una patria perch'egli possa amare i suoi simili a cagion di se stesso, appresso a poco come dicono i teologi che l'uomo deve amar se stesso e i suoi prossimi in Dio, e  1724 per l'amore di Dio. (17. Sett. 1821.).

[1724,1]  L'odio dell'uomo verso l'uomo si manifesta principalmente, ed è confermato da ciò che accade nelle persone di una medesima professione {ec.} fra le quali, sebben la perfetta amicizia astrattamente considerata è impossibile e contraddittoria alla natura umana, nondimeno anche la possibile amicizia è difficilissima, rarissima, incostantissima ec. Schiller uomo di gran sentimento era nemico di Goëthe (giacchè non solo fra tali persone non v'è amicizia, o v'è minore amicizia, ma v'è più odio che fra le persone poste in altre circostanze) ec. ec. ec. Le donne godono del mal delle donne, anche loro amicissime. I giovani del male de' giovani ec. ec. V. Corinne t. p. liv. ch. Non solo in una stessa professione, ma anche in una stessa età ec. ec. l'amicizia è minore e l'odio è maggiore. Eccetto l'esaltamento delle illusioni che favorisce assai l'amicizia de' giovani, è certo, massime oggi che le grandi e belle illusioni non si trovano, che l'amicizia è più facile tra un vecchio o maturo, e un giovane, che tra giovane e giovane; tra  1725 due vecchi che tra due giovani; perchè oggi, sparite le illusioni, e non trovandosi più la virtù ne' giovani, i vecchi sono più a portata di amarsi meno, di essere stanchi dell'egoismo perchè disingannati del mondo, e quindi di amare gli altri.

[1800,2]  Il vigore o costante o effimero, produce nell'uomo un gran sentimento di se  1801 stesso, lo rende nella sua immaginazione superiore alle cose, agli altri uomini, alla stessa natura; lo fa sfidare il potere delle disgrazie, le persecuzioni, i pericoli, le ingiustizie ec. ec.; lo fa pieno di coraggio ec. ec. in somma l'uomo vigoroso si sente, si giudica padrone del mondo, e di se medesimo, e veramente uomo. (28. Sett. 1821.)

[1815,1]  La noia è la più sterile delle passioni umane. Com'ella è figlia della nullità, così è madre del nulla: giacchè non solo è sterile per se, ma rende tale tutto ciò a cui si mesce o avvicina ec. (30. Sett. 1821.).

[1816,2]  Forza della natura, e debolezza della ragione. Ho detto altrove pp. 293-94 pp. 329-30 che l'opinione per influire vivamente sull'uomo, deve aver l'aspetto di passione. Finchè l'uomo conserva qualcosa di naturale, egli {è} più appassionato dell'opinione che delle passioni sue. Infiniti esempi e considerazioni se ne potrebbero addurre in prova. Ma siccome tutte quelle opinioni che non sono o non hanno l'aspetto di pregiudizi, non sono sostenute che dalla pura ragione, perciò elle sono ordinariamente impotentissime nell'uomo. I religiosi (anche oggi, e forse oggi più che mai, a causa della contrarietà che incontrano) sono più appassionati della loro religione che delle altre passioni loro (di cui la religione è nemica), odiano sinceramente gl'irreligiosi, (benchè se lo nascondano) e per veder trionfare il loro sistema farebbero qualunque  1817 sacrifizio (come ne fanno realmente sacrificando le inclinazioni naturali e contrarie), mentre provano verissima rabbia nel vederlo depresso e contrastato. Ma gl'irreligiosi, quando l'irreligione deriva in essi da sola fredda persuasione o dubbio, non odiano i religiosi, non farebbero nessun sacrifizio per l'irreligione ec. ec. Quindi è che gli odi per motivo d'opinione non sono mai reciprochi, se non quando in ambedue le parti l'opinione è un pregiudizio, o ne ha l'aspetto. Non v'è dunque guerra tra il pregiudizio e la ragione, ma solo tra pregiudizi e pregiudizi, ovvero il pregiudizio solo è capace di combattere, non già la ragione. Le guerre, le nemicizie, gli odi di opinione sì frequenti negli antichi tempi, anzi fino agli ultimi giorni, guerre sì pubbliche che private, fra partiti, sette, scuole, ordini, nazioni, individui; guerre per le quali l'antico era naturalmente deciso nemico di colui che aveva opinione diversa; non avevan luogo se non  1818 perchè in quelle opinioni non entrava mai la pura ragione, ma tutte erano pregiudizi, o ne avevano la forma, e quindi erano passioni. Povera dunque la filosofia, della quale si fa tanto romore, e in cui tanto si spera oggidì. Ella può esser certa che nessuno combatterà per lei, benchè i suoi nemici la combatteranno sempre più vivamente; e tanto meno ella influirà nel mondo, e nel fatto, quanto maggiori saranno i suoi progressi, cioè quanto più si depurerà, ed allontanerà dalla natura del pregiudizio e della passione. Non isperate dunque mai nulla dalla filosofia nè dalla ragionevolezza di questo secolo. (1. Ott. 1821.).

[1885,1]  Un uomo famoso per dissipazioni e sfrenatezze e fortune galanti, e infedeltà in amore, fa grand'effetto nelle donne con questa sola fama, ma forse nelle donne modeste e timide, e avvezze ad esser fedeli, più che nelle altre. La franchezza, il brio,  1886 la sfrontatezza ec. fa {sempre} fortuna in amore, ed e[è] quasi indifferentemente necessaria e felice con ogni sorta di donne, perch'è quasi l'unico mezzo di ottenere. Ma considerata semplicemente come mezzo di piacere e di far effetto sulle prime, è certo ch'egli è più potente, sulle donne modeste, ritirate, paurose, poco solite agl'intrighi ec. che nelle loro contrarie.

[1970,2]  Gli spiriti mediocri sono sempre facilmente persuadibili {+a credere o a fare,} e in qualunque modo riducibili all'uomo di talento, o al furbo, o a chi per qualsivoglia circostanza ha, o sa prendere su di loro un certo ascendente. L'ostinazione è propria degli spiriti piccoli e dei grandi, o degli spiriti più o meno inferiori o superiori alla mediocrità, ma di quelli più che di questi. {+Lo stesso dico in ordine alla suscettibilità di esser consolati. Se non che gli spiriti grandi ne sono meno suscettibili dei piccoli, perchè il vero, ch'essi ben intendono, non è mai consolante, e perchè il consolatore non li può facilmente ingannare, ch'è l'unico modo di consolare.} (22. Ott. 1821.).

[1988,3]  L'uomo che a tutto si abitua, non si abitua mai alla inazione. Il tempo che tutto alleggerisce, indebolisce, distrugge, non distrugge mai nè indebolisce il disgusto e la fatica che l'uomo prova nel non far nulla. L'assuefazione  1989 intanto può influire sull'inazione, in quanto può trasportare l'azione dall'esterno all'interno, e l'uomo forzato a non muoversi, o in qualunque modo a non operare al di fuori, acquista appoco appoco l'abito di operare al di dentro, di farsi compagnia da se stesso, di pensare, d'immaginare, di trattenersi insomma vivamente col proprio solo pensiero (come fanno i fanciulli, come si avvezzano a fare i carcerati ec.). Ma la pura noia, il puro nulla, nè il tempo nè alcuna forza possibile (se non quella che intorpidisce o estingue o sospende le facoltà umane, come il sonno, l'oppio, il letargo, una totale prostrazione di forze ec.) non basta a renderlo meno intollerabile. Ogni momento di pura inazione è tanto grave all'uomo dopo dieci anni {di assuefazione,} quanto la prima volta. La nullità, il non fare, il non vivere, la morte, è l'unica cosa di cui l'uomo sia incapace, e  1990 alla quale non possa avvezzarsi. Tanto è vero che l'uomo, il vivente, e tutto ciò che esiste, è nato per fare, e per fare tanto vivamente, quanto egli è capace, vale a dire che l'uomo è nato per l'azione esterna ch'è assai più viva dell'interna. {+Tanto più che l'interna nuoce al fisico quanto ell'è maggiore e più assidua, e l'esterna viceversa. Quanto all'azione interna dell'immaginazione, essa sprona e domanda impazientemente l'esterna, e riduce l'uomo a stato violento, se questa gli è impedita.} E quella infatti agognano i giovani, i primitivi, gli antichi, e non si può loro impedire senza metter la loro natura in istato violento. Ciò non per altro se non perchè l'uomo {e il vivente} tende sempre naturalmente alla vita, e a quel più di vita che gli conviene. (26. Ott. 1821.).

[1998,1]  L'uomo riflessivo ha spessissimo bisogno di esser determinato da un uomo irriflessivo o per natura o per abito, o da circostanze imperiose, ec. Egli ha più bisogno di consiglio che qualunque altro, non perchè non veda abbastanza da se, ma perchè troppo vede,  1999 dal che segue un'irresoluzione abituale e penosissima. (27. Ott. 1821.).

[2017,3]  Il fare un atto di vigore, o il servirsi del vigore passivamente o attivamente, {+(come fare un veloce cammino, o de' movimenti forti ed energici ec.)} quando {e finchè} ciò non superi le forze dell'individuo, è piacevole per ciò solo, quando anche sia per se stesso incomodo, (come l'esporsi a un gran freddo ec.) quando anche sia senza spettatori, e prescindendo pure dall'ambizione e dall'interna soddisfazione e  2018 compiacenza di se stesso, che vi si prova. {+Nè solo il fare tali atti, ma anche il vederli, l'essere spettatore di cose attive, energiche, rapide, movimenti ec. vivaci, forti, difficili ec. ec. azioni ec. piace, perchè mette l'anima in una certa azione, e le comunica una certa attività interiore, la rompe ec. l'esercita da lontano ec. e par ch'ella {ne} ritorni più forte, ed esercitata ec.}

[2028,2]  Ho detto altrove pp. 516-19 che la natura par che abbia confidato a ciascun individuo la conservazione e la cura dell'ordine, della ragione,  2029 della giustizia, {dell'esistenza} ec. per ciò che spetta agli altri individui, o alle altre cose esistenti; insomma la conservazione di tutta la natura, e di tutte le sue leggi, anche dove o quando punto non ci appartengono par che sia incaricata a ciascun individuo. Da questo nasce l'ira che noi proviamo nell'udire un misfatto, per es. un omicidio, di persona a noi affatto ignota, e posta fuori d'ogni nostra minima relazione, partito ec. e quando anche l'omicida si trovi nello stesso caso. Noi, e tanto più quanto la nostra immaginazione è più viva, e il nostro sentimento più caldo, e quanto meno siamo corrotti e snaturati dalla fredda ragione, proviamo subito un vivo senso di odio verso il delinquente, un desiderio di vendetta, quasi che l'offesa fosse fatta a noi, un vivo piacere se intendiamo che è caduto nelle mani della  2030 giustizia, e dispiacere s'egli è fuggito. Massime quando il racconto del misfatto, per qualunque circostanza ci riesca vivo ec. e molto più se il misfatto accade in nostra presenza ec. Un eccesso di energia pone anche l'uomo in desiderio di vendicare il misfatto da se, quando anche non gli appartenga nè l'interessi in nessunissima parte. Da ciò nasce che il popolo, spargendosi la fama di qualche notabile delitto, è sempre decisamente contento della cattura del reo, la desidera, l'applaude, e stando egli sotto processo, discorre della sua condanna come di una soddisfazione e un piacere ch'egli aspetti e desideri, accusa la lentezza dei giudici, e se il reo è assoluto, se ne duole, come di un torto fatto a se stesso. Se è condannato ne gode, finchè all'ira verso la colpa non succede la compassione verso la pena.

[2046,1]  Chi vuol vedere come le facoltà umane sieno tutte acquisite, e la differenza che passa fra l'acquisito e il naturale o innato, osservi che tutte le facoltà {di cui l'uomo è capace,} sono maggiori assai nell'uomo maturo {(e civile ec.)} che nel fanciullo, se pur questi non ne manca affatto, e crescono insieme coll'uomo: laddove le inclinazioni che sono ingenite, e ben diverse dalle facoltà, generalmente parlando, come qua e là ho mostrato di questa o di quella, e come si può dire di tutte (purchè sieno naturali e non acquisite anch'esse), sono tanto maggiori, {più vive, notabili, numerose ec.} quanto l'uomo è più vicino allo stato di natura, cioè o fanciullo, o primitivo, o selvaggio, o ignorante ec. E quantunque le facoltà umane crescano coll'età e dell'individuo, e de' popoli o del mondo, nondimeno, essendovi due generi di disposizioni ad  2047 esse facoltà, altre acquisite, altre naturali ed ingenite o in tutti o in qualcuno, quelle crescono allo stesso modo delle facoltà, queste, perchè sono qualità naturali, sono assai maggiori nell'uomo naturale, e massime nel fanciullo, che nell'uomo civilizzato o nell'adulto, come tuttogiorno si osserva che i fanciulli son capaci di avvezzarsi, di imparare ec. cose che gli uomini fatti non possono, se da fanciulli non hanno incominciato. Insomma tutto quello ch'è naturale, è tanto più forte e notabile, quanto il soggetto è meno coltivato ec. e tutto ciò che coltivato è più forte ec. non è naturale ec. ec. (4. Nov. 1821.).

[2107,1]  Ho detto pp. 1648-49 pp. 2039-41 che l'uomo di gran sentimento è soggetto a divenire insensibile più presto e più fortemente degli altri, e soprattutto di quegli di mediocre sensibilità. Questa verità si deve estendere ed applicare a tutte quelle parti, generi ec. ne' quali il sentimento  2108 si divide e si esercita, come la compassione ec. ec. Sebbene è verissimo che l'uomo di sentimento è destinato all'infelicità nondimeno assai spesso accade ch'egli nella sua giovanezza, divenga insensibile al dolore e alla sventura, e che tanto meno egli sia suscettibile di dolor vivo dopo passata una certa epoca, e un certo giro di esperienza, quanto più violento e terribile fu il suo dolore e la sua disperazione ne' primi anni, e ne' primi saggi ch'egli fece della vita. Egli arriva sovente assai presto ad un punto, dove qualunque massima infelicità non è più capace di agitarlo fortemente, e dall'eccessiva suscettibilità di essere eccessivamente turbato, passa rapidamente alla qualità contraria, cioè ad un abito di quiete e di rassegnazione sì costante, e di disperazione così poco sensibile, che qualunque nuovo male gli riesce indifferente (e questa si può  2109 dire l'ultima epoca del sentimento, e quella in cui la più gran disposizione naturale all'immaginazione alla sensibilità, divengono quasi al tutto inutili, e il più gran poeta, o il più dotato di eloquenza che si possa immaginare, perde quasi affatto e irrecuperabilmente queste qualità, e si rende incapace a poterle più sperimentare o mettere in opera per qualunque circostanza. Il sentimento è sempre vivo fino a questo tempo, anche in mezzo alla maggior disperazione, e al più forte senso della nullità delle cose. Ma dopo quest'epoca, le cose divengono tanto nulle all'uomo sensibile, ch'egli non ne sente più nemmeno la nullità: ed allora il sentimento e l'immaginazione son veramente morte, e senza risorsa.) Nessuna cosa violenta è durevole. Laddove gli uomini di mediocre sensibilità, restano più o meno suscettibili d'  2110 infelicità viva per tutta la vita, e sempre capaci di nuovo affanno, da vecchi poco meno che da giovani, come si vede negli uomini ordinarii tuttogiorno. (17. Nov. 1821.).

[2153,2]  Non solo l'egoismo o l'amor proprio si trova in qualunque azione, affetto ec. possibile all'uomo, ancorchè paia il più lontano, e il più contrario all'amor di se stesso, ma in questi medesimi atti, affetti ec. l'amor proprio, v'ha tanta parte, vi si trova in misura e grado e forza tale, l'uomo  2154 o il vivente vi mira tanto a se stesso, quanto nell'azione o nell'affetto che deriva dal più sublimato, dal più schietto, infame, manifesto egoismo.

[2206,1]  Il timore, passione immediatamente figlia dell'amor proprio e della propria conservazione, e quindi inseparabile dall'uomo, ma soprattutto manifesta e propria nell'uomo primitivo, nel fanciullo, in coloro che più conservano dello stato naturale; passione strettissimamente comune all'uomo con ogni specie di animali, e carattere generale de' viventi; una tal passione, è la più egoistica del mondo. Nel timore l'uomo si isola perfettamente, si stacca da' suoi più cari, e pena pochissimo (anzi quasi da necessità naturale è portato) a sacrificarli ec. per salvarsi. Nè solo dalle persone, o da tutto ciò ch'è in qualche modo altrui, ma dalle cose stesse più proprie sue, più preziose, più necessarie, l'uomo  2207 si stacca quando teme, come il navigante che getta in mare il frutto de' suoi più lunghi travagli, e anche di tutta la sua vita, i suoi mezzi di sussistenza. Onde si può dire che il timore è la perfezione e la più pura quintessenza dell'egoismo, perchè riduce l'uomo non solo a curar puramente le cose sue, ma a staccarsi anche da queste per non curar che il puro e nudo se stesso, ossia la nudissima esistenza del suo proprio individuo separata da qualunque altra possibile esistenza. Fino le parti di se medesimo sacrifica l'uomo nel timore per salvarsi la vita, alla quale, e a quel solo che l'è assolutamente necessario in qualunque istante, si riduce e si rannicchia la cura e la passione dell'uomo nel timore. Si può dir che il se stesso diviene allora più piccolo e ristretto che può, affine di conservarsi, e consente a gettare tutte le proprie parti non necessarie, per salvare quel tanto ch'  2208 è inseparabile dal suo essere, che lo forma, e in cui esso necessariamente e sostanzialmente consiste.

[2217,1]  Didone, Aen. 4. 659. seg.
Moriemur inultę,
Sed moriamur, ait. Sic sic iuvat ire sub umbras. *

Virgilio volle qui esprimere (fino e profondo sentimento, e degno di un uomo conoscitore de' cuori, ed esperto delle passioni e delle sventure, come lui) quel piacere che l'animo prova nel considerare e rappresentarsi non solo vivamente, ma minutamente, intimamente, e pienamente la sua disgrazia, i suoi mali; nell'esagerarli, anche, a se stesso,  2218 se può (che se può, certo lo fa), nel riconoscere, o nel figurarsi, ma certo persuadersi e proccurare con ogni sforzo di persuadersi fermamente, ch'essi sono eccessivi, senza fine, senza limiti, senza rimedio nè impedimento nè compenso nè consolazione veruna possibile, senza alcuna circostanza che gli alleggerisca; nel vedere insomma e sentire vivacemente che la sua sventura è propriamente immensa e perfetta e quanta può essere per tutte le parti, e precluso e ben serrato ogni adito o alla speranza o alla consolazione qualunque, in maniera che l'uomo resti propriamente solo colla sua intera sventura. Questi sentimenti si provano negli accessi di disperazione, nel gustare il passeggero conforto del pianto, (dove l'uomo si piglia piacere a immaginarsi più infelice che può), talvolta anche nel primo punto e sentimento o novella ec. del suo male ec.

[2242,2]  Ogni uomo sensibile prova un sentimento di dolore, o una commozione, un senso di malinconia, fissandosi col pensiero in una cosa che sia finita per sempre, massime s'ella è stata al tempo suo, e familiare a lui. Dico di qualunque cosa soggetta  2243 a finire, come la vita o la compagnia della persona la più indifferente per lui (ed anche molesta, anche odiosa), la gioventù della medesima; un'usanza, un metodo di vita. ec. Fuorchè se questa cosa per sempre finita, non è appunto un dolore, una sventura ec. {+o una fatica, o se l'esser finita, non è lo stesso che aver conseguito il suo proprio scopo, esser giunta dove per suo fine mirava ec.} Sebbene anche, nel caso che a questa ci siamo abituati, proviamo ec. Solamente della noia non possiamo dolerci mai che sia finita.

[2315,1]  L'animo umano è sempre ingannato nelle sue speranze, e sempre ingannabile: sempre deluso dalla speranza medesima, e sempre capace  2316 di esserlo: aperto non solo, ma posseduto dalla speranza nell'atto stesso dell'ultima disperazione, nell'atto stesso del suicidio. La speranza è come l'amor proprio, dal quale immediatamente deriva. L'uno e l'altra non possono, per essenza e natura dell'animale, abbandonarlo mai finch'egli vive, cioè sente la sua esistenza. (31. Dic. 1821.).

[2434,2]  Che le passioni antiche fossero senza comparazione più gagliarde delle moderne, e gli effetti loro più strepitosi, più risaltati, più materiali,  2435 più furiosi, e che però nell'espression loro convenga impiegare colori e tratti molto più risentiti che in quella delle passioni moderne, è cosa già nota e ripetuta pp. 76. sgg. Ma io credo che una differenza notabile bisogni fare tra le varie passioni, appunto in riguardo alla maggiore o minor veemenza loro fra gli antichi e i moderni comparativamente; e per comprenderle tutte sotto due capi generali, io tengo per fermo (come fanno tutti) che il dolore antico fosse di gran lunga più veemente, più attivo, più versato al di fuori, più smanioso e terribile (quantunque forse per le stesse ragioni più breve) del moderno. Ma in quanto alla gioia, ne dubiterei, e crederei che, se non altro in molti casi, ella potesse esser più furiosa e violenta presso i moderni che presso gli antichi, e ciò non per altro se non perch'ella oggidì è appunto più rara e breve che fosse mai, come lo era nè più nè meno il dolore anticamente. Questa osservazione potrebbe forse servire al tragico, al pittore, ed altri imitatori delle passioni. Vero è che nel fanciullo e la gioia e il dolore sono del pari  2436 più violenti, ed altresì per la stessa ragione più brevi che nell'adulto. Ed è vero ancora che l'abitudine dell'animo de' moderni li porta a contenere dentro di se, ed a riflettere sullo spirito, senza punto o quasi punto lasciarla spargere ed operare al di fuori, qualunque più gagliarda impressione e affezione. Contuttociò credo che la detta osservazione possa essere di qualche rilievo, massime intorno alle persone non molto o non interamente colte e disciplinate, sia nella vita civile, sia nelle dottrine e nella scienza delle cose e dell'uomo; e intorno a quelle che dall'esperienza e dall'uso della vita, della società, e de' casi umani non sono {stati} bastantemente ammaestrati ad uniformarsi col generale, nè accostumati a quell'apatia e noncuranza di se stesso e di tutto il resto, che caratterizza il nostro secolo. (9. Maggio. 1822.).

[2471,1]  Alla inclinazione da me più volte notata e spiegata pp. 85-86 p. 230 pp. 339-40 pp. 486-88 pp. 1535-37, che gli uomini hanno a partecipare con altri i loro godimenti o dispiaceri, e qualunque sensazione alquanto straordinaria, si dee riferire in parte la difficoltà di conservare il secreto che s'attribuisce ragionevolmente alle donne e a' fanciulli, e ch'è propria altresì di qualunque altro è meno capace o per natura o per assuefazione di contrastare e vincere e reprimere le sue inclinazioni. Ed è anche proprio pur troppe volte degli uomini prudenti ed esercitati a stare sopra se stessi, i quali ancora provano, se non altro, qualche difficoltà a tenere il segreto, e qualche voglia interna di manifestarlo (anche con danno loro), quando sono sull'andare del confidarsi con altrui, o semplicemente del conversare, o discorrere,  2472 o chiaccherare. {+Dico lo stesso anche di quando il segreto non è d'altrui ma nostro proprio, e quando noi vediamo che il rivelarlo fa danno solamente o principalmente a noi, e come tale, ci eravamo proposto di tacerlo, e poi lo confidiamo per isboccataggine.}

[2491,1]  Or p. e. l'ira o l'impazienza del proprio male, non è ella modificabilissima e diversissima, non solo in diverse specie, o individui, ma in un medesimo individuo, secondo le circostanze? Ponetelo nelle sventure ed assuefatecelo. Sia pure impazientissimo per natura; col tempo e coll'assuefazione, diviene pazientissimo. (Testimonio io per ogni parte di questa proposizione). {+Fate che questo medesimo non abbia mai provato sventure, o assuefatelo di nuovo alla prosperità, o supponete in una di queste due circostanze un altro individuo,} e sia egli di natura mansuetissima. Ogni menomo male lo pone in impazienza. Or qual effetto più sostanziale dell'amor proprio, che l'impazienza del male di questo che si ama? E pur questa  2492 impazienza è maggiore e minore secondo le nature, le specie, gl'individui, e le circostanze e le assuefazioni di un medesimo individuo. Così dunque l'amor proprio del qual essa è opera. (22. Giugno. 1822.).

[2628,2]  Isocrate nel Panegirico p. 150, cioè poco dopo il mezzo, raccontando i mali fatti da' fautori de' Lacedemoni (Λακωνίζοντες) alle loro città, dice dei medesimi: εἰς τοῦτο δ᾽ ὠμότητος ἅπαντας ἡμᾶς κατέστησαν, ὥστε πρὸ τοῦ μὲν διὰ τὴν παροῦσαν εὐδαμονίαν, κᾄν ταῖς μικραῖς ἀτυχίαις, πολλοὺς ἕκαστος ἡμῶν * (parla dei privati cioè di ciascun cittadino) εἶχε τοὺς συμπαϑήσοντας∙ ἐπὶ δὲ τῆς τούτων ἀρχῆς, διὰ τὸ πλῆϑος τῶν οἰκείων κακῶν, ἐπαυσάμεϑα ἀλλήλους ἐλεοῦντες. Oὐδενὶ γὰρ τοσαύτην  2629 σχολὴν παρέλιπον, ὥσϑ' ἑτέρῳ συναχϑεσϑῆναι * . E veramente {l'abito della} propria sventura rende l'uomo crudele ὠμὸν[ὠμόν], come dice costui. (30. Sett. 1822.). {{Vedi la p. seg. pensiero primo [p. 2630,1].}}

[2643,1]   2643 L'amor della vita cresce quasi come l'amor del danaio, e, com'esso, cresce in proporzione che dovrebbe scemare. Perciocchè i giovani disprezzano e prodigano la vita loro, ch'è pur dolce, e di cui molto avanza loro; e non temono la morte: e i vecchi la temono sommamente, e sono gelosissimi della propria vita, ch'è miserabilissima, e che ad ogni modo poco hanno a poter conservare. E così il giovane scialacqua il suo, come s'egli avesse a morire fra pochi dì, e il vecchio accumula e conserva e risparmia come s'avesse a provvedere a una lunghissima vita che gli restasse. (24. Ottob. 1822.).

[2803,1]  Altro è il timore altro il terrore. Questa è {passione} molto più forte {e viva} di quella, e molto più avvilitiva dell'animo e sospensiva dell'uso della ragione, {+anzi quasi di tutte le facoltà dell'animo, ed anche de' sensi del corpo.}  2804 Nondimeno la prima di queste passioni non cade nell'uomo perfettamente coraggioso o savio, la seconda sì. Egli non teme {mai,} ma può sempre essere atterrito. Nessuno può debitamente vantarsi di non poter essere spaventato. (21. Giugno 1823.).

[3107,1]  Altra proprietà dell'uomo si è che laddove la superiorità, laddove la virtù congiunta colla fortuna non produce se non un interesse debole, cioè l'ammirazione; per lo contrario la sventura in qualunque {caso}, ma molto più la sventura congiunta colla virtù, produce un interesse vivissimo, durevole e dolcissimo. Perocchè l'uomo si compiace nel sentimento della compassione, perchè nulla sacrificando, ottiene con essa quel sentimento che in ogni cosa e in ogni occasione gli è gratissimo, cioè una quasi coscienza di proprio eroismo e nobiltà d'animo. La sventura è naturalmente cagione di dispregio e anche d'odio verso lo sventurato, perchè l'uomo per natura odia, come il dolore, così le idee dolorose. Mirando dunque, malgrado la sciagura, alla virtù dello sciagurato, e non {abbominandolo nè} disdegnandolo quãtunque[quantunque] tale, e finalmente giungendo a compassionarlo, cioè a voler coll'animo entrare a parte de' suoi  3108 mali, pare all'uomo di fare uno sforzo sopra se stesso, di vincere la propria natura, di ottenere una prova della propria magnanimità, di avere un argomento con cui possa persuadere a se medesimo di esser dotato di un animo superiore all'ordinario; tanto più ch'essendo proprio dell'uomo l'egoismo, e il compassionevole interessandosi per altrui, stima con questo interesse che niun sacrifizio gli costa, mostrarsi a se stesso straordinariamente magnanimo, singolare, eroico, più che uomo, poichè può non essere egoista, e impegnarsi seco medesimo per altri che per se stesso. L'uomo nel compatire s'insuperbisce e si compiace di se medesimo: quindi è ch'egli goda nel compatire, e ch'ei si compiaccia della compassione. {Veggansi le pagg. 3291-97. e 3480-2.} L'atto della compassione è un atto d'orgoglio che l'uomo fa tra se stesso. Così anche la compassione che sembra l'affetto il più lontano, anzi il più contrario, all'amor proprio, e che sembra non potersi in nessun modo e per niuna parte ridurre o riferire a questo amore, non  3109 deriva in sostanza (come tutti gli altri affetti) se non da esso, anzi non è che amor proprio, ed atto di egoismo. {+Il quale arriva a prodursi e fabbricarsi un piacere col persuadersi di morire, o d'interrompere le sue funzioni, applicando l'interesse dell'individuo ad altrui. Sicchè l'egoismo si compiace perchè crede di aver cessato o sospeso il suo proprio essere di egoismo. V. p. 3167.}

[3117,1]  Come la stima, così la compassione verso il nimico, ancorchè vinto e virtuoso era impropria di quei tempi. (Vedi quello che altrove ho detto p. 2760 pp. 3108-109 in proposito d'un'azione d'Enea appo Virgilio, dopo morto Pallante). Gli animi naturali non provano nella vittoria altro piacere che quello della vendetta. La compassione, anche generalmente parlando (cioè quella ancora che cade sulle persone non inimiche) nasce bensì, come di sopra ho detto,  3118 dall'egoismo, ed è un piacere, ma non è già propria nè degli animali nè degli uomini in natura, nè anche, se non di rado e scarsamente, degli animi ancora quasi incolti (quali erano i più a' tempi eroici). Questo piacere ha bisogno di una delicatezza e mobilità di sentimento o facoltà sensitiva, di una raffinatezza e pieghevolezza di egoismo, per cui egli possa come un serpente ripiegarsi fino ad applicarsi ad altri oggetti e persuadersi che tutta la sua azione sia rivolta sopra di loro, benchè realmente essa riverberi tutta ed operi in se stesso e a fine di se stesso, cioè nell'individuo che compatisce. Quindi è che anche nei tempi moderni e civili la compassione non è propria se non degli animi colti e dei naturalmente delicati e sensibili, cioè fini e vivi. Nelle campagne dove gli uomini sono pur meno corrotti che nelle città, rara, e poco intima e viva, e di poca efficacia e durata è la compassione. Ma lo spirito di Omero era certamente  3119 vivissimo e mobilissimo, e il sentimento delicatissimo e pieghevolissimo. Quindi egli provò il piacere della compassione, lo trovò, qual egli è, sommamente poetico, perocch'egli, oltre alla dolcezza, induce nell'animo un sentimento di propria nobiltà e singolarità che l'innalza e l'aggrandisce a' suoi occhi, vero e proprio effetto della poesia. {Veggasi la p. 3167-8. e pagg. 3291-7. } Volle dunque introdurlo nel suo poema, anzi farne l'uno de' principali fini del medesimo, l'uno de' principali piaceri prodotti dalla sua poesia. Volle accompagnar questo piacere e questo affetto con quello della maraviglia, affetto appartenente all'immaginazione e non al cuore, che fino a quel tempo era forse stato l'unico {+o il principal} effetto della poesia. Volle che il suo poema operasse continuamente del pari e sulla immaginazione e sul cuore, e dall'una e dall'altra sua facoltà volle trarlo, cioè da quella d'immaginare e da quella di sentire. Questo suo intento è manifestissimo  3120 nel suo poema, più manifesto che appo gli altri poeti greci venuti a tempi più colti, più eziandio che ne' tragici appo i quali il terrore e la maraviglia prevalgono ordinariamente alla pietà, e spesso son soli, sempre tengono il primo luogo. Vedesi apertamente che Omero si compiace nelle scene compassionevoli, che se il soggetto e l'occasione gliene offrono, egli immediatamente le accetta, che altre ne introduce a bella posta e cercatamente (come l'abboccamento d'Ettore e Andromaca {a introdurre} il quale, e non ad altro, è destinata e ordinata quella improvvisa venuta d'Ettore in troia, nel maggior fuoco della battaglia, e in tempo che può veramente parere inopportuno {intempestivo} e imprudente), e che nell'une e nell'altre ei non trascorre, ma ci si ferma e ci si diletta, e raccoglie tutte le circostanze che possono {eccitare e} accrescere la compassione, e le sminuzza, e le rappresenta con grandissima arte e intelligenza del cuore umano. E il soggetto di tutte  3121 queste scene dove l'animo de' lettori è sommamente interessato non sono altri che quegli stessi che Omero ha tolto a deprimere, i nemici de' greci ch'egli ha preso ha[ad] esaltare. Nè pertanto egli s'astiene dal volere a ogni modo far piangere sopra i troiani, e deplorare ai medesimi greci quelle sventure ch'essi avevano cagionate, del che egli nel tempo stesso sommamente li celebra.

[3152,1]  Da questa digressione, non aliena, cred'io, dal proposito, tornando in via, ci resta a considerare come sia strano e quasi assurdo che Omero in tempi feroci abbia tanto fatto giuocare la compassione nel suo poema, n'abbia fatto un interesse principale e finale, abbia seguito e ottenuto il suo intento in modo che anche oggidì, mancato l'altro interesse all'iliade, non si può forse tuttavia legger cosa che  3153 tanto interessi, non avesse riguardo di far cadere ed esaggerare la compassione {quasi unicamente} sopra i nemici de' greci suoi compatriotti, a' quali scriveva, i quali non istimavano gran fatto la gerosità[generosità] verso il nemico, anzi apprezzavano la qualità opposta; e che i poeti moderni abbiano fatto ed espressamente esclusa la compassione dal grado d'interesse finale, abbiano per lo più evitato di farne cader più che tanta sopra i nemici della parte e dell'Eroe da lor presi a lodare (la compassione per Clorinda nella Gerusalemme non dava scrupolo al Tasso perch'ei la fa morir convertita, {e nel med. canto la scuopre per cristiana di genitori e di nazione;} sì ch'ella cade in ultimo, secondo l'intenzione finale del poeta, sopra una Cristiana), ec. ec. In verità egli sarebbe stato credibile, e certo {egli avrebbe dovuto} accadere, tutto l'opposto.

[3265,1]   3265 Si può dire che le viste, i disegni, {i proponimenti, i fini,} le speranze, i desiderii dell'uomo, tutto ciò in somma che ne' suoi pensieri ha relazione al futuro, tanto più si stendono, cioè tanto più mirano e tendono, o giungono, lontano, quanto minore naturalmente è lo spazio di vita che gli rimane, {e viceversa.} Niun pensiero del bambino appena nato ha relazione al futuro, se non considerando come futuro l'istante che dee succedere al presente momento, perocchè il presente non è in verità che istantaneo, e fuori di un solo istante, il tempo è sempre e tutto o passato o futuro. Ma considerando il presente e il futuro non esattamente e matematicamente, ma in modo largo, secondo che noi siamo soliti di concepirlo e chiamarlo, si dee dire che il bambino non pensa che al presente. Poco più là mira il fanciullo; ond'è che proporre al fanciullo (p. e. negli studi) uno scopo lontano (come la gloria e i vantaggi ch'egli acquisterà nella maturità della vita o nella vecchiezza, o anche pur nella giovanezza), è assolutamente inutile per muoverlo (onde è sommamente giusto ed utile l'adescare il fanciullo allo studio col proporgli onori o vantaggi ch'egli  3266 possa e debba conseguire ben tosto, e quasi di giorno in giorno, che è come un ravvicinare a' suoi occhi lo scopo della gloria e della utilità {degli studi,} senza il quale ravvicinamento è impossibile ch'ei fissi mai gli occhi in detto scopo, e per conseguirlo si assoggetti volentieri alle fatiche e alle sofferenze ripugnanti alla natura, che gli studi richieggono). Più si stendono le viste del giovane, ma meno assai di quelle dell'uomo maturo e riposato, i cui calcoli sul futuro oltrepassano bene spesso, senza ch'ei se n'avvegga, lo spazio di vita naturalmente concesso ai mortali. Perciocchè l'uomo maturo comincia già a compiacersi supremamente e contentarsi della speranza, e pascerne la sua vita. Della quale speranza si nutre parimente, e con essa favella e delira anche il giovane, e il fanciullo altresì; ma non in modo che d'essa si contentino, e che non cerchino di prontamente effettuarla e recarla in opera, e venire al fatto. Il che nasce dall'ardore di quelle età, dall'attività dell'animo unita e cospirante con quella del corpo, dalla  3267 freschezza e forza del loro amor proprio, e quindi dall'energia ed efficacia de' loro desiderii impazienti d'indugio, e però non sofferenti di proporsi un oggetto ch'ei non possano o ch'ei non credano di potere in poco spazio e dentro un picciolo termine conseguire; finalmente dall'inesperienza ch'egli hanno intorno alla vanità delle umane speranze, alla difficoltà che l'uomo prova in condurle a fine, e alla nullità eziandio degli stessi beni sperati, la quale inevitabilmente apparisce così tosto com'ei sono posseduti. Le contrarie cagioni producono la lunghezza e lontananza delle viste nell'uomo maturo; e l'eccesso di dette contrarie qualità producono l'eccesso del contrario effetto nella vecchiezza, la quale ridotta a non potersi ragionevolmente promettere più che un brevissimo avanzo di vita, pure nella estensione delle sue viste supera {+di gran lunga} tutte le altre età dell'uomo. Perocchè il vecchio per la debolezza di corpo e d'animo, e pel disinganno de' beni umani già provati, e per lo illanguidimento dell'amor proprio che va di pari colla quasi diminuzione e raffreddamento  3268 della vita, non è capace se non di fievoli desiderii, e quindi si contenta di propor loro uno scopo lontano e in esso fermarli, e i suoi desiderii si contentano di rimanervi; per la {diuturna} esperienza fatta della vanità e del tristo esito delle speranze, con un quasi stratagemma, le indirizza a luoghi così lontani ch'elle non possano se non assai tardi o non mai, avvicinandosi a quelli e giungendovi, scomparire; per la irresoluzione propria dell'età sua, rimettendo ogni azione al dipoi, e costretto di rimettere eziandio e quasi differire le sue speranze, e gli oggetti de' suoi desiderii e il loro conseguimento ch'ei si propone, o ch'ei si compiace, per dir meglio, di vagheggiare; e per {l'abito della} tardità e lentezza nell'operare a cui la gravezza e l'impotenza dell'età lo costringe, e per la pigrizia e negligenza e torpore dell'animo che ne deriva {+e n'è pur cagione,} i suoi desiderii altresì e le sue speranze ne divengono tarde e pigre e lente e quasi trascurate (benchè sempre però bastantemente vive per mantenerlo e quasi allattarlo, come alla vita umana  3269 indispensabilmente ricercasi), ed ei giunge a persuadersi fra se stesso non con l'intelletto, ma con l'immaginazione e con la non ragionata abitudine dell'altre facoltà del suo spirito, che il tempo e la natura {e le} cose sian {divenute} ed abbiano a riuscir così lente e pigre com'esso {necessariamente} è. (26. Agosto. 1823.)

[3271,1]  Secondo ch'io osservo e che si potrà spiegare colle ragioni da me recate in altri luoghi pp. 97-99 p. 1589 p. 1605, l'abito di compatire, quello di beneficare, o di operare in qualunque modo per altrui, e, mancando ancora la facoltà, l'inclinazione alla beneficenza e all'adoperarsi in pro degli altri, sono sempre (supposta la parità delle altre circostanze di carattere o indole, educazione, coltura di spirito, o rozzezza, e simili cose) in ragion diretta della forza, della felicità, del poco o niun bisogno che l'individuo ha dell'opera e dell'aiuto altrui, ed in proporzione inversa della debolezza, della infelicità, dell'esperienza delle sventure e dei mali, sieno passati, o massimamente presenti, del bisogno che l'uomo ha degli altrui soccorsi ed uffici. {Veggansi le pagg. 3765-68.} Quanto più l'uomo è in istato di esser  3272 soggetto di compassione, o di bramarla, o di esigerla, e quanto più egli la brama o l'esige, anche a torto, e si persuade di meritarla, tanto meno egli compatisce, perocch'egli allora rivolge in se stesso tutta la natural facoltà, e tutta l'abitudine che forse per lo innanzi egli aveva, di compatire. Quanto l'uomo ha maggior bisogno della beneficenza altrui, tanto meno egli è, non pur benefico, ma inclinato a beneficare; tanto meno egli non solo esercita, ma ama in se quella beneficenza che dagli altri desidera o pretende, e crede a torto o a ragione di meritare, o di abbisognarne. L'uomo debole, e sempre bisognoso di quegli uffici maggiori o minori che si ricevono e si rendono nella società, e che sono il principale oggetto a cui la società è destinata, o quello a cui principalmente dovrebbe servire la scambievole comunione degli uomini; pochissimo o nulla inclina a prestar la sua opera altrui, e di rado o non mai, o bene scarsamente la presta, ancor dov'ei può, ed {ancora} agli uomini più deboli e più bisognosi di lui. L'uomo assuefatto alle sventure, e  3273 massime quegli a cui la vita è sinonimo e compagno del patimento, nulla sono mossi, o del tutto inefficacemente, dalla vista o dal pensiero degli altri mali e travagli e dolori. L'amor proprio in un essere infelice è troppo occupato perch'egli possa dividere il suo interesse tra questo essere e i di lui simili. Assai egli ha da esercitarsi quando egli ha le sue proprie sventure; sieno pur molto minori di quelle che se gli rappresentano in qualunque modo in altrui. Se le proprie sventure sono presenti, la compassione, come ho detto, tutta rivolta e impiegata sopra se stesso, in esso lui si consuma, e nulla n'avanza per gli altri. Se sono passate, posto ancora che piccolissime fossero, la rimembranza di esse fa che l'uomo non trovi nulla di straordinario nè di terribile ne' patimenti e disastri degli altri, nulla che meriti di farlo {come} rinunziare al suo amor proprio per impiegarlo in altrui beneficio; come già pratico del soffrire, egli si contenta di consigliar tacitamente e fra se stesso agl'infelici, che si rassegnino alla lor sorte, e si crede in diritto di esigerlo, quasi  3274 egli medesimo n'avesse già dato l'esempio; perocchè ciascuno in qualche modo si persuade di aver tollerato o di tollerare le sue disgrazie e le sue pene virilmente al possibile, e con maggior costanza, che gli altri, o almeno il più degli uomini, nel caso suo, non farebbero o non avrebbero fatto; nella stessa guisa che ciascuno si pensa sopra tutti gli altri essere o essere stato indegno de' mali ch'ei sostiene o sostenne. Oltre di che l'abito d'insensibilità verso l'altrui sciagure, contratto nel tempo ch'ei fu sventurato, non è facile a dispogliarsene, sì perch'esso è troppo conforme all'amor proprio, che vuol dire alla natura dell'uomo; sì perchè grande e profonda è l'impressione che fa nel mortale la sventura, e quindi durevole l'effetto che produce e che lascia, e ben sovente decisivo del suo carattere per tutta la vita, e perpetuo.

[3432,1]  Per molte cagioni, anche lievi, l'uomo si getta al pericolo, anche della morte; di più sacrifica  3433 determinatamente se stesso, danari, robba, comodità, speranze ec. Ma ben pochi si trovano che per cagioni anche gravi, anche per vive passioni, per amore ardente ec. si sottopongano o sieno veramente capaci di sottoporsi a un dolore corporale, anche non grande. S'incontra spesso e facilmente, a occhi veggenti e volontariamente il pericolo della morte, e quegli stessi non son capaci d'incontrar volontariamente e scientemente un dolor corporale certo. (15. Sett. 1823.)

[3433,1]  Che il timore sia, come ho detto altrove pp. 458-59 pp. 1303-304, più naturale all'uomo della speranza, e che l'uomo inclini più a questo che a quello[quella], veggasi che qualora gli uomini ignorano le cagioni degli effetti o naturali o artifiziali, ordinariamente ne temono; e tanto è quasi, per gl'ignoranti massimamente e primitivi e selvaggi e fanciulli, effetto di cagione nascosta, quanto effetto spaventoso. Or quando mai la speranza è così temeraria? Di più se l'ignoranza, {+superstizione ec.} portò anticamente  3434 o porta oggidì a pigliar qualch'effetto nuovo o sconosciuto per presagio dell'avvenire o per segno del presente ignoto, osservisi che generalmente questi presagi e questi segni furono creduti sinistri. Lascio l'ecclissi le quali possono parere spaventose naturalmente a chi ne ignora la cagione, non ne ha mai veduto ec., e da questo primitivo spavento può {ben} esser nata l'opinione del cattivo augurio che loro si attribuì, e che le rese spaventose per sì lungo tempo presso tutte le nazioni, e fin anche al di d'oggi, benchè già si sapesse e si sappia che l'oscurazione non era per durar sempre ma passeggera ec. Ma le comete che cosa hanno di spaventevole per se, più ch'altro corpo celeste, o che la via lattea ec.? E volendole pigliare per segni o presagi, perchè non di bene? ma non si troverà nazione dov'elle fossero o sieno stimate annunziare altro che male. Quelli che gli antichi chiamavano mostri, cioè cose straordinarie, benchè nulla terribili per se stesse e materialmente tutte erano stimate cattivi augurii. Così nelle vittime il mancare del cuore, s'è pur vero che ciò accadesse talvolta, come gli antichi narrano,  3435 o che paresse così per errore di chi inspiciebat le viscere ec. Tutti segni che l'uomo è più facile e proclive a temere che a sperare; e che questo è di rado così irragionevole e precipitoso come quello; o certo ben più di rado ec. Massimamente in natura, ne' fanciulli, negl'ignoranti e negli uomini naturali. (15 Sett. 1823.).

[3488,2]  Molti sono timidi i quali sono insieme coraggiosissimi. Voglio dire che molti si perdono d'animo nella società, i quali nè fuggono nè temono ed anche volontariamente incontrano i pericoli  3489 {e i danni e le fatiche e le sofferenze ec.;} e non sostengono gli sguardi o le parole amichevoli o indifferenti di tali di cui sosterrebbero facilissimamente l'aspetto minaccioso e l'armi nemiche in battaglia o in duello. La timidità spetta per così dire ai mali dell'animo, il coraggio a quelli del corpo. L'una teme de' danni e delle pene interne, l'altro brava i danni e le sofferenze esteriori. L'una s'aggira intorno allo spirituale, l'altro al materiale. E tanto è lungi che la timidità escluda il coraggio, che anzi ella piuttosto lo favorisce, e da essa si può dedurre {con verisimiglianza} che l'uomo che n'è affetto sia coraggioso. Perocchè la timidità è abito di temer la vergogna, la quale assai facilmente e spesso incontra chi teme e fugge i pericoli. Onde il temer la vergogna, ch'è male, per così dire, interno e dell'animo, giacchè nulla nuoce al corpo nè alle cose esteriori, ed opera sul pensiero solo, ed ai sensi non dà noia; fa che l'uomo non tema i danni esteriori, e non fugga e, bisognando, affronti il pericolo {+ed eziandio la certezza} di soffrirli, preponendo i mali o i pericoli esterni e materiali agl'interni e spirituali,  3490 e l'anima, per così dire, al corpo; e volendo innanzi soffrire ne' sensi, nella roba ec. che nello spirito, e morire piuttosto che patir la {pena della} vergogna. Chè {in} questo e non altro consiste quel coraggio che viene da sentimento di onore, e gli effetti del medesimo. Il qual coraggio ha origine e fondamento, anzi è esso stesso una spezie di timidità, o certo {una spezie} di qualità contraria alla sfrontatezza, all'impudenza, all'inverecondia. (21. Sett. Festa della Beatissima Vergine Addolorata. 1823.). {{V. la pag. seg. [p. 3491,3].}}

[3497,1]  Le speranze che dà all'uomo il Cristianesimo sono pur troppo poco atte a consolare l'infelice e il travagliato in questo mondo, a dar riposo all'animo di chi si trova impediti quaggiù i suoi desiderii, ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l'adito ai piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla fortuna. La {promessa e l'aspettativa} {di} una felicità grandissima e somma ed intiera bensì, ma 1.o che l'uomo non può comprendere nè immaginare nè pur concepire o congetturare in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione, 2.o ch'egli sa bene di non poter mai nè concepire nè immaginare nè averne veruna idea finchè gli durerà questa vita, 3.o ch'egli sa espressamente esser di natura affatto diversa ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da quella che quaggiù gli è negata, da quella il cui desiderio e la cui privazione forma il soggetto e la causa della sua infelicità; una tal promessa, dico, e una tale  3498 espettativa è ben poco atta a consolare in questa vita l'infelice e lo sfortunato, a placare {e sospendere} i suoi desiderii, a compensare quaggiù le sue privazioni. La felicità che l'uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di questa vita e di questa esistenza, non di un'altra vita e di una esistenza che noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la perfezione e il fine dell'esistenza. Noi desideriamo di esser felici perocchè esistiamo. Così chiunque vive. È chiaro adunque che noi desideriamo di esser felici, non comunque si voglia, ma felici secondo il modo nel quale infatti esistiamo. {#1. L'uomo non desidera la felicità assolutamente, ma la felicità umana (così gli altri animali), nè la felicità qualch'ella sia, ma una tale, benchè non definibile, felicità. Ei la desidera somma e infinita, ma nel suo genere, non infinita in questo senso ch'ella comprenda la felicità del bue, della pianta, dell'Angelo e tutti i generi di felicità ad uno ad uno. Infinita è realmente la sola felicità di Dio. Quanto all'infinità, l'uomo desidera una felicità come la divina, ma quanto all'altre qualità ed al genere di essa felicità, l'uomo non potrebbe già veramente desiderare la felicità di Dio. L'uomo che invidia al suo simile un vestito, una vivanda, un palagio, non è propriamente mai tocco nè da invidia nè da desiderio dell'immensa e piena felicità di Dio, se non solo in quanto immensa, e più in quanto piena e perfetta. Veggasi la p. 3509. massime in margine.} È chiaro che la nostra esistenza desidera la perfezione e il fin suo, non già di un'altra esistenza, e questa a lei inconcepibile. La nostra esistenza desidera dunque la sua propria felicità; chè desiderando quella di un'altra esistenza, ancorch'ella in questa s'avesse poi a tramutare, desidererebbe, si può dire, una felicità non propria ma altrui,  3499 ed avrebbe per ultimo e vero fine non se stessa, ma altrui, il che è essenzialmente impossibile a qualsivoglia Essere in qualsivoglia operazione o inclinazione o pensiero ec. Laonde la felicità che l'uomo desidera è necessariamente una felicità conveniente e propria al suo presente modo di esistere, e della quale sia capace la sua presente esistenza. Nè egli può mai lasciare di desiderar questa felicità per niuna ragione, nè per niuna ragione può mai desiderare altra felicità che questa. E non è più possibile che l'uomo mortale desideri veramente la felicità de' Beati, di quello che il cavallo la felicità dell'uomo, o la pianta quella dell'animale; di quel che l'animale erbivoro invidii al carnivoro o la sua natura, o la carne di cui lo vegga cibarsi, all'uomo il piacere degli studi e delle cognizioni, piacere che l'animale non può concepire nè che possa esser piacere, nè come, nè qual piacere sia; e così discorrendo. E ben vero che nè l'uomo, nè forse l'animale nè verun altro essere, può esattamente definire {+nè a se stesso nè agli altri,} qual sia assolutamente e in generale la felicità ch'ei desidera; perocchè  3500 niuno forse l'ha mai provata, nè proveralla, e perchè infiniti altri nostri concetti, ancorchè ordinarissimi e giornalieri, sono per noi indefinibili. Massime quelli che tengono più della sensazione che dell'idea; che nascono più dall'inclinazione e dall'appetito, che dall'intelletto, dalla ragione, dalla scienza; che sono più materiali che spirituali. Le idee sono per lo più definibili, ma i sentimenti quasi mai; quelle si possono bene e chiaramente e distintamente comprendere ed abbracciare e precisar col pensiero, questi assai di rado o non mai. Ma ciò non ostante, sì l'animale che l'uomo sa bene e comprende, o certo sente, che la felicità ch'ei desidera è cosa terrena. Quell'infinito medesimo a cui tende il nostro spirito (e in qual modo e perchè, s'è dichiarato altrove pp. 165. sgg. pp. 179-81 pp. 3027-29), quel medesimo è un infinito terreno, bench'ei non possa aver luogo quaggiù, altro che confusamente nell'immaginazione e nel pensiero, o nel semplice desiderio ed appetito de' viventi. Oltre di ciò niuno è che viva senz'alcun desiderio determinato e chiaro e definibilissimo, negativo o positivo, nel conseguimento  3501 del quale o di più d'uno di loro, ei ripone sempre o espressamente o confusamente, benchè pur sempre per errore, la sua felicità e 'l suo ben essere. Quel trovarsi senz'alcun desiderio al mondo, se non quello di un non so che, {#1. quell'essere infelice senza mancare di niun bene nè patire assolutamente niun male,} è impossibile; e se Augusto diceva d'essere in questo caso, poteva parergli che così fosse, ma s'ingannava; e niuno mai si trovò veramente in tal caso nè è per trovarvisi, perchè a niuno mai mancò nè è per mancar materia di qualche desiderio determinato, più o men vivo, o ch'esso miri a cosa che ci manchi, o a cosa che noi abbiamo e ci dispiaccia. {#2. Anzi a nessuno è per mancar mai materia di molti e vivi desiderii determinati di questa specie.} Or tutti questi desiderii determinati che noi abbiamo, ed avremo sempre, e che non soddisfatti, ci fanno infelici, sono tutti di cose terrene. Promettere all'uomo, promettere all'infelice una felicità celeste, benchè intera e infinita, {e superiore senza paragone alla terrena, e a' piccoli beni ch'egli desidera,} si è come a un che si muor di fame e non può ottenere un tozzo di pane, preparargli un letto morbidissimo, o promettergli degli squisitissimi e beatissimi odori. Con questo divario che l'affamato concepirebbe pure il piacer che fosse per provare il suo odorato da quella sensazione,  3502 e questo piacere sarebbe della medesima natura di quello ch'ei desidera e non ottiene, cioè materiale e sensibile come l'altro. Non così possiamo dire de' piaceri celesti promessi a chi desidera e non ottiene i terreni, nel qual caso l'uomo si trova naturalmente e necessariamente sempre, e l'infelice massimamente, benchè tutti a rigore sono infelici, e lo sono perchè tutti e sempre si trovano nel detto caso. Ora i piaceri celesti, al contrario di ciò che s'è detto qui sopra, son di natura affatto diversi da quelli che noi desideriamo e non ottenghiamo, e non ottenendo siamo infelici; e questa lor natura non può da noi per verun modo mai essere conceputa. Onde segue che la consolazione che può derivare dallo sperarli, sia nulla in effetto; perchè a chi desidera una cosa si promette un'altra ch'è diversissima da quella; a chi è misero per un desiderio non soddisfatto, si promette di soddisfare un desiderio ch'ei non ha e non può per sua natura avere nè formare; a chi brama un piacer noto, e si duole di un male noto, si promette un piacere e un bene ch'ei non conosce nè può conoscere, {e} ch'ei non vede nè può vedere come sia per esser bene, {e} come possa piacergli;  3503 a chi è misero in questa vita, e desidera necessariamente la felicità di questa esistenza, ed altra esistenza non può concepire nè desiderarne la felicità, si promette la beatitudine di una tutt'altra esistenza e vita, di cui questo solo gli si dice, ch'ella è sommamente e totalmente e più ch'ei non può immaginare diversa dalla sua presente, e ch'ei non può figurarsi per niun conto qual ella sia. Come l'uomo non può nè collo intelletto nè colla immaginazione nè con veruna facoltà nè veruna sorta d'idee oltrepassare d'un sol punto la materia, e s'egli crede oltrepassarla, e concepire o avere un'idea qualunque di cosa non materiale, s'inganna del tutto; così egli non può col desiderio passare d'un sol punto i limiti della materia, nè desiderar bene alcuno che non sia di questa vita e di questa sorta di esistenza ch'ei prova; e s'ei crede desiderar cosa d'altra natura, s'inganna, e non la desidera, ma gli pare di desiderarla. Come dunque ei non può desiderar bene alcuno d'altra natura, così la promessa e la speranza di tali beni, non può per modo alcuno  3504 consolarlo realmente nè de' mali di questa vita nè della mancanza de' di lei beni, {+nè (quando e' non fosse infelice) rallegrarlo e dilettarlo e compiacerlo colla dolcezza dell'aspettativa, e intrattenerlo e contribuire quaggiù al suo contento.} Di più, l'uomo si pasce per verità e si sostiene e vive grandissima parte della sua vita, anzi pur tutta la vita sua, della speranza, ancorchè lontana, la qual è un piacere, ma come e perchè? Perchè l'uomo va immaginando e contemplando seco stesso {a parte} a parte il godimento ch'egli attende o spera, e prova diletto nel considerare e rappresentarsi il modo in che egli ne godrà, {+e le sue qualità e condizioni e circostanze,} anticipando ed {anzi} assaporando {effettivamente} colla immaginazione mille volte il piacer futuro. Ma questa contemplazione, questa rappresentazione, quest'anticipazione, questo gusto o assaggio, questo deliro o sogno che ci fa parere e ci rende infatti presente il piacer futuro, ancor più ch'ei nol sarà quando si troverà presente in effetto (se egli si troverà mai presente), come può aver luogo intorno a un piacere assolutamente inconcepibile, non solo nel più e nel meno, o nella specie, ma nel genere, di modo che le nostre idee non hanno alcun potere di abbracciarne o di avvicinarne nè pure una menoma parte? Come ci può per verun deliro {o veruno sforzo} dell'immaginazione {o dell'intelletto} parer presente  3505 quello a cui nè l'immaginazione nè l'intelletto non si possono {neppure} a grandissimo tratto avvicinare; quello che non è fatto nè per questa immaginazione nè per questo intelletto; quello ch'è di natura affatto diversa da ciò che l'immaginazione o l'intelletto può concepire o congetturare; quello che non sarebbe ciò ch'egli è, s'a noi fosse possibile pure il congetturarlo; quello che spetta a tutt'altra natura che la nostra presente? Come può per alcun modo o in alcuna parte entrar nella mente nostra {una tutt'}altra natura?

[3518,1]  Superiorità della natura sulla ragione, dell'assuefazione (ch'è seconda natura) sulla riflessione. - Mio timor panico d'ogni sorta di scoppi, non solo pericolosi, (come tuoni ec.), ma senz'ombra di pericolo (come spari festivi ec.); timore che stranamente e invincibilmente  3519 mi possedette non pur nella puerizia, ma nell'adolescenza, quando io era bene in grado di riflettere e di ragionare, e così faceva io infatti, ma indarno per liberarmi da quel timore, benchè ogni ragione mi dimostrasse ch'egli era tutto irragionevole. {Io non credeva che vi fosse pericolo, e sapeva che non v'era pericolo nè che temere; ma io temeva niente manco che se io avessi saputo e creduto e riflettuto il contrario. (puoi vedere la p. 3529.).} Non potè nè la ragione nè la riflessione liberarmi di quel timore irragionevolissimo, perch'esso m'era cagionato dalla natura. Nè io certo era de' più stupidi e irriflessivi, nè di quelli che men vivono secondo ragione, e meno ne sentono la forza, e son meno usi di ragionare, e seguono più ciecamente l'istinto o le disposizioni naturali. Or quello che non potè per niun modo la ragione nè la riflessione contro la natura, lo potè in me la natura stessa e l'assuefazione; e il potè contro la ragione medesima e contro la riflessione. Perocchè coll'andar del tempo, anzi dentro un breve spazio, essendo io stato forzato in certa occasione a sentire assai da vicino e frequentemente di tali scoppi, perdei quell'ostinatissimo e innato timore in modo, che non solo trovava piacere in quello  3520 che per l'addietro m'era stato sempre di grandissimo odio e spavento senza ragione, ma lasciai pur di temere e presi anche ad amare nel genere stesso quel che ragionevolmente sarebbe da esser temuto; nè la ragione o la riflessione che già non poterono liberarmi dal timor naturale, poterono poscia, nè possono tuttavia, farmi temere o solamente non amare, quello che per natura o assuefazione, irragionevolmente, io amo e non temo. {#1. Nè io son pur, come ho detto, de' più irriflessivi, nè manco di riflettere ancora in questo proposito all'occasione, ma indarno per concepire un timore che non mi è più naturale.} Questo ch'io dico di me, so certo essere accaduto e accadere in mille altri tuttogiorno, o quanto all'una delle due parti solamente, o quanto ad ambedue. - Quello che non può in niun modo la riflessione, può {{e fa}} l'irriflessione. (25. Sett. 1823.). {{V. p. 3908.}}

[3526,1]  Sopravvenendo il pericolo, ridere, diventare allegro fuor dell'uso, o più che il momento prima non si era, o di malinconico farsi giulivo; divenir loquace essendo taciturno {di natura,} o rompere il silenzio fino allora per qualunque ragione tenuto; scherzare, saltare, cantare, e simili cose, non sono già segni di coraggio, come si stimano, ma per lo contrario son segni di timore. Perciocchè dimostrano che l'uomo ha bisogno di distrarsi dall'idea del pericolo, e particolarmente di scacciarla col darsi ad intendere ch'e' non sia pericolo, o non sia grave. E questo è ciò  3527 che l'uomo proccura di fare dando segni straordinarii d'allegrezza in tali occasioni; ingannar se stesso dimostrandosi di non aver nulla a temere, perocch'ei fa cose contrarie a quelle che il timore propriamente e immediatamente {suol} cagionare. Affine di non temere, l'uomo proccura di persuadersi ch'ei non teme, ond'ei possa dedurre che non v'è ragion sufficiente o necessaria di timore. Egli è un effetto molto ordinario di questa passione il muover l'uomo a cose contrarie a quelle {a} che immediatamente ella il moverebbe, ma e quelle e queste sono ugualmente effetti di vero timore. E quelle sono in gran parte, o sotto un certo aspetto, finte; queste veraci. Il timore muove l'uomo a far quasi una pantomima appresso se stesso. Per questo nelle solitudini e fra le tenebre e in luoghi, cammini, occasioni pericolose o che tali paiono, è uso naturale dell'uomo il cantare, non tanto ad effetto di figurarsi e fingersi una compagnia, o di farsi compagnia (come si dice) da se stesso; quanto perchè il cantare par proprio onninamente di chi non teme: appunto perciò chi teme, canta. (Vedi a tal  3528 proposito un luogo molto opportuno del Magalotti segnato da me nelle prime carte di questi pensieri, sul principio, se non erro, del 1819. p. 43). Dai medesimi principii (più che dal bisogno di distrazione) nasce che in un pericolo comune o creduto tale, e vero o immaginario assolutamente, piace, conforta, rallegra l'udire il canto degli altri, il vedergli intenti alle lor solite operazioni, l'accorgersi o il credere ch'essi o non istimino che vi sia pericolo, o nulla per sua cagione tralascino o mutino del loro ordinario, e di quello che infino allora facevano o che, senza il pericolo, avrebbero fatto; o che non lo temano, e sieno intrepidi ec. Il coraggio veduto o creduto negli altri, o l'opinione che non vi sia pericolo, veduta o creduta in essi, incoraggisce l'individuo che teme. Nello stesso modo il mostrar di non temere a se stesso è un farsi coraggio, o col persuadersi che non vi sia pericolo, o col dare a se stesso in se stesso un esempio di coraggio e di non temere questo pericolo, ancorchè vi sia. Or chi ha bisogno che gli sia fatto coraggio e di aver nello stesso pericolo esempi di coraggio, e altrimenti teme, non  3529 è certamente coraggioso, o in tale occasione non ha coraggio. E chi ha bisogno per non temere, di credere che non vi sia pericolo, cioè ragion di temere, o di sminuirsi l'opinion del pericolo, {e} di credere che questo pericolo, questa ragione sia piccola, o minore e più leggera ch'ella non è, ed altrimenti teme; non è coraggioso, perchè niun teme quello ch'ei non crede da temersi, e niun teme fuori dell'opinion del pericolo, vera o falsa, o ancor menoma ch'ella sia, {+o non ragionata, ma quasi istinto e passione} (come quella di cui vedi la p. 3518-20. e massime 3519. marg.)

[3553,2]  Ho notato altrove p. 108 che la debolezza per se stessa è cosa amabile, quando non ripugni alla natura del subbietto in ch'ella si trova, o piuttosto al modo in che noi siamo soliti di vedere e considerare la rispettiva specie di subbietti; o ripugnando, non distrugga però la sostanza d'essa natura, e non ripugni più che tanto:  3554 insomma quando o convenga al subbietto, secondo l'idea che noi della perfezione di questo ci formiamo, e concordi colle {altre} qualità d'esso subbietto, secondo la stessa idea {+(come ne' fanciulli e nelle donne);} o non convenendo, nè concordando, non distrugga però l'aspetto della convenienza nella nostra idea, ma resti dentro i termini di quella sconvenienza che si chiama grazia (secondo la mia teoria della grazia), come può esser negli uomini, o nelle donne in caso ch'ecceda la proporzione ordinaria, ec. Ora l'esser la debolezza per se stessa, e s'altro fuor di lei non si oppone, naturalmente amabile, è una squisita provvidenza della natura, la quale avendo posto in ciascuna creatura l'amor proprio in cima d'ogni altra disposizione, ed essendo, come altrove ho mostrato pp. 872. sgg. , una necessaria e propria conseguenza dell'amor proprio in ciascuna creatura l'odio dell'altre, ne seguirebbe che le creature deboli fossero troppo sovente la vittima delle forti. Ma la debolezza essendo naturalmente amabile e dilettevole altrui per se stessa, fa che altri ami il subbietto in ch'ella si trova, e l'ami per amor proprio, cioè perchè da esso riceve diletto. {La debolezza ordinariamente piace ed è amabile e bella nel bello. Nondimeno può piacere ed esser bella ed amabile anche nel brutto, non in quanto nel brutto, ma in quanto debolezza, (e talor lo è) purch'essa medesima non sia {la} cagione della bruttezza nè in tutto nè in parte.} Senza ciò i fanciulli,  3555 massime dove non vi fossero leggi sociali che tenessero a freno il naturale egoismo degl'individui, sarebbero tuttogiorno écrasés dagli adulti, le donne dagli uomini, e così discorrendo. Laddove anche il selvaggio mirando un fanciullo prova un certo piacere, e {quindi} un certo amore; e così l'uomo civile non ha bisogno delle leggi per contenersi di por le mani addosso a un fanciullo, benchè i fanciulli sieno per natura esigenti ed incomodi, ed in quanto sono (altresì per natura) apertissimamente egoisti, offendano l'egoismo degli altri più che non fanno gli adulti, e quindi siano per questa parte naturalmente odiosissimi (sì a coetanei, sì agli altri). Ma il fanciullo è difeso {per se stesso} dall'aspetto della sua debolezza, che reca un certo piacere a mirarla, e quindi ispira naturalmente (parlando in genere) un certo amore verso di lui, perchè l'amor proprio degli altri trova in lui del piacere. E ciò, non ostante che la stessa sua debolezza, rendendolo assai bisognoso degli altri, sia cagione essa medesima di noia e di pena agli altri, che debbono provvedere in qualche modo a' suoi bisogni, e lo renda per natura molto esigente ec. Similmente discorrasi  3556 delle donne, nelle quali indipendentemente dall'altre qualità, la stessa debolezza è amabile perchè reca piacere ec. Così di certi animaletti o animali (come la pecora, {i cagnuolini, gli agnelli,} gli uccellini ec. ec.) in cui l'aspetto della lor debolezza rispettivamente a noi, in luogo d'invitarci ad opprimerli, ci porta a risparmiarli, a curarli, ad amarli, perchè ci riesce piacevole. {ec.} E si può osservare che tale ella riesce anche ad altri animali di specie diversa, che perciò gli risparmiano e mostrano talora di compiacersene e di amarli ec. Così i piccoli degli animali non deboli quando son maturi, sono risparmiati ec. dagli animali maturi della stessa specie (ancorchè non sieno lor genitori), ed eziandio d'altre specie (eccetto se non ci hanno qualche nimicizia naturale, o se per natura non sono portati a farsene cibo ec.); ed apparisce in essi animali una certa o amorevolezza o compiacenza verso questi piccoli. Similmente negli uomini verso i piccoli degli animali che cresciuti non son deboli. E di questa compiacenza non n'è solamente cagione la piccolezza per se (ch'è sorgente di grazia, come ho detto altrove), p. 200 pp. 1880-81 {#1. nè la sola sveltezza che in questi piccoli suole apparire (siccome ancora nelle specie piccole di animali) e che è cagion di piacere per la vitalità che manifesta e la vivacità ec. secondo il detto altrove p. 221 pp. 1716-17 p. 1999 pp. 2336-37 da me sull'amor della vita, onde segue quello del vivo ec.} ma v'ha la  3557 sua parte eziandio la debolezza. (29-30. Sett. 1823.). {{V. p. 3765.}}

[3604,1]  Richiedendosi necessariamente, come s'è mostrato, al poeta epico (e similmente al drammatico, al romanziere ec. ed anche allo storico) ch'egli renda in alcun modo, qualunque siasi, amabile colui ch'e' voglia rendere interessante, e grandemente amabile, colui ch'abbia ad essere sommamente interessante; è da considerare che a tal effetto giova grandissimamente la sventura, la quale accresce a più doppi l'amabilità ove la trova, e rende spesse volte amabile chi non lo è, ancorchè sia meritevole delle disgrazie; molto più quando e' ne sia immeritevole. L'uomo poi amabilissimo, che sia indegnamente sventuratissimo, è la più amabil cosa che possa concepirsi.  3605 L'uomo amabile e sventurato meritatamente, è sempre molto più caro e compatito e interessante, che il non amabile e immeritatamente sventurato, il quale può non esser nulla compatito e nulla interessare (e così spessisimo accade), quando eziandio le sue sventure sieno estreme, e quelle dell'altro menome, nel qual caso ancora, colui non può mancare d'esser compatito e riuscir più amabile dell'ordinario. Ma non entriamo in tante sottigliezze e distinzioni. La infelicità nel principal Eroe dell'impresa ch'è il {proprio} soggetto del poema, non può aver luogo, se non come accidentale, e risolvendosi all'ultimo in felicità, secondo che a suo luogo ho spiegato e mostrato pp. 3097. sgg. Per tanto queste osservazioni confermano grandemente il mio discorso sulla necessità di raddoppiar l'interesse nel poema epico, a voler ch'esso poema riesca sommamente interessante e produca grandissimo effetto; e giustificano ed esaltano il fatto di Omero nell'iliade. Perocchè non dandosi sommo interesse senza somma amabilità, e la sventura essendo principalissima  3606 fonte di amabilità, e quasi perfezione e sommità di essa, e non potendo una grandissima e piena e finale infelicità aver luogo nell'eroe dell'impresa, resta che sia bisogno, a far che il poema sia sommamente interessante, duplicarne formalmente l'interesse, e diversificar l'uno interesse dall'altro, introducendo un altro eroe sommamente amabile, e sommamente sventurato, dalla cui finale sventura sia prodotto {#1. e intorno ad essa si aggiri, e ad essa sempre tenda e sia spinto, e in vista di essa per tutto il poema sia proccurato,} questo secondo interesse di cui parliamo, il quale renda il poema sommamente interessante e capace di lasciar l'interesse nell'animo de' lettori per buono spazio dopo la lettura ec. Questo è ciò che fece Omero nell'iliade, nella quale Ettore è per le sue proprie qualità ed azioni, e per la sua somma, piena e finale sventura, sommamente amabile, e quindi sommamente interessante. Quanto ad Achille, ch'è l'altro protagonista, e l'Eroe dell'impresa (così lo chiameremo per esser brevi), Omero non potea farlo sfortunato e infelice, massime considerando la natura e le opinioni di quei tempi, che riponeano il sommo pregio degli uomini nella fortuna, ed anche ragionando (nel modo che altrove ho  3607 detto pp. 3097. sgg. pp. 3342-43), dalla fortuna o buona o ria argomentavano o la malvagità o la bontà, o il merito o il demerito di ciascuno, non istimando che nè la sventura nè la buona sorte potesse toccare agl'immeritevoli. Pur quanto gli fu possibile, Omero non mancò di cercar di conciliare ad Achille, cogli altri affetti i più favorevoli, anche l'affetto dolcissimo della pietà, madre o mantice dell'amore. Ciò non solo coll'accidentale sventura della morte del suo amico Patroclo e con altre tali, ma col mostrare eziandio, come in lontananza, la finale sventura e l'infelice destino del bravo Achille, che per immutabile decreto del fato aveva a morire nel più bel fiore degli anni, {{e questo in}} prezzo della sua gloria, ch'egli scientemente {e liberamente aveva scelta e preposta,} insieme con una morte immatura, a una vita lunga e senza onore. Tratto sublime che perfeziona il poetico e l'epico del carattere di Achille, e della sua virtù, coraggio, grandezza d'animo, ec. e che finisce di renderlo un personaggio sommamente amabile e interessante.

[3607,1]  Il carattere di Enea partecipa molto de' difetti di quel di Goffredo. Egli ha più fuoco, ma e'  3608 non lascia però di essere alquanto freddo (e un carattere freddo sì nella vita sì ne' poemi lascia freddo e senza interesse il lettore, o chi ha qualunque relazione reale con esso lui, o di lui ode o pensa); egli ha o mostra più coraggio personale e valor di mano, ma queste qualità ci appariscono in lui come secondarie, e poco spiccano, e tale si è l'intenzion di Virgilio, il quale volle che ad esse nel suo Eroe prevalessero altre qualità, che non molto conducono, o piuttosto nuocono all'essere amabile. La pazienza in lui è simile a quella di Ulisse. La prudenza e il senno soverchiano ed offuscano le altre sue doti, non quanto in Goffredo, ma tuttavia troppo risaltano, e troppo sono superiori all'altre sue qualità, e troppo è maggiore la parte ch'esse hanno. Troppa virtù morale, poca forza di passione, troppa ragionevolezza, troppa rettitudine, troppo equilibrio e tranquillità d'animo, troppa placidezza, troppa benignità, troppa bontà. Virgilio descrive divinamente l'amor di Didone per lui: da questo, e quasi da questo solo, ci accorgiamo ch'egli è ancor giovane e bello; e sebben questo in lui non ripugna alla  3609 natura e al verisimile naturale, come in Ulisse, pur tanta è la serietà dell'idea che Virgilio ci fa concepir del suo Eroe, che la gioventù e la bellezza ci paiono in lui fuor di luogo, e quasi ci giungono nuove e ci fanno meraviglia (la meraviglia poetica non dev'esser certo di questo genere), e quasi non ce ne persuadiamo, benchè sieno naturalissime; o per lo meno vi passiamo sopra, senza valutarle, senza fermarci il pensiero, senza formarne l'immagine, senza considerarli come pregi notabili di Enea, perchè Virgilio avrebbe creduto quasi far torto al suo eroe ed a se stesso, s'egli ce gli avesse rappresentati come pregi veramente importanti e degni di considerazione, e notabili in lui fra le altre doti. E così mentre Virgilio si ferma e si compiace in descrivere la passion di Didone e i suoi vari accidenti, progressi, andamenti, ed effetti; dà bene ad intendere ch'ella non era senza corrispondenza, e nella grotta, come ognun sa quel che Didone patisse, così niun si può nascondere quello ch'Enea facesse; ma Virgilio a riguardo d'Enea e della sua passione  3610 parla così coperto, anzi dissimulato, (dico della passione, e non di ciò che ne segue d'inonesto a descrivere, nel che giustamente egli è copertissimo anche rispetto a Didone), anzi serba quasi un così alto silenzio, che e' non mostra essa passione se non indirettamente e per accidente, e in quanto ella si congettura e si lascia supporre per necessità da quel ch'ei narra di Didone, e sempre volgendosi alla sola Didone. E par che volentieri, se si fosse potuto, egli avrebbe fatto che il lettore non istimasse Enea per niun modo tocco dalla passion dell'amore (di donna pur sì alta e sì degna e sì magnanima e sì bella e sì amante e tenera), e giudicasse che Didone avesse ottenuto il piacer suo, senza che quegli avesse conceduto. E chi potesse così stimare seconderebbe il desiderio di Virgilio. Tanto egli ebbe a schivo di far comparire nel suo Eroe {un errore,} una debolezza, laddove non v'è cosa più amabile che la debolezza nella forza, nè cosa meno amabile che un carattere e una persona senza debolezza veruna. E tanto egli giudicò che dovesse nuocere  3611 appo i lettori alla stima non solo, ma all'interesse pel suo Eroe (che mal ei confuse colla stima), il concepirlo e il vederlo capace di passione, capace di amore, tenero, sensibile, di cuore. Come se potesse interessare il cuore chi non mostra, o dissimula a tutto potere, di averlo, o di averlo capace della più dolce, più cara, più umana, più potente, più universale delle passioni, che si fa pur luogo in chiunque ha cuore, e maggiormente in chi l'ha più magnanimo, e similmente ancora ne' più gagliardi ed esercitati di corpo, e ne' più guerrieri (v. Aristot. Polit. l. 2. ed Flor. 1576. p. 142.); e che {sovente} rende ancora amabili chi la prova, eziandio agl'indifferenti, al contrario di quel che fanno molte altre passioni per se stesse. Il giudizio del Tasso, rispetto a Rinaldo, fu in questa parte migliore assai di quel di Virgilio. Egli non si fece coscienza di mostrare Rinaldo soggetto alle passioni, alle debolezze e agli errori umani e giovanili. Egli non dissimula i suoi amori descrivendo quelli di Armida per lui, ma si ferma e si compiace in descrivergli anch'essi direttamente. Egli non ha neppure riguardo di farlo  3612 assolutamente reo di un grave, benchè perdonabile misfatto cagionato da una passione propria e degna dell'uomo, e quasi richiesta al giovane, e più al giovane d'animo nobile, e pronto di cuore e di mano, dico dall'ira mossa dalle contumelie. Passione, che, massime colle dette circostanze, suol essere amabilissima, malgrado i tristi effetti ch'ella può produrre, e malgrado ch'ella soglia altresì essere biasimata (perocchè altro è il biasimare altro l'odiare), e che i filosofi o gli educatori prescrivano di svellerla dall'animo o di frenarla. E certo in un giovane, {e quasi anche generalmente,} ella è molto più amabile che la pazienza. E ciò si vede tuttodì nella vita. Però il carattere di Rinaldo è molto più simile ad Achille, e molto più poetico, amabile e interessante che quello di Enea. O si può, se non altro, dire con verità che Rinaldo è tanto più amabile di Enea, quanto Enea di Goffredo. Del resto Enea ha passato e passa molte sciagure prima di giungere a stato felice. Ma la compassione ch'elle cagionano non è grande, perch'ella cade sopra un soggetto che il poeta ha creduto di dover fare più  3613 stimabile che amabile; e perchè in oltre non si compatisce molto colui che nella sciagura e nel male mostra quasi di non soffrire.

[3909,2]  Alla p. 3310. Quanto influisca sempre l'immaginazione, l'opinione, la prevenzione ec. sull'amore anche corporale, sui sentimenti che un uomo prova in particolare verso una donna, o una donna verso un uomo, è cosa notissima. E in particolare ha forza sull'amore, non solo platonico o sentimentale, ma eziandio corporale verso gl'individui particolari, tutto ciò che ha del misterioso, e che serve a rendere poco noto all'amante l'oggetto del suo amore, e quindi a dar campo alla sua immaginazione di fabbricare, per dir così, intorno ad esso oggetto. Perciò moltissimo contribuisce all'amore e al desiderio anche corporale, tutto ciò che ha relazione ai pregi {+o alle qualità comunque amabili} dell'animo nell'oggetto amabile, e in particolare un certo carattere profondo, malinconico, sentimentale, o un mostrar di rinchiudere in se più che non apparisce di fuori. Perocchè l'animo e le sue qualità, e massimamente queste che ho specificate, son cose occulte, ed ignote all'altre persone, e dan luogo in queste all'immaginare, ai concetti vaghi e indeterminati; i quali concetti e le quali immaginazioni congiungendosi al natural desiderio che porta l'individuo dell'un sesso verso quello dell'altro, danno un infinito risalto a questo desiderio, accrescono strabocchevolmente  3910 il piacere che si prova nel soddisfarlo; le idee misteriose e naturalmente indeterminate, che hanno relazione all'animo dell'oggetto amato, che nascono dalle qualità e parti apparenti del suo spirito, e massime se da qualità che abbiano del profondo e del nascosto e dell'incerto, e che promettano o dimostrino {+altre lor parti o} altre qualità occulte ed amabili ec., queste idee dico, congiungendosi alle idee chiare e determinate che hanno relazione al materiale dell'oggetto amato, e comunicando loro del misterioso e del vago, le rendono infinitamente più belle, e il corpo della persona amata o amabile, infinitamente più amabile, pregiato, desiderabile; e caro quando si ottenga.

[4010,3]  Avvi due sorte di coraggio ben contrarie fra loro. L'una che dirittamente e propriamente nasce dalla riflessione, l'altra dall'irriflessione. Quello è sempre e malgrado qualunque sforzo, debole, incerto, breve e da farci poco fondamento sì dagli altri, sì da quello in cui esso si trova ec. (10. Gen. 1824.).

[4014,1]   4014 Tacendo Un gran piacer * (cioè, s'egli è taciuto), non è piacer intero. * Machiavelli Asino d'oro, Capitolo 4. verso 86-7. (14. Gen. 1824.)

[4024,5]  Gli uomini di natura, costume, o circostanza ed occasione, allegri, sono generalmente disposti a far servigio o beneficio, e compatire,  4025 e i malinconici in contrario, o certo meno. Di ciò equivalentemente ho detto altrove molto a lungo pp. 69-70 p. 255. (31. Gen. 1824.).

[4037,6]  Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel conversare, e massime gli sprezzanti avessero più amor proprio degli altri e più stima di se, e i timidi meno. Tutto al contrario. I timidi per eccesso di amor proprio e per il troppo conto che fanno di se, temendo sempre di sfigurare e perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di acquistarla e di figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del proprio onore, del proprio concetto, del proprio amore, e occupati e legati da questo pensiero, sono senza coraggio, e non si ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti fanno al contrario  4038 per la contraria cagione, cioè per aver poca cura e poco concetto concetto di se, o desiderio della stima degli altri (che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura, o per abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano di offendere l'amor proprio degli altri, e n'hanno poca cura, per poco amor di se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille scrupoli e riguardi, e non impetrano mai da se stessi non che di lederlo menomamente, ma di porsene a rischio benchè leggero e lontano, e ciò per soverchio amor proprio, il quale parrebbe che dovesse principalmente offendere e muoverli ad offendere quello degli altri. E così per soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar dispregio degli altri, e infatti non gli spregiano, anzi gli stimano eccessivamente non per altro che per lo smisurato desiderio e conto che fanno della loro stima, anche conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema che hanno di perderla, eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per rispetto al merito di coloro. Tali sono ordinariamente i fanciulli e i giovani ancora inesperti e inesercitati nel commercio umano e nelle palestre dell'amor proprio, dov'esso riporta tanti colpi, che alla fine incallisce; e tali sono più o manco, per più o men lungo tempo, ed alcune per tutta la vita, le persone sensibili e immaginose, le quali restano {sovente} fanciulle anche in età matura, e vecchia, sì quanto a {molte} altre cose, sì quanto a questa della timidità {nel consorzio umano,} che in esse è sempre difficile a vincere più {assai} che negli altri, e in alcune è assolutamente invincibile, come {fu} in Rousseau. La cagione si è l'eccesso dell'amor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza dell'animo; ed insieme la vivacità della immaginazione, la quale non mai veramente spenta {in loro,} nè anche quando pare affatto agghiacciata, e quando effettivamente ha cessato affatto di partorire alcun piacere all'individuo medesimo, continuamente,  4039 secondo la sua natura, va fingendo ad esso amor proprio che è per se vivissimo, mille falsi pericoli e difficoltà, o smisuratamente accrescendo e moltiplicando i veri. Sì, Rousseau e gli altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da un'invincibile e irrepugnabile timidità, anzi mauvaise honte ed erubescenza, non furono e non son tali se non per eccesso di amor proprio e d'immaginazione. Altro danno e infelicità somma della soprabbondanza della vita interna dell'anima (oltre i tanti da me altrove notati p. 1382 p. 1584 pp. 2410-14 pp. 2629-30 pp. 2736-39 p. 2861 pp. 3921. sgg.), della sensibilità, della squisitezza dell'ingegno, della natura riflessiva, immaginosa ec. Poichè in essa l'amor proprio essendo eccessivo e però tanto più bisognoso di successi, e desiderando la stima altrui e temendo la disistima molto più che gli altri non fanno, e impedito di conseguire e costretto ad incontrare quelli che gli altri con molto minor desiderio e bisogno conseguono facilissimamente ogni dì, ed evitano con molto minor tema, e che quando nol conseguissero o non lo evitassero, ne sarebbero molto meno afflitti e infelicitati, per la minore vivacità {e sensibilità} dell'amor proprio, ed anche della immaginazione, la quale a quegli altri accresce eziandio per se stessa e con mille false esagerazioni e finzioni la grandezza delle perdite fatte, di quello che essi desiderano naturalmente di conseguire, di quello che non ottengono, dei mali successi incontrati nella società, delle ἀσχημοσύναι, che anche bene spesso non son vere affatto, ma fabbricate di pianta dall'immaginazione, e non esistono se non nell'idea di questi tali, e così anche i buoni successi o gli oggetti che essi si propongono di conseguire che spessissimo sono vani e immaginari, e da niuno ottenuti nè possibili ad ottenere ec. ec. (1. Marzo. penultimo dì di Carnevale. 1824.) Ciò che ho detto dell'immaginazione, dico  4040 dell'amor proprio, il quale in questi tali, anche quando sembra rotto e fiaccato dall'uso de' mali, {dispiaceri, punture ec.} anzi minore assai che non è negli altri, e quasi al tutto agghiacciato, addormentato e spento, è sempre in verità vivissimo assai più che negli altri anche giovani e principianti, caldissimo, e {ancora} in istato da esser chiamato tenerezza di se stesso (come suol essere nella gioventù) benchè sia in loro più {negativo che} positivo, più atto a impedire che a cagionare, piuttosto causa di passione che d'azione ec. quale egli è proporzianatamente[proporzionatamente] anche ne' primi anni di questi tali. (3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri. 1824.).

[4103,6]  Il est aisé de voir la prodigieuse révolution que cette époque * (celle du Christianisme) dut produire dans les mœurs. Les femmes, presque toutes d'une imagination vive et d'une ame ardente, se livrèrent à des vertus qui les flattoient d'autant plus, qu'elles étoient pénibles. Il est presque égal pour le bonheur de satisfaire de grandes passions, ou de les vaincre. L'ame est heureuse par ses efforts; et pourvu qu'elle s'exerce, peu lui importe d'exercer son activité contre elle - même. * Thomas Essai sur les Femmes. Oeuvres, Amsterdam 1774. tome 4. p. 340. (24. Giugno. Festa di S. Giovanni Battista. 1824.).

[4105,2]  L'infelicità abituale, ed anche il solo essere abitualmente privo di piaceri e di cose che lusinghino l'amor proprio, estingue a lungo andare nell'anima la più squisita ogn'immaginazione, ogni virtù di sentimento, ogni vita ed attività e forza, e quasi ogni facoltà. La cagione è che una tale anima, dopo quella prima inutile disperazione, e contrasto feroce o doloroso colla necessità, finalmente riducendosi in istato tranquillo, non ha altro espediente per vivere, nè altro produce in lui la natura stessa ed il tempo, che un abito di tener continuamente represso e prostrato l'amor proprio, perchè l'infelicità offenda meno e sia tollerabile e compatibile colla calma. Quindi un'indifferenza e insensibilità verso se stesso maggior che è possibile. Or questa è una perfetta morte dell'animo e delle sue facoltà. L'uomo che non s'interessa a se stesso, non e capace d'interessarsi a nulla, perchè nulla può interessar l'uomo se non in relazione a se stesso, più o men vicina e palese, e di qualunque sorte ella sia. Le bellezze della  4106 natura, la musica, le poesie più belle, gli avvenimenti del mondo, felici o tragici, le sventure o le fortune altrui, anche dei suoi più stretti, non fanno in lui nessuna impressione viva, non lo risvegliano, non lo riscaldano, non gli destano immagine, sentimento, interesse alcuno, non gli danno nè piacere nè dolore, se bene pochi anni avanti lo empievano di entusiasmo e lo eccitavano a mille creazioni. Egli stupisce stupidamente della sua sterilità e della sua immobilità e freddezza. Egli è divenuto incapace di tutto, inutile a se e agli altri, di capacissimo ch'egli era. La vita è finita quando l'amor proprio ha perduto il suo ressort. Ogni potenza dell'anima si estingue colla speranza. Voglio dire colla disperazione placida, perchè la furiosa è pienissima di speranza, o almeno di desiderio, ed anela smaniosamente alla felicità nell'atto stesso che impugna il ferro o il veleno contro se medesimo. Ma il desiderio è più spento che sia possibile in un'anima avvezza a vederli sempre contrariati, e ridotta o per riflessione o per abito o per ambedue a sopirli e premerli. L'uomo che non desidera per se stesso e non ama se stesso non è buono agli altri. Tutti i piaceri, i dolori, i sentimenti e le azioni che gl'inspiravano le cose dette di sopra, cioè la natura e il resto, si riferivano in un modo o nell'altro a se stesso, e la loro vivezza consisteva in un ritorno vivo sopra se medesimo. Sacrificandosi ancora agli altri, non d'altronde egli ne aveva la forza se non da questo ritorno e rivolgimento sopra di se. Ora  4107 senz'alcuna ferocia, nè misantropia nè rancore nè risentimento, senza neppure egoismo, {+quell'anima già poco prima sì tenera} è insensibile alle lagrime, inaccessibile alla compassione. Si moverà anche a soccorrere, ma non a compatire. Beneficherà o sovverrà, ma per una fredda idea di dovere o piuttosto di costume, senza un sentimento che ve lo sproni, un piacere che gliene venga. La noncuranza vera e pacifica di se stesso è noncuranza di tutto, e quindi incapacità di tutto, ed annichilamento dell'anima la più grande e fertile per natura.

[4118,2]  Compassione nata dalla bellezza anche verso chi per molti capi non la merita, perpetuata anche nella posterità che si stima esser sempre un giudice giusto. Vedi Thomas loc. cit. qui dietro, chapitre 26. p. 46-7. (26. Agos. 1824.).

[4194,1]  La condotta di Tiberio nell'impero, da principio non pur affabile, benigna, moderata, ma eziandio umile; insomma più che civilis (v. Sueton. Tiber. c. 24-33), le sue difficoltà di accettar l'impero ec. paragonate colla seguente condotta tirannica, si attribuiscono a profonda politica, dissimulazione e simulazione. Io non vi so veder niente di finto, nè di artifiziale. Tiberio era certamente, a differenza di Cesare, di natura timida. A differenza poi e di Cesare che fin da giovanetto andò continuamente elevandosi, ed abituando successivamente l'animo e il carattere a grandezze sempre maggiori; e di Augusto che pure fin da giovanetto si vide alla testa degli affari; Tiberio, nato privato, vissuto la gioventù e l'età matura in sospetto di Augusto e de' costui parenti, ed anche in non piccolo pericolo (otto anni passò ritirato in Rodi per fuggirlo o scemarlo), non aveva l'animo nè il carattere formato al potere, quando la fortuna gliel pose in mano. Però nel principio fu modesto, anzi timido ed umile, anche dopo liberato da ogni timore, come dice espressamente Suetonio (c. 26.); {+v. p. 4197. capoverso 6.} nè qui v'era dissimulazione: io non ci veggo altro che un uomo avvezzo a soggiacere, avvezzo a temere ed evitar di offendere, che ridotto a soprastare, conserva ancora l'abito di tal timore e di tale evitamento. Egli lo perdè col tempo, e coll'esperienza continuata del suo potere, e della soggezione, anzi abbiezione, degli altri. Questo non è smascherarsi; questo è mutar carattere e natura, per mutazione di circostanze.  4195 Tiberio era certamente cattivo, perchè vile, e debole. {+V. p. 4197. capoverso 7.} Questo fu causa che il potere lo rendesse un tiranno, perchè la sua natura era tale che l'influenza del principato doveva farne un cattivo carattere di principe. Ma qui non ci entra simulazione. Io non sono mai stato nè principe nè cattivo. Pur disprezzato e soggetto sempre fino all'età quasi matura; vedutomi poi per le circostanze, uguale a molti e superiore ad alcuni; da principio benignissimo ed umile cogl'inferiori, sono poi divenuto verso loro un poco esigente, {un poco intollerante, φιλόνεικος, μεμψίμοιρος,} ed anche cogli uguali un poco chagrin, e più difficile a perdonare un'ingiuria, {una piccola mancanza,} più risentito, più facile a concepir qualche seme di avversione, {più desideroso, se non altro, di vendettucce,} ec. Se la mia natura fosse stata cattiva, io sarei divenuto tanto più insopportabile quanto più tardi sono pervenuto alla superiorità, ed in età men facile ad accostumarmici. Noi siamo tutti inclinati a suppor negli uomini antichi o moderni, assenti o presenti, noti o ignoti, e nelle loro azioni e condotta, una politica, un'arte, una simulazione quasi continua, e qualche fine occulto. Ma credete a me che v'è {al mondo} assai meno politica, assai meno finzione, assai meno tendenze occulte, meno intrighi, meno maneggi, meno arte, {e più di sincerità e di vero} che non si crede. 1. Gli uomini di talento (indispensabile fondamento a simil condotta) sono assai più rari che non si stima. 2. Anche gli uomini i più persuasi della necessità o utilità dell'arte nel consorzio umano, {e i più disposti ad essa per volontà,} non hanno la pazienza di usarla troppo spesso, di fingere, di nascondere e dissimulare troppo a lungo. 3. Condotte calcolate e dirette costantemente a qualche fine, sono più immaginarie che reali, perchè è natura di qualunque uomo d'essere incostante, ne' suoi gusti, desiderii, opinioni, in tutto; di esser contraddittorio  4196 ed incoerente nelle sue azioni, massime ec.; di operare contro i proprii principii; di operare contro i proprii interessi. ec. 4. Finalmente la natura per combattuta che sia, per quanto la vogliam credere abbattuta, può ancora, ed opera nel mondo, assai più che non si crede. Ora la natura è l'opposto dell'arte: la finzione tende a nasconder la natura, ma questa trapela ad ogni momento, in dispetto d'ogni massima, d'ogni volontà, d'ogni disciplina. (Bologna. 3. Sett. Domenica. 1826.). Del resto le atrocissime crudeltà usate scopertamente in seguito da Tiberio, e gran parte di queste senza nessuna utilità proposta, ma per solo piacere e soddisfazione del gusto e dell'animo suo, mostrano che l'anima di Tiberio era più vile che doppia per sua natura, e col regno era divenuta più malvagia che politica. (Bologna 4. Sett. 1826.).

[4229,4]  È naturale all'uomo, debole, misero, sottoposto a tanti pericoli, infortunii e timori, il supporre, il figurarsi, il fingere anco gratuitamente un senno, una sagacità e prudenza, un intendimento e discernimento, {una perspicacia, una esperienza} superiore alla propria, in qualche persona, alla quale poi mirando in ogni suo duro partito, si riconforta o si spaventa secondo che vede quella o lieta o trista, o sgomentata o coraggiosa, e sulla sua autorità si riposa senz'altra ragione; spessissimo eziandio, ne' più gravi pericoli e ne' più miseri casi, si consola e fa cuore, solo per la {buona speranza e} opinione, ancorchè manifestamente falsa o senza niuna apparente ragione, che egli vede o s'immagina essere in quella tal persona; o solo anco per una ciera lieta o ferma che egli vede in quella. Tali sono assai sovente i figliuoli, massime nella età tenera, verso i genitori. Tale sono stato io, anche in età ferma e matura, verso mio padre; che in ogni cattivo caso, o timore, sono stato solito per determinare, se non altro, il grado della mia afflizione o del timor mio proprio, di aspettar di vedere o di congetturare il suo, e l'opinione e il giudizio che  4230 egli portava della cosa; nè più nè meno come s'io fossi incapace di giudicarne; e vedendolo {o veramente o nell'apparenza} non turbato, mi sono ordinariamente riconfortato d'animo sopra modo, con una assolutamente cieca sommissione alla sua autorità, o fiducia nella sua provvidenza. E trovandomi lontano da lui, ho sperimentato frequentissime volte un sensibile, benchè non riflettuto, desiderio di tal rifugio. Ed è cosa {mille volte} osservata {e veduta per prova} come gli uomini di guerra, anche esperimentatissimi e veterani, sogliano pendere nei pericoli, nei frangenti, nelle calamità della guerra, dalle opinioni, dalle parole, dagli atti, dal volto, di qualche lor capitano, eziandio giovane e immaturo, che si abbia guadagnato la lor confidenza; e secondo che veggono, o credono di veder fare a lui, sperare o temere, dolersi o consolarsi, pigliar animo o perdersi di coraggio. Onde suol tanto giovare nel Capitano la fermezza d'animo, e la dissimulazione del dolore o del timore nei casi ov'è sommamente da temere o dolersi. E questa qualità dell'uomo è ancor essa una delle cagioni per cui tanto universalmente e così volentieri si è abbracciata e tenuta, come ancor si tiene, la opinione di un Dio provvidente, cioè di un ente superiore a noi di senno e intelletto, il qual disponga ogni nostro caso, e indirizzi ogni nostro affare, e nella cui provvidenza possiamo riposarci dell'esito delie cose nostre. (9. Dic. Vigilia della Venuta della S. Casa di Loreto. 1826. Recanati.). La credenza di un ente senza misura più savio e più conoscente di noi, il quale dispone e conduce di continuo tutti gli avvenimenti, e tutti a fin di bene, eziandio quelli che hanno maggior sembianza di mali per noi, e che veglia sulla nostra sorte; e tutto ciò con ragioni e modi a noi sconosciuti, e che noi non possiamo in guisa alcuna scoprire nè intendere, di maniera che non dobbiamo darcene pensiero veruno; questa credenza è agli uomini universalmente, e massime ai deboli ed infelici, un conforto maggior d'ogni altro possibile: il qual conforto non da altro procede, nè consiste in altro, che un riposo, uno acquetamento, ed una confidenza  4231 cieca nell'autorità, nel senno, e nel provvedimento altrui. (9. Dic. 1826.).

[4255,6]  Dei nostri sommi poeti, due sono stati sfortunatissimi, Dante e il Tasso. Di ambedue abbiamo e visitiamo i sepolcri: fuori delle patrie loro ambedue. Ma io, che ho pianto sopra quello del Tasso, non ho sentito alcun moto di tenerezza a quello di Dante: e così credo che avvenga generalmente. E nondimeno non mancava in me, nè manca negli altri, un'altissima stima, anzi ammirazione, verso Dante; maggiore forse (e ragionevolmente) che verso l'altro. Di più, le sventure di quello furono senza dubbio reali e grandi; di questo appena siamo certi che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie: tanta è la scarsezza e l'oscurità delle notizie che abbiamo in questo particolare: tanto confuso, e pieno continuamente di contraddizioni, il modo di scriverne del medesimo Tasso. Ma noi veggiamo in Dante un uomo d'animo forte, d'animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; oltracciò un uomo che contrasta e combatte con essa, colla necessità col fato. Tanto più ammirabile certo, ma tanto meno amabile e commiserabile. Nel Tasso veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria, soccombente, atterrato, che ha ceduto all'avversità, che soffre continuamente e patisce oltre modo. Sieno ancora immaginarie  4256 e vane del tutto le sue calamità; la infelicità sua certamente è reale. Anzi senza fallo, se ben sia meno sfortunato di Dante, egli è molto più infelice. (Recanati. 14. Marzo. 1827.). {{(Si può applicare all'epopea, drammatica ec.)}}.

[4261,2]  Tutti siamo naturalmente inclinati a stimar noi medesimi uguali a chi ci è superiore, superiori agli uguali, maggiori di ogni comparazione cogl'inferiori; in somma ad innalzare il merito proprio sopra {quel degli altri fuor di modo e ragione.} Questo è natura universale, e vien da una sorgente comune a tutti. Ma un'altra sorgente d'orgoglio {e di disistima altrui,} sconosciuta affatto a noi; divenuta, per l'assuefazione incominciata sin dall'infanzia, naturale e propria; è ai Francesi e agl'Inglesi la stima della propria nazione. Tant'è: il più umano e ben educato e spregiudicato francese o inglese, non può mai far che trovandosi con forestieri, non si creda cordialmente e sinceramente di trovarsi con un inferiore a se (qualunque si sieno le altre circostanze); che non disprezzi più o meno le altre nazioni prese in grosso; e che in qualche modo, più o meno, non dimostri {esteriormente} questa sua opinione di superiorità. Questa è una molla, una fonte {ben distinta} di orgoglio, e di stima di se in pregiudizio o abbassamento d'altrui, della quale niun altro fra i popoli civili, se non gli uomini delle dette nazioni, possono avere o formarsi una giusta idea. I Tedeschi che potrebbero con altrettanto diritto aver lo stesso sentimento, ne sono impediti dalla lor divisione, dal non esserci nazion tedesca. I Russi sentono di esser mezzo barbari; gli Svedesi, i Danesi, gli Olandesi, di essere troppo piccoli, e di poter poco. Gli Spagnuoli del tempo di Carlo quinto e di Filippo secondo, ebbero certamente questo sentimento, come veggiamo dalle storie, niente meno che i francesi e gl'inglesi di oggidì, e con diritto uguale; forse, senza diritto alcuno, l'hanno anche oggi; e così i Portoghesi: ma chi pone oggi in conto gli Spagnuoli e i Portoghesi, parlando di popoli civili? Gl'italiani forse l'ebbero (e par veramente di sì) nei secoli 15.o e 16.o e parte del precedente e del susseguente; per conto della lor civiltà, che essi ben conoscevano, e gli altri riconoscevano, esser superiore a quella di tutto il resto d'europa. Degl'italiani d'oggi non parlo; non so ben se ve n'abbia.

[4272,2]  Un uomo disarmato, alle prese con una bestia di corporatura e di forze uguale a lui, {p. e. con un grosso cane,} difficilmente resterà superiore, verisimilmente sarà vinto. Per vincere, gli bisogna qualche arma, che diagli una forza non naturale, e una decisa superiorità. La ragione è perchè il cane vi adopra e vi mette tutto se stesso, fa ancor più del suo potere; dove che l'uomo riserva sempre una gran parte di se medesimo fuor di fazione, e fa sempre meno di quello che può. Il cane non guarda a pericolo, non considera, non usa prudenza. L'uomo al contrario, se non è disperato affatto, stato al quale egli arriva difficilmente, eziandio che abbia piena ragione di disperarsi. Egli si risparmia sempre, perchè sempre spera; e così risparmiandosi, non ottiene quello che la speranza gli promette, o non fugge quello che egli sperasi di fuggire; quello che, {se} non lo sperasse, otterrebbe o fuggirebbe. E che questa sia veramente la cagion di ciò, vedetelo in un fanciullo: il quale assai più facilmente che un uomo riuscirà pari o superiore in una zuffa con un animale di forze uguali alle sue; zuffa che egli medesimo talvolta attaccherà volontariamente. Il fanciullo, {e più il bambino,} adopra tutto se stesso, come una bestia, o poco meno. E per questo lato io non trovo niente d'inverisimile nella favola di Ercole bambino, strozzatore dei due serpenti. E la crederò vera più facilmente che quella del medesimo Ercole adulto, sbranatore del leone nemeo, senza altre armi che le sue braccia, come nell'altra battaglia, cioè in quella de' serpenti. (3. Aprile. 1827.).

[4277,1]   4277 Allegano in favore della immortalità dell'animo il consenso degli uomini. A me par di potere allegare questo medesimo consenso in contrario, e con tanto più di ragione, quanto che il sentimento ch'io sono per dire, è un effetto della sola natura, e non di opinioni e di raziocinii o {di} tradizioni; o vogliamo dire, è un puro sentimento e non è un'opinione. Se l'uomo è immortale, perchè i morti si piangono? Tutti sono spinti dalla natura a piangere la morte dei loro cari, e nel piangerli non hanno riguardo a se stessi, ma al morto; in nessun pianto ha men luogo l'egoismo che in questo. Coloro medesimi che dalla morte di alcuno ricevono qualche grandissimo danno, se non hanno altra cagione che questa di dolersi di quella morte, non piangono; se piangono, non pensano, non si ricordano punto di questo danno, mentre dura il lor pianto. Noi c'inteneriamo veramente sopra gli estinti. Noi naturalmente, e senza ragionare; avanti il ragionamento, e mal grado della ragione; gli stimiamo infelici, gli abbiamo per compassionevoli, tenghiamo per misero il loro caso, e la morte per una sciagura. Così gli antichi; presso i quali si teneva al tutto inumano il dir male dei morti, e l'offendere la memoria loro; e prescrivevano i saggi che i morti e gl'infelici non s'ingiuriassero, congiungendo i miseri e i morti come somiglianti: così i moderni; così tutti gli uomini: così sempre fu e sempre sarà. Ma perchè aver compassione ai morti, perchè stimarli infelici, se gli animi sono immortali? Chi piange un morto non è mosso già dal pensiero che questi si trovi in luogo e in istato di punizione: in tal caso non potrebbe piangerlo: l'odierebbe, perchè lo stimerebbe reo. Almeno quel dolore sarebbe misto di orrore {e di avversione}: e ciascun sa per esperienza che il dolor che si prova per morti, non è nè misto di orrore {o avversione,} nè proveniente da tal causa, nè di tal genere in modo alcuno. Da che vien dunque la compassione che abbiamo agli estinti se non dal credere, seguendo un sentimento intimo, e senza ragionare, che essi abbiano perduto la vita  4278 e l'essere; le quali cose, pur senza ragionare, e in dispetto della ragione, da noi si tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque noi non crediamo {naturalmente} all'immortalità dell'animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi; e che colui ch'è morto, non sia più.

[4280,1]  Il vedersi nello specchio, ed immaginare che v'abbia un'altra creatura simile a se, eccita negli animali un furore, una smania, un dolore estremo. Vedilo di una scimmia nel Racconto di Pougens, intitolato Joco, Nuovo Ricoglitore di Milano, Marzo 1827. p. 215-6. Ciò accade anche nei nostri bambini. V. Roberti Lettera di un bambino di 16 mesi. Amor grande datoci dalla natura verso i nostri simili!! (Recanati. 13. Apr. Venerdì santo. 1827.). {{ V. p. 4419.}}

[4284,1]  È ben trista quella età nella quale l'uomo sente di non ispirar più nulla. Il gran desiderio dell'uomo, il gran mobile de' suoi atti, delle sue parole, de' suoi sguardi, de' suoi contegni fino alla vecchiezza, è il desiderio d'inspirare, di communicar qualche cosa di se agli spettatori o uditori. (Firenze. 1. Luglio. 1827.).

[4285,5]  L'amore e la stima che un letterato porta alla letteratura, o uno scienziato alla sua scienza, sono il più delle volte in ragione inversa dell'amore e della stima che il letterato o lo scienziato porta a se stesso. (Firenze. 5. Luglio. 1827.).

[4286,6]  Memorie della mia vita. Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno o mesi o anni, m'avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantochè io non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io dimorava, alle vie, alle case che io frequentava; le quali rimembranze non consistevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva importante e dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e copia di ricordanze annesse ai luoghi abitati da me, io non poteva averla se non con successo di tempo, e col tempo non mi poteva mancare. Però io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi mesi, e coll'andar del tempo mi trovava  4287 sempre divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo. (Firenze. 23. Luglio. 1827.). {{Colla rimembranza, egli mi diveniva quasi il luogo natio.}}

[4287,1]  Veramente e perfettamente compassionevoli, non si possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero più atti che gli altri, quando sono nel fior dell'età, quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono nulla, perchè se anche hanno materia di sofferire, non la sentono. Ma i giovani non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d'un altro mondo, perchè essi non hanno negli occhi che felicità. Chi patisce non è atto a compatire. Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e delle facoltà estrinseche. Ma non v'ha che il giovane (il quale non ha patito) che sia così pieno di facoltà, e che non patisca nulla. Se altro non fosse, lo stesso declinar della gioventù, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto più si sente, quanto uno è d'altronde meno sventurato. Passati i venticinque anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della decadenza del suo corpo, dell'appassimento del fiore de' giorni suoi, della fuga e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù. (Firenze. 23. Lugl. 1827.).

[4283,2]  Il primo fondamento del sacrificarsi o adoperarsi per gli altri, è la stima di se medesimo e l'aversi in pregio; siccome il primo fondamento dell'interessarsi per altrui, è l'aver buona speranza per se medesimo. (Firenze. 1. Luglio. 1827.).

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Dolore. (1827) (4)
79. Perchè quelli che temono sogliano cantare. Falso coraggio di molti consistente in dissimularsi o diminuirsi nella immaginazione i mali. Εὐφημία de' greci, dei latini e degl'italiani. (varia_filosofia) (1)
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L'egoismo comune causa e necessità dell'egoismo individuale. (danno) (1)
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189. Pensieri e sensazioni dolorose o terribili o spiacevoli, perchè sovente si cerchino e si ammettano volontariamente. Passo della . (varia_filosofia) (1)
Dolori dell'animo. (1827) (1)
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138. Il dolore dei mali o della perdita dei beni è alleggerito dal pensiero della necessità. Esempio d'un fanciullo. (varia_filosofia) (1)
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Consolazione. (1827) (5)
140. Osservazione da cui si raccoglie che il timore sia più fecondo d'illusioni che la speranza. (varia_filosofia) (1)
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Vigore corporale. (1827) (3)
Antichi. (1827) (5)
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Sventura grave ec. (1827) (1)
51. Di un villano che piangeva vedendo macellare il suo bue. (varia_filosofia) (1)
Compassione verso le bestie. (1827) (2)
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Amicizia. (1827) (3)
163. Di un genere d'invidia da me provato. (varia_filosofia) (1)
84. Mali trattamenti che certi frati esercitano co' loro novizi. Invidia da me portata a chi mi pareva che agevolmente conseguisse quello che io dopo lunghi stenti aveva ottenuto. (varia_filosofia) (1)
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Paradossi. (danno) (1)
Fanciullezza. Immaginazione dei fanciulli ec. (1827) (3)
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Allegria. (1827) (2)
Segreti. (1827) (2)
Insegna la nullità della vita e delle cose umane, a differenza delle religioni antiche. (1827) (1)
Cristianesimo, ha peggiorato i costumi. (1827) (3)
Amore. (1827) (4)
Impazienza di ottenere un fine, accresciuta dall'incertezza. (1827) (1)
Timore. (1827) (5)
In che possa esser buona, secondo un antico. (1827) (1)
Superbia. (1827) (2)
Compassione dee cadere sopra oggetti amabili. (danno) (5)
Rassegnazione. (1827) (5)
Niuno per far piacere ad uno vuole incorrere nell'odio di un altro, e perché. (danno) (1)
Illusioni. (1827) (6)
Suicidio. (1827) (2)
Spiriti (timor degli). (1827) (1)
Spavento. (1827) (2)
Paradossi. (1827) (2)
Armonie della Natura. (1827) (2)
Pazienza. (1827) (3)
esigono stima propria ec. (1827) (1)
Vago. Piacere del vago o indefinito. (1827) (4)
Rimembranze. (1827) (2)
Arte. Arti e mestieri meccanici, βαναυσοί , nocevoli alla salute, come riguardati dagli antichi, e come da' moderni. (1827) (1)
Mortificazione totale di sentimento, d'immaginazione, d'ogni abilità, cagionata nell'uomo, massime sensibile, dalla infelicità abituale, e dalla privazione rassegnata d'ogni speranza. (1827) (1)
Sacrifizi di se stesso ec. (1827) (2)
Monaci. Monache. Vita monastica. (1827) (1)
Giovani sensibili, offesi dalla vita nell'amor proprio in principio, si eleggono il viver più morto possibile; e vecchi in gioventù, son giovani nella vecchiezza. (1827) (1)
Vitalità, Sensibilità. Il grado dell'amor proprio e dell'infelicità del vivente, è in proporzione di esse. (1827) (1)
Piaceri che noi ci facciamo da noi stessi, e coll'assuefazione ec. (1827) (1)
Loro influenza nelle azioni, gusti, sentimenti ec. (1827) (1)
non dispiacevole ne' deboli. (1827) (1)
che si credono innate, e derivano realmente dall'assuefazione. (1827) (1)
V'è meno arte e politica nella condotta degli uomini, e più di sincerità che non si crede. (1827) (1)
Spirito. Spiritualità dell'anima, ec. (1827) (1)
Felicità che l'uomo desidera, qual sia. (1827) (1)
Desiderio. (1827) (1)
Come stabilito: suo carattere, suoi effetti ec. ec. (1827) (2)
. (1827) (1)
Uomini di gran talento. (1827) (2)
Timidi. Timidezza nella società ec. (1827) (2)
Religione. Culto. (1827) (2)
Comete, perchè temute. (1827) (1)
Dolori del corpo. (1827) (1)
Felicità futura in un altro mondo. (1827) (1)
Compassione, Beneficenza, Sacrifizi di se, Interesse per altrui, ec. propri de' giovani, de' vigorosi, de' sani, de' fortunati, degli allegri, de' coraggiosi ec.; ancorché iracondi, vendicativi ec. Insensibilità, Egoismo ec. proprio de' vecchi, malati, de (1827) (5)
(carattere di). Forse non così artifiziato e politico, come ci è dipinto. (1827) (1)
a supporre in qualcun altro un maggior senno, valore e capacità che in se stesso, per confidarsi e per riposarsi in quello. (1827) (1)
Infelicità umana (prove della). (1827) (1)
Da' 25 anni in poi, ciascun uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima, la decadenza della sua gioventù. (1827) (1)
Stima di se stesso. È in ragione inversa della stima che uno ha della sua scienza, professione ec. (1827) (1)
Modestia, propria degli uomini grandi. (1827) (1)
Ispirare. Desiderio, proprio degli uomini, d'ispirar qualche cosa di se agli spettatori o uditori. (1827) (1)
Dolore delle morti de' nostri cari o conoscenti, che ragione abbia. (1827) (1)
Morte. Desiderio della morte. (1827) (1)
Immortalità dell'anima. (1827) (1)
Compassione verso i morti. (1827) (1)
Applicazione di questa osservazione ai pazzi, agli ubbriachi, ai disperati. Quanto di forza fisica tolgano all'uomo i progressi del suo spirito: quanti animali che si credono di forze fisiche superiori all'uomo, non lo sieno in fatto: ec. ec. (1827) (1)
Genitori. Casa paterna. Vita domestica. (1827) (1)
Animali. Usano l'intiero delle loro forze: non così l'uomo. (1827) (1)
Osservazioni sopra questa qualità considerata praticamente ne' Francesi e negl'Inglesi. (1827) (1)
Superbia nazionale. (1827) (1)
Spagnuoli. (1827) (1)
. Suo stato, costumi ec. antichi e moderni. (1827) (1)
Inglesi. Loro poesia, letteratura, lingua, carattere ec. ec. (1827) (1)
Carattere, lingua ec. ec. (1827) (1)
e , ambo poeti sventurati; pur quello interessante e compassionevole, questo no: e perchè. (1827) (1)
Interesse in poesia ec. (1827) (1)
Epopea. (1827) (1)
Tedeschi. Loro lingua, letteratura, carattere ec. ec. (1827) (1)
153. L'allegrezza tende a dilatare, la tristezza a ristringere e contrarre, e ciò come moralmente, così anche fisicamente. (varia_filosofia) (1)
Mire (le) dell'uomo tanto più si stendono, quanto meno di vita egli si può promettere; e viceversa. (1827) (1)
Drammatica. (1827) (3)
Amore che ha l'uomo alle opinioni. (1827) (1)
Opinioni (diversità delle). (1827) (2)
Noia. (1827) (3)
Vino. (1827) (1)
Vecchiezza. (1827) (5)
Stranieri. Odio verso gli stranieri; loro esclusione dai diritti sociali ec. ec. presso gli antichi ec. (1827) (1)
Amor patrio. (1827) (1)
Dolore naturale de' contadini, degli occupati ec. (1827) (1)
Uomo il più sensibile diviene facilmente il più freddo e cattivo. (1827) (3)
Delicatezza delle forme. (1827) (2)
Ragione. Sua impotenza rispetto alle nostre azioni. (1827) (2)
Teorica delle arti, lettere ec. Parte speculativa. (pnr) (2)
Bellezza, segno di bontà. (1827) (1)
Interesse per altrui, non ha luogo in chi è senza speranza ec. (1827) (3)
Inclinazione dell'uomo a misurar gli altri da se stesso. (1827) (6)
Vecchi, perchè amino tanto la vita. (1827) (2)
Uomo, perchè si creda il supremo degli enti. (1827) (1)
Grazia. (1827) (4)
Donne. (1827) (2)
Tempo. Uso del tempo. (1827) (1)
Negligenza, Inattività; Diligenza, Attività (Abito di). (1827) (1)
Fisonomia. Occhi. (1827) (2)
Poesia d'immaginazione, e poesia di sentimento. (1827) (1)
Ostinazione. (1827) (1)
alla vivacità, alla vita. (1827) (4)
Cause dell'amore dei vecchi alla vita. (danno) (1)
Amor della vita, cresce come l'amor del danaio. (1827) (1)
Vita. Perchè si vive. (1827) (1)
Estinguono la compassione. (1827) (1)
Iracondia, impazienza, quanto modificabile coll'assuefazione. (1827) (1)
Solitudine. (1827) (1)
Oggi difficilmente accade che la gioia ci trasporti e riempia l'animo. (danno) (1)
Passioni antiche, non tutte più veementi che le moderne. (1827) (1)
Gioia. (1827) (1)
Dolore antico. (1827) (1)
Inazione. L'uomo non vi si abitua mai. (1827) (1)
Piacere della disperazione. (1827) (1)
Egoismo del timore. (1827) (1)
Memoria. (1827) (1)
Inclinazioni nell'uomo, sono tanto più numerose e più vive, quanto egli è più vicino allo stato naturale; al contrario delle Facoltà. (1827) (1)
Assuefazione. Assuefattibilità e conformabilità dell'uomo. Attenzione. Imparare. Ingegno. Disposizioni naturali. Facoltà umane. (1827) (2)
Doveri morali. (1827) (1)
Uomini riflessivi. (1827) (1)
Riflessione. Irriflessione. (1827) (4)
Irresoluzione. (1827) (1)
L'uomo a tutto si abitua e si addomestica fuorchè alla inazione e alla noia. (danno) (1)
Sommo egoismo del timore. (danno) (1)
Allegrezza e Tristezza. Atti diversi che esse producono. (1827) (1)