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Volontà intensa di fare una cosa, è cagione di non riuscire.

Intense wish to do something, is reason for not succeeding.

Vedi Troppo (il) è padre del nulla. See Too much is father of nothing. 8,1 461,1 658,1 714,1 1062,2 1260,2 1554,1 1572,2 369,1 1775,21776,2 2274,1 2478 4033,1

[8,1]   8 Provatevi a respirare artificialmente, e a fare pensatamente qualcuno di quei moltissimi atti che si fanno per natura; non potrete, se non a grande stento e men bene. Così la tropp'arte nuoce a noi: e quello che Omero diceva ottimamente per natura, noi pensatamente e con infinito artifizio non possiamo dirlo se non mediocremente, e in modo che lo stento più o meno quasi sempre si scopra. {{V. p. 461.}}

[461,1]  Alla p. 8. capoverso 1 e p. 10. fine. Non solamente nelle azioni naturali, o manuali, insomma materiali, ma in tutte quante le cose umane, è necessario l'abbandono e la confidenza: e per lo contrario la diffidenza, o il troppo desiderio, premura, attenzione e studio di riuscire è cagione che non si riesca. Se tu non hai nulla da perdere ti diporterai franchissimamente nel mondo. E acquisterai facilmente il buon tratto e la stima, quando non avrai più stima da conservare: o in proporzione. E viceversa. Che se ti troverai in un luogo, occasione ec. dove ti prema {assai} di figurare, probabilmente sfigurerai. E se parlando con una persona, ne avrai guadagnata la stima ti costerà moltissimo il non perderla, quando ti sarai accorto di possederla, e ti premerà di conservarla. La qual cosa succede massimamente nell'amore, o anche nella galanteria, che cercando di conservare, si perde quella stima {e quell'amore} di una persona che si è guadagnato senza cercarlo. Così discorrete di cento altri generi di cose. La natura insomma è la sola potente, e l'arte non solo non l'aiuta, ma spesso la lega; e lasciando  462 fare si ottiene quello che non si può ottenere volendo fare. La noncuranza dell'esito, e la sicurezza di riuscire è il più sicuro mezzo di ottenerlo, come la troppa cura, e il troppo timore di non riuscire, è cagione del contrario. Nè si può nelle cose umane acquistar facilmente questa sicurezza, e schivar questo timore, senza una certa noncuranza, o senza esser preparato in alterutram partem. E perciò i disperati, o quelli che hanno tutto perduto, e niente da perdere nè da conservare, riescono meglio degli altri nella vita. Nè c'è un disperato così povero e impotente che non sia buono a qualche cosa nel mondo, da che è disperato. E questo è il motivo per cui naturalmente, e non a caso, audaces fortuna iuvat. (28. Dic. 1820.).

[658,1]  La ragione di quanto ho più volte osservato circa la difficoltà anzi impossibilità di riuscire in quelle cose che si fanno con troppo impegno, pp. 461-62 e tanto più quanto queste cose sono naturali, e quanto la perfezione loro consiste nella naturalezza, è questa. Non riesce bene e secondo natura, se non quello che si fa naturalmente.  659 Ma i detti mezzi non sono naturali, e il servirsi di essi non è secondo natura. Dunque ec. Non basta che un'operazione sia naturale: ma quanto più è o dev'esser naturale, tanto più bisogna farla naturalmente. Anzi non è naturale, se non è fatta naturalmente. (14. Feb. 1821.).

[714,1]   714 Spesse volte il troppo o l'eccesso è padre del nulla. Avvertono anche i dialettici che quello che prova troppo non prova niente. Ma questa proprietà dell'eccesso si può notare ordinariamente nella vita. L'eccesso delle sensazioni o la soprabbondanza loro, si converte in insensibilità. Ella produce l'indolenza e l'inazione, anzi l'abito ancora dell'inattività negl'individui e ne' popoli; e vedi in questo proposito quello che ho notato con Mad. di Staël, Floro ec. p. 620 fine - 625 principio. Il poeta nel colmo dell'entusiasmo, della passione ec. non è poeta, cioè non è in grado di poetare. All'aspetto della natura, mentre tutta l'anima sua è occupata dall'immagine dell'infinito, mentre le idee segli affollano al pensiero, egli non è capace di distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna: in somma non è capace di nulla, nè di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni: dico nessun frutto o di considerazione e di massima, ovvero di uso e di scrittura; di teoria nè di pratica. L'infinito non si  715 può esprimere se non quando non si sente: bensì dopo sentito: e quando i sommi poeti scrivevano quelle cose che ci destano le ammirabili sensazioni dell'infinito, l'animo loro non era occupato da veruna sensazione infinita; e dipingendo l'infinito non lo sentiva. {I sommi dolori corporali non si sentono, perchè o fanno svenire, o uccidono.} Il sommo dolore non si sente, cioè finattanto ch'egli è sommo; ma la sua proprietà, e[è] di render l'uomo attonito; confondergli, sommergergli, oscurargli l'animo in guisa, ch'egli non conosce nè se stesso, nè la passione che prova, nè l'oggetto di essa; rimane immobile, e senza azione esteriore, nè {si può dire}, interiore. E perciò i sommi dolori non si sentono nei primi momenti, nè tutti interi, ma nel successo dello spazio e de' momenti, e per parti, come ho detto p. 366. - 368. Anzi non solo il sommo dolore, ma ogni somma passione, ed anche ogni sensazione, ancorchè non somma, tuttavia tanto straordinaria, e, per qualunque verso, grande, che l'animo nostro non sia capace di contenerla  716 tutta intera simultaneamente. Così sarebbe anche la somma gioia.

[1062,2]  Incredulità religiosa che deriva primitivamente dalla Religione Giudaica (e questa ancora esistente), ma via via per mezzo delle dette successive modificazioni e quasi generazioni di essa Religione. (18. Maggio 1821.). {{V. p. 1065. capoverso 1.}}

[1260,2]  A quello che altrove pp. 461-62 pp. 714-16 ho detto circa l'impossibilità di far bene quello che si fa con troppa cura, si può aggiungere quello che dice l'Alfieri {nella sua Vita} della matta attenzione ch'egli poneva a tutte le minuzie nelle sue prime letture e studi de' Classici: e quello che ci avviene p. e. nello studio delle lingue. Nel quale osservate che da principio per la somma attenzione che ponete a ogni menoma cosa, leggendo in quella tal lingua, vi riescono gli scrittori sempre (più o meno) difficili. Laddove bene spesso, se si dà il caso, che  1261 voi abbiate intralasciato per qualche tempo lo studio di quella lingua, e perduto l'abito di quella minuta attenzione, ripigliando poi a leggere in detta lingua qualche pagina, e credendo di trovarci maggior difficoltà per l'interrompimento dell'esercizio, vi trovate al contrario molto più spedito di prima. Così pure, senza averla intralasciata, ma solamente pigliando a leggere qualche cosa in detta lingua non con animo di studio o di esercizio, ma solo di passare il tempo, o divertirvi, o in qualunque modo con intenzione alquanto, più o meno, rilasciata. Così dopo avere o credere di aver già imparata quella lingua, quando leggiamo non più come scolari, ma disinvoltamente e come semplici lettori. Nel qual tempo trovando forse difficoltà reali maggiori di quando leggevamo per istudio, non ci fanno gran caso, nè c'impediscono {e trattengono} più che tanto, nè ci tolgono una spedita facilità. In somma non si arriva mai a leggere speditamente una lingua nuova, se non quando si lascia l'intenzione di studioso per prendere quella di lettore, e durando la prima, solamente per sua cagione, ed anche senza veruna difficoltà reale,  1262 si trovano sempre intoppi, che altri non troverà nelle stesse circostanze, e colla stessa perizia, ma con diversa intenzione. {Così non si trova piacere, nè facilità, nella semplice lettura, anche in nostra lingua, quando si legge con troppo studio ec.} ({1-2.} Luglio 1821.).

[1554,1]  Non solo, come ho spiegato altrove pp. 461-62 pp. 658-59 pp. 1260-61 si fa male quello che si fa con troppa cura, ma se la cura è veramente estrema, non si può assolutamente fare, e per giungere a fare bisogna rimettere alquanto della cura, e della intenzione di farlo. (24. Agos. 1821.).

[1572,2]  Chi maneggia d'intorno a se un rasoio, o altro ferro o cosa che possa offendere, e teme di offendersi, è in pericolo grande di farlo: perchè? perchè pone troppa cura e intenzion d'animo ad evitarlo; e ciò glielo rende difficile. (27. Agosto. 1821.).

[369,1]  Non è forse cosa che tanto promuova l'attività e l'impazienza di ottenere il fine che si desidera, quanto l'incertezza di ottenerlo, quando però questo vi prema, e l'idea di non ottenerlo vi attristi. Non {già} solamente perchè l'incertezza, obbliga all'azione (laddove la certezza può dar luogo alla pigrizia) in quanto un fine incerto domanda maggior cura per ottenerlo. Ma quando anche non domandi maggior cura, il che può ben accadere (perchè un fine può esser certo, posta però una grande attività per conseguirlo) e indipendentemente affatto dall'utilità e dal bisogno delle cure, tu sarai attivissimo e impazientissimo di ottenerlo, per questo solo che tu non puoi sopportare quell'incertezza, e che tu spasimi di liberarti dall'angustia che ti deriva dal dubbio di non riuscire ad un fine che tu desideri grandemente. Angustia alla quale forse preferirai la certezza di non poterlo conseguire. Anche materialmente m'{è} accaduto più volte di dubitare se alcuni miei sforzi corporali avrebbero potuto ottenere un fine che  370 mi premeva, e perciò raddoppiarli impazientemente, sebbene altri mi consigliava di riposare {perchè la dilazione non faceva alcun danno.} Ma io non poteva sostere[sostenere] l'incertezza di una cosa che m'importava, laddove se non avessi dubitato non avrei avuto difficoltà di aspettare. E così la stessa mia impazienza poteva pregiudicare al fine, togliendomi il riposo necessario ec. Così nel comporre ec. Parimenti se tu devi compire una tale operazione in un dato spazio, e temi di non riuscirvi, l'impazienza e la sollecitudine tua non cresce in ragione del bisogno, ma ben da vantaggio, e, s'è possibile, tu vieni a capo dell'opera prima del termine prefisso. (1. Dec. 1820.). {{V. p. 712. capoverso 2. }}

[1776,2]  Ho detto altrove: pp. 461-62 pp. 658-59 pp. 1260-62 p. 1554 non si può fare, quello che troppo si vuol fare. Perciò giornalmente si osserva che una cosa sfugge alla memoria nel punto ch'ella si vuol ricordare,  1777 e se le offre spontaneamente quando non ce ne curiamo. Infatti ogni volta che con soverchia contenzione di mente ci mettiamo per richiamarci una ricordanza la più presente, e che ci sovverrà forse poco dopo, possiamo esser sicuri di non ritrovarla, finchè non abbiamo cessato di cercarla. Nel qual punto medesimo bene spesso ella ci sovviene. {+Così noi ci ricordiamo sempre di quel che ci siamo prefisso o che abbiamo desiderato di dimenticare, e ce ne ricordiamo nel tempo che appunto non volevamo.}

[2274,1]  Se tu prendi a leggere un libro qualunque, il più facile ancora, o ad ascoltare un discorso il più chiaro del mondo, con un'attenzione eccessiva, e con una smodata contenzione di mente; non solo ti si rende difficile il facile, {+non solo ti maravigli tu stesso e ti sorprendi e ti duoli di una difficoltà non aspettata,} non solo tu stenti assai più ad intendere, di quello che avresti fatto con minore attenzione, non solo tu capisci meno, ma se l'attenzione e il timore di non intendere o di lasciarsi sfuggire qualche cosa, è propriamente estremo, tu non intendi assolutamente nulla, come se tu non leggessi, e non ascoltassi, e come se la tua mente fosse del tutto intesa ad un'[un] altro affare: perocchè dal troppo viene il nulla, e il troppo attendere ad una cosa equivale effettivamente al non  2275 attenderci, e all'avere un'altra occupazione tutta diversa, cioè la stessa attenzione. Nè tu potrai ottenere il tuo fine se non rilascerai, ed allenterai la tua mente, ponendola in uno stato naturale, e rimetterai, ed appianerai la tua cura d'intendere, la quale solo in tal caso sarà utile. (22. Dic. 1821.). {{v. p. 2296.}}

[2478,1]   2478 Tant'è. Secondo l'osservazion del Democrito Britanno Bacon da Verulamio tutte le facoltà ridotte ad arte steriliscono, perchè l'arte le circonscrive. * (Gravina, Della Tragedia, cap. 40. p. 70. principio.). L'arte si trova sempre e perfezionata (ovvero inventata e formata), e divulgata e conosciuta da tutti, in quei tempi nei quali meno si sa metterla in pratica. A tempo d'Aristotele non v'erano grandi poeti {greci:} l'eloquenza romana era già spirata a tempo di Quintiliano (il quale forse, in quanto al modo di fare, se n'intendeva più di Cicerone). Lo stesso saper quel che va fatto è cagione che questo non si sappia fare. {Anche qui si verifica che il troppo è padre del nulla, e che il voler fare è causa di non potere, ec. ec.} Gli scrupoli, i dubbi, i timori di cader ne' difetti già ben conosciuti ec. ec. legano le mani allo scrittore, e i più se ne disperano, e non seguendo nè i precetti dell'arte, nè essendo più a tempo di seguir la natura propria già in mille modi distorta, stravolta, e alterata dall'arte, scrivono, come vediamo, pessimamente, benchè sappiano ottimamente quel che s'abbia da fare a scriver bene. (15. Giugno. 1822).

[4033,1]  Oὐδὲν ξένον εἰ πάνυ ἐσπουδακὼς ἐπὶ τοῖς ἀρίστοις ὑπὸ σοῦ γνωρίζεσϑαι, {ἐκ} τῆς ἄγαν ἐπιϑυμίας εἰς τοὐναντίον, διαταραχϑείς, ἐνέπεσον. * Lucian. pro lapso[lapsu] inter salutandum. opp. t. 1. 502. Amstel. 1687. (16. Feb. 1824.).