Coraggio.
Courage.
43,6 262,3 364,2 984,2 1420,2 1653,2 1800,2 2643,1 2803,1 3029,1.2 3432,1 3488,2 3518,1 3526,1 3575,13765,1 4010,3 4229,4[43,6] Il cantare che facciamo quando abbiamo paura non è per
farci compagnia da noi stessi come comunemente si dice, nè per distrarci
puramente, ma (come trovo incidentemente e finissimamente notato anche nella
2.da lett. del Magalotti
contro gli Atei) per mostrare e
dare ad intendere a noi stessi di non temere. La quale osservazione potrebbe
forse applicarsi a molte cose, e dare origine a parecchi pensieri. E già è
manifesto che all'aspetto del male noi cerchiamo d'ingannarci e di credere che
non sia tale, o minore che non è, e però cerchiamo chi se ne mostri o ne sia
persuaso, e per ultimo grado, per persuaderlo a noi stessi, fingiamo d'esserne
già persuasi, operando e discorrendo tra noi come tali. E questo è quello che
accade nel caso detto di sopra. E già {è} costume di
moltissimi è il detrarre quanto più possono colle parole e colla fantasia a'
mali che loro sovrastanno, e con ciò si consolano e fortificano, mendicando il
coraggio non dal disprezzo del male, ma dalla sua immaginata falsità o
piccolezza, onde son molti che non si sgomentano se non di rarissimo perchè
quando vien loro annunziato o prevedono qualche male, prima non lo credono
affatto, (cioè si nascondono o impiccolissimo[impiccoliscono] tutti i motivi di credere) e così se il male non ha
luogo effettivamente essi non han temuto, e altri sì, e con ragione; poi lo
scemano immaginando quanto possono, e così non temono se non in quei rari casi
nei quali sopraggiunge un male così evidente e reale e che li tocchi in modo che
non possano ingannarsi, giacchè anche sopraggiunto che sia, molte volte non lo
credono affatto male, cioè non lo voglion credere. E questi che
44 forse spesso passano per coraggiosi, sono i più vigliacchi che mai,
giacchè non sanno sostenere non solo la realtà ma neppur l'idea dell'avversità,
e quando hanno sentore di qualche disgrazia che loro sovrasti o sia accaduta,
subito corrono col pensiero, ad arroccarsi {e
trincerarsi} e chiudersi e incatenacciarsi poltronescamente in dire
fra se che non sarà nulla. Onde si vede alla prova delle evidenti disgrazie,
come sieno codardi e si disperino, e dieno in frenesie e smanie da femminucce
con urli pianti preghiere, tutte cose vedute e notate effettivamente da me in
uno di cui ho e naturalmente doveva avere una gran pratica, del quale per
l'altra parte è un perfettissimo e appropriatissimo ritratto quello che ho detto
di sopra. Del resto è cosa pur troppo evidente che l'uomo inclina a dissimularsi
il male, e a nasconderlo a se stesso come può meglio, onde è nota l'εὐϕημία
degli antichi greci che nominavano le cose dispiacevoli τὰ δεινά con nomi atti a
nascondere o dissimulare questo dispiacevole, (del che v. Elladio appo il Meursio) la qual cosa certo non faceano solamente per cagione
del mal augurio. E anche in italiano si dice, se Dio
facesse
altro
di me, per dire, s'io
morissi, (v. la Crusca in Altro) e in latino in questo istesso caso, si quid humanum
paterer, mihi accideret etc. e così in cento altri casi.
[262,3] Lo spavento e il terrore sebbene di un grado maggior
del timore, contuttociò bene spesso sono molto meno vili, anzi talvolta non
contengono nessuna viltà: e possono cadere anche negli uomini perfettamente
coraggiosi, al contrario del timore. P. e. lo spavento che cagiona l'aspetto di
una vita infelicissima o noiosissima e lunga, che ci aspetti ec. {{Lo spavento degli spiriti, così puerile esso, e fondato
in opinione così puerile, è stato (ed ancora è) comune ad uomini
coraggiosissimi. V. la p.
531, e 535.}}
[364,2] Quegli stessi che credono grave, o maggiore che non è,
ogni leggera malattia che loro sopravviene, caduti in qualche malattia grave o
mortale, la credono leggera, o minore che non è. E la cagione d'ambedue le cose
è la codardia che gli sforza a temere dove non è timore, e a sperare dove non è
speranza.
[984,2] La scoperta e l'uso delle armi da fuoco oltre agli
effetti da me notati negli altri pensieri, p. 262
pp.
659-60 ha scemato ancora notabilissimamente il coraggio ne' soldati, e
generalmente negli uomini. La victoire... s'obtient aujourd'hui
par la regularité et la précision des manoeuvres, souvent sans en
venir aux mains. Nos guerres ne se décident plus guère que de loin,
à coups de canon et de fusil; et nos timides fantassins, sans armes
défensives, effrayés par le bruit et l'effet de
985 nos armes à feu, n'osent plus s'aborder: les combats à
l'armes blanches sont devenus fort rares.
*
Così il Barone Rogniat, Considérations sur l'Art de la guerre,
Paris, de l'imprimerie de Firmin Didot, 1817.
Introduction, p. 1. E come i soldati, così gli altri uomini che si
servono delle armi da fuoco invece delle bianche, riducendosi ora ogni battaglia
o pubblica o privata, a tradimenti, e {a} fatti di
lontano, senza mai venire corpo a corpo: oltre l'influenza che ha l'educazione
militare, e la natura delle guerre sopra l'intero delle nazioni. Sarà bene ch'io
legga tutta intera l'opera citata, dove l'arte della guerra è chiarissimamente
esposta, congiunta a molta filosofia, paragonati continuamente gli antichi coi
moderni, e i diversi popoli fra loro, applicata alla detta arte la scienza
dell'uomo ec. E certo la guerra appartiene al filosofo, tanto come cagione di
sommi e principalissimi avvenimenti, quanto come connessa con infiniti rami
della teoria della società, e dell'uomo e dei viventi. (25. Aprile
1821.).
[1420,2] La forza anche passeggera del corpo, oltre gli
effetti altrove notati pp. 96-97
p.
115, rende anche più coraggiosi del solito, e meno suscettibili al
timore, anche
1421 de' pericoli straordinari ec. Quindi
i giovani sono più coraggiosi de' vecchi, e disprezzatori della vita, benchè
abbiano tanto più da perdere ec. {contro quella
osservazione} ordinarissima, che principal fonte di coraggio suol
essere l'aver poco a perdere ec. (31. Luglio 1821.).
[1653,2] Ho detto altrove p. 714
pp. 1176-79 che il troppo
produce il nulla, e citato le eccessive passioni e le estreme sventure, {il pericolo presente e inevitabile che dà una forza e
tranquillità d'animo anche al più vile, una disgrazia sicura e che non può
fuggirsi ec.} che non producono già l'agitazione, ma l'immobilità, la
stupidità, una specie di rassegnazione non ragionata; in maniera che l'aspetto
dell'uomo in tali casi è bene spesso affatto simile a quello dell'indifferente:
ed un bravo pittore non lo farebbe distinguere dall'uomo il più noncurante ec.
{+eccetto per un'aria di meditazione
stupida, ed una fissazione di occhi in qualsivoglia parte.} Aggiungo
1654 ora che ciò non si deve solamente restringere
all'atto, ma anche all'abito d'indifferenza, rassegnazione alla fortuna,
insensibilità ec. che è prodotto dall'estrema infelicità e disperazione abituale
ec. e puoi vedere la p. 1648.
(8. Sett. 1821.).
[1800,2] Il vigore o costante o effimero, produce nell'uomo
un gran sentimento di se
1801 stesso, lo rende nella
sua immaginazione superiore alle cose, agli altri uomini, alla stessa natura; lo
fa sfidare il potere delle disgrazie, le persecuzioni, i pericoli, le
ingiustizie ec. ec.; lo fa pieno di coraggio ec. ec. in somma l'uomo vigoroso si
sente, si giudica padrone del mondo, e di se medesimo, e veramente uomo.
(28. Sett. 1821.)
[2643,1]
2643 L'amor della vita cresce quasi come l'amor del
danaio, e, com'esso, cresce in proporzione che dovrebbe scemare. Perciocchè i
giovani disprezzano e prodigano la vita loro, ch'è pur dolce, e di cui molto
avanza loro; e non temono la morte: e i vecchi la temono sommamente, e sono
gelosissimi della propria vita, ch'è miserabilissima, e che ad ogni modo poco
hanno a poter conservare. E così il giovane scialacqua il suo, come s'egli
avesse a morire fra pochi dì, e il vecchio accumula e conserva e risparmia come
s'avesse a provvedere a una lunghissima vita che gli restasse. (24. Ottob.
1822.).
[2803,1] Altro è il timore altro il terrore. Questa è {passione} molto più forte {e
viva} di quella, e molto più avvilitiva dell'animo e sospensiva
dell'uso della ragione, {+anzi quasi di
tutte le facoltà dell'animo, ed anche de' sensi del corpo.}
2804 Nondimeno la prima di queste passioni non cade
nell'uomo perfettamente coraggioso o savio, la seconda sì. Egli non teme {mai,} ma può sempre essere atterrito. Nessuno può
debitamente vantarsi di non poter essere spaventato. (21. Giugno
1823.).
[3432,1] Per molte cagioni, anche lievi, l'uomo si getta al
pericolo, anche della morte; di più sacrifica
3433
determinatamente se stesso, danari, robba, comodità, speranze ec. Ma ben pochi
si trovano che per cagioni anche gravi, anche per vive passioni, per amore
ardente ec. si sottopongano o sieno veramente capaci di sottoporsi a un dolore
corporale, anche non grande. S'incontra spesso e facilmente, a occhi veggenti e
volontariamente il pericolo della morte, e quegli stessi non son capaci
d'incontrar volontariamente e scientemente un dolor corporale certo. (15.
Sett. 1823.)
[3488,2] Molti sono timidi i quali sono insieme
coraggiosissimi. Voglio dire che molti si perdono d'animo nella società, i quali
nè fuggono nè temono ed anche volontariamente incontrano i pericoli
3489
{e i danni e le fatiche e le sofferenze ec.;} e non
sostengono gli sguardi o le parole amichevoli o indifferenti di tali di cui
sosterrebbero facilissimamente l'aspetto minaccioso e l'armi nemiche in
battaglia o in duello. La timidità spetta per così dire ai mali dell'animo, il
coraggio a quelli del corpo. L'una teme de' danni e delle pene interne, l'altro
brava i danni e le sofferenze esteriori. L'una s'aggira intorno allo spirituale,
l'altro al materiale. E tanto è lungi che la timidità escluda il coraggio, che
anzi ella piuttosto lo favorisce, e da essa si può dedurre {con verisimiglianza} che l'uomo che n'è affetto sia coraggioso.
Perocchè la timidità è abito di temer la vergogna, la quale assai facilmente e
spesso incontra chi teme e fugge i pericoli. Onde il temer la vergogna, ch'è
male, per così dire, interno e dell'animo, giacchè nulla nuoce al corpo nè alle
cose esteriori, ed opera sul pensiero solo, ed ai sensi non dà noia; fa che
l'uomo non tema i danni esteriori, e non fugga e, bisognando, affronti il
pericolo {+ed eziandio la certezza}
di soffrirli, preponendo i mali o i pericoli esterni e materiali agl'interni e
spirituali,
3490 e l'anima, per così dire, al corpo; e
volendo innanzi soffrire ne' sensi, nella roba ec. che nello spirito, e morire
piuttosto che patir la {pena della} vergogna. Chè {in} questo e non altro consiste quel coraggio che viene
da sentimento di onore, e gli effetti del medesimo. Il qual coraggio ha origine
e fondamento, anzi è esso stesso una spezie di timidità, o certo {una spezie} di qualità contraria alla sfrontatezza,
all'impudenza, all'inverecondia. (21. Sett. Festa della Beatissima Vergine
Addolorata. 1823.). {{V. la pag. seg. [p.
3491,3].}}
[3518,1] Superiorità della natura sulla ragione,
dell'assuefazione (ch'è seconda natura) sulla riflessione. - Mio timor panico
d'ogni sorta di scoppi, non solo pericolosi, (come tuoni ec.), ma senz'ombra di
pericolo (come spari festivi ec.); timore che stranamente e invincibilmente
3519 mi possedette non pur nella puerizia, ma
nell'adolescenza, quando io era bene in grado di riflettere e di ragionare, e
così faceva io infatti, ma indarno per liberarmi da quel timore, benchè ogni
ragione mi dimostrasse ch'egli era tutto irragionevole. {Io non credeva che vi fosse pericolo, e sapeva che non
v'era pericolo nè che temere; ma io temeva niente manco che se io avessi
saputo e creduto e riflettuto il contrario. (puoi vedere la p. 3529.).} Non potè nè la
ragione nè la riflessione liberarmi di quel timore irragionevolissimo,
perch'esso m'era cagionato dalla natura. Nè io certo era de' più stupidi e
irriflessivi, nè di quelli che men vivono secondo ragione, e meno ne sentono la
forza, e son meno usi di ragionare, e seguono più ciecamente l'istinto o le
disposizioni naturali. Or quello che non potè per niun modo la ragione nè la
riflessione contro la natura, lo potè in me la natura stessa e l'assuefazione; e
il potè contro la ragione medesima e contro la riflessione. Perocchè coll'andar
del tempo, anzi dentro un breve spazio, essendo io stato forzato in certa
occasione a sentire assai da vicino e frequentemente di tali scoppi, perdei
quell'ostinatissimo e innato timore in modo, che non solo trovava piacere in
quello
3520 che per l'addietro m'era stato sempre di
grandissimo odio e spavento senza ragione, ma lasciai pur di temere e presi
anche ad amare nel genere stesso quel che ragionevolmente sarebbe da esser
temuto; nè la ragione o la riflessione che già non poterono liberarmi dal timor
naturale, poterono poscia, nè possono tuttavia, farmi temere o solamente non
amare, quello che per natura o assuefazione, irragionevolmente, io amo e non
temo. {#1. Nè io son pur, come ho detto,
de' più irriflessivi, nè manco di riflettere ancora in questo proposito
all'occasione, ma indarno per concepire un timore che non mi è più
naturale.} Questo ch'io dico di me, so certo essere accaduto e
accadere in mille altri tuttogiorno, o quanto all'una delle due parti solamente,
o quanto ad ambedue. - Quello che non può in niun modo la riflessione, può {{e fa}} l'irriflessione. (25. Sett. 1823.).
{{V. p. 3908.}}
[3526,1] Sopravvenendo il pericolo, ridere, diventare allegro
fuor dell'uso, o più che il momento prima non si era, o di malinconico farsi
giulivo; divenir loquace essendo taciturno {di natura,}
o rompere il silenzio fino allora per qualunque ragione tenuto; scherzare,
saltare, cantare, e simili cose, non sono già segni di coraggio, come si
stimano, ma per lo contrario son segni di timore. Perciocchè dimostrano che
l'uomo ha bisogno di distrarsi dall'idea del pericolo, e particolarmente di
scacciarla col darsi ad intendere ch'e' non sia pericolo, o non sia grave. E
questo è ciò
3527 che l'uomo proccura di fare dando
segni straordinarii d'allegrezza in tali occasioni; ingannar se stesso
dimostrandosi di non aver nulla a temere, perocch'ei fa cose contrarie a quelle
che il timore propriamente e immediatamente {suol}
cagionare. Affine di non temere, l'uomo proccura di persuadersi ch'ei non teme,
ond'ei possa dedurre che non v'è ragion sufficiente o necessaria di timore. Egli
è un effetto molto ordinario di questa passione il muover l'uomo a cose
contrarie a quelle {a} che immediatamente ella il
moverebbe, ma e quelle e queste sono ugualmente effetti di vero timore. E quelle
sono in gran parte, o sotto un certo aspetto, finte; queste veraci. Il timore
muove l'uomo a far quasi una pantomima appresso se stesso. Per questo nelle
solitudini e fra le tenebre e in luoghi, cammini, occasioni pericolose o che
tali paiono, è uso naturale dell'uomo il cantare, non tanto ad effetto di
figurarsi e fingersi una compagnia, o di farsi compagnia (come si dice) da se
stesso; quanto perchè il cantare par proprio onninamente di chi non teme:
appunto perciò chi teme, canta. (Vedi a tal
3528
proposito un luogo molto opportuno del
Magalotti segnato da me nelle
prime carte di questi pensieri, sul principio, se non erro, del 1819.
p.
43). Dai medesimi principii (più che dal bisogno di distrazione) nasce
che in un pericolo comune o creduto tale, e vero o immaginario assolutamente,
piace, conforta, rallegra l'udire il canto degli altri, il vedergli intenti alle
lor solite operazioni, l'accorgersi o il credere ch'essi o non istimino che vi
sia pericolo, o nulla per sua cagione tralascino o mutino del loro ordinario, e
di quello che infino allora facevano o che, senza il pericolo, avrebbero fatto;
o che non lo temano, e sieno intrepidi ec. Il coraggio veduto o creduto negli
altri, o l'opinione che non vi sia pericolo, veduta o creduta in essi,
incoraggisce l'individuo che teme. Nello stesso modo il mostrar di non temere a
se stesso è un farsi coraggio, o col persuadersi che non vi sia pericolo, o col
dare a se stesso in se stesso un esempio di coraggio e di non temere questo
pericolo, ancorchè vi sia. Or chi ha bisogno che gli sia fatto coraggio e di
aver nello stesso pericolo esempi di coraggio, e altrimenti teme, non
3529 è certamente coraggioso, o in tale occasione non
ha coraggio. E chi ha bisogno per non temere, di credere che non vi sia
pericolo, cioè ragion di temere, o di sminuirsi l'opinion del pericolo, {e} di credere che questo pericolo, questa ragione sia
piccola, o minore e più leggera ch'ella non è, ed altrimenti teme; non è
coraggioso, perchè niun teme quello ch'ei non crede da temersi, e niun teme
fuori dell'opinion del pericolo, vera o falsa, o ancor menoma ch'ella sia, {+o non ragionata, ma quasi istinto e
passione} (come quella di cui vedi la p. 3518-20. e massime 3519. marg.)
[3765,1]
Alla p. 3557.
principio. L'aspetto della debolezza riesce piacevole e amabile
principalmente ai forti, sia della stessa specie sia di diversa. (forse per
quella inclinazione che la natura ha messa, come si dice, ne' contrarii verso i
contrarii). Quindi la debolezza in una donna riesce più amabile all'uomo che
all'altre donne, in un fanciullo più amabile agli adulti che agli altri
fanciulli. E la donna è più amabile all'uomo che all'altre donne, anche pel
rispetto della debolezza ec. Ed all'uomo tanto più quanto egli è più forte, non
solo per altre cagioni, ma anche per questa, che l'aspetto della debolezza gli
riesce tanto più piacevole, quando è in un oggetto {{altronde}} amabile ec. Ed anche per questa causa i militari, e le
3766 nazioni militari generalmente sono più portate
verso le donne, o verso τὰ παιδικά ec. (V. Aristot.
Polit. 2. Flor. 1576. p. 142.). Le cose dette della
debolezza si possono anche dire della timidità. Piace l'aspetto della timidità
in un oggetto d'altronde amabile, e quando essa medesima non disconvenga. Piace
p. e. ne' lepri, ne' conigli ec. Piace massimamente ai forti o assolutamente o
per rispetto a quei tali oggetti. Piace ai più coraggiosi, e questo ancora si
riferisca a quel che ho detto de' militari. Il veder che uno teme e ha ragion di
temere, e ch'e' non si può difendere, è cosa amabile, e induce i forti e i
coraggiosi, o della stessa specie o di diversa, a risparmiare quei tali oggetti;
quando non v'abbia altra causa che operi il contrario, come nel lupo verso la
pecora ec. Cause indipendenti dalla timidità e dal coraggio. E da ciò, almeno in
parte, deriva che gl'individui e le nazioni forti e coraggiose sogliono
naturalmente essere le più benigne; e in contrario è stato osservato che
gl'individui e i popoli più deboli e timidi sogliono essere i più crudeli verso
i viventi più deboli di loro, verso i loro {stessi}
individui più deboli ec. Ed
3767 è proposizione
costante e generale che la timidità la codardia e la debolezza amano molto di
accompagnarsi colla crudeltà, colla inclemenza e spietatezza e durezza de'
costumi e delle azioni ec. (Che il timore sia naturalmente crudele, perchè
sommamente egoista, e così la viltà ec. l'ho notato in più luoghi pp. 2206-208
pp. 2387-89
p. 2630). Ciò non solo si osserva negli uomini, ma eziandio negli
altri animali. E con molta verisimiglianza, se non anche con verità, si
attribuisce al leone la generosità verso gli animali di lui più deboli e timidi
ec. quando la natura, cioè una nimistà naturale, o la fame ec. non lo spinga ad
opprimerli ec. o ve lo spinga talora, ma non in quel tal caso, o quando la
natura non glieli abbia destinati particolarmente per cibo, chè allora sarà ben
difficile ch'ei se ne astenga, o se ne astenga per altro che per sazietà. Si
applichino queste osservazioni a quelle da me fatte circa la compassionevolezza
naturale ai forti, e la naturale immisericordia e durezza dei deboli ec. e
viceversa quelle a queste (p. 3271.
segg.) Si suol dire, e non è senza esempio nelle storie che le donne
3768 divenute potenti {in
qualunque modo,} sono state e sono generalmente come più furbe e
triste, così più crudeli e meno compassionevoli verso i loro nemici, o
generalmente ec. di quel che sieno stati o sieno, o che sarebbero stati o
sarebbero, gli uomini, in parità d'ogni altra circostanza. Ed è ben noto che i
Principi più deboli e vili sono sempre stati i più crudeli proporzionatamente
alle varie qualità ed al vario spirito de' tempi a cui sono vissuti o vivono, e
alle varie circostanze in cui si sono rispettivamente trovati o trovansi, e
secondo le varie epoche e vicende della vita di ciascheduno ec. (24. Ott.
1823.).
[4010,3] Avvi due sorte di coraggio ben contrarie fra loro.
L'una che dirittamente e propriamente nasce dalla riflessione, l'altra
dall'irriflessione. Quello è sempre e malgrado qualunque sforzo, debole,
incerto, breve e da farci poco fondamento sì dagli altri, sì da quello in cui
esso si trova ec. (10. Gen. 1824.).
[4229,4] È naturale all'uomo, debole, misero, sottoposto a
tanti pericoli, infortunii e timori, il supporre, il figurarsi, il fingere anco
gratuitamente un senno, una sagacità e prudenza, un intendimento e
discernimento, {una perspicacia, una esperienza}
superiore alla propria, in qualche persona, alla quale poi mirando in ogni suo
duro partito, si riconforta o si spaventa secondo che vede quella o lieta o
trista, o sgomentata o coraggiosa, e sulla sua autorità si riposa senz'altra
ragione; spessissimo eziandio, ne' più gravi pericoli e ne' più miseri casi, si
consola e fa cuore, solo per la {buona speranza e}
opinione, ancorchè manifestamente falsa o senza niuna apparente ragione, che
egli vede o s'immagina essere in quella tal persona; o solo anco per una ciera
lieta o ferma che egli vede in quella. Tali sono assai sovente i figliuoli,
massime nella età tenera, verso i genitori. Tale sono stato io, anche in età
ferma e matura, verso mio padre; che in ogni cattivo caso, o timore, sono stato solito per
determinare, se non altro, il grado della mia afflizione o del timor mio
proprio, di aspettar di vedere o di congetturare il suo, e l'opinione e il
giudizio che
4230 egli portava della cosa; nè più nè
meno come s'io fossi incapace di giudicarne; e vedendolo {o
veramente o nell'apparenza} non turbato, mi sono ordinariamente
riconfortato d'animo sopra modo, con una assolutamente cieca sommissione alla
sua autorità, o fiducia nella sua provvidenza. E trovandomi lontano da lui, ho
sperimentato frequentissime volte un sensibile, benchè non riflettuto, desiderio
di tal rifugio. Ed è cosa {mille volte} osservata {e veduta per prova} come gli uomini di guerra, anche
esperimentatissimi e veterani, sogliano pendere nei pericoli, nei frangenti,
nelle calamità della guerra, dalle opinioni, dalle parole, dagli atti, dal
volto, di qualche lor capitano, eziandio giovane e immaturo, che si abbia
guadagnato la lor confidenza; e secondo che veggono, o credono di veder fare a
lui, sperare o temere, dolersi o consolarsi, pigliar animo o perdersi di
coraggio. Onde suol tanto giovare nel Capitano la fermezza d'animo, e la
dissimulazione del dolore o del timore nei casi ov'è sommamente da temere o
dolersi. E questa qualità dell'uomo è ancor essa una delle cagioni per cui tanto
universalmente e così volentieri si è abbracciata e tenuta, come ancor si tiene,
la opinione di un Dio provvidente, cioè di un ente superiore a noi di senno e
intelletto, il qual disponga ogni nostro caso, e indirizzi ogni nostro affare, e
nella cui provvidenza possiamo riposarci dell'esito delie cose nostre. (9.
Dic. Vigilia della Venuta della S. Casa di Loreto. 1826.
Recanati.). La credenza di un ente senza
misura più savio e più conoscente di noi, il quale dispone e conduce di continuo
tutti gli avvenimenti, e tutti a fin di bene, eziandio quelli che hanno maggior
sembianza di mali per noi, e che veglia sulla nostra sorte; e tutto ciò con
ragioni e modi a noi sconosciuti, e che noi non possiamo in guisa alcuna
scoprire nè intendere, di maniera che non dobbiamo darcene pensiero veruno;
questa credenza è agli uomini universalmente, e massime ai deboli ed infelici,
un conforto maggior d'ogni altro possibile: il qual conforto non da altro
procede, nè consiste in altro, che un riposo, uno acquetamento, ed una
confidenza
4231 cieca nell'autorità, nel senno, e nel
provvedimento altrui. (9. Dic. 1826.).
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