[302,4]
Une
résistance inutile (aux malheurs) retarde l'habitude qu'elle (l'ame)
contracteroit avec son état. Il faut céder aux malheurs. Renvoyez-les à
la patience: c'est à elle seule à les adoucir.
*
303
La même, ibid. p. 88.
(5 Nov. 1820.)
[466,1]
466 Sopra ogni dolore d'ogni sventura si può riposare,
fuorchè sopra il pentimento. Nel pentimento non c'è riposo nè pace, e perciò è
la maggiore o la più acerba di tutte le disgrazie, come ho detto in altri
pensieri p. 65
p.
188. (2. Gen. 1821.)
{{V. p. 476. capoverso 1.}}
[614,2] È cosa notabile come l'uomo sommamente sventurato, o
scoraggito della vita, e deposta già e complorata la speranza della propria felicità, ma non perciò ridotto a
quella disperazione che non si acquieta se non colla morte; naturalmente, e
senza veruno sforzo sia portato a servire e beneficar gli altri, anche quelli
che o gli sono del tutto indifferenti, o anche odiosi. E non già per vigore di
eroismo, chè l'uomo in tale stato non è capace di nessun vigore d'animo; ma in
certo modo, come non avendo più interesse nè speranza per te, trasporti
l'interesse e la speranza agli affari altrui, e così cerchi di riempiere l'animo
tuo, di occuparlo, e di rendergli i due sopraddetti sentimenti, cioè cura di
qualche cosa, {ossia scopo,} e speranza, senza
615 i quali la vita non è vita, non si conosce, manca
del senso di se stessa. Il fatto sta che quando l'uomo si trova in tali
circostanze, cioè disperato in maniera, non da odiarsi, (ch'è la ferocia della
disperazione) ma da noncurarsi, e metter se stesso fuori della sfera de' suoi
pensieri; non solo prova compiacenza nel servir gli altri, ma prende anche per
gli affari loro (ancorchè, come ho detto di persone indifferenti) una certa
affezione, un certo impegno, un desiderio ec. tutto languido bensì, perchè
l'animo suo non è più capace di sentimento vivo e forte, ma pur tale, ch'egli
non è stato mai animato verso {il bene altrui} così
sensibilmente. E ciò accade anche appena l'uomo si riduce alla detta condizione,
così che avviene in lui come un cangiamento improvviso: ed accade anche negli
uomini stati infetti di egoismo. In somma la persona degli altri sottentra
nell'animo suo, quasi intieramente, alla persona propria, ch'è sparita, e messa
in non cale e per perduta, come quella che non può più sperare, e non è più
capace della felicità, senza cui la vita manca del suo fine, e scopo. E il
desiderio e la cura
616 e la speranza della felicità,
che non possono più diriggersi alla felicità propria, riconosciuta impossibile,
e nel cercar la quale sarebbero vane, e quindi non più sufficienti all'animo
umano; si rivolgono alla felicità altrui: e ciò spontaneamente, e senz'ombra di
eroismo. E l'animo dell'uomo che mancatogli lo scopo della felicità, è
moralmente morto, risorge a una languida vita, ma tuttavia risorge e vive in
altrui, cioè nello scopo dell'altrui felicità, divenuto lo scopo suo. Come quei
corpi di sangue corrotto e malsano, e quindi incapaci di vita, che alcuni medici
spogliavano {(o proponevano di spogliare)} del sangue
proprio, e restituivano ad una certa salute, colla introduzione del sangue
altrui, o di qualche animale; quasi cangiando la persona, e trasformando quella
che non poteva più vivere, in un'altra capace di vita: e così conservando la
vita di una persona, per se stessa inetta a vivere.
[1653,2] Ho detto altrove p. 714
pp. 1176-79 che il troppo
produce il nulla, e citato le eccessive passioni e le estreme sventure, {il pericolo presente e inevitabile che dà una forza e
tranquillità d'animo anche al più vile, una disgrazia sicura e che non può
fuggirsi ec.} che non producono già l'agitazione, ma l'immobilità, la
stupidità, una specie di rassegnazione non ragionata; in maniera che l'aspetto
dell'uomo in tali casi è bene spesso affatto simile a quello dell'indifferente:
ed un bravo pittore non lo farebbe distinguere dall'uomo il più noncurante ec.
{+eccetto per un'aria di meditazione
stupida, ed una fissazione di occhi in qualsivoglia parte.} Aggiungo
1654 ora che ciò non si deve solamente restringere
all'atto, ma anche all'abito d'indifferenza, rassegnazione alla fortuna,
insensibilità ec. che è prodotto dall'estrema infelicità e disperazione abituale
ec. e puoi vedere la p. 1648.
(8. Sett. 1821.).
[2107,1] Ho detto pp. 1648-49
pp. 2039-41 che l'uomo di gran sentimento è soggetto a divenire
insensibile più presto e più fortemente degli altri, e soprattutto di quegli di
mediocre sensibilità. Questa verità si deve estendere ed applicare a tutte
quelle parti, generi ec. ne' quali il sentimento
2108
si divide e si esercita, come la compassione ec. ec. Sebbene è verissimo che
l'uomo di sentimento è destinato all'infelicità nondimeno assai spesso accade
ch'egli nella sua giovanezza, divenga insensibile al dolore e alla sventura, e
che tanto meno egli sia suscettibile di dolor vivo dopo passata una certa epoca,
e un certo giro di esperienza, quanto più violento e terribile fu il suo dolore
e la sua disperazione ne' primi anni, e ne' primi saggi ch'egli fece della vita.
Egli arriva sovente assai presto ad un punto, dove qualunque massima infelicità
non è più capace di agitarlo fortemente, e dall'eccessiva suscettibilità di
essere eccessivamente turbato, passa rapidamente alla qualità contraria, cioè ad
un abito di quiete e di rassegnazione sì costante, e di disperazione così poco
sensibile, che qualunque nuovo male gli riesce indifferente (e questa si può
2109 dire l'ultima epoca del sentimento, e quella in
cui la più gran disposizione naturale all'immaginazione alla sensibilità,
divengono quasi al tutto inutili, e il più gran poeta, o il più dotato di
eloquenza che si possa immaginare, perde quasi affatto e irrecuperabilmente
queste qualità, e si rende incapace a poterle più sperimentare o mettere in
opera per qualunque circostanza. Il sentimento è sempre vivo fino a questo
tempo, anche in mezzo alla maggior disperazione, e al più forte senso della
nullità delle cose. Ma dopo quest'epoca, le cose divengono tanto nulle all'uomo
sensibile, ch'egli non ne sente più nemmeno la nullità: ed allora il sentimento
e l'immaginazione son veramente morte, e senza risorsa.) Nessuna cosa violenta è
durevole. Laddove gli uomini di mediocre sensibilità, restano più o meno
suscettibili d'
2110 infelicità viva per tutta la vita,
e sempre capaci di nuovo affanno, da vecchi poco meno che da giovani, come si
vede negli uomini ordinarii tuttogiorno. (17. Nov. 1821.).
[2159,1] Lo stato di disperazione rassegnata, ch'è l'ultimo
passo dell'uomo sensibile, e il finale sepolcro della sua sensibilità, de' suoi
piaceri, e delle sue pene, è tanto mortale alla sensibilità, ed alla poesia
2160 (in tutti i sensi, ed estensione di questo
termine), che sebbene la sventura, e il sentimento attuale di lei, pare ed è
(escluso il detto stato) la più micidial cosa possile[possibile] alla poesia (nè solo la sventura attuale, ma anche
l'abituale, che deprime miseramente l'immaginazione, il sentimento, l'animo);
contuttociò se può succedere che nel detto stato, una nuova e forte sventura,
cagioni all'uomo qualche senso, quel punto, per una tal persona, è il più
adattato ch'egli possa mai sperare, alla forza dei concetti, al poetico,
all'eloquente dei pensieri, ai parti dell'immaginazione e del cuore, già fatti
infecondi. Il {nuovo} dolore in tal caso è come il
bottone di fuoco che restituisce qualche senso, qualche tratto di vita ai corpi
istupiditi. Il cuore dà qualche segno di vita, torna per un momento a sentir se
medesimo, giacchè la proprietà e l'impoetico della disperazione rassegnata
consiste appunto, nel non esser più
2161 visitato nè
risentito {neppur} dal dolore.
[2208,2] Ho detto pp. 1648-49
pp.
2039-41
pp.
2107-09 che l'uomo di gran sentimento più presto degli altri è
soggetto a divenire indifferente sì nel resto, sì quanto alle sventure. Ciò vuol
dire ch'egli forma l'abito delle sventure (così dite del resto)
2209 più facilmente e prontamente degli altri. E per
due cagioni. 1. Perchè più soffre essendo più sensibile, onde le cause
dell'assuefazione che sono l'esercizio, e la ripetizion delle sensazioni,
essendo in lui maggiori che negli altri, più presto la cagionano. {+Oltre ch'egli più vivamente le sente
ond'è soggetto a sventure maggiori e per numero e per grado di forza
ec.} 2. Perch'egli è anche per se stesso e indipendentemente dalle
circostanze, più assuefabile degli altri. {+(Massime a questi generi di cose.)} Ond'egli
impara la sventura più presto degli altri, come gli uomini di talento (che per
lo più sono anche di sentimento) imparano le discipline, o quella tale a cui
sono inclinati ec. più presto degli altri, e più presto e facilmente intendono,
concepiscono ec. perchè più attendono ec. Quindi è che gli uomini di poco o
mediocre sentimento, e generalmente i mediocri spiriti, dopo un numero o una
massa di sventure, maggiore assai di quella che ha bastato ad assuefare e
2210 rendere imperturbabile l'uomo di gran sentimento,
non vi sono ancora assuefatti, sono sempre aperti all'afflizione al dolore,
sempre sensibili al male, sempre egualmente teneri e molli (sebbene quegli
ch'era assai più molle, sia già del tutto indurato), e restano bene spesso tali
per tutta la vita, tanto capaci di soffrire nella decrepitezza, quanto appresso
a poco nella prima giovanezza. Anzi di più, perchè meno distratti nelle loro
sensazioni, e meno aiutati dalla forza naturale. Laddove all'uomo di sentimento
lo stesso esser poco capace di distrazione, lo stesso attender vivamente alle
sensazioni, facilita l'assuefazione, e l'acquisto della insensibilità, e
incapacità di più attendervi. (1. Dic. 1821.).
[2876,1] L'uomo si rassegna a soffrire {passivamente,} o a non godere, ma niuno si rassegna a faticare invano
e senza niuna speranza, o a faticar molto per cose da nulla; niuno si rassegna a
soffrire attivamente senz'alcun frutto. Quindi è che dall'abito della
rassegnazione sempre nasce {noncuranza, negligenza,}
indolenza, inattività, e finalmente pigrizia, e torpidezza, e insensibilità, e
quasi immobilità. (2. Luglio. 1823.).
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