5. Feb. 1821.
[614,2] È cosa notabile come l'uomo sommamente sventurato, o
scoraggito della vita, e deposta già e complorata la speranza della propria felicità, ma non perciò ridotto a
quella disperazione che non si acquieta se non colla morte; naturalmente, e
senza veruno sforzo sia portato a servire e beneficar gli altri, anche quelli
che o gli sono del tutto indifferenti, o anche odiosi. E non già per vigore di
eroismo, chè l'uomo in tale stato non è capace di nessun vigore d'animo; ma in
certo modo, come non avendo più interesse nè speranza per te, trasporti
l'interesse e la speranza agli affari altrui, e così cerchi di riempiere l'animo
tuo, di occuparlo, e di rendergli i due sopraddetti sentimenti, cioè cura di
qualche cosa, {ossia scopo,} e speranza, senza
615 i quali la vita non è vita, non si conosce, manca
del senso di se stessa. Il fatto sta che quando l'uomo si trova in tali
circostanze, cioè disperato in maniera, non da odiarsi, (ch'è la ferocia della
disperazione) ma da noncurarsi, e metter se stesso fuori della sfera de' suoi
pensieri; non solo prova compiacenza nel servir gli altri, ma prende anche per
gli affari loro (ancorchè, come ho detto di persone indifferenti) una certa
affezione, un certo impegno, un desiderio ec. tutto languido bensì, perchè
l'animo suo non è più capace di sentimento vivo e forte, ma pur tale, ch'egli
non è stato mai animato verso {il bene altrui} così
sensibilmente. E ciò accade anche appena l'uomo si riduce alla detta condizione,
così che avviene in lui come un cangiamento improvviso: ed accade anche negli
uomini stati infetti di egoismo. In somma la persona degli altri sottentra
nell'animo suo, quasi intieramente, alla persona propria, ch'è sparita, e messa
in non cale e per perduta, come quella che non può più sperare, e non è più
capace della felicità, senza cui la vita manca del suo fine, e scopo. E il
desiderio e la cura
616 e la speranza della felicità,
che non possono più diriggersi alla felicità propria, riconosciuta impossibile,
e nel cercar la quale sarebbero vane, e quindi non più sufficienti all'animo
umano; si rivolgono alla felicità altrui: e ciò spontaneamente, e senz'ombra di
eroismo. E l'animo dell'uomo che mancatogli lo scopo della felicità, è
moralmente morto, risorge a una languida vita, ma tuttavia risorge e vive in
altrui, cioè nello scopo dell'altrui felicità, divenuto lo scopo suo. Come quei
corpi di sangue corrotto e malsano, e quindi incapaci di vita, che alcuni medici
spogliavano {(o proponevano di spogliare)} del sangue
proprio, e restituivano ad una certa salute, colla introduzione del sangue
altrui, o di qualche animale; quasi cangiando la persona, e trasformando quella
che non poteva più vivere, in un'altra capace di vita: e così conservando la
vita di una persona, per se stessa inetta a vivere.
[616,1] Ed è anche una cagione del detto effetto, quella ch'io
son per dire. L'uomo che sebbene disperato, non perciò si odia (cosa che avviene
per
617 lo più, non mica, come parrebbe, prima che
l'uomo cominci ad odiarsi, ma dopo che si è sommamente, ed inutilmente odiato, e
così l'amor proprio, tentato ogni mezzo di soddisfarsi, resta del tutto
mortificato, e l'animo esaurito d'ogni forza, si riduce alla calma, e alla
quiete dello spossamento, e perde affatto la capacità di ogni sentimento vivo)
l'uomo dico il quale senza odiarsi, solamente considera se stesso, e la vita sua
come inutile, prova una compiacenza {e soddisfazione,}
una (ma leggerissima) consolazione, nel trovar dove adoprare se stesso e la
vita, che altrimenti non servirebbe più a nulla; e l'uso qualunque di se stesso
e della vita, gittata già come cosa inutilissima, sebbene a lui non giovi nulla,
sebbene egli non sia più capace d'illusioni, nè di credersi buono a gran cose;
tuttavia lo conforta, rappresentandolo a se stesso, come alquanto meno inutile;
o se non altro (e piuttosto) col pensiero di avere almeno adoprato, e non
gittato affatto, quell'avanzo di esistenza, e di forza viva e materiale.
(5. Feb. 1821.).