Gioventù.
Youth.
195,2 277,1 280,2 294,1 302,1 313,1 593,2 633,1 636,2 681 1165,2 1169,1 1315,1 1387,2 1420,2 1436,1 1472,2 1473,1 1546 1554,2 1555,1 1572,3 1584,2 1648,1 1673,1 1724,1 1863,1 1885,1 1903,1 1939,1 1974,1 1988,3 2032,1 2107,1 2156,1 2208,2 2473,1 2481,3 2495,1 2523,2 2545,12555,1 2643,1 2684,1 2736,1 2987,3 3029,2 3265,1 3291,1 3440,1 3443,1 3520,1 3921,1 4038 4103,6 4180,3 4226,4 4229,4 4266,1 4284,1 4287,1Da' 25 anni in poi, ciascun uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima, la decadenza della sua gioventù.
From the age of 25 onward, everyone is aware of a very bitter misfortune, i.e. the decline of their youth.
4287,1[195,2] Sebbene è spento nel mondo il grande e il bello e il
vivo, non ne è spenta in noi l'inclinazione. Se è tolto l'ottenere, non è tolto
nè possibile a togliere il desiderare. Non è spento nei giovani l'ardore che li
porta a procacciarsi una vita, e a sdegnare la nullità e la monotonia. Ma tolti
gli oggetti ai quali anticamente si era rivolto questo ardore, vedete a che cosa
li debba portare e li porti effettivamente. L'ardor giovanile, cosa
naturalissima, universale, importantissima, una volta entrava grandemente nella
considerazione
196 degli uomini di stato. Questa materia
vivissima e di sommo peso, ora non entra più nella bilancia dei politici e dei
reggitori, ma è considerata appunto come non esistente. Fratanto[Frattanto] ella esiste ed opera senza direzione nessuna,
senza provvidenza, senza esser posta a frutto (opera perchè quantunque tutte le
istituzioni tendano a distruggerla, la natura non si distrugge, e la natura in
un vigor primo {freschissimo} e sommo com'è in
quell'età) e laddove anticamente era una materia impiegata {e
ordinata} alle grandi utilità pubbliche, ora questa materia così
naturale, e inestinguibile, divenuta estranea alla macchina e nociva, circola e
serpeggia e divora sordamente come un fuoco elettrico, che non si può sopire
{nè impiegare in bene} nè impedire che non iscoppi
in temporali in tremuoti ec. (1. Agosto 1820.).
[277,1] Quel vecchio che non ha presente nè futuro, non è
privo perciò di vita. Se non è stato mai uomo, non ha bisogno se non di quel
nonnulla che gli somministra la sua situazione, e tutto gli basta per vivere. Se
è stato uomo, ha un passato, e vive in quello. La mancanza del presente, non è
la cosa più grave per gli uomini, anzi atteso la nullità di tutto quello che si
vede nella realtà e da vicino, si può dire che il presente sia nullo per tutti,
e che ogni uomo manchi del
presente. Il vuoto del futuro non è gran cosa per lui, 1. perch'è già sazio
della vita, che ha già provata, gustata, adoperata ec. 2. perchè i suoi
desideri, passioni, affetti, sentimenti, sono rintuzzati e
278 intorpiditi, e ristretti,
e non esigono più grandi beni, piaceri, movimenti, azioni presenti, nè grandi
speranze, gran vita attuale o avvenire: 3. perchè l'estensione materiale del suo
futuro è piccola, e non lo può spaventare gran fatto il vuoto di un piccolo
spazio. Ma il giovane senza presente nè futuro, cioè senza nè beni, attività,
piaceri, vita ec. nè speranze e prospettiva dell'avvenire, dev'essere
infelicissimo e disperato, mancare affatto di vita, e spaventarsi e inorridire
della sua sorte e del futuro. 1. Il giovane non ha passato. Tutto quello che ne
ha, {non} serve altro che ad attristarlo e stringergli
il cuore. Le rimembranze della fanciullezza e della prima adolescenza, dei
godimenti di quell'età perduti irreparabilmente, delle speranze fiorite, delle
immaginazioni ridenti, dei disegni aerei di prosperità futura, di azioni, di
vita, di gloria, di piacere, tutto svanito. 2. I desideri e le passioni sue,
sono ardentissime ed esigentissime. Non basta il poco; hanno bisogno di
moltissimo. Quanto è maggiore la sua vita interna, tanto maggiore è il bisogno e
l'estensione e intensità ec. della vita esterna che si desidera. E mancando
questa, quanto maggiore è la vita interna, tanto maggiore è il senso di
279 morte, di nullità, di noia ch'egli prova: insomma
tanto meno egli vive in tali circostanze, quanto la sua vita interiore è più
energica. 3. Il giovane non ha provato nè veduto. Non può esser sazio. I suoi
desideri e passioni sono più ardenti e bisognosi, come ho detto, non solo
assolutamente per l'età, ma anche materialmente, per non avere avuto ancora di
che cibarsi e riempiersi. Non può esser disingannato nell'intimo fondo e nella
natura, quando anche lo sia in tutta l'estensione della sua ragione. 4. Il suo
futuro è materialmente lunghissimo, e l'immensità dello spazio vuoto che resta a
percorrere, fa orrore, massime paragonandolo con quel poco che ha avuto tanta
pena a passare. Il giovane a questa considerazione si spaventa e dispera {eccessivamente,} sembrandogli quel futuro più lungo e
terribile di un'eternità. Di più tutta la sua vita consiste nel futuro. L'età
passata non è stata altro che un'introduzione alla vita. Dunque egli è nato
senza dover vivere. Il giovane prova disperazioni mortali, considerando che una
sola volta deve passare per questo mondo, e che questa volta non godrà della
vita, non vivrà, {avrà perduto e gli sarà inutile la sua
unica esistenza.} Ogn'istante che passa della sua gioventù in questa
guisa, gli sembra
280 una perdita irreparabile fatta
sopra un'età che per lui non può più tornare. (16. 8.bre
1820.).
[280,2] Anche la mancanza {sola} del
presente è più dolorosa al giovine che a qualunque altro. Le illusioni in lui
sono più vive, e perciò le speranze più capaci di pascerlo. Ma l'ardor giovanile
non sopporta la mancanza intera di una vita presente, non è soddisfatto del solo
vivere nel futuro, ma ha bisogno di un'energia attuale, e la monotonia e
l'inattività presente gli è di una pena di un peso di una noia maggiore che in
qualunque altra età, perchè l'assuefazione alleggerisce qualunque male, e l'uomo
col lungo uso si può assuefare anche all'intera e perfetta noia, e trovarla
molto meno insoffribile che da principio. L'ho provato io, che della noia da
principio mi disperava, poi questa crescendo in luogo di scemare, tuttavia
l'assuefazione me la rendeva appoco appoco meno spaventosa, e più suscettibile
di pazienza. La qual pazienza della noia in me divenne finalmente affatto
eroica. {Esempio de' carcerati, i quali talvolta si sono
anche affezionati a quella vita.}
[294,1] Le cagioni dell'amore dei vecchi alla vita e del timor
della morte, i quali par che crescano in proporzione che la vita è meno amabile,
e che la morte può
295 privarci di minore spazio di
tempo, e di minori godimenti, anzi di maggiori mali (fenomeno discusso
ultimamente dai filosofi tedeschi che ne hanno recato mille ragioni fuorchè le
vere: v. lo Spettatore di
Milano), sono, oltre quella che ho recata,
mi pare, negli abbozzi della Vita di Lorenzo Sarno, queste altre.
1. Che coll'ardore e la forza della vitalità e dell'esistenza, si estingue o
scema il coraggio, e quindi a proporzione che l'esistenza è meno gagliarda,
l'uomo è meno forte per poterla disprezzare, e incontrarne o considerarne la
perdita. Anche i giovani più facili a disprezzar la vita, coraggiosissimi nelle
battaglie e in ogni rischio, sono bene spesso paurosissimi nelle malattie, tanto
per la detta cagione della minor forza del corpo, e quindi dell'animo, quanto
perchè non possono opporre alla morte quell'irriflessione, quel movimento,
quell'energia, che gl'impedisce di fissarla nel viso, in mezzo ai rischi attivi.
2. Che molte cose vedute da lungi paiono facilissime ad incontrare, e niente
spaventose, e in vicinanza riescono terribili, e poi ci si trovano mille
difficoltà, mille crepacuori; affezioni, progetti ec. che da lontano pareano
facili ad abbandonare
296 per forza di ardore di
entusiasmo, o di passione, disperazione ec. e da vicino rincrescono
infinitamente quando la passione è sparita, e le cose si considerano
quietamente. 3. Che la natura ha posto negli esseri viventi sommo amor della
vita, e quindi odio della morte, e queste passioni ha voluto e fatto che fossero
cieche, e non dipendessero dal calcolo delle utilità, della maggiore o minor
perdita ec. Quindi è naturale che gli effetti di questo amore e di quest'odio
crescano in proporzione che la cosa amata è più in pericolo, e più bisognosa di
cure per conservarla, e la cosa odiata più vicina. 4. Che i beni si disprezzano
quando si possiedono sicuramente, e si apprezzano quando sono perduti, o si
corre pericolo o si è in procinto di perderli. E come quel disprezzo era
maggiore del giusto, così anche questa stima suol eccedere i limiti in
qualsivoglia cosa. Ora il giovane, per quanto è concesso all'uomo, è il vero
possessor della vita; il vecchio la possiede come precariamente. 5. Che la
felicità o infelicità non si misura dall'esterno ma dall'interno. Il vecchio per
l'assuefazione è meno suscettibile
297 di mali, e meno
sensibile a quelli che gli avvengono; per l'estinzione dell'impeto e
dell'inquietudine giovanile, meno bisognoso dei beni che gli mancano, meno vivo
nei desideri, più facile a soffrir la privazione di ciò che desidera, e a
desiderar cose dove possa agevolmente esser soddisfatto. Laonde la vita del
vecchio non è più infelice di quella del giovane, anzi forse più felice secondo
la sesta considerazione. 6. Che la vita metodica, tranquilla e inattiva non è
penosa ma piacevole, quando s'accordi col metodo, calma, e inattività
dell'individuo. Certo il giovane muore in una tal condizione, ma la condizione
ch'egli desidera, specialmente nello stato presente del mondo, è difficilissima
o impossibile a conseguire. Egli non trova altro che il nulla da cui fugge; il
vecchio lo desidera, lo cerca, lo trova come tutti gli altri di qualunque età, e
a differenza delle altre età, se ne compiace, o almeno non se ne duole, o certo
lo soffre con pazienza, e quando l'uomo è perfettamente paziente, allora non può
non amar la vita, perchè questa è amabile per natura. Aggiungete la tempesta
delle passioni, dalla
298 dalla quale il vecchio è
libero, la tempesta del mondo, della società, degli affari, delle azioni, degli
stessi diletti, quella tempesta nella quale il giovane, anche dopo averla
sospirata in mezzo alla noia, sospira il riposo e la calma. Anzi è certo che lo stato naturale è il riposo e la quiete, e
che l'uomo anche più ardente, più bisognoso di energia, tende alla calma
{e all'inazione}
continuamente in quasi tutte le sue operazioni. Osservate ancora che la
vita metodica era quella dell'uomo primitivo, e la più felice vita, non sociale,
ma naturale. Osservate anche oggidì l'impressione che fa l'aspetto di essa vita
rurale o domestica, nelle persone più dissipate, o più occupate, e com'ella par
loro la più felice che si possa menare. È vero che ella ordinariamente è tale
quando consiste in un metodo di occupazioni, e tale era nei primitivi, e nei
selvaggi sempre occupati ai loro bisogni, o ad un riposo figlio e padre della
fatica e dell'azione. Ma in ogni modo l'uomo avvezzandosi anche alla pura
inazione, ci si affeziona talmente che l'attività gli riuscirebbe
299 penosissima. Si vedono bene spesso de' carcerati
ingrassare e prosperare, ed esser pieni di allegria, nella stessa aspettazione
di una sentenza che decida della loro vita. Dove anzi l'imminenza del male,
accresce il piacere del presente, cosa già osservata dagli antichi (come da Orazio), anzi famosa tra loro, e provata
da me, che non ho mai sperimentato tal piacere della vita, e tali furori di
gioia maniaca ma schiettissima, come in alcuni tempi ch'io aspettava un male
imminente, e diceva a me stesso; ti resta tanto a godere e
non più, e mi rannicchiava in me stesso, cacciando tutti gli altri
pensieri, e soprattutto di quel male, per pensare solamente a godere, non
ostante la mia indole malinconica in tutti gli altri tempi, e riflessivissima.
Anzi forse questa accresceva allora l'intensità del godimento, o della
risoluzione di godere. Applicate anche questa settima considerazione ai vecchi.
V. p. 121. pensiero 3. e
confrontalo, rettificalo, ed accrescilo con questo, e questo con quello.
(23. 8.bre 1820.).
[302,1] Nelle estreme sventure tutte le altre età ammettono la
consolazione o filosofica, o qualunque. Solamente la giovanezza non ammette e
non vede altra consolazione che della morte. Il libro di Crantore, περὶ πένθους lodatissimo dagli
antichi, il libro di Cic.
de
Consolatione dove espresse in gran parte quello di Crantore, saranno stati utili alle
altre età. Pel giovane estremamente sventurato {o che si
creda tale,} non si può scriver libro consolatorio.
[313,1] Come la forza della natura giovanile, forza che non
può esser vinta in fatto da nessuna
ragionevolezza, studio, filosofia, precoce maturità di pensare ec. fa che il
giovane s'inebbri facilmente della felicità, così anche dell'infelicità, quando
questa è tanto grave che superi la naturale inclinazione del giovane
all'allegrezza, al divagarsi, a sperare, a noncurare il male. E perciò il
giovane è incapace d'altra consolazione che della morte, come ho detto p. 302. Nè religione, nè ragione, nè
altro che sia, non è sufficiente a consolare il giovane sommamente sventurato,
s'egli ha una certa forza d'animo, la quale tutta s'impiega in consolidare, e
fargli sentire profondamente e ostinatamente il suo male.
[593,2]
Quid autem est horum in
voluptate? melioremne efficit, aut laudabiliorem virum? an quisquam in potiundis voluptatibus
gloriando sese, et praedicatione effert?
*
(Cic., Paradox.
1. c. 3. fine) Oggi sibbene, o M.
Tullio, nè c'è maggior gloria per la gioventù, nè scopo alla carriera
loro più brillantemente, manifestamente e concordemente proposto, nè mezzo di
ottener lode e stima più sicuro e comune, che quello
594
di seguire e conseguire le voluttà, ed abbondarne, e ciò più degli altri.
L'oggetto delle gare ed emulazioni della più florida parte della gioventù, non è
altro che la voluttà, e il trionfo e la gloria è di colui che ne conseguisce
maggior porzione, e che sa {e può} godere e immergersi
nei vili piaceri più degli altri. Le voluttà sono lo stadio della gioventù
presente: tanto che {già} non si cercano principalmente
per se stesse, ma per la gloria che ridonda dall'averle cercate e conseguite. E
se non di tutte le voluttà si può gloriare colui che le ottiene, in quel momento
medesimo, in cui le gode, (sebbene di moltissimi generi di voluttà accade {tuttogiorno} ancor questo) certo desidererebbe di
poterlo fare, di aver testimoni del suo godimento: anzi questo godimento
consiste per la massima parte nella considerazione e aspettativa del vanto che
gliene risulterà: e subito dopo, non ha maggior cura, che di divulgare e
vantarsi della voluttà provata; e questo anche a rischio di chiudersi l'adito a
nuove voluttà; e colla certezza di nuocere, tradire, essere
595 ingiusto e ingrato verso coloro onde ha ottenuta la voluttà che
cercava. E sebbene certamente neanche oggi la voluttà rende l'uomo migliore, lo
rende {però} più lodevole agli occhi della presente
generazone, il che tu o M. Tullio,
stimavi che non potesse avvenire. (1 Feb. 1821.).
[633,1]
Quand on est jeune, on ne songe qu'à vivre dans
l'idée d'autrui: il faut établir sa réputation, et se donner une
place honorable dans l'imagination des autres, et être heureux même
dans leur idée: notre bonheur n'est point réel; ce n'est pas nous
que nous consultons, ce sont les autres. Dans un autre âge, nous
revenons à nous; et ce retour a ses douceurs, nous commençons à nous
consulter et à nous croire.
*
M.me la Marquise de Lambert,
Traité de la
Vieillesse, verso la fine: dans ses Oeuvres complètes,
Paris 1808. 1.re édit. complète. p. 150. Il vient un temps dans la vie qui est
consacré à la vérité, qui est destiné à connoître les choses selon
leur juste valeur. La jeunesse et les passions fardent tout. Alors
nous revenons aux plaisirs simples; nous commençons à nous consulter
634 et à nous croire sur notre
bonheur.
*
Ib. p. 153. Queste riflessioni sono osservabili. Non
solo nella vecchiezza, ma nelle sventure, ogni volta che l'uomo si trova senza
speranza, o almeno disgraziato nelle cose che dipendono dagli uomini, comincia a
contentarsi di se stesso, e la sua felicità, e soddisfazione, o almeno
consolazione a dipender da lui. Questo ci accade anche in mezzo alla società, o
agli affari del mondo. Quando l'uomo vi si trova male accolto, o annoiato, o
disgraziato, o in somma trova quello che non vorrebbe, ricorre a se stesso, e
cerca il bene e il piacere nell'anima sua. L'uomo sociale, finch'egli può, cerca
la sua felicità e la ripone nelle cose al di fuori e appartenenti alla società,
e però dipendenti dagli altri. Questo è inevitabile. Solamente o principalmente
l'uomo sventurato, e massime quegli che lo è senza speranza, si compiace della
sua compagnia, e di riporre la sua felicità nelle cose sue proprie, e
indipendenti dagli altri; e insomma segregare la sua felicità, dall'opinione e
dai vantaggi che ci risultano dalla società, e ch'egli non può conseguire, o
sperare. Forse per questo, o anche
635 per questo, si è
detto che l'uomo che non è stato mai sventurato non sa nulla. L'anima, i
desideri, i pensieri, i trattenimenti dell'uomo felice, sono tutti al di fuori,
e la solitudine non è fatta per lui: dico la solitudine o fisica, o morale e del
pensiero. Vale a dire che se anche egli si compiace nella solitudine, questo
piacere, e i suoi pensieri e trattenimenti in quello stato, sono tutti in
relazioni colle cose esteriori, e dipendenti dagli altri, non mai con quelle
riposte in lui solo. Non è però che la felicità o consolazione dell'uomo
sventurato o vecchio, sieno riposte nella verità, e nella meditazione e
cognizione di lei. Che piacere o felicità o conforto ci può somministrare il
vero, cioè il nulla? (se escludiamo la sola Religione). Ma altre illusioni,
forse più savie perchè meno dipendenti, e perciò anche più durevoli, sottentrano
a quelle relative alla società. E questo è in somma quello che si chiama
contentarsi di se stesso, e omnia tua in te posita
ducere,
*
con che Cicerone (Lael. sive de Amicit.
c. 2.) definisce la sapienza. Un sistema, un complesso, un ordine, una
vita d'illusioni indipendenti, e perciò stabili: non altro. (9. Feb.
1821.).
[636,2]
Nous ne vivons que pour perdre et pour nous
détacher.
*
Mme. Lambert, lieu cité ci-dessus, p. 145. alla
metà del Traité de la Vieillesse. Così è. Ciascun giorno
perdiamo qualche cosa, cioè perisce, o scema qualche illusione, che sono l'unico
nostro avere. {L'esperienza e la verità ci spogliano alla
giornata di qualche parte dei nostri possedimenti.} Non si vive se non
perdendo. L'uomo nasce ricco di tutto, crescendo impoverisce, e giunto alla
vecchiezza si trova quasi senza nulla. Il fanciullo è più ricco del giovane,
anzi ha tutto; ancorchè poverissimo e nudo {e
sventuratissimo,} ha più del giovane più fortunato; il giovane è più
ricco dell'uomo maturo, la maturità più ricca della vecchiezza. Ma Mad. Lambert dice questo in altro
senso, cioè rispetto alle perdite {così dette} reali,
che si fanno coll'avanzar dell'età. (9. Feb. 1821.) Ma siccome
nessuna cosa si possiede realmente, così nulla si può perdere. Bensì quel detto
è vero per quest'altra parte, relativamente alla condizione presente degli
uomini, e
637 dello spirito umano, e della società.
(10. Feb. 1821.).
[678,3]
Nous n'avons qu'une portion d'attention et de
sentiment; dès que nous nous livrons aux objets extérieurs, le
sentiment dominant s'affoiblit: nos desirs ne sont-ils pas plus vifs
et plus forts dans la retraite?
*
Mme. de Lambert, lieu cité
ci-derrière (p. 677. fine) p.
188.
679 La solitudine è lo stato naturale di gran parte, o
piuttosto del più degli animali, e probabilmente dell'uomo ancora. Quindi non è
maraviglia se nello stato naturale, egli ritrovava la sua maggior felicità nella
solitudine, e neanche se ora ci trova un conforto, giacchè il maggior bene degli
uomini deriva dall'ubbidire alla natura, e secondare quanto oggi si possa, il
nostro primo destino. Ma anche per altra cagione la solitudine è oggi un
conforto all'uomo nello stato sociale al quale è ridotto. Non mai per la
cognizione del vero in quanto vero. Questa non sarà mai sorgente di felicità, nè
oggi; nè era allora quando l'uomo primitivo se la passava in solitudine, ben
lontano certamente dalle meditazioni filosofiche; nè agli animali la felicità
della solitudine deriva dalla cognizione del vero. Ma anzi per lo contrario
questa consolazione della solitudine deriva all'uomo oggidì, e derivava
primitivamente dalle illusioni. Come ciò fosse primitivamente, in quella vita
occupata o da continua
680 sebben solitaria azione, o da
continua attività {interna} e successione d'immagini
{disegni ec.} ec. e come questo accada parimente
ne' fanciulli, l'ho già spiegato più volte. Come poi accada negli uomini oggidì,
eccolo. La società manca affatto di cose che realizzino le illusioni per quanto
sono realizzabili. Non così anticamente, e anticamente la vita solitaria fra le
nazioni civili, o non esisteva, o era ben rara. Ed osservate che quanto si
racconta de' famosi solitari cristiani, cade appunto in quell'epoca, dove la
vita, l'energia, la forza, la varietà originata dalle antiche forme di
reggimento e di stato pubblico, e in somma di società, erano svanite o
sommamente illanguidite, col cadere del mondo sotto il despotismo. Così dunque
torna per altra cagione ad esser proprio degli stati e popoli corrotti, quello
ch'era proprio dell'uomo primitivo, dico la tendenza dell'uomo alla solitudine:
tendenza stata interrotta dalla prima energia della vita sociale. Perchè oggidì
è così la cosa. La presenza e l'atto della società spegne le illusioni,
681 laddove anticamente le fomentava e accendeva, e la
solitudine le fomenta o le risveglia, laddove non primitivamente, ma anticamente
le sopiva. Il giovanetto ancora chiuso fra le mura domestiche, o in casa di
educazione, o soggetto all'altrui comando, è felice nella solitudine per le
illusioni, i disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe:
e questo ancorchè egli sia d'ingegno penetrante, e istruito, ed anche, quanto
alla ragione, persuaso della nullità del mondo. L'uomo disingannato, stanco,
esperto, esaurito di tutti i desideri, nella solitudine appoco appoco si rifa,
ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno vivamente, a ogni
modo risorge, ancorchè penetrantissimo d'ingegno, e sventuratissimo. Come
questo? forse per la cognizione del vero? Anzi per la dimenticanza del vero, pel
diverso e più vago aspetto che prendono per lui, quelle cose già sperimentate e
vedute, ma che ora essendo lontane dai sensi e dall'intelletto, tornano a
passare per la immaginazione sua, e quindi abbellirsi. Ed egli torna a sperare
682 e desiderare, e vivere, per poi tutto riperdere,
e morire di nuovo, ma più presto assai di prima, se rientra nel mondo.
[1165,2] Tutti quanti i giovani, benchè qual più qual meno,
sono per natura disposti all'entusiasmo, e ne provano. Ma l'entusiasmo de'
giovani oggidì, coll'uso del mondo, e coll'esperienza delle cose che {quelli} da principio vedevano da lontano, si spegne non
in altro modo nè per diversa cagione, che una facella per difetto di alimento:
anche durando la gioventù, e la potenza naturale dell'entusiasmo. (13.
Giugno 1821.).
[1169,1] L'ardore giovanile è la maggior forza, l'apice, la
perfezione, l'ἀκμή della natura umana. Si consideri dunque la convenienza di
quei sistemi politici, nei quali l'ἀκμή dell'uomo, cioè l'ardore e la
1170 forza giovanile, non è punto considerata, ed è
messa del tutto fuori del calcolo, come ho detto in altro pensiero pp.
195-96. (15. Giugno 1821.).
[1315,1] Il successivo cambiamento delle disposizioni
dell'animo di ciascun uomo secondo l'età, è una fedele e costante immagine del
cambiamento delle generazioni umane nel processo de' secoli. {+(E così viceversa).} Eccetto che è
sproporzionamente[sproporzionatamente]
rapido, massimamente oggidì, perchè il giovane di venticinque anni non serba più
somiglianza alcuna col tempo antico, nè veruna qualità, opinione, disposizione,
inclinazione antica, come l'immaginazione, la virtù ec. ec. ec. (13.
Luglio 1821.).
[1387,2] I giovani massime alquanto istruiti prima di entrare
nel mondo, credono facilmente e fermamente in generale, quello che sentono o
leggono delle cose umane, ma nel particolare non mai. E il frutto
dell'esperienza è persuadere a' giovani, {quanto alla vita
umana,} che il generale si verifica effettivamente in tutti o in quasi
tutti i particolari, e in ciascuno di essi. (25. Luglio 1821.).
[1420,2] La forza anche passeggera del corpo, oltre gli
effetti altrove notati pp. 96-97
p.
115, rende anche più coraggiosi del solito, e meno suscettibili al
timore, anche
1421 de' pericoli straordinari ec. Quindi
i giovani sono più coraggiosi de' vecchi, e disprezzatori della vita, benchè
abbiano tanto più da perdere ec. {contro quella
osservazione} ordinarissima, che principal fonte di coraggio suol
essere l'aver poco a perdere ec. (31. Luglio 1821.).
[1436,1] Mirabile disposizione della natura! Il giovane non
crede alle storie, benchè sappia che son vere, cioè non crede che debbano
avverarsi ne' particolari della sua vita, degli uomini ch'egli conosce, {e} tratta, o conoscerà e tratterà, e spera di trovare il
mondo assai diverso, almeno in quanto a se stesso, e per modo di eccezione. E
crede pienamente a' poemi e romanzi, benchè sappia che sono falsi, cioè se ne
lascia persuadere che il mondo sia fatto e vada in quel
1437 modo, e crede di trovarlo così. Di maniera che le storie che
dovrebbero fare per lui le veci dell'esperienza, e così pure gl'insegnamenti
filosofici ec. gli restano inutili, non già per capriccio, nè ostinazione, nè
piccolezza d'ingegno, ma per opera universale e invincibile della natura. E solo
quando egli è dentro a questo mondo sì cambiato dalla condizione naturale,
l'esperienza lo costringe a credere quello che la natura gli nascondeva, perchè
neppur nel fatto era conforme alle di lei disposizioni. Segno che il mondo è
tutto il rovescio di quello che dovrebbe, poichè il giovane che non ha altra
regola di giudizio, se non la natura, e quindi è giudice competentissimo,
giudica sempre ed inevitabilmente vero il falso, e falso il vero. (2.
Agosto. 1821.).
[1472,2] Non hanno torto i padri e le madri che amano la vita
metodica, senza varietà, senza
1473 commozioni, senza
troppe fatiche, la pace domestica ec. I loro gusti, le loro inclinazioni possono
ben difendersi, e v'è tanto da dire per la morte come per la vita, dice la Staël. Ma il gran torto {degli educatori} è di volere che ai giovani piaccia
quello che piace alla vecchiezza o alla maturità; che la vita giovanile non
differisca dalla matura; di voler sopprimere la differenza di gusti di desiderii
ec. che la natura invincibile e immutabile ha posta fra l'età de' loro allievi,
e la loro, o {non} volerla riconoscere, o volerne
affatto prescindere; di credere che la gioventù de' loro allievi debba o possa
riuscire essenzialmente, e {quasi} spontaneamente
diversa dalla propria loro, e da quella di tutti i passati presenti e futuri; di
volere che gli ammaestramenti, i comandi, e la forza della necessità suppliscano
all'esperienza ec. (9. Agos. 1821.).
[1473,1] Quel giovane che fu d'animo eroico nella virtù (come
sogliono essere tutti quelli che nascono con grande e forte immaginazione e
sentimento), se per forza dell'esperienza, delle
1474
sventure, degli esempi, disingannato della virtù, arriva a lasciarla, diviene
eroico nel vizio, e capace di molto maggiori errori, che non sono gli altri ec.
Non già per una continuazione di entusiasmo applicato al male, ma per un eccesso
di freddezza che è sempre compagna della malvagità. Egli diviene un eroe di
freddezza, e tanto più intrepido, duro, ghiacciato, quanto era stato più
fervido. Come quei vapori che si convertono in grandine, i quali non si
stringerebbero nel più duro, denso, e sodo ghiaccio che possa formarsi
nell'aria, se straordinario calore non gli avesse innalzati a straordinaria
sublimità. In tutte le cose gli eccessi si toccano assai più fra loro, che col
loro mezzo, e l'uomo eccessivo in qualunque cosa, è molto più inclinato e
proclive all'eccesso contrario che al mezzo. Ed è molto più facile, conseguente, e naturale per la forza e la qualità di un'indole eccessiva, il saltare dall'uno
all'opposto estremo, che il recarsi e fermarsi nel mezzo ec. ec. (9. Agos.
1821.)
[1545,1] L'uomo senza la speranza non può assolutamente
vivere, come senza amor proprio. La disperazione medesima contiene la speranza,
non solo perchè resta sempre nel fondo dell'anima una speranza, un'opinione
direttamente o quasi direttamente, ovvero obbliquamente contraria a quella ch'è
l'oggetto della disperazione; ma perchè questa medesima nasce ed è mantenuta
dalla speranza o di soffrir meno col non isperare nè desiderare più nulla; e
forse anche con questo mezzo, di goder qualche cosa; o di esser più libero e
sciolto e padrone di se, e disposto ad agire a suo talento, non avendo più nulla
da perdere, {+più sicuro, anzi totalmente
(se è possibile e v. la p.
1477.) sicuro in mezzo a qualunque futuro caso della vita ec.;}
o di qualche altro vantaggio simile; o finalmente, se la disperazione è estrema
{ed intera cioè
su tutta la vita,} di vendicarsi della fortuna e di se stesso, di
goder della stessa disperazione, della stessa agitazione, vita interiore,
sentimenti gagliardi ch'ella suscita ec. Il piacere della disperazione è ben
conosciuto, e quando si rinunzi alla speranza e al desiderio di tutti gli altri,
non si lascia mai di sperare
1546 e desiderar questo.
Insomma la disperazione medesima non sussisterebbe senza la speranza, e l'uomo
non dispererebbe se non isperasse. Infatti la disperazione più debole e meno
energica è quella dell'uomo vecchio, lungamente disgraziato, sperimentato ec.
che spera veramente meno. La più forte, intera, sensibile, e formidabile, è
quella del giovane ardente {e inesperto,} ch'è pieno di
speranze, e che gode {perciò} sommamente {benchè barbaramente} della stessa disperazione ec.
(22. Agos. 1821.).
[1554,2] In questo presente stato di cose, non abbiamo gran
mali, è vero, ma nessun bene; e questa mancanza è un male grandissimo, continuo,
intollerabile, che rende penosa tutta quanta la vita, laddove i mali parziali,
ne affliggono solamente una parte. L'amor proprio, e quindi il desiderio
ardentissimo della felicità, perpetuo ed essenzial compagno della vita
1555 umana, se non è calmato da verun piacere {vivo,} affligge la nostra esistenza crudelmente, quando
anche non v'abbiano altri mali. E i mali son meno dannosi alla felicità che la
noia ec. anzi talvolta utili alla stessa felicità. L'indifferenza non è lo stato
dell'uomo; è contrario dirittamente alla sua natura, e quindi alla sua felicità.
V. la mia teoria del piacere,
applicandola a queste osservazioni, che dimostrano la superiorità del mondo
antico sul moderno, in ordine alla felicità, come pure dell'età fanciullesca o
giovanile sulla matura. (24. Agos. 1821.).
[1555,1] Consideriamo la natura. Qual è quell'età che la
natura ha ordinato nell'uomo alla maggior felicità di cui egli è capace? Forse
la vecchiezza? cioè quando le facoltà dell'uomo decadono visibilmente; quando
egli si appassisce, indebolisce, deperisce? Questa sarebbe una contraddizione,
che la felicità, cioè la perfezione dell'essere, dovesse naturalmente trovarsi
nel tempo della decadenza e quasi corruzione di detto essere. Dunque la
gioventù, cioè il fior dell'età, quando le facoltà dell'uomo sono in pieno
vigore ec. ec.
1556 Quella è l'epoca della perfezione e
quindi della possibile felicità sì dell'uomo che delle altre cose. Ora la
gioventù è l'evidente immagine del tempo antico, la vecchiezza del moderno. Il
giovane e l'antico presentano grandi mali, congiunti a grandi beni, passioni
vive, attività, entusiasmo, follie non poche, movimento, vita d'ogni sorta. Se
dunque la gioventù è visibilmente l'età destinata dalla natura alla maggior
felicità, l'ἀκμή della vita, e per conseguenza della felicità ec. ec. se il
nostro intimo senso ce ne convince (che nessun vecchio non desidera di esser
giovane, e nessun giovane vorrebbe esser vecchio); se la considerazione del
sistema e delle armonie della natura ce lo dimostra a primissima vista; dunque
l'antico tempo era più felice del moderno; dunque che cosa è la sognata
perfettibilità dell'uomo? dunque ec. ec. Quest'osservazione si può stendere a
larghissime conseguenze. (24. Agos. 1821.).
[1572,3] Quanto l'uomo sia invincibilmente inclinato a
misurar gli altri da se stesso, si può vedere anche nelle persone le più
pratiche del mondo. Le quali se, p. e. sono fortemente morali, per quanto
conoscano, e sentano e vedano, non si persuaderanno mai intimamente che la
moralità non esista più, e
1573 sia del tutto esclusa
dai motivi determinanti l'animo umano. Lo dirà ancora, lo sosterrà, in qualche
accesso di misantropia arriverà a crederlo, ma come si crede momentaneamente a
una viva e conosciuta illusione, e non se ne persuaderà mai nel fondo
dell'intelletto. (Lascio i giovani i quali essendo ordinariamente virtuosi, non
si convincono mai prima dell'esperienza, che la virtù sia nemmeno rara.) Così
viceversa ec. ec. ec. Esempio, mio padre. (27. Agosto. 1821.).
[1584,2]
On peut plaider pour la
vie, et il y a cependant assez de bien à dire de la mort, ou de ce qui
lui ressemble.
*
(Corinne,
1585 t. 2. p. 335.) Dalla mia teoria del piacere (v. anche il pensiero precedente, e la p. 1580-81. ) risulta che
infatti, stante l'amor proprio, non conviene alla felicità possibile dell'uomo
se non che uno stato o di piena vita, o di piena morte. O conviene ch'egli e le
sue facoltà dell'animo sieno occupate da un torpore da una noncuranza attuale o
abituale, che sopisca e quasi estingua ogni desiderio, ogni speranza, ogni
timore; o che le dette facoltà e le dette passioni sieno distratte, esaltate,
rese capaci di vivissimamente e quasi pienamente occupare, dall'attività,
dall'energia della vita, dall'entusiasmo, da illusioni forti, e da cose {esterne} che in qualche modo le realizzino. Uno stato di
mezzo fra questi due è necessariamente infelicissimo, cioè il desiderio vivo,
l'amor proprio ardente, senza nessun'attività, nessun pascolo alla vita e
all'entusiasmo. Questo però è lo stato più comune degli uomini. Il vecchio potrà
talvolta trovarsi nel primo stato, ma non sempre. Il giovane vorrebbe sempre
trovarsi nel secondo, e oggidì si trova quasi sempre nel terzo. Così dico
proporzionatamente dell'uomo di mezza età. Dal che segue
1586 1. che il giovane senz'attività, il giovane domo e prostrato e
incatenato dalle sventure {ec.} è nello stato
precisamente il più infelice possibile: 2. che l'amor proprio non potendo mai
veramente estinguersi, e i desiderii pertanto esistendo sempre con maggiore o
minor forza, sì nel giovane che nel maturo e nel vecchio; lo stato al quale la
generalità degli uomini, e la natura immutabile inclina è sempre più o meno il
secondo: e quindi la migliore repubblica è quella che favorisce questo secondo
stato, come l'unico conducente generalmente alla maggior possibile felicità
dell'uomo, l'unico voluto e prescritto dalla natura, tanto per se stessa e
primitivamente (come ho spiegato nella teoria
del piacere); quanto anche oggidì, malgrado le infinite alterazioni
della razza umana. (29. Agos. 1821.).
[1648,1]
1648 Pare assurdo, ma è vero che l'uomo forse il più
soggetto a cadere nell'indifferenza e nell'insensibilità (e quindi nella
malvagità che deriva dalla freddezza del carattere), si è l'uomo sensibile,
pieno di entusiasmo e di attività interiore, e ciò in proporzione appunto della
sua sensibilità ec.
{Quasi si verifica in questo senso
e modo ciò che quel vecchio disse a Pico
p. 1178, della stupidità dei vecchi stati
spiritosi straordinariamente da fanciulli.} Massime s'egli
è sventurato; ed in questi tempi dove la vita esteriore non corrisponde, non
porge alimento nè soggetto veruno all'interiore, dove la virtù e l'eroismo sono
spenti, e dove l'uomo di sentimento e d'immaginazione e di entusiasmo è subito
disingannato. La vita esteriore degli antichi era tanta che avvolgendo i grandi
spiriti nel suo vortice arrivava piuttosto a sommergerli, che a lasciarsi
esaurire. Oggi un uomo quale ho detto, appunto per la sua straordinaria
sensibilità, esaurisce la vita in un momento. Fatto ciò, egli resta vuoto,
disingannato profondamente e stabilmente, perchè ha tutto profondamente e
vivamente provato: non si è fermato alla superficie, non si va affondando a poco
a poco; è andato subito al fondo, ha tutto abbracciato, e tutto rigettato come
effettivamente indegno e frivolo: non gli resta altro a vedere,
1649 a sperimentare, a sperare. Quindi è che si vedono
gli spiriti mediocri, ed alcuni sensibili e vivi sino a un certo segno, durar
lungo tempo ed anche sempre, nella loro sensibilità, suscettibili di affetto,
capaci di cure e di sacrificj per altrui, non contenti del mondo, ma sperando di
esserlo, facili ad aprirsi all'idea della virtù, a crederla ancora qualche cosa
ec. (Essi non hanno ancora perduto la speranza della felicità). Laddove quei
grandi spiriti che ho detto, fin dalla gioventù cadono in un'indifferenza,
languore, freddezza, insensibilità mortale, e irrimediabile: che produce un
egoismo noncurante, una somma incapacità di amare ec. La sensibilità e l'ardore
dell'animo è così fatto, che s'egli non trova pascolo nelle cose circostanti,
consuma se stesso, e si distrugge e perde in poco d'ora, lasciando l'uomo tanto
al disotto della magnanimità ordinaria, quanto prima l'avea messo al disopra.
Laddove la mediocre sensibilità si mantiene, perchè abbisogna di poco alimento.
Quindi è che le virtù grandi non sono
pe' nostri tempi.
1650
(7. Sett. 1821.). {{Puoi vedere p. 1653.
fine.}}
![](/assets/images/anchor.png)
[1673,1] L'uomo inesperto del mondo, come il giovane ec.
sopravvenuto da qualche disgrazia o corporale o qualunque, {dov'egli non abbia alcuna colpa,} non pensa neppure che ciò debba
essere agli altri, oggetto di riso sul suo conto, di fuggirlo, di spregiarlo,
1674 di odiarlo, di schernirlo. Anzi se egli
concepisce verun pensiero intorno agli altri, relativamente alla sua disgrazia,
non se ne promette altro che compassione, ed anche premura, o almen desiderio di
giovarlo; insomma non li considera se non come oggetti di consolazione e di
speranza per lui; tanto che talvolta arriva per questa parte a godere in certo
modo della sua sventura. Tale è il dettame della natura. Quanto è diverso il
fatto! Anche le persone le più sperimentate, ne' primi momenti di una disgrazia,
sono soggette a cadere in questo errore, e in questa speranza, almeno confusa e
lontana. Non par possibile all'uomo che una sventura non meritata gli debba
nuocere presso i suoi simili, nell'opinione, nell'affetto, ec. ma egli tien per
fermissimo tutto l'opposto; e s'egli è inesperto non si guarda di nascondere
agli altri (potendo) la sua disgrazia; anzi talvolta cerca di manifestarla:
laddove la principale arte di vivere consiste ordinariamente nel non confessar
mai di esser
1675 disgraziato, o di avere alcuno
svantaggio rispetto agli altri ec.
[1724,1] L'odio dell'uomo verso l'uomo si manifesta
principalmente, ed è confermato da ciò che accade nelle persone di una medesima
professione {ec.} fra le quali, sebben la perfetta
amicizia astrattamente considerata è impossibile e contraddittoria alla natura
umana, nondimeno anche la possibile amicizia è difficilissima, rarissima,
incostantissima ec. Schiller uomo di
gran sentimento era nemico di Goëthe
(giacchè non solo fra tali persone non v'è amicizia, o v'è minore amicizia, ma
v'è più odio che fra le persone poste in altre circostanze) ec. ec. ec. Le donne
godono del mal delle donne, anche loro amicissime. I giovani del male de'
giovani ec. ec. V. Corinne t. p. liv. ch. Non solo in una stessa
professione, ma anche in una stessa età ec. ec. l'amicizia è minore e l'odio è
maggiore. Eccetto l'esaltamento delle illusioni che favorisce assai l'amicizia
de' giovani, è certo, massime oggi che le grandi e belle illusioni non si
trovano, che l'amicizia è più facile tra un vecchio o maturo, e un giovane, che
tra giovane e giovane; tra
1725 due vecchi che tra due
giovani; perchè oggi, sparite le illusioni, e non trovandosi più la virtù ne'
giovani, i vecchi sono più a portata di amarsi meno, di essere stanchi
dell'egoismo perchè disingannati del mondo, e quindi di amare gli altri.
[1863,1] Si può dir che l'effetto della filosofia non è il
distruggere le illusioni (la natura è invincibile) ma il trasmutarle di generali
in individuali. Vale a dire che ciascuno si fa delle illusioni per se; cioè
crede
1864 che quelle tali speranze ec. siano vane
generalmente, ma spera sempre per se, o in quel tal caso di cui si tratta,
un'eccezione favorevole. Le illusioni così non sono meno generali, comuni, ed
uguali in tutti, benchè ciascuno le restringa a se solo. Al sistema di creder
belle e buone le cose umane, sottentra quello di credere {o
sperar} tali le proprie, {+e
quelle che in qualunque modo vi appartengono (come di creder buone le
persone che vi circondano ec. ec.).} L'effetto presso a poco è lo
stesso. Tanto è sperare o credere una cosa ordinaria, quanto sperare o creder
sempre la stessa cosa come straordinaria, e come eccezion della regola. Tale è
il caso inevitabile di tutti i giovani i meglio istruiti.
[1885,1] Un uomo famoso per dissipazioni e sfrenatezze e
fortune galanti, e infedeltà in amore, fa grand'effetto nelle donne con questa
sola fama, ma forse nelle donne modeste e timide, e avvezze ad esser fedeli, più
che nelle altre. La franchezza, il brio,
1886 la
sfrontatezza ec. fa {sempre} fortuna in amore, ed
e[è] quasi indifferentemente necessaria e
felice con ogni sorta di donne, perch'è quasi l'unico mezzo di ottenere. Ma
considerata semplicemente come mezzo di piacere e di far effetto sulle prime, è
certo ch'egli è più potente, sulle donne modeste, ritirate, paurose, poco solite
agl'intrighi ec. che nelle loro contrarie.
[1903,1] Il giovane o dirittamente e precisamente, o almeno
confusamente, e nel fondo del suo cuore; e non solo il giovane ma la massima
parte degli uomini, e possiamo dir tutti, almeno in qualche circostanza, credono
straordinario nel mondo quello appunto ch'è ordinario, e viceversa; straordinari
i casi delle storie, e ordinari i casi de' romanzi. (12. Ott.
1821.).
[1939,1] Come il giovane non si persuade mai del vero prima
dell'esperienza, così i genitori e quelli che hanno cura della gioventù {(malgrado la prova che n'hanno in se
stessi)} non si persuadono mai che l'insegnamento non possa ne'
giovani supplire all'esperienza. Non si persuadono dico se non dopo aver fatto
essi pure esperienza di ciò; e pur troppo (siccome le persone d'ingegno e di
talento facilmente assuefabile e persuadibile, son rare) non basta loro una o
due o più esperienze, ma hanno sempre bisogno di un'esperienza individuale
intorno a quel tal giovane che loro è commesso. Del resto come il giovane fa
sempre eccezione di se stesso e de' casi suoi, dalle regole e dall'ordine
generale ch'egli spesso conosce assai bene; così gli educatori fanno eccezione
di
1940 ciascun giovane dall'ordine generale, e dalla
natura de' suoi coetanei. (18. Ott. 1821.).
[1974,1] Se mancassero altre prove che il vero è tutto
infelice, non basterebbe il vedere che gli uomini sensibili, di carattere e
d'immaginazione profonda, incapaci di pigliar le cose per la superficie, ed
avvezzi a ruminare sopra ogni accidente della vita loro, sono irresistibilmente
e sempre strascinati verso la infelicità? Onde ad un giovane sensibile, per
quanto le sue circostanze paiano prospere, si può senz'altro dubbio predire che
sarà
1975 presto o tardi infelice, o indovinare ch'egli
è tale. (23. Ott. 1821.).
[1988,3] L'uomo che a tutto si abitua, non si abitua mai alla
inazione. Il tempo che tutto alleggerisce, indebolisce, distrugge, non distrugge
mai nè indebolisce il disgusto e la fatica che l'uomo prova nel non far nulla. L'assuefazione
1989 intanto può influire sull'inazione, in quanto può
trasportare l'azione dall'esterno all'interno, e l'uomo forzato a non muoversi,
o in qualunque modo a non operare al di fuori, acquista appoco appoco l'abito di
operare al di dentro, di farsi compagnia da se stesso, di pensare, d'immaginare,
di trattenersi insomma vivamente col proprio solo pensiero (come fanno i
fanciulli, come si avvezzano a fare i carcerati ec.). Ma la pura noia, il puro
nulla, nè il tempo nè alcuna forza possibile (se non quella che intorpidisce o
estingue o sospende le facoltà umane, come il sonno, l'oppio, il letargo, una
totale prostrazione di forze ec.) non basta a renderlo meno intollerabile. Ogni
momento di pura inazione è tanto grave all'uomo dopo dieci anni {di assuefazione,} quanto la prima volta. La nullità, il
non fare, il non vivere, la morte, è l'unica cosa di cui l'uomo sia incapace, e
1990 alla quale non possa avvezzarsi. Tanto è vero
che l'uomo, il vivente, e tutto ciò che esiste, è nato per fare, e per fare
tanto vivamente, quanto egli è capace, vale a dire che l'uomo è nato per
l'azione esterna ch'è assai più viva dell'interna. {+Tanto più che l'interna nuoce al fisico quanto ell'è
maggiore e più assidua, e l'esterna viceversa. Quanto all'azione interna
dell'immaginazione, essa sprona e domanda impazientemente l'esterna, e
riduce l'uomo a stato violento, se questa gli è impedita.} E quella
infatti agognano i giovani, i primitivi, gli antichi, e non si può loro impedire
senza metter la loro natura in istato violento. Ciò non per altro se non perchè
l'uomo {e il vivente} tende sempre naturalmente alla
vita, e a quel più di vita che gli conviene. (26. Ott. 1821.).
[2032,1]
2032 L'uomo inesperto delle cose, è sempre di spirito e
d'indole più o meno poetica. Ella diventa prosaica coll'esperienza. Ma bene
spesso colui che da giovane fu per assuefazione o per natura più notabilmente
poetico, tanto più presto (anche nella stessa gioventù) e più gagliardamente
diviene prosaico coll'esperienza. Un eccesso tira l'altro, perchè gli eccessi;
contro quello che a prima vista apparisce sono più affini, amici e vicini fra
loro, che con quello che è fra loro di mezzo. Colui che per avere uno spirito
gagliardamente poetico, sente fortemente, fortemente {e
presto} deve sentire la nullità e la malvagità degli uomini e delle
cose. Egli diviene fortemente disingannato, perchè fu capace di essere
fortemente ingannato, e lo fu infatti. Prima della cognizione egli prova
gagliarde illusioni, dopo la cognizione, gagliardi, e pronti, e costanti ed
interi disinganni. La stessa forza della sua natura
2033 o delle sue facoltà acquisite, che dava risalto ed energia alle sue
illusioni, ne rende altrettanta a' suoi disinganni. E perciò la vecchiezza del
poeta, è forse (almeno spessissimo) assai più prosaica in tutti i sensi, che
quella dell'uomo d'indole primitivamente fredda, e tanto più quanto la sua
giovanezza, prima della sufficiente esperienza, fu più vivamente e veramente
poetica in qualunque senso. Giacchè per poetica intendo anche inclinata alla
virtù, all'eroismo, magnanimità ec. ancorchè non applicata punto alla poesia, ma
solamente ai fatti, ai desiderii, alle passioni ec. (2. Nov.
1821.). {{V. p.
2039.}}
[2107,1] Ho detto pp. 1648-49
pp. 2039-41 che l'uomo di gran sentimento è soggetto a divenire
insensibile più presto e più fortemente degli altri, e soprattutto di quegli di
mediocre sensibilità. Questa verità si deve estendere ed applicare a tutte
quelle parti, generi ec. ne' quali il sentimento
2108
si divide e si esercita, come la compassione ec. ec. Sebbene è verissimo che
l'uomo di sentimento è destinato all'infelicità nondimeno assai spesso accade
ch'egli nella sua giovanezza, divenga insensibile al dolore e alla sventura, e
che tanto meno egli sia suscettibile di dolor vivo dopo passata una certa epoca,
e un certo giro di esperienza, quanto più violento e terribile fu il suo dolore
e la sua disperazione ne' primi anni, e ne' primi saggi ch'egli fece della vita.
Egli arriva sovente assai presto ad un punto, dove qualunque massima infelicità
non è più capace di agitarlo fortemente, e dall'eccessiva suscettibilità di
essere eccessivamente turbato, passa rapidamente alla qualità contraria, cioè ad
un abito di quiete e di rassegnazione sì costante, e di disperazione così poco
sensibile, che qualunque nuovo male gli riesce indifferente (e questa si può
2109 dire l'ultima epoca del sentimento, e quella in
cui la più gran disposizione naturale all'immaginazione alla sensibilità,
divengono quasi al tutto inutili, e il più gran poeta, o il più dotato di
eloquenza che si possa immaginare, perde quasi affatto e irrecuperabilmente
queste qualità, e si rende incapace a poterle più sperimentare o mettere in
opera per qualunque circostanza. Il sentimento è sempre vivo fino a questo
tempo, anche in mezzo alla maggior disperazione, e al più forte senso della
nullità delle cose. Ma dopo quest'epoca, le cose divengono tanto nulle all'uomo
sensibile, ch'egli non ne sente più nemmeno la nullità: ed allora il sentimento
e l'immaginazione son veramente morte, e senza risorsa.) Nessuna cosa violenta è
durevole. Laddove gli uomini di mediocre sensibilità, restano più o meno
suscettibili d'
2110 infelicità viva per tutta la vita,
e sempre capaci di nuovo affanno, da vecchi poco meno che da giovani, come si
vede negli uomini ordinarii tuttogiorno. (17. Nov. 1821.).
[2156,1] Tutto è animato dal contrasto, e langue senza di
esso. Ho detto altrove p. 1606 della religione, de' partiti
politici, dell'amor nazionale ec. tutti affetti inattivi e deboli, se non vi
sono nemici. Ma la virtù, o l'entusiasmo della virtù (e che cosa è la virtù
senza entusiasmo? e come può essere virtuoso chi non è capace di entusiasmo?)
esisterebbe egli, se non esistesse il vizio? Egli è certissimo che
2157 il giovane del miglior naturale, e il meglio
educato, il quale ne' principii dell'età alquanto sensibile e pensante, e prima
di conoscere il mondo per esperienza, suol essere entusiasta della virtù, non
proverebbe quell'amor vivo de' suoi doveri, quella forte risoluzione di
sacrificar tutto ai medesimi, quell'affezione sensibile alle buone, nobili,
generose inclinazioni ed azioni, se non sapesse che vi sono molti che pensano e
adoprano diversamente, e che il mondo è pieno di vizi e di viltà, sebbene egli
non lo creda così pieno com'egli è, e come poi lo sperimenta. (24. Nov. dì
di S. Flaviano. 1821.).
[2208,2] Ho detto pp. 1648-49
pp.
2039-41
pp.
2107-09 che l'uomo di gran sentimento più presto degli altri è
soggetto a divenire indifferente sì nel resto, sì quanto alle sventure. Ciò vuol
dire ch'egli forma l'abito delle sventure (così dite del resto)
2209 più facilmente e prontamente degli altri. E per
due cagioni. 1. Perchè più soffre essendo più sensibile, onde le cause
dell'assuefazione che sono l'esercizio, e la ripetizion delle sensazioni,
essendo in lui maggiori che negli altri, più presto la cagionano. {+Oltre ch'egli più vivamente le sente
ond'è soggetto a sventure maggiori e per numero e per grado di forza
ec.} 2. Perch'egli è anche per se stesso e indipendentemente dalle
circostanze, più assuefabile degli altri. {+(Massime a questi generi di cose.)} Ond'egli
impara la sventura più presto degli altri, come gli uomini di talento (che per
lo più sono anche di sentimento) imparano le discipline, o quella tale a cui
sono inclinati ec. più presto degli altri, e più presto e facilmente intendono,
concepiscono ec. perchè più attendono ec. Quindi è che gli uomini di poco o
mediocre sentimento, e generalmente i mediocri spiriti, dopo un numero o una
massa di sventure, maggiore assai di quella che ha bastato ad assuefare e
2210 rendere imperturbabile l'uomo di gran sentimento,
non vi sono ancora assuefatti, sono sempre aperti all'afflizione al dolore,
sempre sensibili al male, sempre egualmente teneri e molli (sebbene quegli
ch'era assai più molle, sia già del tutto indurato), e restano bene spesso tali
per tutta la vita, tanto capaci di soffrire nella decrepitezza, quanto appresso
a poco nella prima giovanezza. Anzi di più, perchè meno distratti nelle loro
sensazioni, e meno aiutati dalla forza naturale. Laddove all'uomo di sentimento
lo stesso esser poco capace di distrazione, lo stesso attender vivamente alle
sensazioni, facilita l'assuefazione, e l'acquisto della insensibilità, e
incapacità di più attendervi. (1. Dic. 1821.).
[2473,1]
2473 Alle ragioni da me recate in altri luoghi pp.
1473-74
pp.
1648-49
pp. 2039-41, per le quali il giovane per natura sensibile, e
magnanimo e virtuoso, coll'esperienza della vita, diviene e più presto degli
altri, e più costantemente e irrevocabilmente, e più freddamente e duramente, e
insomma più eroicamente vizioso, aggiungi anche questa, che un giovane della
detta natura, e del detto abito, deve, entrando nel mondo, sperimentare e più
presto e più fortemente degli altri la scelleraggine degli uomini, e il danno
della virtù, e rendersi ben tosto più certo di qualunque altro della necessità
di esser malvagio, e della inevitabile e somma infelicità ch'è destinata in
questa vita e in questa società agli uomini di virtù vera. {{Perocchè gli altri non essendo virtuosi, o non essendolo al par di lui, non
isperimentano tanto nè così presto la scelleraggine degli uomini, nè l'odio
e persecuzione loro per tutto ciò ch'è buono, nè le sventure di quella virtù
che non possiedono. E sperimentando ancora le soverchierie e le persecuzioni
degli altri, non si trovano così nudi e disarmati per combatterle e
respingerle, come si trova il virtuoso.
2474 In
somma il giovane di poca virtù non può concepire un odio così vivo verso gli
uomini, {nè così presto,} com'è obbligato a
concepirlo il giovane d'animo nobile. Perchè colui trova gli uomini e meno
infiammati contro di se, e meno capaci di nuocergli, e meno diversi da lui
medesimo.}}
{{Per lo che, non arrivando mai ad odiare fortemente gli
uomini, e odiarli per massima nata e confermata e radicata immobilmente
dall'esperienza, non arriva neppure così facilmente a quell'eroismo di
malvagità fredda, sicura e consapevole di se stessa, ragionata, inesorabile,
immedicabile {ed eterna,} a cui necessariamente dee
giungere {(e tosto)} l'uomo d'ingegno al tempo
stesso e di virtù naturale. (13. Giugno. 1822.)}}
[2481,3] Ho discorso altre volte p. 72
p. 2040 della ferocia cagionata nell'uomo virtuoso, nel giovane, ec.
dalla risoluzione di commettere a occhi aperti
2482 un
primo delitto. Ho anche ragionato pp. 80-81
pp.
710-11 del danno involontariamente recato dal Cristianesimo e dallo
stabilimento e perfezionamento della morale, stante che gli uomini (sempre
inevitabilmente cattivi) operando oggi più chiaramente e decisamente contro
coscienza, sono peggiori degli antichi, e calpestando il timore che hanno de'
gastighi dell'altra vita, ne divengono più feroci e più terribili nel malfare,
come persone condannate e disperate, ec. Aggiungo che l'uomo il quale per la
prima volta s'è risoluto a commettere un delitto, ha dovuto con gran fatica e
pena trionfare della propria coscienza, e delle proprie abitudini: e si trova
allora nell'atto di aver riportato questo trionfo. Il che è cagione di una gran
ferocia, simile a quella che dicono del leone, o d'altra tal bestia salvatica,
che va in furore, ed è più che mai terribile appena ch'ell'ha gustato, o veduto
il sangue d'altro animale. Perocchè l'uomo in quel punto è come sparso e
macchiato di sangue, cioè omicida
2483 della propria
coscienza. E generalmente l'esecuzione di qualunque proposito è tanto più
efficace ed energica {ed infiammata} ed avventata e
pronta, quanto la risoluzione è stata più faticosa e difficile, e quanta maggior
pena e contrasto è costato a formarla. Perocchè l'uomo teme di pentirsi, e
s'avventa nell'esecuzione, come fuggendo con grand'impeto e fretta e spavento
dal proprio pensiero, che dandogli luogo a discorrere ancora, potrebbe distorlo,
o precipitarlo di nuovo nell'irresoluzione, che l'uomo teme e odia naturalmente,
e ch'è uno de' principali travagli dell'animo. Massime quando l'effetto della
risoluzione (o sia il piacere, o sia l'utile, o sia la vendetta, o sia la
soddisfazione di qualsivoglia passione umana) lo tira e lo invita
gagliardamente, ed egli teme che il proprio pensiero gl'impedisca di cercarlo e
di conseguirlo{{, e d'altra parte desidera vivamente di non
perderlo, e non privarsene per proprio difetto. (17. Giugno.
1822.).}}
[2495,1] Quanto sia vero che l'amor proprio è cagione
d'infelicità, e che com'egli è maggiore e più attivo, maggiore si è la detta
infelicità, si dimostra per l'esperienza giornaliera. Perocchè il giovane non
solo è soggetto a mille dolori d'animo, ma incapace ancora di godere i maggiori
beni del mõdo[mondo], e di goderli e desfrutarlos più che sia possibile, e
nel miglior modo possibile, finchè il suo amor proprio, a forza di patimenti,
non è mortificato, incallito, intormentito. Allora si gode qualche poco. Cosa
osservata. Com'è anche osservatissimo che l'uomo è tanto più infelice quanto ha
più e più vivi desiderii, e che l'arte della felicità consiste nell'averne pochi
e poco vivi ec. (Ch'è appunto la cagione per cui il giovane nel predetto stato,
con
2496 un ardore incredibile che lo trasporta verso
la felicità, con la maggior forza possibile per poter gustare e sostenere i
piaceri e anche fabbricarseli coll'immaginazione, proccurarseli coll'opera ec.;
in un'età a cui tutto sorride, e porge quasi spontaneamente i diletti;
contuttochè sia privo del disinganno, e però veda le cose sotto il più
bell'aspetto possibile, {+e di più
essendo nuovo e inesperto dei piaceri, sia ancor lontano e ben difeso dalla
sazietà, e capace di dar peso a ogni godimento,} non gode mai nulla, e
pena più d'ogni altro, {e si sazia più presto;} e tanto
più quanto {egli} è più vivo [così spesso il Casa] {e sensitivo
ec.,} e quindi per necessità più amante di se stesso.) Ora la misura
dei desiderii, la loro copia vivezza ec. è sempre in proporzione della misura,
vivezza, energia, attività dell'amor proprio. Giacchè il desiderio non è d'altro
che del piacere, e l'amor della felicità non è altro che il desiderio del
piacere, e l'amor della felicità non è altro che l'amor proprio. (24.
Giugno. 1822.). {{V. p.
2528.}}
[2523,2] Il giovane istruito da' libri o dagli uomini e dai
discorsi prima della propria esperienza, non solo si lusinga sempre e
inevitabilmente
2524 che il mondo e la vita per esso
lui debbano esser composte d'eccezioni di regola, cioè la vita di felicità e di
piaceri, il mondo di virtù, di sentimenti, d'entusiasmo; ma più veramente egli
si persuade, se non altro, implicitamente e senza confessarlo pure a se stesso,
che quel che gli è detto e predicato, cioè l'infelicità, le disgrazie della
vita, della virtù, della sensibilità, i vizi, la scelleraggine, la freddezza,
l'egoismo degli uomini, la loro noncuranza degli altri, l'odio e invidia de'
pregi e virtù altrui, disprezzo delle passioni grandi, e de' sentimenti vivi,
nobili, teneri ec. sieno tutte eccezioni, e casi, e la regola sia tutto
l'opposto, cioè quell'idea ch'egli si forma della vita e degli uomini
naturalmente, e indipendẽtemente dall'istruzione, quella che forma il suo
proprio carattere, ed è l'oggetto delle sue inclinazioni e desiderii, {e speranze,} l'opera e il pascolo della sua
immaginazione. (29. Giugno, dì di S. Pietro. 1822.).
[2555,1]
Alla p. 2529.
Finchè il giovane conserva della tenerezza verso se stesso, vale a dire che si ama di quel vivo e sensitivissimo e sensibilissimo amore ch'è naturale, e finchè non si getta via nel mondo, considerandosi, dirò
quasi, come un altro, non fa mai nè può far altro che patire, e non gode mai un
istante di bene {e di piacere nell'uso e negli
accidenti} della vita
sociale. (6. Luglio. 1822.)
{{A goder
della vita, è necessario uno stato di disperazione.}}
[2643,1]
2643 L'amor della vita cresce quasi come l'amor del
danaio, e, com'esso, cresce in proporzione che dovrebbe scemare. Perciocchè i
giovani disprezzano e prodigano la vita loro, ch'è pur dolce, e di cui molto
avanza loro; e non temono la morte: e i vecchi la temono sommamente, e sono
gelosissimi della propria vita, ch'è miserabilissima, e che ad ogni modo poco
hanno a poter conservare. E così il giovane scialacqua il suo, come s'egli
avesse a morire fra pochi dì, e il vecchio accumula e conserva e risparmia come
s'avesse a provvedere a una lunghissima vita che gli restasse. (24. Ottob.
1822.).
[2684,1]
2684 L'uomo sarebbe felice se le sue illusioni
giovanili {(e
fanciullesche)} fossero realtà. Queste sarebbero realtà, se
tutti gli uomini le avessero, e durassero sempre ad averle: perciocchè il
giovane d'immaginazione e di sentimento, entrando nel mondo, non si troverebbe
ingannato della sua aspettativa, nè del concetto che aveva fatto degli uomini,
ma li troverebbe e sperimenterebbe quali gli aveva immaginati. Tutti gli uomini
più o meno (secondo la differenza de' caratteri), e massime in gioventù, provano
queste tali illusioni felicitanti: è la sola società, e la conversazione
scambievole, che civilizzando e istruendo l'uomo, e assuefacendolo a riflettere
sopra se stesso, a comparare, a ragionare, disperde immancabilmente queste
illusioni, come negl'individui, così ne' popoli, e come ne' popoli, così nel
genere umano ridotto allo stato sociale. L'uomo isolato non {le} avrebbe mai perdute; ed elle son proprie del giovane in
particolare non tanto a causa del calore immaginativo, naturale a quell'età,
quanto della inesperienza, e del vivere isolato che fanno i giovani. Dunque se
l'uomo avesse continuato a vivere isolato, non avrebbe mai perdute le sue
illusioni giovanili, e tutti gli uomini le
2685
avrebbero e le conserverebbero per tutta la vita loro. Dunque esse sarebbero
realtà. Dunque l'uomo sarebbe felice. Dunque la causa originaria e continua
della infelicità umana è la società. L'uomo, secondo la natura sarebbe vissuto
isolato e fuor della società. Dunque se l'uomo vivesse secondo natura, sarebbe
felice. (Roma 1. Aprile. Martedì di Pasqua.
1823.).
[2736,1] È cosa indubitata che i giovani, almeno nel presente
stato degli uomini, dello spirito umano e delle nazioni, non solamente soffrono
più che i vecchi (dico quanto all'animo), ma eziandio (contro quello che può
parere, e che si è sempre detto e si crede comunemente), s'annoiano più che i
vecchi, e sentono molto più di questi il peso della vita, e la fatica e la pena
e la difficoltà di portarlo e di strascinarlo. E questa si è una conseguenza dei
principii posti nella mia teoria del
piacere. Perciocchè ne' giovani è
2737 più
vita o più vitalità che nei vecchi, cioè maggior sentimento dell'esistenza e di
se stesso; e dove è più vita, quivi è maggior grado di amor proprio, o maggiore
intensità e sentimento e stimolo {e vivacità} e forza
del medesimo; e dove è maggior grado o efficacia di amor proprio, quivi è
maggior desiderio e bisogno di felicità; e dove è maggior desiderio di felicità,
quivi è maggiore appetito e smania ed avidità e fame {e
bisogno} di piacere: e non trovandosi il piacere nelle cose umane è
necessario che dove n'è maggior desiderio quivi sia maggiore infelicità, ossia
maggior sentimento dell'infelicità; {quivi maggior senso di
privazione e di mancanza e di vuoto; quivi} maggior noia, maggior
fastidio della vita, maggior difficoltà e pena di sopportarla, maggior disprezzo
e noncuranza della medesima. Quindi tutte queste cose debbono essere in maggior
grado ne' giovani che ne' vecchi; siccome
2738 sono,
massime in questa presente mortificazione e monotonia della vita umana, che
contrastano colla vitalità ed energia della giovanezza; in questa mancanza di
distrazioni violente che stacchino il giovine da se medesimo, e lo tirino fuori
del suo interno; in questa impossibilità di adoperare sufficientemente la forza
vitale, di darle sfogo ed uscita dall'individuo, di versarla fuori, e
liberarsene al possibile; in somma in questo ristagno della vita al cuore e alla
mente e alle facoltà interne dell'uomo, e del giovane massimamente.
[2987,3] La gioventù non era fra gli antichi un bene inutile,
e un vantaggio di cui niun frutto si potesse cavare, nè la vecchiezza era uno
incomodo e uno
2988 svantaggio che niun bene, {niun comodo,} niun godimento togliesse, e niuna
privazione recasse seco. Quindi e molto meno frequente che a' tempi nostri era
il numero di quelli che in gioventù si uccidevano, e molti più vecchi suicidi si
trovano commemorati nell'antichità che non si veggono al presente. Come dire
Pomponio Attico e molti filosofi
greci e romani. Perocchè al presente le contrarie cagioni producono effetto
contrario. Il giovane moltissimo desidera e nulla ha, neppure ha come distrarre,
divertire, ingannare il suo desiderio, e occupare la sua forza vitale,
adoperarla, sfogarla. Quindi più giovani suicidi oggidì che fra gli antichi non
pur giovani solamente, ma giovani e vecchi insieme. Il vecchio nulla perde per
la vecchiezza, e poco, o meno ferventemente e impetuosamente e smaniosamente,
desidera. Quindi è così raro un vecchio suicida oggidì, che parrebbe quasi
miracolo. E pure il giovane che si uccide, privasi della gioventù, e rinunzia a
una vita, ch'ei si può ancora promettere,
2989 di molti
anni. Il vecchio si priva della vecchiezza (qual privazione Dio buono) e
rinunzia a pochi anni o mesi di vita. Nonpertanto per mille giovani suicidi
appena e forse neanche si troverà oggi un solo vecchio suicida, e questo, se pur
si troverà, sarà forse tale per qualche estrema disgrazia, in qualche caso ove
la vita fosse già disperata, e per salvarsi da una morte più trista, e sicura.
Ma neanche nell'estreme sventure è costume de nostri vecchi il ricorrere
volontariamente alla morte. Applicate queste considerazioni a quello che ho
detto altrove p. 294
p.
2643 circa l'amor della vita nei vecchi, l'amore e la cura della vita
crescenti in proporzione che per l'aumento dell'età scema il valore d'essa vita.
(18. Luglio 1823.).
[3029,2] In molte altre cose l'andamento, il progresso, le
vicende, la storia del genere umano è simile a quella di ciascuno individuo poco
meno che una figura in grande somigli alla medesima figura fatta
3030 in piccolo; ma fra l'altre cose, in questa. Quando
gli uomini avevano pur qualche mezzo di felicità o di minore infelicità ch'al
presente, quando perdendo la vita, perdevano pur qualche cosa, essi
l'avventuravano spesso e facilmente e di buona voglia, non temevano, anzi
cercavano i pericoli, non si spaventavano della morte, anzi l'affrontavano tutto
dì o coi nemici o tra loro, e godevano sopra ogni cosa e stimavano il sommo
bene, di morire gloriosamente. Ora il timor dei pericoli è tanto maggiore quanto
maggiore è l'infelicità {e} il fastidio di cui la morte
ci libererebbe, o se non altro, quanto è più nullo quello che morendo abbiamo a
perdere. E l'amor della vita e il timor della morte è cresciuto nel genere umano
e cresce in ciascuna nazione secondo che la vita val meno. Il coraggio è tanto
minore quanto minori beni egli avventura, e quanto meno ei dovrebbe costare. La
morte che per gli antichi così attivi, e di vita, se non altro, così piena, era
talora il sommo bene, è stimata e chiamata {più}
comunemente il sommo male quanto la vita è più misera. È ben
3031 ben noto che le nazioni più oppresse, e similmente le classi più
deboli e misere e schiave nella società, sono le meno coraggiose e le più timide
della morte, e le più sollecite e gelose di quella vita ch'è pur loro un sì gran
peso. E quanto più altri le opprime e rende infelice la vita loro, tanto ne le
fa più studiose. E insomma si può dire che gli antichi vivendo non temevano il
morire, e i moderni non vivendo, lo temono; e che quanto più la vita dell'uomo è
simile alla morte, tanto più la morte sia temuta e fuggita, quasi ce ne
spaventasse quella continua immagine che nella vita medesima ne abbiamo e
contempliamo, e quegli effetti, anzi quella parte, che pur vivendo ne
sperimentiamo. E viceversa.
[3265,1]
3265 Si può dire che le viste, i disegni, {i proponimenti, i fini,} le speranze, i desiderii
dell'uomo, tutto ciò in somma che ne' suoi pensieri ha relazione al futuro,
tanto più si stendono, cioè tanto più mirano e tendono, o giungono, lontano,
quanto minore naturalmente è lo spazio di vita che gli rimane, {e viceversa.} Niun pensiero del bambino appena nato ha
relazione al futuro, se non considerando come futuro l'istante che dee succedere
al presente momento, perocchè il presente non è in verità che istantaneo, e
fuori di un solo istante, il tempo è sempre e tutto o passato o futuro. Ma
considerando il presente e il futuro non esattamente e matematicamente, ma in
modo largo, secondo che noi siamo soliti di concepirlo e chiamarlo, si dee dire
che il bambino non pensa che al presente. Poco più là mira il fanciullo; ond'è
che proporre al fanciullo (p. e. negli studi) uno scopo lontano (come la gloria
e i vantaggi ch'egli acquisterà nella maturità della vita o nella vecchiezza, o
anche pur nella giovanezza), è assolutamente inutile per muoverlo (onde è
sommamente giusto ed utile l'adescare il fanciullo allo studio col proporgli
onori o vantaggi ch'egli
3266 possa e debba conseguire
ben tosto, e quasi di giorno in giorno, che è come un ravvicinare a' suoi occhi
lo scopo della gloria e della utilità {degli studi,}
senza il quale ravvicinamento è impossibile ch'ei fissi mai gli occhi in detto
scopo, e per conseguirlo si assoggetti volentieri alle fatiche e alle sofferenze
ripugnanti alla natura, che gli studi richieggono). Più si stendono le viste del
giovane, ma meno assai di quelle dell'uomo maturo e riposato, i cui calcoli sul
futuro oltrepassano bene spesso, senza ch'ei se n'avvegga, lo spazio di vita
naturalmente concesso ai mortali. Perciocchè l'uomo maturo comincia già a
compiacersi supremamente e contentarsi della speranza, e pascerne la sua vita.
Della quale speranza si nutre parimente, e con essa favella e delira anche il
giovane, e il fanciullo altresì; ma non in modo che d'essa si contentino, e che
non cerchino di prontamente effettuarla e recarla in opera, e venire al fatto.
Il che nasce dall'ardore di quelle età, dall'attività dell'animo unita e
cospirante con quella del corpo, dalla
3267 freschezza
e forza del loro amor proprio, e quindi dall'energia ed efficacia de' loro
desiderii impazienti d'indugio, e però non sofferenti di proporsi un oggetto
ch'ei non possano o ch'ei non credano di potere in poco spazio e dentro un
picciolo termine conseguire; finalmente dall'inesperienza ch'egli hanno intorno
alla vanità delle umane speranze, alla difficoltà che l'uomo prova in condurle a
fine, e alla nullità eziandio degli stessi beni sperati, la quale
inevitabilmente apparisce così tosto com'ei sono posseduti. Le contrarie cagioni
producono la lunghezza e lontananza delle viste nell'uomo maturo; e l'eccesso di
dette contrarie qualità producono l'eccesso del contrario effetto nella
vecchiezza, la quale ridotta a non potersi ragionevolmente promettere più che un
brevissimo avanzo di vita, pure nella estensione delle sue viste supera {+di gran lunga} tutte le altre età
dell'uomo. Perocchè il vecchio per la debolezza di corpo e d'animo, e pel
disinganno de' beni umani già provati, e per lo illanguidimento dell'amor
proprio che va di pari colla quasi diminuzione e raffreddamento
3268 della vita, non è capace se non di fievoli
desiderii, e quindi si contenta di propor loro uno scopo lontano e in esso
fermarli, e i suoi desiderii si contentano di rimanervi; per la {diuturna} esperienza fatta della vanità e del tristo
esito delle speranze, con un quasi stratagemma, le indirizza a luoghi così
lontani ch'elle non possano se non assai tardi o non mai, avvicinandosi a quelli
e giungendovi, scomparire; per la irresoluzione propria dell'età sua, rimettendo
ogni azione al dipoi, e costretto di rimettere eziandio e quasi differire le sue
speranze, e gli oggetti de' suoi desiderii e il loro conseguimento ch'ei si
propone, o ch'ei si compiace, per dir meglio, di vagheggiare; e per {l'abito della} tardità e lentezza nell'operare a cui la
gravezza e l'impotenza dell'età lo costringe, e per la pigrizia e negligenza e
torpore dell'animo che ne deriva {+e n'è
pur cagione,} i suoi desiderii altresì e le sue speranze ne divengono
tarde e pigre e lente e quasi trascurate (benchè sempre però bastantemente vive
per mantenerlo e quasi allattarlo, come alla vita umana
3269 indispensabilmente ricercasi), ed ei giunge a persuadersi fra se
stesso non con l'intelletto, ma con l'immaginazione e con la non ragionata
abitudine dell'altre facoltà del suo spirito, che il tempo e la natura {e le} cose sian {divenute} ed
abbiano a riuscir così lente e pigre com'esso {necessariamente} è. (26. Agosto. 1823.)
[3291,1]
Alla p. 3282.
Bisogna distinguere tra egoismo e amor proprio. Il primo non è che una specie
del secondo. L'egoismo è quando l'uomo ripone il suo amor proprio in non pensare
{che} a se stesso, non operare che per se stesso
immediatamente, rigettando l'operare per altrui con intenzione lontana e non ben
distinta dall'operante, ma reale, saldissima e continua, d'indirizzare quelle
medesime operazioni a se stesso come ad ultimo ed unico vero fine, {+il che l'amor proprio può ben fare, e
fa.} Ho detto altrove p. 1382
pp. 2410-12
pp. 2736-38
pp.
2752-55 che l'amor proprio è tanto maggiore nell'uomo quanto in esso è
maggiore la vita o la vitalità, e questa è tanto maggiore quanto è maggiore la
forza {+e l'attività dell'animo, e del
corpo ancora.} Ma questo, ch'è verissimo dell'amor proprio, non è nè
si deve intendere dell'egoismo. Altrimenti i vecchi, i moderni, gli uomini poco
sensibili e poco immaginosi sarebbero meno egoisti dei {fanciulli e dei} giovani, degli antichi, degli uomini sensibili e di
forte immaginazione.
3292 Il che si trova essere
appunto in contrario. Ma non già quanto all'amor proprio. Perocchè l'amor
proprio è veramente maggiore assai ne' fanciulli e ne' giovani che ne' maturi e
ne' vecchi, maggiore negli uomini sensibili e immaginosi che ne' torpidi.
{Che l'amor proprio sia maggiore ne'
fanciulli e ne' giovani che nell'altre età, segno n'è quella infinita e
sensibilissima tenerezza verso se stessi, e quella suscettibilità e
sensibilità e delicatezza intorno a se medesimi che coll'andar degli anni e
coll'uso della vita proporzionatamente si scema, e in fine si suol
perdere.} I fanciulli, i giovani, gli uomini sensibili sono assai più
teneri di se stessi che nol sono i loro contrarii. Così generalmente furono gli
antichi rispetto ai moderni, e i selvaggi rispetto ai civili, perchè più forti
di corpo, più forti ed attivi e vivaci d'animo e d'immaginazione (sì per le
circostanze fisiche, sì per le morali), meno disingannati, e insomma
maggiormente e più intensamente viventi.
{Nella stessa guisa discorrasi dei deboli rispetto ai forti e simili.}
(Dal che seguirebbe che gli antichi fossero stati più infelici generalmente de'
moderni, secondo che la infelicità è in proporzion diretta del maggiore amor
proprio, come altrove ho mostrato: p. 1382
pp. 2410-11
pp. 2752-55
pp. 2736-37
pp.
2495-96
p. 2754 ma l'occupazione {e l'uso} delle proprie forze, la distrazione e simili
cose, essendo state infinitamente maggiori in antico che oggidì; e il maggior
grado di vita esteriore essendo stato anticamente più che in
3293 proporzione del maggior grado di vita interiore, resta, come ho
in mille luoghi provato, che gli antichi fossero anzi mille volte meno infelici
de' moderni: e similmente ragionisi de' selvaggi e de' civili: non così de'
giovani e de' vecchi oggidì, perchè a' giovani presentemente è interdetto il
sufficiente uso delle proprie forze, e la vita esterna, della quale tanto ha
quasi il vecchio oggidì quanto il giovane; per la quale e per l'altre cagioni da
me in più luoghi accennate, maggiore presentemente è l'infelicità del giovane
che del vecchio, come pure altrove ho conchiuso pp. 277-80
pp. 2736-38
pp.
2752-55).
![](/assets/images/anchor.png)
![](/assets/images/anchor.png)
[3440,1] Il giovane innanzi la propria esperienza, per
qualunque insegnamento udito o letto, di persone stimate da lui o no, amate o
disamate, credute o non credute, {ec.} non si
persuaderà mai efficacemente che il mondo non sia una bella cosa, nè deporrà il
desiderio e la speranza ch'egli ha della vita e degli uomini e de' piaceri
sociali, nè l'opinione favorevolissima, e nel fondo del cuore,
3441 fermissima, della possibilità, anzi probabilità di
esser felice pigliando parte alla vita, all'azione ec. Perchè? perchè
quest'opinione, desiderio, speranza, non è capriccio ma natura, nè si estirpa
dall'animo, come le opinioni o passioni accidentali, nè val tenerezza e
pieghevolezza e docilitate d'età nè d'indole a render queste cose estirpabili.
Altrimenti sarebbe estirpabile la natura stessa, la quale ha provvveduto di
speranza alla fanciullezza e alla gioventù, e agguagliato colla speranza il
desiderio di quelle età. (15. Sett. 1823.).
[3443,1]
Quante volte diss'io Allor pien di spavento, Costei per {fermo} nacque in paradiso.
*
Petr.
Canz. Chiare fresche e dolci acque.
Καὶ γελάϊς δ᾽ ἱμερόεν∙
τό μοι ᾽μὰν Καρδίαν ἐν στήϑεσιν ἐπτόασεν
*
Saffo ap. Longin. sezione
10. È proprio dell'impressione che fa la bellezza
3444 (e così la grazia e l'altre illecebre, ma la bellezza
massimamente, perch'ella non ha bisogno di tempo per fare impressione, e come la
causa esiste tutta in un tempo, così l'effetto {è}
istantaneo) è proprio, dico, della impressione che fa la bellezza su quelli
d'altro sesso che la veggono o l'ascoltano o l'avvicinano, lo spaventare; e
questo si è quasi il principale e il più sensibile effetto ch'ella produce a
prima giunta, o quello che più si distingue e si nota e risalta. E lo spavento
viene da questo, che allo spettatore o spettatrice, in quel momento, pare
impossibile di star mai più senza quel tale oggetto, e nel tempo stesso gli pare
impossibile di possederlo com'ei vorrebbe; perchè neppure il possedimento
carnale, che in quel punto non gli si offre affatto al pensiero, anzi questo n'è
propriamente alieno; ma neppur questo possedimento gli parrebbe poter soddisfare
e riempiere il desiderio ch'egli concepisce di quel tale oggetto; col quale ei
vorrebbe diventare una cosa stessa (come profondamente, benchè in modo
scherzevole osserva Aristofane nel Convito di Platone): ora ei non vede che questo possa mai
essere.
3445 La forza del desiderio ch'ei concepisce in
quel punto, l'atterrisce per ciò ch'ei si rappresenta {subito} tutte in un tratto, benchè confusamente, al pensiero le pene
che per questo desiderio dovrà soffrire; perocchè il desiderio è pena, e il
vivissimo e sommo desiderio, vivissima e somma, e il desiderio perpetuo e non
mai soddisfatto è pena perpetua. Ora a lui pare e che quel desiderio non sarà
mai soddisfatto (o non ne vede il come, e gli par cosa troppo ardua e difficile
e improbabile), e ch'esso non sarà mai per estinguersi da se medesimo, come
quando proviamo un dolor vivissimo, ci pare a prima giunta ch'ei sarà perpetuo,
e che ne sia impossibile la consolazione, e che niuna cosa mai lo consolerà.
Tutto questo accade principalmente (ed oggimai unicamente) ai giovani prima
d'entrar nel mondo, o sul loro primo ingresso (talvolta, e non di rado, ancora
ai fanciulli). I quali e son più suscettibili di vivezza d'impressione e di
vivezza di desiderio ec., e sono inesperti del quanto presto e facilmente
l'amore
3446 o si dilegui o si soddisfaccia, e del
come; e che al mondo non v'ha cosa veramente amabile; e di quanto sia facile
ottenere ogni cosa ch'ei brama da quegli oggetti ch'ei stima inaccessibili ec.
ec.
[3520,1] Tre stati e condizioni della vecchiezza rispetto
alla giovanezza ed alle altre età. {+Puoi vedere la p. 3846.}1.o
Quando il genere umano era appresso a poco incorrotto, o certo proclive ed
abituato generalmente alla virtù, e quando l'esperienza insegnava all'individuo
le cose utili {a se ed agli altri,} senza disingannarlo
delle oneste, e delle inclinazioni virtuose, nobili, magnanime
3521 ec.; nè gli dimostrava la perversità degli uomini,
che ancora non erano perversi, nè lo disgustava e faceva pentire della virtù,
che ancor non era, se non altro, dannosa, e ch'egli per naturale istituto aveva
intrapreso fin da principio di seguire, e seguiva; allora i vecchi, come più
ricchi d'esperienza e più saggi, erano più venerabili e venerati, più stimabili
e stimati, ed anche in molte parti più utili a' loro simili {e compagni} ed al corpo della società, che non i giovani e quelli
dell'altre età. 2. Cominciata a corrompere la società umana e giunta la
corruzione al mezzo, o più oltre, l'esperienza dovette fare tutto il contrario
delle cose dette di sopra, e distruggendo le buone disposizioni naturali, e le
qualità contratte ne' primi anni, render l'individuo tanto peggiore di
carattere, d'animo, di costumi, di qualità, di azioni o di desiderii, quanto più
egli avesse sperimentato. Allora dunque i vecchi furono (nella gran società)
molto meno stimabili e stimati, quanto alla virtù ed all'onestà, che i giovani
{ec.}; molto più tristi, svergognati,
3522 finti, coperti, furbi, traditori, malvagi insomma,
{alieni dal ben fare,} e dannosi, o inclinati a far
danno, a' compagni e alla società. Laddove quei dell'altre età, e massime i
giovani, furono molto più degni di stima e molto più utili o men dannosi, perchè
meno corrotti; più buoni perchè più naturali; più proprii a ben fare, più
misericordiosi, più benefici, perchè men freddi, più generosi per natura
dell'età, men guasti dall'esempio {e dalle cattive
massime,} o non ancor guasti ec. 3. Passata che fu la corruzione
sociale di gran lunga oltre il mezzo, e giunta, si può dire, al suo colmo, nel
quale oggidì si trova e riposa, ed è, a quel che sembra per riposar lungamente o
in perpetuo; non fu e non è bisogno di molta nè lunga esperienza nè d'assai mali
esempi per corrompere negl'individui la sempre buona natura ed indole primitiva;
nascono, si può dir, gli uomini già corrotti; il primitivo, e seco la virtù ed
ogni sorta di bontà effettiva, è sparito quasi onninamente dal mondo; il
giovane, anzi pure il fanciullo, in brevissimo tratto è maturo e vecchio di
malizia,
3523 di frode, di malvagità, e conosce il
mondo assai più che i vecchi stessi per lo passato non facevano ec. Quindi per
ben contrarie cagioni {+e con ben
contrari effetti veggasi la (p.
3517-8.)} son tornate le cose appresso a poco nel loro stato
primiero. I giovani massimamente, sono ben più odiosi e dannosi de' vecchi,
perchè in essi alla disposizione intera e alla decisa volontà di mal fare si
aggiunge il potere e la facoltà; e l'ardor giovanile, e la forza e l'impeto e il
fiore delle passioni, che un dì conduceva gli uomini al bene, ora conducendogli
dirittamente e pienamente e decisamente al male, rende gl'individui tanto più
{cattivi,} perniciosi ed odiabili, quanto esso
ardore è più grande. Laddove i vecchi sono, non dirò già più stimabili nè
venerabili, ma più tollerabili e meno da essere odiati e fuggiti che quelli
dell'altre età, siccome meno potenti di mal fare, benchè a ciò solo inclinati; e
siccome anche meno desiderosi di nuocere e di far bene a se e male altrui,
perchè più freddi, e di più sedate passioni, e dalla lunga esperienza più
disingannati
3524 de' piaceri e de' vantaggi di questa
vita, e fatti meno avidi, e di desiderii men vivi: essendo la freddezza e
l'esperienza che un dì furon cagione d'ogni male e malvagità, divenute oggi
cagione, non già di bene nè di bontà, ma di minor male e cattiveria, che non il
calor naturale e l'inesperienza che già furon cagioni principali di bontà, ed or
sono cagioni di maggiore ribalderia. Da principio dunque fu la vecchiezza {rispetto} alla gioventù (e proporzionatamente all'altre
età), come il meglio al bene; poscia come il cattivo al buono; in ultimo è (e
probabilmente sarà sempre) come il manco male al male, o come il cattivo al
pessimo.
[3921,1]
3921 Dico altrove in più luoghi p. 1382
pp. 2410-14
pp. 2736-39
pp.
3291. sgg.
pp. 3835-36
p.
3906 che gli uomini e i viventi più forti o per età o per complessione
{o per clima} o per qualunque causa, abitualmente o
attualmente o comunque, avendo più vita ec. hanno anche più amor proprio ec. e
quindi sono più infelici. Ciò è vero per una parte. Ma essi sono anche tanto più
capaci e di azion viva ed esterna, e di piaceri {forti
e} vivi. Quindi tanto più capaci di viva distrazione ed occupazione, e
di poter fortemente divertire l'operazione {interna}
dell'amor proprio e del desiderio di felicità sopra loro stessi e sul loro
animo. La qual potenza ridotta in atto è uno de' principalissimi mezzi, anzi
forse il principal mezzo di felicità o di minore infelicità conceduto ai
viventi. (Io considero quelli che si chiamano piaceri come utili e conducenti
alla felicità, solo in quanto distrazioni forti, e vivi divertimenti dell'amor
proprio, (chè infatti essi non sono utili in altro modo) e tanto più forti
distrazioni, quanto più vivi e forti sono essi piaceri, così chiamati, e
maggiore il loro essere di piacere, e la sensazion loro più viva. I deboli sono
incapaci di piaceri forti, o solo di rado e poco frequenti, e men forti sempre
che non ne provano i vigorosi, perchè la lor natura non ha la facoltà o di
sentire più che tanto vivamente, o di sentire piacevolmente quando le sensazioni
sieno più che tanto vive.) Se l'uomo forte in qualunque modo, è privo, per
qualunque cagione, di piaceri, o di piaceri abbastanza forti, e di sensazioni
vive, e di poter mettere in opera la sua facoltà di azione, o di metterla in
opera più che il debole, egli è veramente più infelice che il debole, e soffre
3922 di più. Perciò, fra le altre cose, nel
presente stato delle nazioni e quanto alla sua natura, i giovani sono
generalmente più infelici dei vecchi, e questo stato è più conveniente e buono
alla vecchiezza che alla giovanezza. L'uomo forte è meno infelice del debole in
uguali dispiaceri e dolori; più infelice s'egli è privo di piaceri, o di piaceri
più vivi {e frequenti} che non son quelli del debole.
Egli {è} più atto a soffrire, e meno atto a non godere;
o vogliamo dire men disadatto all'uno, e più disadatto all'altro.
[4037,6] Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel
conversare, e massime gli sprezzanti avessero più amor proprio degli altri e più
stima di se, e i timidi meno. Tutto al contrario. I timidi per eccesso di amor
proprio e per il troppo conto che fanno di se, temendo sempre di sfigurare e
perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di acquistarla e di
figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del proprio onore, del
proprio concetto, del proprio amore, e occupati e legati da questo pensiero,
sono senza coraggio, e non si ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti fanno al
contrario
4038 per la contraria cagione, cioè per aver
poca cura e poco concetto concetto di se, o desiderio della stima degli altri
(che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura, o per
abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano
di offendere l'amor proprio degli altri, e n'hanno poca cura, per poco amor di
se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille scrupoli e riguardi, e non
impetrano mai da se stessi non che di lederlo menomamente, ma di porsene a
rischio benchè leggero e lontano, e ciò per soverchio amor proprio, il quale
parrebbe che dovesse principalmente offendere e muoverli ad offendere quello
degli altri. E così per soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar
dispregio degli altri, e infatti non gli spregiano, anzi gli stimano
eccessivamente non per altro che per lo smisurato desiderio e conto che fanno
della loro stima, anche conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema
che hanno di perderla, eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per
rispetto al merito di coloro. Tali sono ordinariamente i fanciulli e i giovani
ancora inesperti e inesercitati nel commercio umano e nelle palestre dell'amor
proprio, dov'esso riporta tanti colpi, che alla fine incallisce; e tali sono più
o manco, per più o men lungo tempo, ed alcune per tutta la vita, le persone
sensibili e immaginose, le quali restano {sovente}
fanciulle anche in età matura, e vecchia, sì quanto a {molte} altre cose, sì quanto a questa della timidità {nel consorzio umano,} che in esse è sempre difficile a
vincere più {assai} che negli altri, e in alcune è
assolutamente invincibile, come {fu} in Rousseau. La cagione si è l'eccesso
dell'amor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza
dell'animo; ed insieme la vivacità della immaginazione, la quale non mai
veramente spenta {in loro,} nè anche quando pare
affatto agghiacciata, e quando effettivamente ha cessato affatto di partorire
alcun piacere all'individuo medesimo, continuamente,
4039 secondo la sua natura, va fingendo ad esso amor proprio che è per se
vivissimo, mille falsi pericoli e difficoltà, o smisuratamente accrescendo e
moltiplicando i veri. Sì, Rousseau e gli
altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da
un'invincibile e irrepugnabile timidità, anzi mauvaise
honte ed erubescenza, non furono e non son tali se non
per eccesso di amor proprio e d'immaginazione. Altro danno e infelicità somma
della soprabbondanza della vita interna dell'anima (oltre i tanti da me altrove
notati p. 1382
p.
1584
pp. 2410-14
pp.
2629-30
pp. 2736-39
p.
2861
pp.
3921. sgg.), della sensibilità, della squisitezza dell'ingegno, della
natura riflessiva, immaginosa ec. Poichè in essa l'amor proprio essendo
eccessivo e però tanto più bisognoso di successi, e desiderando la stima altrui
e temendo la disistima molto più che gli altri non fanno, e impedito di
conseguire e costretto ad incontrare quelli che gli altri con molto minor
desiderio e bisogno conseguono facilissimamente ogni dì, ed evitano con molto
minor tema, e che quando nol conseguissero o non lo evitassero, ne sarebbero
molto meno afflitti e infelicitati, per la minore vivacità {e
sensibilità} dell'amor proprio, ed anche della immaginazione, la quale
a quegli altri accresce eziandio per se stessa e con mille false esagerazioni e
finzioni la grandezza delle perdite fatte, di quello che essi desiderano
naturalmente di conseguire, di quello che non ottengono, dei mali successi
incontrati nella società, delle ἀσχημοσύναι, che anche bene spesso non son vere
affatto, ma fabbricate di pianta dall'immaginazione, e non esistono se non
nell'idea di questi tali, e così anche i buoni successi o gli oggetti che essi
si propongono di conseguire che spessissimo sono vani e immaginari, e da niuno
ottenuti nè possibili ad ottenere ec. ec. (1. Marzo. penultimo dì di
Carnevale. 1824.) Ciò che ho detto dell'immaginazione, dico
4040 dell'amor proprio, il quale in questi tali, anche
quando sembra rotto e fiaccato dall'uso de' mali, {dispiaceri, punture ec.} anzi minore assai che non è negli altri, e
quasi al tutto agghiacciato, addormentato e spento, è sempre in verità vivissimo
assai più che negli altri anche giovani e principianti, caldissimo, e {ancora} in istato da esser chiamato tenerezza di se
stesso (come suol essere nella gioventù) benchè sia in loro più {negativo che} positivo, più atto a impedire che a
cagionare, piuttosto causa di passione che d'azione ec. quale egli è
proporzianatamente[proporzionatamente] anche
ne' primi anni di questi tali. (3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri.
1824.).
[4103,6]
Il est
aisé de voir la prodigieuse révolution que cette époque
*
(celle
du Christianisme) dut produire dans les mœurs. Les
femmes, presque toutes d'une imagination vive et d'une ame ardente, se
livrèrent à des vertus qui les flattoient d'autant plus, qu'elles
étoient pénibles. Il est presque égal pour le bonheur de satisfaire de
grandes passions, ou de les vaincre. L'ame est heureuse par ses efforts;
et pourvu qu'elle s'exerce, peu lui importe d'exercer son activité
contre elle - même.
*
Thomas
Essai sur les Femmes.
Oeuvres, Amsterdam 1774. tome 4.
p. 340. (24. Giugno. Festa di S. Giovanni Battista.
1824.).
[4180,3] Tre stati della gioventù: 1. speranza, forse il più
affannoso di tutti: 2. disperazione furibonda e renitente: 3. disperazione
rassegnata. (Bologna. 3. Giugno. 1826.).
[4226,4]
Bellissima è l'osservazione di Ierocle nel libro de Amore fraterno, ap. Stobeo serm. ὅτι κάλλιστον ἡ ϕιλαδελϕία etc. 84. Grot. 82. Gesner. che essendo la vita
umana come una continua guerra, nella quale siamo combattuti dalle cose di fuori
(dalla natura e dalla fortuna), i fratelli, i genitori, i parenti ci son dati
come alleati e ausiliari ec. E io, trovandomi lontano dalla mia famiglia, benchè
circondato da persone benevole, {e benchè senza
inimici,} pur mi ricordo di esser vissuto in una specie di timore
4227 o timidezza continua, rispetto ai mali
indipendenti dagli uomini, e questi, sopravvenendomi, avermi spaventato, ed
abbattuto e afflitto l'animo assai più del solito, non per altro se non perchè
io mi sentiva essere come solo in mezzo a nemici, cioè in mano alla nemica
natura, senza alleati, per la lontananza de' miei;
(Recanati. 16. Nov. 1826.)
{{e per lo contrario, ritornando fra loro, aver provato un
vivo e manifesto senso di sicurezza, di coraggio, e di quiete d'animo, al
pensiero, all'aspettativa, al sopravvenirmi di avversità, malattie
ec.}}
[4229,4] È naturale all'uomo, debole, misero, sottoposto a
tanti pericoli, infortunii e timori, il supporre, il figurarsi, il fingere anco
gratuitamente un senno, una sagacità e prudenza, un intendimento e
discernimento, {una perspicacia, una esperienza}
superiore alla propria, in qualche persona, alla quale poi mirando in ogni suo
duro partito, si riconforta o si spaventa secondo che vede quella o lieta o
trista, o sgomentata o coraggiosa, e sulla sua autorità si riposa senz'altra
ragione; spessissimo eziandio, ne' più gravi pericoli e ne' più miseri casi, si
consola e fa cuore, solo per la {buona speranza e}
opinione, ancorchè manifestamente falsa o senza niuna apparente ragione, che
egli vede o s'immagina essere in quella tal persona; o solo anco per una ciera
lieta o ferma che egli vede in quella. Tali sono assai sovente i figliuoli,
massime nella età tenera, verso i genitori. Tale sono stato io, anche in età
ferma e matura, verso mio padre; che in ogni cattivo caso, o timore, sono stato solito per
determinare, se non altro, il grado della mia afflizione o del timor mio
proprio, di aspettar di vedere o di congetturare il suo, e l'opinione e il
giudizio che
4230 egli portava della cosa; nè più nè
meno come s'io fossi incapace di giudicarne; e vedendolo {o
veramente o nell'apparenza} non turbato, mi sono ordinariamente
riconfortato d'animo sopra modo, con una assolutamente cieca sommissione alla
sua autorità, o fiducia nella sua provvidenza. E trovandomi lontano da lui, ho
sperimentato frequentissime volte un sensibile, benchè non riflettuto, desiderio
di tal rifugio. Ed è cosa {mille volte} osservata {e veduta per prova} come gli uomini di guerra, anche
esperimentatissimi e veterani, sogliano pendere nei pericoli, nei frangenti,
nelle calamità della guerra, dalle opinioni, dalle parole, dagli atti, dal
volto, di qualche lor capitano, eziandio giovane e immaturo, che si abbia
guadagnato la lor confidenza; e secondo che veggono, o credono di veder fare a
lui, sperare o temere, dolersi o consolarsi, pigliar animo o perdersi di
coraggio. Onde suol tanto giovare nel Capitano la fermezza d'animo, e la
dissimulazione del dolore o del timore nei casi ov'è sommamente da temere o
dolersi. E questa qualità dell'uomo è ancor essa una delle cagioni per cui tanto
universalmente e così volentieri si è abbracciata e tenuta, come ancor si tiene,
la opinione di un Dio provvidente, cioè di un ente superiore a noi di senno e
intelletto, il qual disponga ogni nostro caso, e indirizzi ogni nostro affare, e
nella cui provvidenza possiamo riposarci dell'esito delie cose nostre. (9.
Dic. Vigilia della Venuta della S. Casa di Loreto. 1826.
Recanati.). La credenza di un ente senza
misura più savio e più conoscente di noi, il quale dispone e conduce di continuo
tutti gli avvenimenti, e tutti a fin di bene, eziandio quelli che hanno maggior
sembianza di mali per noi, e che veglia sulla nostra sorte; e tutto ciò con
ragioni e modi a noi sconosciuti, e che noi non possiamo in guisa alcuna
scoprire nè intendere, di maniera che non dobbiamo darcene pensiero veruno;
questa credenza è agli uomini universalmente, e massime ai deboli ed infelici,
un conforto maggior d'ogni altro possibile: il qual conforto non da altro
procede, nè consiste in altro, che un riposo, uno acquetamento, ed una
confidenza
4231 cieca nell'autorità, nel senno, e nel
provvedimento altrui. (9. Dic. 1826.).
[4266,1] In qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere,
tu non lo trovi mai: tu non provi altro che noia, e spesso disgusto. Bisogna,
per provar piacere in qualunque azione ovvero occupazione, cercarvi qualche
altro fine che il piacere stesso. (Può servire al Manuale di filosofia pratica). (30. Marzo.
1827.). Così accade (fra mille esempi che se ne potrebbero dare)
nella lettura. Chi legge un libro (sia il più piacevole e il più bello del
mondo) non con altro fine che il diletto, vi si annoia, anzi se ne disgusta,
alla seconda pagina. Ma un matematico trova diletto grande a leggere una
dimostrazione di geometria, la qual certamente egli non legge per dilettarsi.
{+V. p. 4273.} E forse per questa ragione gli
spettacoli e i divertimenti pubblici per se stessi, senza altre circostanze,
sono le più terribilmente noiose e fastidiose cose del mondo; perchè non hanno
altro fine che il piacere; questo solo vi si vuole, questo vi si aspetta; e una
cosa da cui si aspetta e si esige piacere (come un debito) non ne dà quasi mai:
dà anzi il contrario. Il piacere (si può dir con perfettissima verità) non vien
mai se non inaspettato; e colà dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo.
Per questo nel bollore della gioventù, quando l'uomo si precipita col desiderio
e colla speranza dietro al piacere, ei non prova che spaventevole e tormentoso
disgusto e noia nelle più dilettevoli cose della vita. E non si comincia a
provar qualche piacere nel mondo, se non sedato quell'impeto, e cominciata
4267 la freddezza, e ridotto l'uomo a curarsi poco e a
disperare {omai} del piacere. (30. Marzo.
1827.). {{Simile è in ciò il piacere alla quiete,
la quale quanto più si cerca {e si desidera} per se
e da se sola, tanto si trova e si gode meno, come ho esposto in altro
pensiero poco addietro pp. 4259-60. Il desiderio stesso
di lei, è necessariamente esclusivo di essa, ed incompatibile seco
lei.}}
[4284,1] È ben trista quella età nella quale l'uomo sente di
non ispirar più nulla. Il gran desiderio dell'uomo, il gran mobile de' suoi
atti, delle sue parole, de' suoi sguardi, de' suoi contegni fino alla
vecchiezza, è il desiderio d'inspirare, di communicar qualche cosa di se agli
spettatori o uditori. (Firenze. 1. Luglio.
1827.).
[4287,1] Veramente e perfettamente compassionevoli, non si
possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero più atti che gli altri,
quando sono nel fior dell'età, quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono
nulla, perchè se anche hanno materia di sofferire, non la sentono. Ma i giovani
non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le
considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d'un altro mondo,
perchè essi non hanno negli occhi che felicità. Chi patisce non è atto a
compatire. Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse
patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e
delle facoltà estrinseche. Ma non v'ha che il giovane (il quale non ha patito)
che sia così pieno di facoltà, e che non patisca nulla. Se altro non fosse, lo
stesso declinar della gioventù, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto
più si sente, quanto uno è d'altronde meno sventurato. Passati i venticinque
anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della
decadenza del suo corpo, dell'appassimento del fiore de' giorni suoi, della fuga
e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù.
(Firenze. 23. Lugl. 1827.).
[4287,1] Veramente e perfettamente compassionevoli, non si
possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero più atti che gli altri,
quando sono nel fior dell'età, quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono
nulla, perchè se anche hanno materia di sofferire, non la sentono. Ma i giovani
non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le
considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d'un altro mondo,
perchè essi non hanno negli occhi che felicità. Chi patisce non è atto a
compatire. Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse
patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e
delle facoltà estrinseche. Ma non v'ha che il giovane (il quale non ha patito)
che sia così pieno di facoltà, e che non patisca nulla. Se altro non fosse, lo
stesso declinar della gioventù, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto
più si sente, quanto uno è d'altronde meno sventurato. Passati i venticinque
anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della
decadenza del suo corpo, dell'appassimento del fiore de' giorni suoi, della fuga
e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù.
(Firenze. 23. Lugl. 1827.).
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