26. Ott. 1821.
[1988,3] L'uomo che a tutto si abitua, non si abitua mai alla
inazione. Il tempo che tutto alleggerisce, indebolisce, distrugge, non distrugge
mai nè indebolisce il disgusto e la fatica che l'uomo prova nel non far nulla. L'assuefazione
1989 intanto può influire sull'inazione, in quanto può
trasportare l'azione dall'esterno all'interno, e l'uomo forzato a non muoversi,
o in qualunque modo a non operare al di fuori, acquista appoco appoco l'abito di
operare al di dentro, di farsi compagnia da se stesso, di pensare, d'immaginare,
di trattenersi insomma vivamente col proprio solo pensiero (come fanno i
fanciulli, come si avvezzano a fare i carcerati ec.). Ma la pura noia, il puro
nulla, nè il tempo nè alcuna forza possibile (se non quella che intorpidisce o
estingue o sospende le facoltà umane, come il sonno, l'oppio, il letargo, una
totale prostrazione di forze ec.) non basta a renderlo meno intollerabile. Ogni
momento di pura inazione è tanto grave all'uomo dopo dieci anni {di assuefazione,} quanto la prima volta. La nullità, il
non fare, il non vivere, la morte, è l'unica cosa di cui l'uomo sia incapace, e
1990 alla quale non possa avvezzarsi. Tanto è vero
che l'uomo, il vivente, e tutto ciò che esiste, è nato per fare, e per fare
tanto vivamente, quanto egli è capace, vale a dire che l'uomo è nato per
l'azione esterna ch'è assai più viva dell'interna. {+Tanto più che l'interna nuoce al fisico quanto ell'è
maggiore e più assidua, e l'esterna viceversa. Quanto all'azione interna
dell'immaginazione, essa sprona e domanda impazientemente l'esterna, e
riduce l'uomo a stato violento, se questa gli è impedita.} E quella
infatti agognano i giovani, i primitivi, gli antichi, e non si può loro impedire
senza metter la loro natura in istato violento. Ciò non per altro se non perchè
l'uomo {e il vivente} tende sempre naturalmente alla
vita, e a quel più di vita che gli conviene. (26. Ott. 1821.).