[43,6] Il cantare che facciamo quando abbiamo paura non è per
farci compagnia da noi stessi come comunemente si dice, nè per distrarci
puramente, ma (come trovo incidentemente e finissimamente notato anche nella
2.da lett. del Magalotti
contro gli Atei) per mostrare e
dare ad intendere a noi stessi di non temere. La quale osservazione potrebbe
forse applicarsi a molte cose, e dare origine a parecchi pensieri. E già è
manifesto che all'aspetto del male noi cerchiamo d'ingannarci e di credere che
non sia tale, o minore che non è, e però cerchiamo chi se ne mostri o ne sia
persuaso, e per ultimo grado, per persuaderlo a noi stessi, fingiamo d'esserne
già persuasi, operando e discorrendo tra noi come tali. E questo è quello che
accade nel caso detto di sopra. E già {è} costume di
moltissimi è il detrarre quanto più possono colle parole e colla fantasia a'
mali che loro sovrastanno, e con ciò si consolano e fortificano, mendicando il
coraggio non dal disprezzo del male, ma dalla sua immaginata falsità o
piccolezza, onde son molti che non si sgomentano se non di rarissimo perchè
quando vien loro annunziato o prevedono qualche male, prima non lo credono
affatto, (cioè si nascondono o impiccolissimo[impiccoliscono] tutti i motivi di credere) e così se il male non ha
luogo effettivamente essi non han temuto, e altri sì, e con ragione; poi lo
scemano immaginando quanto possono, e così non temono se non in quei rari casi
nei quali sopraggiunge un male così evidente e reale e che li tocchi in modo che
non possano ingannarsi, giacchè anche sopraggiunto che sia, molte volte non lo
credono affatto male, cioè non lo voglion credere. E questi che
44 forse spesso passano per coraggiosi, sono i più vigliacchi che mai,
giacchè non sanno sostenere non solo la realtà ma neppur l'idea dell'avversità,
e quando hanno sentore di qualche disgrazia che loro sovrasti o sia accaduta,
subito corrono col pensiero, ad arroccarsi {e
trincerarsi} e chiudersi e incatenacciarsi poltronescamente in dire
fra se che non sarà nulla. Onde si vede alla prova delle evidenti disgrazie,
come sieno codardi e si disperino, e dieno in frenesie e smanie da femminucce
con urli pianti preghiere, tutte cose vedute e notate effettivamente da me in
uno di cui ho e naturalmente doveva avere una gran pratica, del quale per
l'altra parte è un perfettissimo e appropriatissimo ritratto quello che ho detto
di sopra. Del resto è cosa pur troppo evidente che l'uomo inclina a dissimularsi
il male, e a nasconderlo a se stesso come può meglio, onde è nota l'εὐϕημία
degli antichi greci che nominavano le cose dispiacevoli τὰ δεινά con nomi atti a
nascondere o dissimulare questo dispiacevole, (del che v. Elladio appo il Meursio) la qual cosa certo non faceano solamente per cagione
del mal augurio. E anche in italiano si dice, se Dio
facesse
altro
di me, per dire, s'io
morissi, (v. la Crusca in Altro) e in latino in questo istesso caso, si quid humanum
paterer, mihi accideret etc. e così in cento altri casi.