11 Gennaio - 21 Maggio, 1819.
[43,4] Proprietà, efficacia, ricchezza, varietà, disinvoltura,
eleganza ancora e morbidezza e facilità, e soavità e mollezza e fluidità ec.
sono cose diverse e possono stare senza la χάρις Ἀττική, lepos
atticum[atticus], quella grazia che non si
potrà mai trarre se non da un dialetto popolare {(capace di
somministrarla)} che gli antichi greci traevano dall'Attico i latini
massimamente antichi come Plauto
Terenzio ec. dal puro e volgare e
nativo Romano, e noi possiamo e dobbiamo derivare dal Toscano usato
giudiziosamente.
[43,5] Non si trova in verun Dizionario italiano ch'io abbia
potuto consultare ma è comune fra noi la parola {blitri o}
blittri o blitteri che
significa, un niente, cosa da
nulla ec. Questa casa è un blitri; questa
città è un blitri a misurarla con Roma ec. ec. Ora
questa parola è totalmente e interamente greca: βλίτρι, che anche si diceva
βλίτυρι e βλήτυρι e βλίτηρι (come {anche} noi) e forse
anche βρίτυρι, e non significava nulla. V.
Laerz. l. 7.
segm. 57. e quivi le note del Casaub. e del Menag.
e il Du Fresne
Glossar. Gręc. in βλίτηρι, e
nell'appendice 1. in βλίτηρι {parimente}.
Tutti gli altri libri immaginabili che poteano fare al caso sono stati da me
consultati scrupolosamente, senza trovarci ombra di questa voce, e nominatamente
i Dizionari Greci tutti quanti n'ho, dove manca affatto, in tutte le sue
maniere.
[43,6] Il cantare che facciamo quando abbiamo paura non è per
farci compagnia da noi stessi come comunemente si dice, nè per distrarci
puramente, ma (come trovo incidentemente e finissimamente notato anche nella
2.da lett. del Magalotti
contro gli Atei) per mostrare e dare ad
intendere a noi stessi di non temere. La quale osservazione potrebbe forse
applicarsi a molte cose, e dare origine a parecchi pensieri. E già è manifesto
che all'aspetto del male noi cerchiamo d'ingannarci e di credere che non sia
tale, o minore che non è, e però cerchiamo chi se ne mostri o ne sia persuaso, e
per ultimo grado, per persuaderlo a noi stessi, fingiamo d'esserne già persuasi,
operando e discorrendo tra noi come tali. E questo è quello che accade nel caso
detto di sopra. E già {è} costume di moltissimi è il
detrarre quanto più possono colle parole e colla fantasia a' mali che loro
sovrastanno, e con ciò si consolano e fortificano, mendicando il coraggio non
dal disprezzo del male, ma dalla sua immaginata falsità o piccolezza, onde son
molti che non si sgomentano se non di rarissimo perchè quando vien loro
annunziato o prevedono qualche male, prima non lo credono affatto, (cioè si
nascondono o impiccolissimo[impiccoliscono]
tutti i motivi di credere) e così se il male non ha luogo effettivamente essi
non han temuto, e altri sì, e con ragione; poi lo scemano immaginando quanto
possono, e così non temono se non in quei rari casi nei quali sopraggiunge un
male così evidente e reale e che li tocchi in modo che non possano ingannarsi,
giacchè anche sopraggiunto che sia, molte volte non lo credono affatto male,
cioè non lo voglion credere. E questi che
44 forse spesso
passano per coraggiosi, sono i più vigliacchi che mai, giacchè non sanno
sostenere non solo la realtà ma neppur l'idea dell'avversità, e quando hanno
sentore di qualche disgrazia che loro sovrasti o sia accaduta, subito corrono
col pensiero, ad arroccarsi {e trincerarsi} e chiudersi
e incatenacciarsi poltronescamente in dire fra se che non sarà nulla. Onde si
vede alla prova delle evidenti disgrazie, come sieno codardi e si disperino, e
dieno in frenesie e smanie da femminucce con urli pianti preghiere, tutte cose
vedute e notate effettivamente da me in uno di cui ho e naturalmente doveva
avere una gran pratica, del quale per l'altra parte è un perfettissimo e
appropriatissimo ritratto quello che ho detto di sopra. Del resto è cosa pur
troppo evidente che l'uomo inclina a dissimularsi il male, e a nasconderlo a se
stesso come può meglio, onde è nota l'εὐϕημία degli antichi greci che nominavano
le cose dispiacevoli τὰ δεινά con nomi atti a nascondere o dissimulare questo
dispiacevole, (del che v. Elladio
appo il Meursio) la qual cosa certo non faceano
solamente per cagione del mal augurio. E anche in italiano si dice, se Dio facesse
altro
di me, per dire, s'io
morissi, (v. la
Crusca in Altro) e in latino in
questo istesso caso, si quid humanum paterer, mihi accideret etc. e così in
cento altri casi.
[44,1] Un argomento chiaro di quanto poco i greci studiassero
il latino così assolutamente, come in particolare rispetto a quello che i latini
studiavano il greco, è quello che dicono Plutarco nel principio del
Demostene, e Longino dove parla di Cic. quando i latini scrittori senza nessuna esitazione
nata dall'esser di diversa lingua, parlavano e giudicavano degli scrittori
greci.
[44,2] Anche in nostra lingua le mutazioni della pronunzia
latina ec. hanno guasto parecchie parole, come da raucus espressivissima del suono che significa, roco che perde quasi tutta l'espressione.
[44,3] L'infelicità nostra è una prova della nostra
immortalità, considerandola per questo verso che i bruti e in certo modo tutti
gli esseri della natura possono esser felici e sono, noi soli non siamo nè
possiamo. Ora è cosa evidente che in tutto il nostro globo la cosa più nobile, e
che è padrona del resto., anzi quello a cui servizio pare a mille segni
incontrastabili che sia fatto non dico il mondo ma certo la terra è l'uomo. E
quindi è contro le leggi costanti che possiamo notare osservate dalla natura che
l'essere principale non possa godere la perfezione del suo essere ch'è la
felicità, senza la quale anzi è grave l'istesso essere cioè esistere, mentre i
subalterni, e senza paragone di minor pregio possono tutto ciò, e lo conseguono,
il che è chiaro a mille segni e per la[le]
ragioni ancora indicate in un altro pensiero [p. 40,1].
[44,4] La costanza dei 300. alle Termopile e in
particolare di quei due che Leonida voleva salvare, e non consentirono ma vollero
evidentemente morire, come anche la solita gioia delle madri o padri Spartani
(ma è più notabile delle madri) in sentire i loro figliuoli morti per la patria,
è similissima anzi egualissima a quella dei martiri e in particolare di quelli
che potendo fuggire il martirio non vollero assolutamente desiderandolo come gli
spartani desideravan di cuore di morire per la patria. E un esempio recente di
un martire che potendo fuggir la morte, non volle, si può vedere nel Bartoli, Missione al gran Mogol. E la
stessa applicazione
45 fo pure di quelle madri {e padri} cristiani che godevano sentendo de' loro figli
martiri, e ancora esortandoli vedendoli portandoli accompagnandoli offrendoli
{al martirio} e nel supplizio confortandoli a non
cedere, come le spartane che esortavano ec. e quella che disse presentando lo
scudo al figlio, o con questo o su questo, e
quelle che abbominavano i figli macchiati di qualche viltà come parimente le
cristiane. ec. Da questo confronto risulta una conformità non solita a
considerarsi fra questi due generi di eroismi, ed apparisce quello che ho detto
altrove in questi pensieri [p. 37,1] che la religione è la sola che
abbia riunito l'eroismo e la grandezza delle azioni e il valore e il coraggio e
la forza d'animo ec. colla ragione ec. e che abbia anzi risuscitato l'eroismo
già quasi svanito allo scemare delle illusioni: e quanto sia simile alle cose
nostre quello che non si crede che abbia esempio fuor delle circostanze della
libertà, amor patrio ec. de' greci de' Romani, in somma degli antichi e
principalmente degli antichissimi, quando come ho detto noi ne abbiamo anche
esempi recenti ne' nostri ultimi martiri, non solo ne' primi e antichi.
[45,1] Soleva considerar come una pazzia quello che dicono i
Cappuccini per iscusarsi del trattar male i loro novizzi, il che fanno con gran
soddisfazione, e con intimo sentimento di piacere, cioè che anch'essi sono stati
trattati così. Ora l'esperienza mi ha mostrato che questo è un sentimento
naturale, giacch'io giunto appena {per l'età} a
svilupparmi dai legami di una penosa e strettissima educazione e tuttavia
convivendo ancora nella casa paterna con un fratello minore di parecchi anni, ma
non tanti ch'egli non fosse nel pienissimo uso di tutte le sue facoltà vizi ec.
siccome non per altro (giacchè non era punto per predilezione de' genitori) se
non perch'era mutato il genere della vita nostra che convivevamo con lui,
anch'egli partecipava non poco alla nostra larghezza, ed avea molto più comodi e
piaceruzzi che non avevamo noi in quella età, e molto meno incomodi e noie e
lacci e strettezze e gastighi, ed era perciò molto più petulante ed ardito di
noi in quell'età, perciò io ne risentiva naturalmente una verissima invidia,
cioè non di quei beni giacch'io gli avea allora, e pel tempo passato non li
potea più avere, ma mero e solo dispiacere ch'ei gli avesse, e desiderio che
fosse incomodato e tormentato come noi, ch'è la pura e legittima invidia del
pessimo genere, e io la sentiva naturalmente e senza volerla sentire, ma in
somma compresi allora (e allora appunto scrissi queste parole) che tale è la
natura umana, onde mi erano men cari quei beni ch'io aveva qualunque fossero,
perch'io li comunicava con lui, forse parendomi che non fossero più degno
termine di tanti stenti dopo che non costavano niente a un altro che si trovava
nelle mie circostanze, e con meno merito di me, ec. Quindi applico ai
Cappuccini, i quali trovando la sorte dei fratelli minori che sono i novizzi
dipendente da loro, seguono gl'impulsi di questa inclinazione che ho detto, e
non soffrono che si possano dire a se stessi essere scarso quel bene a cui son
giunti poichè altri gli acquista con assai meno travaglio di loro, nè che
abbiano a provare il dispiacere che questi tali non soffrano quegl'incomodi
ch'essi in quelle circostanze hanno sofferti.
[46,1]
46 Quando colla lettura col tratto col discorso coi
trattenimenti o letterari o di qualunque genere (ma massime coi libri in quanto
al gusto dello scrivere, e colla conversazione degli uomini in quanto al
costume) ci siamo formati un abito cattivo, crediamo che quello sia natura,
giacchè non c'è cosa tanto simile e facile ad esser confuso[confusa] colla natura anche da' più oculati e da' filosofi,
quanto l'abito; e pretendiamo di dover seguire quell'abito p. e. nello scrivere,
(giacchè di questo io voglio qui parlare specialmente come quelli a cui pare che
lo scrivere in un italiano francese sia natura, e così la corruzione del gusto
in ogni genere e parte di scrittura e di stile) dicendo ch'è natura, e che così
vi viene spontaneamente e che la poesia deve fluire dalla natura e cose tali. Ma
non è natura, è abito, e abitaccio pessimo, e volete vederlo? se siete veramente
di buona indole per le B. A.[Belle Arti]
leggete i veri poeti e scrittori, particolarmente i greci, e vedrete subito che
quella è natura, e vi maraviglierete (come infatti succede, che quasi paiano due
naturalezze e non si sappia capir come, e dall'altra parte
queste[questa] duplicità ci faccia stupire)
come sia tanto differente da quella che voi credete che sia natura, eppur non
potete negare che questa non sia perch'è troppo evidente. Ed ecco se volete
esser poeta e servirvi di quello che vi somministra la natura, naturalmente, e
rettamente, cominciate, se siete uomo di giudizio, a conoscer la necessità
assolutissima dello studio, (oh bestemmia! necessario lo studio per iscrivere e
poetar bene) e della lezione dei classici e delle arti poetiche e dei trattati
ec. ec. e vedete appoco appoco la somma difficoltà d'imitare e seguir quella
natura che prima confondendola coll'abito giudicavate così facile a esprimere,
perchè infatti non c'è cosa più facile a seguire che l'abito, nè più difficile a
contrariare, il che appunto fa la somma difficoltà del seguir la natura vera, e
ciò non si ottiene senza un contrabito tanto più difficile del primo quanto
bisogna erigerlo dai fondamenti, (del che in quell'altro essendo venuto su
appoco appoco, nell'età fresca, e da se, senza nostra fatica, non ci eravamo
accorti) erigerlo sbarbando prima l'altro, e questa è la gran fatica che in
quell'altro non ci fu punto, e finalmente erigerlo continuarlo e finito
conservarlo in mezzo a infinite cose (come letture necessarie, discorsi, {commercio usuale per negozi ec.} trattenimenti
conversazioni corrotte secondo il solito, {corrispondenze} ascoltazione di discorsi altrui ec. ec.) che lo
contrastano, tanto più pericolose quanto vi richiamano a quell'altro abito prima
già fatto, onde il luogo resta sempre lubrico, ed è facile lo scivolare nel
cattivo. E così è necessarissimo lo studio per ben servirsi di quella natura,
senza la quale bensì non si fa niente, ma colla quale sola avreste ben forse
potuto quasi tutto, ma non potete più nulla, anzi meno del nulla, giacchè non
potete non far male, a cagione dell'abito inevitabile fatto contro di lei.
[46,2] La grazia non può venire altro che dalla natura, e la
natura non ista mai secondo il compasso della gramatica della geometria
dell'analisi della matematica ec. Quindi la scarsezza di grazia nella lingua
francese tutta analitica e tecnica e regolare, e diremo angolare, massima
scarsezza nell'esteriore dello stile, e poi anche nell'interiore ec. se bene se
ne compensano col nominar la grazia 20. volte per pagina, e
47 non c'è un libro francese dove non troviate a ogni occhiata grace, grace massime parlando dei libri della loro
nazione, encomiandoli ec. Grace grace, mi viene
allora in bocca, et non erat grace (pax pax et non erat pax, ma non so se così
veramente dica S.
Paolo, o qual altro Scrittor sacro). {{V. questi
pensieri p. 92-94.}}
[47,1] Stridore notturno delle banderuole traendo il vento.
[47,2] Si suol dire che la resistenza stimola e dà forze di
compire, e condurre a fine quello che si è tentato. Ora io soggiungo che
spessissimo se io senza resistenza avrei fatto dieci, sopraggiunta la resistenza
farò quindici e venti. E questo spesso di assoluta e determinata volontà, non
già per soprabbondanza meccanica degli effetti della forza impiegata maggiore
del bisognevole per la resistenza incontrata, e non contrappesata diligentemente
alla resistenza, come se io voglio spingere una cosa da un luogo all'altro,
provo che {non} cede alla prima spinta, accresco la
forza, e questa me la caccia più lontano ch'io non voleva. Ma dico per
deliberata volontà. p. e. do una spinta e non giova, un'altra e non fa, la terza
parimente, alla fine mi piglia la rabbia, acchiappo la cosa colle mani, {e} la strascino molto più in là ch'io non voleva prima
ch'ella andasse, e volendo ch'ella stia dove dee, bisogna che la riporti {indietro} al luogo conveniente, e così fo. E la distanza
alla quale l'ho portata è spesso più che doppia ed anche tripla di quella a cui
la voleva spingere. Questo accade perch'io allora non considero più e non ho per
fine della mia azione, di farla andare in quel tal luogo, ma propriamente di
vincere e vendicare quella resistenza, e mostrare la superiorità del mio volere
e della mia forza sopra il suo volere e la sua forza, la quale tanto più si
dimostra, e la vendetta e la vittoria è tanto maggiore quanto io la porto più
lontano, e insomma volti allora a quel fine miriamo alla perfezione di esso che
così si conseguisce, e perciò non c'importa che veniamo a nuocere a quel primo
fine del quale effettivamente in quel punto siamo dimenticati. Applico ora
questo caso fisico ai morali.
[47,3] Perciò si vuole che le parole che si hanno da aggiungere
alla nr̃a[nostra] lingua {o
per arricchirla, o per necessità ec.} si prendano dal latino e non dal
francese nè dal tedesco ec. chiamando quelle buone e approvandole, e queste
barbare, perchè quelle ordinariamente o almeno assai più spesso e facilmente
consentono coll'indole della lingua nostra, e le lasciano la sua forma e
sembianza nativa e la sua grazia ec. ma queste dissuonano manifestissimamente e
sconvengono, e sconvenendo fanno la barbarie, e se son molte guastano le forme
native, e la venustà e grazia propria e primitiva della lingua. E questa
sconvenienza si scorge anche nelle semplici parole, com'è chiaro, vedendosi
subito che vengono da un'altra fonte, laddove le latine non possono venire da
un'altra fonte, essendo da quella stessa fonte venuta si può dir tutta intera la
lingua italiana, e benchè da essa sia venuta anche la francese, non però la
italiana è venuta dalla francese, e quindi per quanto la sorgente sia la stessa,
nel corso si può bene il rivo essere, anzi s'è mutato, e alterato, ed ha
acquistato proprietà tali, che non ha più nessun diritto di dare ad un altro
rivo nato dalla stessa sorgente, le sue acque, come
48 a
lui convenienti. Laddove la fonte non essendo alterata, restiamo sempre in
diritto d'attingerne, e anche quivi con giudizio, e quanto è permesso dalle
alterazioni che ha sofferte il nostro proprio rivo, per cagione delle quali
alcune acque della stessa sorgente non ci si potrebbero mescolare senza
sconvenienza. Ed ecco la cagione del diverso diritto, e delle diverse
conseguenze che si devono dedurre dalla fratellanza delle lingue e dalla
figliolanza. Quello poi che ho detto delle parole va inteso e molto più
intensamente delle frasi che corrompono più e sconvengono più, avendo faccia più
manifestamente straniera e dissimile. E che questa non sia pedanteria e cieca
venerazione dell'antichità si vede chiaro da questo che non solo non amiamo ma
detestiamo le parole greche, quantunque la lingua latina ne prendesse in tanta
copia, e appunto per uso d'arricchirsi, e per le diverse necessità d'esprimer
questa o quella cosa mancante di parola latina dove senza crearla di nuovo la
levavano di peso dal greco ed è costume usitatissimo dei latini come di Cic. di Celso ec. quantunque
principalmente di chi scriveva di scienze come Plin. ec. ma anche Oraz. com'è notissimo ec. Ora perchè
queste hanno viso per noi straniero le fuggiamo di cuore, ed anche gran parte
delle frasi strettamente prese, giacchè dei modi più largamente, infiniti ne
convengono a maraviglia alla nr̃a[nostra]
lingua. Al contrario però di noi la lingua francese non fa una difficoltà al
mondo di spogliare la lingua greca secondo i suoi bisogni e in questi ultimi
tempi se n'è empiuta e satollata strabocchevolmente, onde già fanno dizionari
delle parole francesi derivate dal greco cosa per altro scellerata che guasta
quella lingua orrendamente (come guasta indegnamente la nr̃a[nostra] barbarie comunissima di usar queste stesse
parole greche massime le moderne pigliandole non dal greco ma dal francese colla
stessa barbarie però, quantunque i più neppur sappiano che siano interamente
greche ma le abbiano per pure francesi, come despota, demagogo, anarchia,
aristocrazia, democrazia, colle terminazioni greche sole p. e. civismo,
filosofismo ec. ec. che in gran parte son politiche {messe
fuori dalla repubblica francese} ma ce ne ha di tutti i generi) e in
principal modo perch'essendo adottata da {tutti gli}
scrittori di scienze la nomenclatura tratta dal greco onde non c'è scienza, anzi
neppure arte, mestiere, rettorica gramatica ec. che non sia piena di greco, e
perfino nel suo nome e in quello delle sue parti non sia intieramente greca, le
parole greche essendo necessariamente di quel sembiante che siamo soliti di
vedere nelle usate dagli scienziati, danno alla lingua francese (e darebbero a
qualunque lingua e daranno all'italiana se dalla francese saranno trasportate
stabilmente nella nostra) un'aria indegna di tecnicismo (per usare una di queste belle parole) e di geometrico e di
matematico e di scientifico che ischeletrisce la lingua, riducendola in certo
modo ad angoli e perchè non c'è cosa più nemica della natura che l'arida
geometria, le toglie tutta la naturalezza e la naïveté, e la popolarità (onde
nasce la bellezza) e la grazia e la venustà, e proprietà, ed anche la forza e
robustezza ed efficacia mancando anche questa assolutamente al linguaggio
tecnico che non fa forza col linguaggio, ma con quello che risulta dalle parole
cioè col significato loro e coll'argomento e ragione, o col concetto spiegato
freddamente con esse.
[49,1]
49
La fav.[favola] del pavone vergognoso delle sue zampe pecca
d'inverisimile anzi d'impossibile, giacchè non ci può esser parte naturale {e comune} in verun genere d'animale, che a quello stesso
genere non paia conveniente, e quando sia nel suo genere ben conformata non paia
bella: giacchè la bellezza è convenienza, e questa è idea ingenita nella natura;
quali cose però si convengano, questo è quello che varia nelle idee non solo dei
diversi generi di animali, ma eziandio degl'individui di uno stesso genere, come
negli uomini, agli Etiopi (per non uscire dalla bellezza del corpo) par bello il
color nero, il naso camoscio, le labbra tumide, e brutti i contrari che a noi
paion belli, e tra i bianchi questa e quella nazione si diversifica assaissimo
nel valutar come bella questa o quella forma che all'altra nazione dispiacerà.
Ma che la natura abbia fatto parte stabile ed essenziale di verun genere
animalesco che a quello stesso genere paia brutta è impossibile, giacchè non è
possibile che un genere non abbia nessuno cui stimi bello, e questo vediamo
parimente nella specie, e le stesse differenze ch'io {ho} notate nei giudizi degli uomini provengono dalla differente forma
loro come negli Etiopi, Lapponi, Selvaggi, isolani di cento figure ec. E le
altre differenze, come nello stimar più l'occhio ceruleo che il nero, ec.
versano non intorno a cose stabili e immutabili, ma, com'è chiaro da questo
esempio, mutabili, e differenti in una stessa specie secondo gl'individui,
giacchè altrimenti la natura avrebbe fatto una specie di bruttezza assoluta, se
parendo bruttezza a noi, paresse anche a quel tal genere o specie. Ma la
bruttezza assoluta ben noi ce la figuriamo che vedendo le zampacce del pavone, e
parendoci sconvenienti al resto del suo corpo, non crediamo che possano parer
belle {a nessuno animale,} ma il fatto non
ista[istà] così, anzi al pavone parebbono
brutte {nel proprio genere} quelle zampe più grosse
{carnose} morbide ornate vestite ec. che a noi
parrebbono più belle, e giudica brutto quello del suo genere (o specie che la
vogliamo dire) che non ha le zampe perfettamente secche asciutte ec.
[49,2]
Quello che ho detto
nel princip. di questo pensiero me ne porge un altro, cioè che infatti
quella fav.[favola] non pecca d'inverisimile
non essendo scritta per li pavoni ma per noi, i quali naturalmente siamo portati
a credere che quelle zampe bruttissime agli occhi nostri sieno tali anche agli
occhi dei pavoni. E quantunque il filosofo facilmente conosca il contrario,
tuttavia scrive il poeta pel volgo, al quale non è inverisimile il dir p. e. che
le stelle cadano, anzi lo dice Virgil. e si
dice da' villani e da' poeti tuttogiorno, benchè a qualunque non ignorante sia
cosa impossibile.
[50,1]
50 A quello che ho {detto} nel
3. pensiero avanti al presente si
aggiunga che le parole nuove si devono anche cavare dalle radici che sono nella
propria lingua, e questa è una fonte principalissima e dalla quale Dante che passa pel creatore della lingua
derivò una grandissima, e forse la massima parte delle voci ch'egli introdusse.
E {i derivati da} questa fonte serbando com'è naturale
il colore nativo della lingua più che qualunque altro, se son fatti con
giudizio, vengono a formare il miglior genere di voci nuove che si possano
creare ec. ec. Ma questa fonte è tanto più scarsa quanto meno sono le radici
cioè quanto la lingua è meno ricca, onde la lingua francese cedendo in questo
senza paragone all'italiana non è dubbio che di voci nuove secondo {il} bisogno, che non alterino la fisonomia della lingua
ma consuonino ec. dev'essere molto più atta a produrne la lingua italiana che la
francese. E infatti questa che passa per ricchissima in vocaboli delle arti e
scienze ec. è infatti poverissima, giacchè questi vocaboli non li piglia dal suo
fondo, ma di peso dalle altre lingue come dalla greca onde disdicono e stuonano
manifestamente col resto della lingua e l'alterano e imbastardiscono, e ciò
perchè non sono lingue di uno stesso genere ma diversissime, il cui genio {anche nelle pure voci} non ha che fare con quello della
francese, all'opposto della latina rispetto all'italiana principalmente. Ora
questa ricchezza tanto è loro quanto nostra, perchè è chiaro che non trattandosi
di ricchezza αὐτόχϑων ma di roba presa altrove, tutti possono prenderla
egualmente e colla stessa spesa, massime noi italiani, ai quali non è niente più
difficile da στερεοτυπία di fare stereotipia, di quello che ai francesi
stéréotypie ec. ec. {e di formar nuovi composti greci com'è
questo ec.} sì che è ricchezza fittizia, non propria, ascita, misera,
comune a tutti, e dannosa. Oltracciò i derivati dalle proprie radici sono subito
{di} noto significato, e intesi da tutti, così in
massima parte dalla lingua latina (dalla quale già non si dee prendere quello
che non sarebbe comunemente inteso) ma questi altri non si capiscono da nessuno
se non ci mettete la spiegazione etimologica ec. ovvero se non li mettete nel
vocabolario col loro significato, quando non sieno appoco appoco passati in uso,
ma ciò non può esser successo senza il detto massimo inconveniente nel
principio.
[50,2] Anche la stessa negligenza e noncuranza e sprezzatura e
la stessa inaffettazione può essere affettata, risaltare ec. Anche la semplicità
la naturalezza la spontaneità. {{V. p.
160.}}
[50,3] Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno
di qualche festa il canto notturno de' villani passeggeri. Infinità del passato
che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai
tanti avvenimenti ora passati ch'io paragonava dolorosamente con quella profonda
quiete e silenzio della notte, a
51 farmi avveder del
quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco.
[51,1] Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano
delle illusioni.
[51,2] Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale
stante ch'elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e
date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito
spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell'uomo e voluti dalla
natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa ec. Onde
sono necessari ed entrano sostanzialmente nel composto ed ordine delle cose.
[51,3] La varietà è tanto nemica della noia che anche la stessa
varietà della noia è un rimedio o un alleviamento di essa, come vediamo tutto
giorno nelle persone di mondo. All'opposto la continuità è così amica della noia
che anche la continuità della stessa varietà annoia sommamente, come nelle dette
persone, e in chicchessia, e, per portare un esempio, ne' viaggiatori avvezzi a
mutar sempre luogo e oggetti e compagni e alla continua novità, i quali non è
dubbio che dopo un certo non lungo tempo, non desiderino una vita uniforme,
appunto per variare, colla uniformità dopo la continua varietà. {V. Montesquieu
Essai sur le Gout. De la variété.
Amsterd. 1781. p. 378. lin. ult. et des contrastes. p.
384-385.}
[51,4] Intendo per innocente non uno incapace di peccare, ma di
peccare senza rimorso. {{V. p. 276.}}
[51,5] Può mai stare che il non esistere sia assolutamente
meglio ad un essere che l'esistere? Ora così accadrebbe appunto all'uomo senza
una vita futura.
[51,6] Non mi maraviglio nè che gli antichi Ebrei e, credo,
gran parte o tutti gli orientali (v. le
lettere premesse aux principes
discutés de la société Hébreo-Capucine etc.) e così i
greci mancassero p. e. del v. nè che avessero alcune lettere che noi non
abbiamo, come gli Ebrei p. e. il צּ i greci il θ il χ ec. Le lettere che noi
crediamo comunemente essere proprio tante e non più quanto le nostre, o almeno
in genere, sono in effetto moltissime giacchè non vengono dalla natura ma
dall'assuefazione io dico in particolare, cioè la facoltà del parlare e
articolare e formare diversi suoni viene dalla natura, ma la qualità e
differenza di questi suoni ossia delle lettere viene dall'assuefazione. E
infatti sono infiniti i modi
52
{di} collocare ec. la lingua i denti le labbra ec.
quelle parti che formano i detti suoni, e noi vediamo come piccole differenze di
collocazione formino suoni diversissimi come il p. e il b. per esempio. Ora
perchè noi da fanciulli non abbiamo sentito altro che i suoni del nostro
alfabeto abbiamo solo imparato quelle tali collocazioni, e a quelle assuefatti e
incapaci d'ogni altra crediamo 1. che altre non ve ne siano in natura, 2. che
tutte sieno appresso a poco comuni per natura a tutti. Ma la prima cosa è
mostrata falsa dalle tante lettere degli alfabeti antichi o stranieri che noi
non sappiamo pronunziare o ignorandone il suono, come {spesso} negli antichi {(quantunque più spesso
crediamo di saperlo)}, o il mezzo, come negli stranieri; e da molte
altre prove. L'altra cosa da quello che ho detto di sopra e dall'esperienza
continua di tanti che per minime circostanze piuttosto accidentali ed
estrinseche che organiche restan privi di certe lettere. Ora non è dunque
maraviglia che gli alfabeti dei popoli siano differenti secondo la differente
assuefazione tradizionale, da cui si dee rimontare alla origine d'essi alfabeti.
E se ne deduce che in natura o non c'è alfabeto, o molto più ricco che non si
crede volgarmente.
[52,1] Un esempio di quanto fosse naturale e piena di amabili e
naturali illusioni la mitologia greca, è la personificazione dell'eco.
[52,2] Non ogni proposito deve nascondere il poeta, come per
esempio non dee nascondere il proposito d'istruire nel poema didascalico ec. in
somma i propositi manifesti e che si espongono p. e. nello stesso principio del
poema. Canto l'armi pietose
*
ec. Ma sì bene
quelli che non vanno naturalmente col proposito manifesto, come col narrare il
dipingere, coll'istruire il dilettare, cose che il poeta si propone, ma non dee
mostrare di proporselo quantunque debba mostrare quegli altri propositi
manifesti, i quali servono più che altro di pretesto e manto ai propositi
occulti. E questo perchè questi ultimi non sono naturali come è naturale che uno
narri ec. ma deve parer che quel diletto, quella viva rappresentazione ec. venga
spontanea e senza ch'il poeta l'abbia cercata, il che mostrerebbe l'arte e lo
studio e la diligenza, e in somma non sarebbe naturale, giacchè figurandoci il
poeta nello stato naturale è un uomo che preso il suo tema, e questo è il
proposito manifesto, venga giù dicendo quello che gli si somministra
spontaneamente come fanno tutti quelli che parlano, e quantunque egli qui metta
un'immagine, qui un affetto, qui un suono espressivo, qui ec. e tutto a bella
posta e pensatamente, non deve parer ch'egli lo faccia così, ma solo
naturalmente, e così portando il filo del suo discorso, e l'accaloramento
53 della sua fantasia e il suo cuore ec. Altrimenti la
natura non è imitata naturalmente e questi sono i propositi diremo così
secondari, quantunque spessissimo in realtà sieno primari, (come ne' poemi
didascalici dove il fine primario par l'istruire, e deve parere, quando in
verità è solo un mezzo essendo il vero fine il dilettare) i quali bisogna
nascondere. E oltre il poeta s'intenda l'oratore lo storico, ed ogni {qualunque} scrittore. {Affettazione
in latino viene a dir lo stesso che proposito, e presso noi lo stesso che
proposito manifesto, anzi questa può esserne la definizione.}
[53,1] Spesso ho notato negli scritti de' moderni psicologi che
{in} molti effetti e fenomeni del cuore ec. umano,
nell'analizzarli che fanno e mostrarne le cagioni, si fermano molto più presto
del fine a cui potrebbero arrivare, assegnandone certe ragioni particolari {solamente}, e questo perchè vogliono farli parere
maravigliosi, come il Saint-Pierre negli studi della natura lo
Chateaubriand ec., e non vanno alla prima o quasi prima
cagione che troverebbero semplice e in piena corrispondenza col resto del
sistema di nostra natura. Questo ridurre i diversi fenomeni dell'animo umano a
principii semplici scema la maraviglia, e anche la varietà perchè moltissimi si
vedrebbero derivati da un solo principio modificato leggermente. Costoro parlano
sempre enfaticamente, notano con molta acutezza il fenomeno, ma datane (se la
danno, perchè spesso credono e fanno credere ch'il fenomeno sia inesplicabile,
vale a dire senza rapporto conosciuto al resto del sistema giacchè da ciò solo
nasce la maraviglia in qualunque cosa del mondo) una ragione immediata e
secondaria ed egualmente maravigliosa, non rimontano come sarebbe pur facile
alla sorgente che ridurrebbe il fenomeno {e le sue ragioni
secondarie} alle classi consuete. Io credo che chi istituisse
quest'analisi ultima farebbe cosa nuova (sia per la mala fede, o la minore
acutezza degli antecessori) e semplificherebbe d'assai la scienza dell'animo
umano, rapportando gl'infiniti fenomeni che sembrano anomalie (perchè infatti la
scienza non è ancora stabile nè ordinata e ridotta in corpo) a principii
universali o poco lontani da essi. Opera principale e formatrice di tutte le
scienze e scopo ordinario di chi ricerca le cagioni delle cose. P. e. il
desiderio naturale degli uomini di supporre animate le cose inanimate tanto
manifesto ne' fanciulli deriva dal desiderio e propensione nostra verso i nostri
simili, principio capitale, e primitivo, e fecondissimo. V. il mio discorso sui romantici.
[54,1]
54 Quando la poesia per tanto tempo sconosciuta entrò nel
Lazio e in Roma, che magnifico e
immenso campo di soggetti se le aperse avanti gli occhi! Essa stessa già padrona
del mondo, le sue infinite vicende passate, le speranze, ec. ec. ec. Argomenti
d'infinito entusiasmo e da accendere la fantasia e 'l cuore di qualunque poeta
anche straniero e postero, quanto più romano o latino, e contemporaneo o vicino
proporzionatamente ai tempi di quelle gesta? Eppure non ci fu epopea latina che
avesse per soggetto le cose latine così eccessivamente grandi e poetiche,
eccetto quella d'Ennio che dovette
essere una misera cosa. La prima voce della tromba epica che fu di Lucrezio, trattò di filosofia. In somma
l'imitazione dei greci fu per questa parte mortifera alla poesia latina, come
poi alla letteratura e poesia italiana nel suo vero principio, cioè nel 500.
l'imitazione servile de' greci e latini. Onde con tanto immensa copia di fatti
nazionali, cantavano, lasciati questi, i fatti greci, nè io credo che si trovi
indicata tragedia d'Ennio o d'Accio
{ec.} d'argomento {latino e}
non greco. Cosa tanto dannosa, massime in quella somma abbondanza di gran cose
nazionali, quanto ognuno può vedere. E lo vide ben Virgilio col suo gran giudizio, non però la schivò
affatto anzi l'argomento suo fu pure in certo modo greco, (così le Buccoliche e le Georgiche di titolo e derivazione greca) oltre le tante imitazioni
d'Omero ec. ma proccurò quanto più
potè di tirarlo al nazionale, e spesso prese occasione di cantare ex professo i
fatti di Roma. Similmente Orazio uomo
però di poco valore in quanto poeta, fra tanti argomenti delle sue odi derivate
dal greco, prese parecchie volte a celebrare le gesta romane. Ovidio nel suo gran poema {cioè le
Metamorfosi} prese argomento
tutto greco. Scrisse però i fasti di Roma ma era opera
piuttosto da versificatore che da poeta, trattandosi di narrare le origini, s'io
non erro, di quelle cerimonie feste ec. in somma non prese quei fatti a cantare,
ma così, come a trastullarcisi. Del resto la letteratura latina si risentì bene
dello stato di Roma colla magniloquenza che, si può dire, aggiunse alle altre
proprietà dell'orazione ricevute da' greci, e a qualcune sostituì, qualità tutta
propria de' latini, come nota l'Algarotti, colla nobiltà e la
coltura dell'orazione del periodo ec. molto maggiore che non appresso gli
antichi greci classici, eccetto, e forse neppure, Isocrate.
[54,2] Una prova di quello che ho detto di sopra intorno alle
lettere, o piuttosto un esempio, è l'u gallico (fino una vocale) sconosciuto a
noi italiani
55 settentrionali, e non so se ai latini, e
a quali altri stranieri presentemente. Il quale fu proprio interamente
dell'alfabeto greco (e non so se dicano lo stesso del vau ebreo) come ora è
proprio del francese, e come l'u nostro appresso questi è formato dall'ou, così
appuntino fra i greci (eccetto che questi l'hanno anche ne' dittonghi αυ ευ ηυ
ωυ dove i francesi in nessun altro). Il che, se non c'è altra ragione in
contrario credo che i francesi (dico tanto quest'u {detto
gallico} quanto esso dittongo ou) l'abbiano avuto dalla grecia
nelle spedizioni che fecero colà quando fondarono la gallogrecia ec. (e credo
da S. Ireneo gallo che scrisse in
greco, e Favorino parimente ec. che la
lingua greca fosse veramente comune nella gallia, v. gli Storici)
onde reso ἐπιχώριον, sia poi rimasto in francia e anche nella gallia
transalpina cioè in Lombardia, malgrado delle
mutazioni d'abitatori di queste provincie ec. E il c. e il g. schiacciato non
sono evidentemente due lettere diverse dagli aperti ch e gh? e non mancarono e
mancano ai greci? (ai latini non so che dicano gli eruditi) ed ora ai francesi,
e credo agli spagnuoli agl'inglesi ec.?
[55,1] Se tu domanderai piacere ad uno che non possa fartisi
senza ch'egli s'acquisti l'odio d'un altro, difficilissimamente {(in parità di condizione)} l'otterrai non ostante che ti
sia amicissimo. E pure per quell'odio si guadagnerebbe o si crescerebbe il
vostro amore e forse grandissimo, sì che le partite par che sarebbero uguali. Ma
infatti pesa molto più l'odio che l'amore degli uomini, essendo quello molto più
operoso. Qui si fermerebbero gli psicologi moderni lasciando di cercare il
principio di questa differenza, ch'è manifestissimo, cioè l'amor proprio.
Giacchè chi segue il suo odio fa per se, chi l'amore per altrui, chi si vendica
giova a se, chi benefica, giova altrui, nè alcuno è mai tanto infiammato per
giovare altrui quanto a se.
[55,2] Vita tranquilla delle bestie nelle foreste, paesi
deserti e sconosciuti ec. dove il corso della loro vita non si compie meno
interamente colle sue vicende, {operazioni} morte,
successione di generazioni ec. perchè nessun uomo ne sia spettatore o
disturbatore. {nè sanno nulla de' casi del mondo perchè
quello che noi crediamo del mondo è solamente degli uomini.}
[55,3] A. S'io fossi ricco ti vorrei donar tesori. B.
Oibò, non vorrei ch'Ella se ne privasse per me. Prego Dio che non la
faccia mai ricca.
[55,4] Linguaggio {mutuo} delle bestie
descritto secondo le qualità manifeste di ciascuna potrebbe essere una cosa
originale e poetica introdotta così in qualche poesia, come, ma poi scioccamente
se ne serve, il Sanazzaro nell'Arcadia prosa 9. ad imitazione di quella favola, s'io non
erro, circa Esiodo.
[55,5] Voce e canto dell'erbe rugiadose in sul mattino
ringrazianti e lodanti Iddio, e così delle piante ec. Sanazzaro
ib. e mi pare immagine notabile e simile a
quella dei rabbini dell'inno mattutino del sole ec. come anche l'altra immagine
del Sanazzaro ivi, di un
56 paese {molto strano}, dove {nascon le genti
tutte nere, come matura oliva, e} correvi sì basso il
Sole, che si potrebbe di leggiero, se non cuocesse, con la mano toccare.
*
[56,1] Com'è costantissimo e indivisibile istinto di tutti gli
esseri la cura di conservare la propria esistenza, così non è dubbio che quasi
il compimento di questa non sia l'esserne contento, e l'odiarla o non
soddisfarsene non sia un principio contraddittorio il quale non può stare in
natura e molto meno in quell'essere il quale senza entrare nella teologia, è
chiaro ch'essendo l'ordine animale il primo in questo globo e probabilmente in
tutta la natura cioè in tutti i globi, {ed} egli
essendo evidentemente il sommo grado di quest'ordine, viene a essere il primo di
tutti gli esseri nel nostro globo. Ora vediamo che in questo è tanta la
scontentezza dell'esistenza, che non solo si oppone all'istinto della
conservazione di lei, ma giunge a troncarla volontariamente, cosa diametralmente
contraria al costume di tutti gli altri esseri, e che non può stare in natura se
non corrotta totalmente. Ma pur vediamo che chiunque in questa nostra età sia di
qualche ingegno deve necessariamente dopo poco tempo cadere in preda a questa
scontentezza. Io credo che nell'ordine naturale l'uomo possa anche in questo
mondo esser felice, vivendo naturalmente, e come le bestie, cioè senza grandi nè
singolari e vivi piaceri, ma con una felicità e contentezza sempre, più o meno,
uguale e temperata (eccetto gl'infortuni che possono essere nella sua vita, come
gli aborti le tempeste e tanti altri disordini (accidentali, ma non sostanziali)
in natura) insomma come sono felici le bestie quando non hanno sventure
accidentali ec. Ma non già credo che noi siamo più capaci di questa felicità da
che abbiamo conosciuto il voto delle cose e le illusioni e il niente di questi
stessi piaceri naturali del che non dovevamo neppur sospettare: tout homme qui pense
est un être corrompu
*
, dice il Rousseau, e noi siamo già tali. E pure vediamo che questi
piccoli diletti non ostante che noi siamo già guasti pur ci appagano meglio che
qualunque altro come dice Verter ec. {e vediamo il minore
scontento dei contadini, ignoranti ec. (quantunque essi pure assai lontani
dallo stato naturale) che dei culti, e dei fanciulli massimamente, che dei
grandi.} E l'esser l'uomo buono per natura, e guastarsi
necessariamente nella società, può servir di prova a questo sistema, e il veder
che le bestie non hanno tra loro altra società che per certi bisogni, del resto
vivono insieme senza pensar l'una all'altra, e che l'istinto si vien perdendo a
proporzione che la natura è alterata dall'arte onde è grande nelle bestie e nei
fanciulli, piccolo negli uomini fatti, ma ciò non prova che l'uomo sia fatto per
l'arte ec. giacchè la natura gli aveva dato quegl'istinti ch'egli perde poi ec.
Sì che si potrebbe pensare che la differenza di vita fra le bestie e l'uomo sia
nata da circostanze accidentali e dalla diversa conformazione del corpo umano
più atta alla società ec.
[57,1]
57 S'è osservato che è proprietà degli antichi poeti ed
artisti il lasciar molto alla fantasia ed al cuore del lettore o spettatore.
Questo però non si deve prendere per una proprietà isolata ma per un effetto
semplicissimo e naturale e necessario della naturalezza con cui nel descrivere
imitare ec. lasciano le minuzie e l'enumerazione delle parti tanto familiare ai
moderni descrivendo solo il tutto con disinvoltura, e come chi narra non come
chi vuole manifestamente dipingere muovere ec. Nella stessa maniera Ovidio il cui modo di dipingere è
l'enumerare (come i moderni descrittivi sentimentali ec.) non lascia quasi
niente {a fare} al lettore, laddove Dante che con due parole desta un'immagine lascia molto
a fare alla fantasia, ma dico a fare non già faticare, giacchè ella
spontaneamente concepisce quell'immagine e aggiunge quello che manca ai tratti
del poeta che son tali da richiamar quasi necessariamente l'idea del tutto. E
così presso gli antichi in ogni genere d'imitazione della natura.
[57,2] I nostri veri idilli teocritei non sono nè le
egloghe del Sanazzaro nè ec. ec. ma le poesie rusticali come la nencia, Cecco da
Varlungo ec. bellissimi e similissimi a quelli di Teocrito nella bella rozzezza e
mirabile verità, se non in quanto sono più burleschi di quelli che pur di
burlesco hanno molto spesso una tinta.
[57,3] Circa le immaginazioni de' fanciulli comparate alla
poesia degli antichi vedi la verissima osservazione di Verter sul fine della lettera 50. Una terza sorgente degli
stessi diletti e delle stesse romanzesche idee sono i sogni.
[57,4] Il principio universale dei vizi umani è l'amor proprio
in quanto si rivolge sopra lo stesso essere, delle virtù, lo stesso amore in
quanto si ripiega sopra altrui, sia sopra gli altri uomini, sia sopra la virtù,
sia sopra Dio. ec.
[57,5] Di alcuni principi che si sieno uccisi per evitare
qualche grande sventura o per non saperne sopportare qualcuna già sopraggiunta
loro, si legge, come di Cleopatra
Mitridate ec. e più, anzi forse
solamente fra gli antichi. Ma di quelli che si sieno uccisi per le altre cagioni
che producono ora il suicidio, come la malinconia l'amore ec. non si legge ch'io
sappia in nessuna storia. Eppure lo scontento della vita e la noia e la
disperazione dovrebb'essere tanto maggiore in loro
58 che
negli altri, in quanto questi possono supporre se non colla ragione (la quale è
ben persuasa del contrario) almeno coll'immaginazione (che non si persuade mai)
che ci sia uno stato miglior del loro, ma quelli già nell'apice dell'umana
felicità, trovandola vana anzi miserabilissima, non possono più ricorrere neppur
col pensiero in nessun luogo, arrivati per così dire al confine e al muro, e
quindi dovrebbono guardar questa vita come abitazione veramente orribile per
ogni parte e disperata, se già i loro desideri non si volgono ai gradi e
condizioni inferiori, ovvero a quei miserabili accrescimenti di felicità che un
principe si può sognare, come conquiste ec.
[58,1] Disse la Dama: Voi mi avete rappacificata colla
poesia: Godo assai, rispose quegli, d'avere riconciliate
insieme due belle cose.
[58,2] Non ci sarebbe tanto bisogno della viva voce del maestro
nelle scienze se i trattatisti avessero la mente più poetica. Pare ridicolo il
desiderare il poetico p. e. in un matematico; ma tant'è: senza una viva e forte
immaginazione non è possibile di mettersi nei piedi dello studente e preveder
tutte le difficoltà ch'egli avrà e i dubbi e le ignoranze ec. che pure è
necessarissimo e da nessuno si fa nè anche da' più chiari, che però non s'impara
mai pienamente una scienza difficile p. e. le matematiche dai soli libri.
[58,3] Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia.
[58,4] Per un'Ode lamentevole sull'italia può servire quel
pensiero di Foscolo nell'Ortis lett. 19 e 20 Febbraio 1799. p. 200. edizione di Napoli
{1811.}
[58,5] Una facezia del genere ch'io ho detto in un altro
pensiero [p. 41] essere stato proprio degli antichi è quella degli Antiocheni
che dicevano dell'imperatore Giuliano
che aveva una barba da farne corde, (Iulian. in Misopogone) la qual
facezia allora applaudita e sparsa per tutta la città e capace di muover Giuliano a scrivere un libro ironico e
giocoso (certo elegante e negli scherzi si può dir Attico e Lucianesco e infinite volte superiore ai suoi Caesares, senza sofistumi nello stile nè in
altro, e senza affettazioni nè pur nella lingua per altro elegante e ricca {e ciò perchè questo è un libro scritto per circostanza e non
ἐπιδεικτικός come i Cęsares)}
contro gli Antiocheni, ora ai nostri delicati, francesi ec. parrebbe grossolana,
e di pessimo gusto. {{V. p. 312.}}
[58,6]
E tanto è miser l'uom quant'ei si reputa
*
disse eccellentemente il Sanazzaro
egloga ottava. Ora in quello stato ch'io diceva in un pensiero poco
sopra, egli non riputandosi misero nè anche sarebbe stato, come ora tanti in
condizione alquanto
59 simile a quella che i' ho detto,
poco riputandosi miseri, lo sono meno degli altri, e così tutti secondo che si
stimano infelici.