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[45,1]  Soleva considerar come una pazzia quello che dicono i Cappuccini per iscusarsi del trattar male i loro novizzi, il che fanno con gran soddisfazione, e con intimo sentimento di piacere, cioè che anch'essi sono stati trattati così. Ora l'esperienza mi ha mostrato che questo è un sentimento naturale, giacch'io giunto appena {per l'età} a svilupparmi dai legami di una penosa e strettissima educazione e tuttavia convivendo ancora nella casa paterna con un fratello minore di parecchi anni, ma non tanti ch'egli non fosse nel pienissimo uso di tutte le sue facoltà vizi ec. siccome non per altro (giacchè non era punto per predilezione de' genitori) se non perch'era mutato il genere della vita nostra che convivevamo con lui, anch'egli partecipava non poco alla nostra larghezza, ed avea molto più comodi e piaceruzzi che non avevamo noi in quella età, e molto meno incomodi e noie e lacci e strettezze e gastighi, ed era perciò molto più petulante ed ardito di noi in quell'età, perciò io ne risentiva naturalmente una verissima invidia, cioè non di quei beni giacch'io gli avea allora, e pel tempo passato non li potea più avere, ma mero e solo dispiacere ch'ei gli avesse, e desiderio che fosse incomodato e tormentato come noi, ch'è la pura e legittima invidia del pessimo genere, e io la sentiva naturalmente e senza volerla sentire, ma in somma compresi allora (e allora appunto scrissi queste parole) che tale è la natura umana, onde mi erano men cari quei beni ch'io aveva qualunque fossero, perch'io li comunicava con lui, forse parendomi che non fossero più degno termine di tanti stenti dopo che non costavano niente a un altro che si trovava nelle mie circostanze, e con meno merito di me, ec. Quindi applico ai Cappuccini, i quali trovando la sorte dei fratelli minori che sono i novizzi dipendente da loro, seguono gl'impulsi di questa inclinazione che ho detto, e non soffrono che si possano dire a se stessi essere scarso quel bene a cui son giunti poichè altri gli acquista con assai meno travaglio di loro, nè che abbiano a provare il dispiacere che questi tali non soffrano quegl'incomodi ch'essi in quelle circostanze hanno sofferti.

[73,1]   73 Io non ho mai provato invidia nelle cose in cui mi son creduto abile, come nella letteratura, dove anzi sono stato proclivissimo a lodare. L'ho provata posso dire per la prima volta (e verso una persona a me prossimissima) quando ho desiderato di valer qualche cosa in un genere in cui capiva d'esser debolissimo. Ma bisogna che mi renda giustizia confessando che questa invidia era molto indistinta e non al tutto e per tutto vile, e contraria al mio carattere. Tuttavia mi dispiaceva assolutamente di sentire le fortune di quella tal persona in quel tal genere, e raccontandomele essa, la trattava da illusa, ec.

[197,1]  Dice Diogene Laerzio di Chilone che προσέταττε... ἰσχυρὸν ὄντα πρᾷον εἶναι ὅπως οἱ πλησίον αἰδῶνται μᾶλλον ἢ ϕοβῶνται * . E questo precetto si deve estendere, massimamente oggidì in tanta propagazione dell'egoismo, a tutti i vantaggi particolari di cui l'individuo può godere. Perchè se tu sei bello non ti resta altro mezzo per non essere odiosissimo agli uomini che un'affabilità particolare, e come una certa noncuranza di te stesso, che plachi l'amor proprio altrui offeso dall'avvantaggio che tu hai sopra di loro, o anche dall'uguaglianza. Così se tu sei ricco, dotto, potente ec. Quanto maggiore è l'avvantaggio che tu hai sopra gli altri, tanto più per fuggir l'odio, t'è necessaria una maggiore amabilità, e quasi dimenticanza e disprezzo di te stesso in faccia agli altri, perchè tu devi medicare una cagione d'odio che tu hai in te stesso e che gli altri non hanno: una cagione assoluta, che ti fa odioso per se sola, senza che tu sia nè ingiusto nè superbo nè ec. Ed era questa una cosa notissima agli antichi, tanto persuasi della odiosità dei vantaggi individuali, che ne credevano invidiosi gli stessi dei, e nella prosperità avevano cura dell'invidiam deprecari tanto divina che umana, e quindi un  198 seguito non interrotto di felicità li rendeva paurosi di gravi sciagure. V. Frontone de Bello Parthico. (4. Agosto 1820.). {{v. p. 453. capoverso ult.}}

[204,1]  In proposito di quello che ho detto p. 197. io so di una donna desiderosa di concepire che bastonava fieramente una cavalla pregna, dicendo, tu gravida e io no. L'invidia e l'odio altrui per le felicità che hanno, cade ordinariamente sopra quei beni che noi desideriamo di avere e non abbiamo, o de' quali vorremmo esser gli unici o i principali possessori ed esempi. Sopra gli altri beni non è cosa ordinaria l'invidia, ancorchè sieno beni grandissimi. Del resto quantunque l'invidia riguardi per lo più i nostri simili, coi quali solamente sogliamo entrare in competenza, nondimeno si vede che il furore di questa passione può condurre all'invidia e all'odio anche delle altre cose. (10. Agosto 1820.).

[206,1]  Cleobulo dice Diog. Laerz. συνεβούλευε... γυναικὶ * {(uxori)} μὴ ϕιλοϕρονεῖσϑαι μηδὲ μάχεσϑαι ἀλλοτρίων παρόντον∙ τὸ μὲν γὰρ ἄνοιαν, τὸ δὲ μανίαν σημαίνει * . {{V. p. 233.}}

[233,2]  Al capoverso primo della p. 206. aggiungi: Et si elles * (les Françoises) ont un amant, elles ont autant de soin de ne pas {donner} à l'heureux mortel des marques de prédilection en public, qu'un Anglois du bon ton de ne pas paroître amoureux {de sa femme} en compagnie. * Morgan, France. t. 1. 1818. p. 253. liv. 3.

[302,3]  La plus grande marque qu'on est né avec de grandes qualités, c'est d'être sans envie * Mme. la Marquise de Lambert, Avis d'une mère à son fils. À Pariset à Lyon 1808. p. 67.

[453,2]  Quale idea avessero gli antichi della felicità (e quindi dell'infelicità) dell'uomo in questa vita, della sua gloria, delle sue imprese; e come tutto ciò paresse loro solido e reale,  454 si può arguire anche da questo, che delle grandi felicità ed imprese umane, ne credevano invidiosi gli stessi Dei, e temevano perciò l'invidia loro, ed era lor cura in tali casi deprecari la divina invidia, in maniera che stimavano anche fortuna, e (se ben mi ricordo) si proccuravano espressamente qualche leggero male, per dare soddisfazione agli Dei, e mitigare l'invidia loro pp. 197-98. Deos immortales precatus est, ut, si quis eorum invideret operibus ac fortunae suae, in ipsum potius saevirent, quam in remp. * Velleio I. c. 10. di Paolo Emilio. E così avvenne essendogli morti due figli, l'uno 4 giorni avanti il suo trionfo, e l'altro 3 giorni dopo esso trionfo. E v. quivi le note Variorum. V. pure Dionigi Alicarnasseo l. 12. c. 20. e 23. edizione di Milano, e la nota del Mai al c. 20. V. ancora questi pensieri p. 197. fine. Così importanti stimavano gli antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle divine operazioni altri fini che i nostri, mettevano i dei in comunione della nostra vita e de' nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre felicità ed imprese, come i nostri simili,  455 non dubitando ch'elle non fossero degne della invidia degl'immortali. (23. Dic. 1820.). {{V. p. 494. capoverso 1.}}

[1164,3]  L'invidia, passione naturalissima, e primo vizio del primo figlio dell'uomo secondo la S. Scrittura, è un effetto, e un indizio manifesto dell'odio naturale dell'uomo verso l'uomo, nella società, quantunque imperfettissima, e piccolissima. Giacchè s'invidia anche quello che noi abbiamo, ed anche in maggior grado; s'invidia ancor quello che altri possiede senza il menomo nostro danno; ancor quello che ci è impossibile assolutamente di avere, e che neanche ci converrebbe; e finalmente quasi ancor quello che non desideriamo, e che anche potendo avere non vorremmo. Così che il solo e puro bene altrui, il solo aspetto dell'altrui supposta felicità, ci è grave naturalmente per se stessa, ed è il soggetto di questa passione, la quale per conseguenza non può derivare se non dall'odio verso gli altri, derivante dall'amor proprio, ma derivante, se m'è lecito di  1165 così spiegarmi, nel modo stesso nel quale dicono i teologi che la persona del Verbo procede dal Padre, e lo Spirito Santo da entrambi, cioè non v'è stato un momento in cui il Padre esistesse, e il Verbo o lo Spirito Santo non esistesse. (13. Giugno 1821.).

[1201,1]  Perchè la parzialità è sempre odiosa e intollerabile, quando anche colui che favorisce o benefica alcuno più degli altri, non tolga niente agli altri del loro dovuto, nè di quello che darebbe loro in ogni caso, nè li disfavorisca in nessun modo? Per l'odio naturale dell'uomo verso l'uomo, {inseparabile dall'amor proprio.} E v. in questo proposito la parabola del padre di famiglia e degli operai del Vangelo. (21. Giugno, dì del Corpus Domini. 1821.). {{V. p. 1205. fine.}}

[1291,1]  L'aspetto dell'uomo allegro e pieno o commosso anche mediocremente da qualche buona fortuna, da qualche vantaggio, da qualche piacere ricevuto ec. è per lo più molestissimo non solo alle persone afflitte, o pur malinconiche, o poco inclinate alla letizia per atto o  1292 per abito, ma anche alle persone d'animo indifferentemente disposto, {+e non danneggiate punto, nè soverchiate ec. da quella prosperità.} Questo ci accade ancora cogli amici, parenti i più stretti ec. E bisogna che l'uomo il quale ha cagione di allegria, o la dissimuli, o la dimostri con certa disinvoltura, indifferenza e spirito, altrimenti {la sua presenza, e la sua conversazione} riuscirà sempre odiosa e grave, anche a quelli che dovrebbero rallegrarsi del suo bene, o che non hanno materia alcuna di dolersene. {+Tale infatti è la pratica degli uomini riflessivi, padroni di se, e ben creati.} Che vuol dir questo, se non che il nostro amor proprio, ci porta inevitabilmente, e senza che ce ne avvediamo, all'odio altrui? Certo è che nel detto caso, anche all'uomo il più buono, è mestieri un certo sforzo sopra se stesso e un certo eroismo, per prender parte alla letizia altrui, della quale egli non aspetti nessun vantaggio {nè danno,} o solamente per non gravarsene. (8. Luglio 1821.).

[1669,2]  Il vedere che altri prova in nostra presenza un gusto vivo, ci è sempre grave, e ci rende odiosa quella persona. E perciò è prudenza e creanza il non dimostrare in presenza  1670 altrui di provare un piacere, o il portarsi con una disinvoltura che mostri di non curarsene ec. Similmente dico di un vantaggio. E v. un mio pensiero sul far carezze alla moglie in presenza altrui, e il costume degl'inglesi che ho notato in questo proposito p. 206 p. 233. Cosa spiacevolissima anche tra noi, e che m'è avvenuto di sentir condannare come insopportabile in due sposi che si facevano grandi carezze in presenza d'altri. Tanto è vero che l'uomo odia naturalmente l'uomo. Eccetto se quel gusto che ho detto è stato procacciato a quella persona da noi stessi volontariamente, nel qual caso egli ridonda in certo modo su di noi, e serve alla nostra ambizione, ec. insomma ne partecipiamo. Questo effetto si prova massimamente cogli eguali e co' superiori (meno cogl'inferiori, co' fanciulli ec.); ma cogli eguali soprattutto, e cogli amici e stretti conoscenti più che mai, perocchè con questi si esercita principalmente l'invidia, e si sente al vivo l'inferiorità nostra ec. in qualsivoglia genere. I superiori sono il soggetto di un odio più generale, che si stende su tutta la loro persona,  1671 condizione ec. e discende meno, o è meno sensibile alle cose particolari, tanto più che non si può entrare con essi in competenza di desiderii ec. Parimente riguardo agl'inferiori, bisogna che i loro vantaggi o piaceri siano d'un alto grado (nel qual caso l'odio è maggiore verso loro che verso qualunque altro) perchè arrivino a pungere il nostro amor proprio, e la nostra gelosia ec. Nondimeno è vero che sempre se ne prova qualche disgusto. (11. Sett. 1821.).

[1675,1]  Parimente l'uomo inesperto (ed anche lo sperimentato, nella ebbrezza della gioia) sopravvenuto da qualche fortuna, ed acquistato qualche vantaggio, crede fermamente che tutti, e massime gli amici e i conoscenti debbano rallegrarsene di tutto cuore, e neppur sospetta che ne l'abbiano a odiare, ch'egli sia per perderne l'amicizia di questo o di quello, che gli stessi amici più cari, debbano o tentar mille vie di spogliarlo del suo nuovo vantaggio, screditarlo ec. o almeno desiderar di farlo, proccurar di scemare presso lui, presso loro stessi, e presso gli altri l'idea e il pregio della sua nuova fortuna ec. Tutto ciò, accadendo, come inevitabilmente accade, gli riesce maraviglioso. (11. Sett. 1821.).

[1723,1]  Chi ha disperato di se stesso, o per qualunque ragione, si ama meno vivamente, è meno invidioso, odia meno i suoi simili, ed è quindi più suscettibile di amicizia {{per questa}} parte, o almeno in minor contraddizione con lei. Chi più si ama meno può amare. Applicate questa osservazione alle nazioni, ai diversi gradi di amor patrio sempre proporzionali a' diversi gradi di odio nazionale; alla necessità di render l'uomo egoista di una patria perch'egli possa amare i suoi simili a cagion di se stesso, appresso a poco come dicono i teologi che l'uomo deve amar se stesso e i suoi prossimi in Dio, e  1724 per l'amore di Dio. (17. Sett. 1821.).

[1724,1]  L'odio dell'uomo verso l'uomo si manifesta principalmente, ed è confermato da ciò che accade nelle persone di una medesima professione {ec.} fra le quali, sebben la perfetta amicizia astrattamente considerata è impossibile e contraddittoria alla natura umana, nondimeno anche la possibile amicizia è difficilissima, rarissima, incostantissima ec. Schiller uomo di gran sentimento era nemico di Goëthe (giacchè non solo fra tali persone non v'è amicizia, o v'è minore amicizia, ma v'è più odio che fra le persone poste in altre circostanze) ec. ec. ec. Le donne godono del mal delle donne, anche loro amicissime. I giovani del male de' giovani ec. ec. V. Corinne t. p. liv. ch. Non solo in una stessa professione, ma anche in una stessa età ec. ec. l'amicizia è minore e l'odio è maggiore. Eccetto l'esaltamento delle illusioni che favorisce assai l'amicizia de' giovani, è certo, massime oggi che le grandi e belle illusioni non si trovano, che l'amicizia è più facile tra un vecchio o maturo, e un giovane, che tra giovane e giovane; tra  1725 due vecchi che tra due giovani; perchè oggi, sparite le illusioni, e non trovandosi più la virtù ne' giovani, i vecchi sono più a portata di amarsi meno, di essere stanchi dell'egoismo perchè disingannati del mondo, e quindi di amare gli altri.

[1740,1]  Considerate indipendentemente e in se stessa, la lode di se medesimo. Anche dopo formata una società (giacchè prima non esisteva l'amor di lode), qual cosa più conforme alla natura, più dolce a chi la pronunzia, qual cosa a cui lo spirito sia più spontaneamente e potentemente inclinato, qual cosa meno dannosa a' nostri simili, qual piacere insomma più innocente, e qual premio più conveniente alla virtù, o all'opinione di lei? Eppur l'assuefazione ce la fa riguardare come un vizio da cui l'animo ben fatto naturalmente rifugga, come un desiderio di cui bisogni arrossire (e qual cosa ha ella in se stessa e per natura, che sia vergognosa?), come contrario al dovere della modestia, che si suppone innato, e non lo è punto (consideriamo i fanciulli, i quali tuttavia non appena cominciano a desiderar la lode, che già sono avvertiti a non darsela da se stessi),  1741 come ripugnante insomma a un dettame interno, e proibita dalla legge naturale.