Consolazione.
Consolation.
Vedi Solitudine. See Solitude. 271,2 139,2 302,1 313,1 324,4 496,2 512,1 712,1 65,1 188,2 503,1 1364,1 1400,1 1651,1 1970,2 2150,2 2419,2 2607,1 2599,1 2661,1 2674,2 3529,1 4243,8 4277,1Arte di consolarsi.
Art of consoling oneself.
4201,10.[271,2] Coloro che dicono per consolare una persona priva di
qualche considerabile vantaggio della vita: non ti affliggere; assicurati che
sono pure illusioni: parlano scioccamente. Perchè quegli potrà e dovrà
rispondere: ma tutti i piaceri sono illusioni o consistono nell'illusione, e
di queste illusioni si forma e si compone la nostra vita. Ora se io non
posso averne, che piacere mi resta? e perchè vivo? Nella stessa maniera
dico io delle antiche istituzioni ec. tendenti a fomentare l'entusiasmo, le
illusioni, il coraggio, l'attività, il movimento, la vita. Erano illusioni, ma
toglietele,
272 come son tolte. Che piacere rimane? e la
vita che cosa diventa? Nella stessa maniera dico: la virtù, la generosità, la
sensibilità, la corrispondenza vera in amore, la fedeltà, la costanza, la
giustizia, la magnanimità ec. umanamente parlando sono enti immaginari. E
tuttavia l'uomo sensibile se ne trovasse frequentemente nel mondo, sarebbe meno
infelice, e se il mondo andasse più dietro a questi enti immaginari (astraendo
ancora da una vita futura), sarebbe molto {meno}
infelice. Seguirebbe delle illusioni, perchè nessuna cosa è capace di riempier
l'animo umano, ma non è meglio una vita con molti piaceri illusorii, che senza
nessun piacere? non si vivrebbe meglio se nel mondo si trovassero queste
illusioni più realizzate, e se l'uomo di cuore non si dovesse persuadere non
solo che sono enti immaginari, ma che nel mondo non si trovano più neanche così
immaginari come sono? {in maniera che manchi affatto il
pascolo e il sostegno all'illusione.} E dall'altro lato, non c'è
maggiore illusione ovvero apparenza di piacere che quello che deriva dal bello
dal tenero dal grande dal sublime dall'onesto. Laonde quanto più queste cose
abbondassero, sebbene illusorie, tanto meno l'uomo sarebbe infelice. (11.
8.bre 1820.). {{V. p. 338. capoverso
2.}}
[139,2] Da queste considerazioni impara come tu debba
regolarti nel consolare una persona afflitta. Non ti mostrare incredulo al suo
male, se è vero. Non la persuaderesti, e l'abbatteresti davantaggio, privandola
della compassione. Ella conosce bene il suo male, e tu confessandolo converrai
con lei. Ma nel fondo ultimo del suo cuore le resta una goccia d'illusione. I
più disperati credi certo che la conservano, per benefizio costante della
natura. Guarda di non seccargliela, e vogli piuttosto peccare nell'attenuare il
suo male e mostrarti poco compassionevole, che nell'accertarlo di quello
140 in cui la sua immaginazione contraddice ancora alla
sua ragione. Se anche egli ti esagera la sua calamità, sii certo che nell'intimo
del suo cuore fa tutto l'opposto, dico nell'intimo, cioè in un fondo nascosto
anche a lui. Tu devi convenire non colle sue parole ma col suo cuore, e come
secondando il suo cuore tu darai una certa realtà a quell'ombra d'illusione che
gli resta, così nel caso contrario tu gli porterai un colpo estremo e mortale.
La solitudine e il deserto l'avrebbero consolato meglio di te, perchè avrebbe
avuto con se la natura sempre intenta a felicitare o a consolare. Parlo delle
calamità gravissime {e reali} che riducono alla
disperazione della vita, e non delle leggere, nelle quali anzi si desidera di
esser creduto esagerando, nè di quelle provenienti da grandi illusioni e
passioni, dove l'uomo forse cerca e vuole la disperazione e fugge il conforto.
(26. Giugno 1820.).
[302,1] Nelle estreme sventure tutte le altre età ammettono la
consolazione o filosofica, o qualunque. Solamente la giovanezza non ammette e
non vede altra consolazione che della morte. Il libro di Crantore, περὶ πένθους lodatissimo dagli
antichi, il libro di Cic.
de
Consolatione dove espresse in gran parte quello di Crantore, saranno stati utili alle
altre età. Pel giovane estremamente sventurato {o che si
creda tale,} non si può scriver libro consolatorio.
[313,1] Come la forza della natura giovanile, forza che non
può esser vinta in fatto da nessuna
ragionevolezza, studio, filosofia, precoce maturità di pensare ec. fa che il
giovane s'inebbri facilmente della felicità, così anche dell'infelicità, quando
questa è tanto grave che superi la naturale inclinazione del giovane
all'allegrezza, al divagarsi, a sperare, a noncurare il male. E perciò il
giovane è incapace d'altra consolazione che della morte, come ho detto p. 302. Nè religione, nè ragione, nè
altro che sia, non è sufficiente a consolare il giovane sommamente sventurato,
s'egli ha una certa forza d'animo, la quale tutta s'impiega in consolidare, e
fargli sentire profondamente e ostinatamente il suo male.
[324,4] Il vino è il più certo, e (senza paragone) il più
efficace consolatore. Dunque il vigore; dunque la natura.
[496,2] Dicono e suggeriscono che volendo ottener dalle donne
quei favori che si desiderano, giova prima il ber vino, ad oggetto di rendersi
coraggioso, non curante, pensar poco alle conseguenze, e se non altro brillare
nella compagnia coi vantaggi della disinvoltura. Voltaire consiglia
scherzosamente di bere, per dimenticare o liberarsi dall'
497 amore. Ou bien
buvez: c'est un parti fort sage.
*
Non so quanto
bene. Il vino, ossia la forza del corpo, come ho detto altrove p.
109
p.
324, ed è vero, sebbene inclini all'allegrezza, e sopisca i dolori
dell'animo, contuttociò dà risalto alle passioni dominanti o abituali di
ciascheduno. Bensì le rallegrerà, e darà speranza anche allo sventurato o
disperato in amore. {{V. p. 501 capoverso
1.}}
[512,1] Difficilmente il dolor solo dell'animo, ha forza di
uccidere, o cagionare un'estrema malattia, ed è più facile il fingere questi
casi nei romanzi, che trovarne esempi reali nella vita: sebbene
513 molte volte si attribuiscono a dolor d'animo quelle
infermità che vengono da tutt'altro, o almeno, anche da altre cause. E
massimamente è difficile e strano che il dolor d'animo, una sventura non
corporale ec. cagionino morte o malattia lungo tempo dopo nato, o avvenuta la
detta sventura ec. e che in somma la vita dell'uomo si vada consumando e si
spenga a poco a poco per le sole malattie particolari dell'animo. (non dico le
generali, perchè certamente il cattivo stato del nostro animo influisce in
genere moltissimo sulla durata della vita, la salute il vigore ec.) Qual è la
cagione? Che il tempo medica tutte le piaghe dell'animo. Ma come?
Coll'assuefazione, lo so, e grandemente, ma non già con questa sola. Una gran
cagione del detto effetto, è ancora che le illusioni poco stanno a riprender
possesso e riconquistare l'animo nostro, anche malgrado noi; e l'uomo {(purchè viva)} torna infallibilmente a sperare quella
felicità che avea disperata; prova quella consolazione
514 che avea creduta e giudicata impossibile; dimentica e discrede quell'acerba
verità, che avea poste nella sua mente altissime radici; e il disinganno più
fermo, totale, e ripetuto, e anche giornaliero, non resiste alle forze della
natura che richiama gli errori e le speranze. (16. Gen. 1821.).
[712,1] Non vale il dire che i piaceri, i beni, le felicità di
questo mondo, sono tutti inganni. Che resta levati via questi inganni? E chi per
le sue sventure manca di questi benchè ingannosi piaceri e beni, che altro gode
o spera quaggiù? In somma l'infelice è veramente e positivamente infelice; {+quando anche il
suo male non consista che in assenza di beni;} laddove è pur troppo
vero che non si dà vera nè soda felicità, e che l'uomo felice, non è veramente
tale. (3. Marzo 1821.)
[65,1] Diceva una volta mia madre a Pietrino che piangeva per una
cannuccia gittatagli per la finestra da Luigi: non piangere, non piangere che a ogni modo ce l'avrei
gittata io. E quegli si consolava perchè anche in altro caso l'avrebbe
perduta. Osservazioni intorno a questo effetto comunissimo negli uomini, e a
quell'altro suo affine, cioè che noi ci consoliamo e ci diamo pace quando ci
persuadiamo che quel bene non era in nostra balìa d'ottenerlo, nè quel male di
schivarlo, e però cerchiamo di persuadercene, e non potendo, siamo disperati,
quantunque il male in tutti i modi si rimanga lo stesso. {{v. p.
188.}}
{{v. a questo proposito il Manuale di Epitteto.}}
[188,2] Nessun dolore cagionato da nessuna sventura, è
paragonabile a quello che cagiona una disgrazia grave e irrimediabile, la quale
sentiamo ch'è venuta da noi, e che potevamo schivarla, in somma al pentimento
vivo e vero.
[503,1] In luogo che un'anima grande ceda alla necessità, non
è forse cosa che tanto la conduca all'odio atroce, dichiarato, e selvaggio
contro se stessa, e la vita, quanto la considerazione della necessità e
irreparabilità de' suoi mali, infelicità, disgrazie
504
ec. Soltanto l'uomo vile, o debole, o non costante, o senza forza di passioni,
sia per natura, sia per abito, sia per lungo uso ed esercizio di sventure e
patimenti, ed esperienza delle cose e della natura del mondo, che l'abbia domato
e mansuefatto; soltanto costoro cedono alla necessità, e se ne fanno anzi un
conforto nelle sventure, dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare e combatterla
ec. Ma gli antichi, sempre più grandi, magnanimi, e forti di noi, nell'eccesso
delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse, e della forza
invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria
senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro
il fato, e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo,
impotenti bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, nè
ammansati, nè meno, anzi tanto più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e
la necessità era maggiore. Di ciò si hanno molti esempi nelle storie. Il fatto
di Giuliano moribondo, non so se sia
storia o favola. Di Niobe, dopo la sua
sventura,
505
si racconta, se non fallo, come
bestemmiava gli Dei, e si professava vinta, ma non cedente. Noi che non
riconosciamo nè fortuna nè destino, nè forza alcuna di necessità personificata
che ci costringa, non abbiamo altra persona da rivolger l'odio e il furore (se
siamo magnanimi, e costanti, e incapaci di cedere) fuori di noi stessi; e quindi
concepiamo contro la nostra persona un odio veramente micidiale, come del più
feroce e capitale nemico, e ci compiaciamo nell'idea della morte volontaria,
dello strazio di noi stessi, della medesima infelicità che ci opprime, e che
arriviamo a desiderarci anche maggiore, come nell'idea della vendetta, contro un
oggetto di odio e di rabbia somma. Io ogni volta che mi persuadeva della
necessità e perpetuità del mio stato infelice, e che volgendomi disperatamente e
freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio possibile, nè speranza
nessuna; in luogo di cedere, o di consolarmi colla considerazione
dell'impossibile, e della necessità indipendente da me,
506 concepiva un odio furioso di me stesso, giacchè l'infelicità ch'io
odiava non risiedeva se non in me stesso; io dunque era il solo soggetto
possibile dell'odio, non avendo nè riconoscendo esternamente altra persona colla
quale potessi irritarmi de' miei mali, e quindi altro soggetto capace di essere
odiato per questo motivo. Concepiva un desiderio ardente di vendicarmi sopra me
stesso e colla mia vita della mia necessaria infelicità inseparabile
dall'esistenza mia, e provava una gioia feroce ma somma nell'idea del suicidio.
L'immobilità delle cose contrastando colla immobilità mia; nell'urto, non
essendo io capace di cedere, ammollirmi e piegare; molto meno le cose; la
vittima di questa battaglia non poteva essere se non io. Oggidì (eccetto nei
mali derivati dagli uomini) non si riconosce persona colpevole delle nostre
miserie, o tale che la Religione c'impedisce in tutti i modi di creder
colpevole, e quindi degna di odio. Tuttavia anche nella Religione di oggidì,
l'eccesso dell'infelicità indipendente
507 dagli uomini
e dalle persone visibili, spinge talvolta all'odio e alle bestemmie degli enti
invisibili e Superiori: e questo, tanto più quanto più l'uomo (per altra parte
costante e magnanimo) è credente e religioso. Giobbe si rivolse a
lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua
nascita ec. (15. Gen. 1821.).
[1364,1] Noi facilmente ci avvezziamo a giudicar piccole, o
compensabili ec. le disgrazie che ci accadono, le privazioni ec. perchè
conosciamo e sentiamo il nulla del mondo, la poca importanza delle cose, il poco
peso degli uomini che ci ricusano i loro favori ec. Viceversa gli antichi, i
quali giudicavano tanto importanti le cose del mondo, e gli uomini, da credere
che i morti e gl'immortali se ne interessassero sopra qualunque altro affare.
(21. Luglio 1821.).
[1400,1] Il pentimento il quale in altri pensieri ho detto
p.
188
p.
466 che aggrava il male quasi della metà, quando non possiamo
dissimularci che ci è avvenuto per nostra colpa, aggrava pure {nella stessa proporzione} il dispiacere della perdita o
mancanza di un bene, anzi molte volte cagiona del tutto esso solo questo
dispiacere, che non proveremmo in verun modo, se mancassimo di quel bene senza
nostra colpa, se non avessimo avuta occasione di acquistarlo ec. Il qual
sentimento umano che si fa sentire {{o prevedere,}}
nella stessa occasione, e ci spinge, anzi sforza a profittarne, quasi anche
contro nostra voglia, ho cercato di esprimerlo nella Telesilla. Molte
volte un'occasione perduta, ancorchè senza nostra colpa, ci addolora sommamente
della mancanza di un bene, che per l'addietro nulla ci pesava. Ed allora la
nostra consolazione, e l'ordinaria operazione della nostra mente, è cercare di
persuaderci che noi non abbiamo veruna colpa nella perdita di quella occasione,
e che essa non poteva servirci, e doveva necessariamente esserci inutile,
1401 e quasi non fosse stata ec. (28. Luglio
1821.).
[1651,1] Qual cosa è più potente nell'uomo, la natura o la
ragione? Il filosofo non vive mai nè pensa giornalmente, e intorno a ciò che lo
riguarda, {nè vive con se stesso (se anche vivesse cogli altri)} da
vero filosofo; nè il religioso da vero e perfetto religioso. Non v'è uomo così
certo della malizia delle donne ec. che non senta un'impressione dilettevole, e
una vana speranza all'aspetto di una beltà che gli usi qualche piacevolezza.
(Meno impressione, e forse anche niuna, potrà provarne chi vi sia troppo
avvezzo, e questo sarà principalmente il caso dell'uomo di mondo, la cui anima
allora si porterà più filosoficamente assai di quella del maggior filosofo, non
già per forza di ragione, ma di natura che ha dato all'assuefazione la proprietà
d'illanguidire e anche distruggere le sensazioni. Massime se il filosofo non vi
sarà assuefatto. Tanto più egli sarà soggetto a peccare o coll'opera o col
pensiero contro i principii suoi.) Egli è sempre {più o
meno} soggetto a ricadere in tutte le stravagantissime illusioni dell'amore, ch'egli ha
conosciuto {e sperimentato} impossibile, immaginario,
vano. Non v'è uomo così profondamente persuaso della nullità delle
1652 cose, della certa e inevitabile miseria umana, il
cui cuore non si apra all'allegrezza anche la più viva, (e tanto più viva quanto
più vana) alle speranze le più dolci, ai sogni ancora i più frivoli, se la
fortuna gli sorride un momento, o anche al solo aspetto di una festa, di una
gioia della quale altri si degni di metterlo a parte. Anzi basta un vero nulla
per far credere {immediatamente} al più profondo e
sperimentato filosofo, che il mondo sia qualche cosa. Basta una parola, uno
sguardo, un gesto di buona grazia o di complimento che una persona anche di poca
importanza faccia all'uomo il più immerso nella disperazione della felicità, e
nella considerazione di essa, per riconciliarlo colle speranze, e cogli errori.
Non parlo del vigore del corpo, non parlo del vino, al cui potere cede e
sparisce la più radicata e invecchiata filosofia. {+Lascio ancora le passioni, che se non altro, ne' loro accessi si ridono
del più lungo e profondo abito filosofico.} Un menomo bene
inaspettato, un nuovo male ancora che sopraggiunga, ancorchè piccolissimo, basta
a persuadere il filosofo che la vita umana non è un niente. V. Corinne t. 2. liv.
14. ch. 1. pag. ult. cioè 341. {+Ciò che dico del filosofo, dico pure del religioso, non
ostante che la religione, tenendo dell'illusione e quindi della natura,
abbia tanta più forza effettiva
nell'uomo.}
(8. Sett. dì della natività di Maria SS. 1821.)
[1970,2] Gli spiriti mediocri sono sempre facilmente
persuadibili {+a credere o a fare,}
e in qualunque modo riducibili all'uomo di talento, o al furbo, o a chi per
qualsivoglia circostanza ha, o sa prendere su di loro un certo ascendente.
L'ostinazione è propria degli spiriti piccoli e dei grandi, o degli spiriti più
o meno inferiori o superiori alla mediocrità, ma di quelli più che di questi.
{+Lo stesso dico in ordine alla
suscettibilità di esser consolati. Se non che gli spiriti grandi ne sono
meno suscettibili dei piccoli, perchè il vero, ch'essi ben intendono, non è
mai consolante, e perchè il consolatore non li può facilmente ingannare,
ch'è l'unico modo di consolare.}
(22. Ott. 1821.).
[2150,2] A quello che ho detto altrove pp. 139-40
pp.
271-72 circa il modo da tenersi nel consolare, aggiungete che in
ultima analisi l'unica consolazione dei mali, massimamente grandi, è il
persuadersi o almeno il credere confusamente, ch'essi o non sieno reali, o meno
gravi che non parevano,
2151 o che abbiano rimedio, o
compenso ec. Le forti afflizioni non si consolano finalmente se non in questo
modo: e il tempo consolatore, adopra anch'esso in gran parte questo metodo.
(23. Nov. 1821.).
[2419,2] L'animo forte ed alto resiste anche alla necessità,
ma non resiste al tempo, vero ed unico trionfatore di tutte le cose terrene.
Quel dolore profondissimo e ostinatissimo, che sdegnava e calpestava la
consolazione volgare
2420 della sventura, cioè
l'inevitabilità, e l'irreparabilità della medesima, e il non poterne altro, che
rinasceva ogni giorno e talvolta con maggior forza di prima, che per lunghissimo
spazio, era sembrato indomabile e inestinguibile, e piuttosto pareva accrescersi
di giorno {in giorno} che
scemarsi; per tutto ciò non può far che ricusi e non ammetta la consolazione del
tempo, e dell'assuefazione che il tempo insensibilmente e dissimulatissimamente
introduce, e che in ultimo, dopo ostinatissima guerra non si trovi vinto e
morto, e che quell'animo feroce non pieghi il collo, e non s'adatti a
strascinare il suo male senza sdegno, e senza forza di dolersene. E ben può egli
avere sdegnato e rifiutato per lungo tempo anche la consolazione del tempo, ma
non perciò l'ha potuta sfuggire. (5. Maggio. 1822.). {{Si può ricusare la consolazione della stessa necessità, ma
non quella del tempo.}}
[2607,1] Così tosto come il bambino è nato, convien che la
madre che in quel punto lo mette al mondo, lo consoli, {accheti il suo pianto,} e gli
alleggerisca il peso di quell'esistenza che gli dà. E l'uno de' principali
uffizi de' buoni genitori nella fanciullezza e nella prima gioventù de' loro
figliuoli, si è quello di consolarli, {d'incoraggiarli alla vita;} perciocchè i
dolori e i mali e le passioni riescono in quell'età molto più gravi, che non a
quelli che per lunga esperienza, o solamente per esser più lungo tempo vissuti,
sono assuefatti a patire. E in verità conviene che il buon padre e la buona
madre studiandosi di racconsolare i loro figliuoli, emendino alla meglio, ed
alleggeriscano il danno che loro hanno fatto col procrearli. Per Dio! perchè
dunque nasce l'uomo? e perchè genera? per poi racconsolar quelli che ha generati
del medesimo essere stati generati? (13. Agosto 1822.).
[2599,1] L'uniformità è certa cagione di noia. L'uniformità è
noia, e la noia uniformità. D'uniformità vi sono moltissime specie. V'è anche
l'uniformità prodotta dalla continua varietà, e questa pure è noia, come ho
detto altrove p. 51, e provatolo con esempi. V'è la continuità di
tale o tal piacere, la qual continuità è uniformità, e perciò noia ancor essa,
benchè il suo soggetto sia il piacere. Quegli sciocchi poeti, i quali vedendo
che le descrizioni nella poesia sono piacevoli hanno ridotto la poesia a {continue} descrizioni, hanno tolto il piacere, e
sostituitagli la noia (come i bravi poeti stranieri moderni, detti descrittivi): ed io ho veduto persone
di niuna letteratura, leggere avidamente l'Eneide
2600 (ridotta nella loro lingua) la qual par che non
possa esser gustata da chi non è intendente, e gettar via dopo i primi libri
le
Metamorfosi, che {pur} paiono
scritte per chi si vuol divertire con poca spesa. Vedi quello che dice Omero in persona di Menelao: Di tutto è
sazietà, della cetra, del sonno
*
ec. La continuità
de' piaceri, (benchè fra loro diversissimi) o di cose poco differenti dai
piaceri, anch'essa è uniformità, e però noia, e però nemica del piacere. E
siccome la felicità consiste nel piacere, quindi la continuità de' piaceri
(qualunque si sieno) è nemica della felicità per natura sua, essendo nemica e
distruttiva del piacere. La Natura ha proccurato in tutti i modi la felicità
degli animali. Quindi ell'ha dovuto allontanare e vietare agli animali la
continuità dei piaceri. (Di più abbiamo veduto {parecchie
volte}
pp.
172-77
pp. 2433-34 come la
Natura ha combattuto la noia in tutti i modi possibili, ed avutala in
quell'orrore che gli antichi le attribuivano rispetto al vuoto.) Ecco come i
mali vengono ad esser necessarii alla stessa felicità, e pigliano vera e reale
essenza
2601 di beni nell'ordine generale della natura:
massimamente che le cose indifferenti, cioè non beni e non mali, sono cagioni di
noia per se, come ho provato altrove pp. 1554-55, e di più non interrompono
il piacere, e quindi non distruggono l'uniformità, così vivamente e pienamente
come fanno, e soli possono fare, i mali. Laonde le convulsioni degli elementi e
altre tali cose che cagionano l'affanno e il male del timore all'uomo naturale o
civile, e parimente agli animali ec. le infermità, e cent'altri mali inevitabili
ai viventi, anche nello stato
primitivo, (i quali mali benchè accidentali uno per uno, forse il genere e
l'università loro non è accidentale) si riconoscono per conducenti, e in certo
modo necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti e
collocati e ricevuti nell'ordine naturale, il qual mira in tutti i modi alla
predetta felicità. E ciò non solo perch'essi mali danno risalto ai beni, e
perchè più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma
perchè senza essi mali, i beni
2602 non sarebbero
neppur beni, {a poco andare,} venendo a noia, e non
essendo gustati, nè sentiti come beni e piaceri, e non potendo la sensazione del
piacere, in quanto realmente piacevole, durar lungo tempo ec. (7. Agosto
1822.).
[2661,1]
Et
quamquam optatissimum est, perpetuo fortunam quam florentissimam
permanere; illa tamen aequabilitas vitae non tantum habet
sensum,
*
(mallem sensus 2do
casu, quod magis tullianum est) quantum cum ex saevis et perditis rebus ad meliorem statum fortuna
revocatur.
*
Cic. ap. Ammian. Marcell. XV. 5. (23. Dic.
antivigilia di Natale 1822.)
[2674,2]
Grave non è nè a farsi nè
a soffrirsi Quello a che noi necessità costringe.
*
Tragico
antico, ap. Plut.
Discorso di Consolazione ad Apollonio, una
pagina avanti il mezzo. Volgarizzamento di Marcello Adriani il giovine.
Fir. 1819. t. 1. p. 194. (20. Feb.
1823.).
[3529,1] Anche il dolore degli uomini si consola o si scema
col persuadersi che il danno, la sventura ec. o non sia tale, o sia minore
ch'ella non è, o ch'ella non apparisce, o ch'ella non fu stimata a principio; e
forse (eccetto quella medicina che reca la lunghezza del tempo) il dolore si
consola o mitiga più spesso così che altrimenti. Per questo nelle pubbliche
calamità, quando importa che il popolo sia lieto, o non abbattuto, o men tristo
che non sarebbe di ragione, si proibiscono e tolgono i segni di lutto, e si
ordinano e introducono feste e segni (anche straordinarii) di allegria.
3530 E ciò bene spesso non tanto come cagioni, quanto
appunto come segni di allegria; non tanto a produrla dirittamente, quanto a
dimostrarla; non tanto a divertir gli animi dal dolore {e
dalla mestizia,} quanto a persuaderli che non ve ne sia ragione, o che
questa sia minore che non è. Nelle pesti o contagi si vieta il sonar le campane
a morto. Nelle sconfitte si cela al popolo il successo, si proibisce ogni segno
di lutto pubblico, si accrescono le feste, si fingono {e
spargono} ancora delle novelle tutte contrarie al vero e piene di
felicità. È proprio del buon capitano il mostrarsi lieto o indifferente a' suoi
soldati dopo un rovescio ricevuto, dopo la nuova di un disastro ec. (Queste cose
appartengono ancora al discorso del timore). Così negl'individui. L'afflitto si
consola bene spesso o si rallegra, non tanto colla distrazione, quanto col dar
segni a se stesso d'esser lieto o consolato, col canto, con altri atti ed
operazioni d'uomo allegro o indifferente. Alla prima nuova, o al primo avvedersi
in qualunque modo di un danno, di una sciagura ec., l'animo fa {sovente} ogni sforzo prima per non creder {il fatto, {#1. ancorchè
veduto cogli occhi propri, o con altri sensi ec.}} o per non
3531 credere che sia sciagura, poi per crederla
molto minore ch'ei non è, poi alquanto minore, passando così più o meno
rapidamente di mano in mano e di grado in grado per questi vani tentativi {fino} all'intera cognizione e forzata persuasione della
vera grandezza del male, o fino a quell'ultimo tentativo che riesce, restando
l'animo in una persuasione più o manco inferiore al vero.
[4243,8]
Alla p. 4156.
A noi non pare che così fatti sfoghi, questo gridare, questo pianger forte,
strapparsi i capelli, gittarsi in terra, voltolarsi, dar del capo nelle pareti,
cose usate nelle sventure dagli antichi, usate dai selvaggi, usate tra noi
oggidì dalle genti del volgo, possano essere di niun conforto al dolore; e
4244 veramente a noi non sarebbero, perchè non ci siamo
più inclinati e portati dalla natura in niun modo; e quando anche le facessimo,
le faremmo forzatamente, sarebbe studio e non natura, e però cosa inutile: tanto
è mutata, vinta, cancellata in noi la natura dall'assuefazione. Ma egli è però
certo che questi atti, insegnati dalla natura medesima (il che non si può
volgere in dubbio), sono a chi li pratica naturalmente, un conforto grandissimo
ed un compenso molto opportuno nelle calamità. Quella resistenza che l'animo fa
naturalmente alla sciagura e al dolore, è il più penoso che abbiano le
disavventure, è il maggior dolore che prova l'uomo. Quando l'animo è domato,
ogni calamità, per grave che sia, è tollerabile. Questo domar l'animo, questo
ridurlo a cedere alla necessità e conformarsi allo andamento e alla condizion
delle cose, lo fa in noi il tempo, il quale però il Voltaire chiama consolatore. Ma lo fa con lunghezza; e
quella prima resistenza, oltre al durar di più, ha questo ancora di più
doloroso, che ella si rivolge e si esercita contro di noi stessi; ella è
dell'animo all'animo. Laddove nei selvaggi e nelle persone volgari, ella si
esercita contro le cose esterne, per così dire; e siccome le sue operazioni sono
più vive, così ella langue e manca più presto. Ella abbatte il corpo, e però
travaglia assai meno l'animo; bensì perchè col corpo anco l'animo è abbattuto,
perciò quelle tali persone, dopo quegli atti, si trovano aversi domato l'animo e
ridotto, per dir così, alla dedizione, da loro stessi, senza aspettare il tempo;
onde quando si risvegliano da quei furori, da quelle smanie, hanno già l'animo
accomodato a sopportar la sventura, a poterla guardar fermamente in viso, senza
esser però coraggiosi. Ed è già notato e notasi giornalmente che nei plebei il
dolore delle grandi sventure dura assai meno che nelle persone colte. Sicchè
quegli sfoghi sono veramente una medicina {#1. quasi un narcotico} preparata dalla
4245
natura medesima, perchè l'uomo potesse sopportare i suoi mali più leggermente. E
noi siamo ridotti a non saper nè pure intendere come essi giovino a quelli che
naturalmente gli vediamo esercitare. Ed è questo un altro beneficio della
filosofia e della civiltà, che pretendendo insegnarci a sopportare le calamità
meglio che non fa a noi la natura, e predicandoci il disprezzo del dolore, e
facendoci vergognar di mostrarlo, come di cosa indegna di uomini, e da
vigliacchi e indotti; ci ha privati di quel soccorso che la natura ci aveva
apprestato, molto più efficace di qualsivoglia dei loro. {+V. p.
4283.}
(Recanati 15. 1827. S. Paolo, primo eremita.).
[4277,1]
4277 Allegano in favore della immortalità dell'animo il
consenso degli uomini. A me par di potere allegare questo medesimo consenso in
contrario, e con tanto più di ragione, quanto che il sentimento ch'io sono per
dire, è un effetto della sola natura, e non di opinioni e di raziocinii o {di} tradizioni; o vogliamo dire, è un puro sentimento e
non è un'opinione. Se l'uomo è immortale, perchè i morti si piangono? Tutti sono
spinti dalla natura a piangere la morte dei loro cari, e nel piangerli non hanno
riguardo a se stessi, ma al morto; in nessun pianto ha men luogo l'egoismo che
in questo. Coloro medesimi che dalla morte di alcuno ricevono qualche
grandissimo danno, se non hanno altra cagione che questa di dolersi di quella
morte, non piangono; se piangono, non pensano, non si ricordano punto di questo
danno, mentre dura il lor pianto. Noi c'inteneriamo veramente sopra gli estinti.
Noi naturalmente, e senza ragionare; avanti il ragionamento, e mal grado della
ragione; gli stimiamo infelici, gli abbiamo per compassionevoli, tenghiamo per
misero il loro caso, e la morte per una sciagura. Così gli antichi; presso i
quali si teneva al tutto inumano il dir male dei morti, e l'offendere la memoria
loro; e prescrivevano i saggi che i morti e gl'infelici non s'ingiuriassero,
congiungendo i miseri e i morti come somiglianti: così i moderni; così tutti gli
uomini: così sempre fu e sempre sarà. Ma perchè aver compassione ai morti,
perchè stimarli infelici, se gli animi sono immortali? Chi piange un morto non è
mosso già dal pensiero che questi si trovi in luogo e in istato di punizione: in
tal caso non potrebbe piangerlo: l'odierebbe, perchè lo stimerebbe reo. Almeno
quel dolore sarebbe misto di orrore {e di avversione}:
e ciascun sa per esperienza che il dolor che si prova per morti, non è nè misto
di orrore {o avversione,} nè proveniente da tal causa,
nè di tal genere in modo alcuno. Da che vien dunque la compassione che abbiamo
agli estinti se non dal credere, seguendo un sentimento intimo, e senza
ragionare, che essi abbiano perduto la vita
4278 e
l'essere; le quali cose, pur senza ragionare, e in dispetto della ragione, da
noi si tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque
noi non crediamo {naturalmente} all'immortalità
dell'animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi; e che
colui ch'è morto, non sia più.
[4201,10] Spesse volte in occasioni di miei dispiaceri,
anche grandi, io ho dimandato a me stesso: posso io non affliggermi di questa
cosa? E l'esperienza avutane già più volte, mi sforzava a risponder di sì, che
io poteva. Ma il non affliggersene sarebbe contro ragione: non vedi tu il male
come è grave, come è serio e vero? - Lasciamo star che nessun male è vero per
se, poichè se uno {non lo conosce o} non se ne
affligge, ei non è più male. Ma l'affliggertene può forse rimediarvi o
diminuirlo? - No. - Il non affliggertene può forse nuocerti? - No certo. - E non
è meglio assai per te il non pensarne, il non pigliarne dolore, che il
pigliarlo? - Meglio assai -. Come dunque sarà contro ragione? Anzi sarà
ragionevolissimo. E se egli è ragionevole, se utile,
4202 se tu lo puoi, perchè non lo fai? che ti manca se non il volerlo? - Io vi
giuro che queste considerazioni mi giovavano veramente, ed avevano reale
effetto, sicchè io ricusando di affliggermi di una mia sventura, per notabile
ch'ella fosse, non me ne affliggeva in verità, e ne pativa per conseguenza assai
poco. (Bologna 21. Sett. 1826.). {{V. p.
4225.}}
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