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Perfettibilità o Perfezione umana.

Human perfectibility or perfection.

Vedi polizzine a parte, intitolate Perfettibilità o Perfezione umana. See separate slips, entitled Human perfectibility or perfection. 222,3 371,1 376,1 387-8 391,1 393,1 655,1 830,1 940 1096,1 1170,1 1452,1 1558,2 1569,2 1570,1 1572,1 1597,1 1611,1 1612,1 1618,1 1630,2 1691,2 1699,2 1737,2 1775-6 1858,2 1838,3 1907,2 1923,1 1952,1 1957,2 1959,1.2 1960,1 2114,1 2152,1 2268,1 2270,1 2337,2 2390,1 2391,1 2392,2 2410,1 2479,1 2493,1 2563,2 2567,1 2602,2 2606,1 2644,1 2645,1 2895,2 3078,1 3082,1 3179,1 3374,1 3643,1 3773,1 3957,1 3973,1 4041,7 4135,5 4166,4 4180,4 4185,2 4265,4

[222,3]  Dice Macchiavelli che a voler conservare un regno una repubblica o una setta, è necessario ritirarli spesso verso i loro principii. Così tutti i politici. V. Montesquieu, Grandeur etc. Ch. 8. dalla metà in poi, dove parla dei Censori. Giordani sulle poesie di M. di Montrone applica questo detto alle arti imitatrici. Ai principii s'intende, non quando erano bambine, ma a quel primo tempo in cui ebbero consistenza. {(Così anche si potrebbe applicare alle lingue.)} Ed io dico nello stesso senso; a voler conservare gli uomini, cioè farli felici, bisogna richiamarli ai loro principii, vale a dire alla natura. - Oh pazzia. Tu non sai che la perfettibilità dell'uomo è dimostrata. - Io vedo che di tutte le altre opere della natura è dimostrato tutto l'opposto, cioè che non si possono perfezionare, ma alterandole, si può solamente corromperle, e questo principalmente per nostra mano. Ma l'uomo si considera quasi come fuori della natura, e non sottomesso alle leggi naturali che governano tutti gli esseri, e appena si riguarda come  223 opera della natura. - Frattanto l'uomo è più perfetto di prima. - Tanto perfetto che, tolta la religione, gli è più spediente il morire di propria mano che il vivere. Se la perfezione degli esseri viventi si misura dall'infelicità, va bene. Ma che altro indica il grado della loro perfezione se non la felicità? E qual altro è il fine, anzi la perfezione dell'esistenza? Il fatto sta che oggidì pare assurdo il richiamare gli uomini alla natura, e lo scopo vero e costante anche dei più savi e profondi filosofi, è di allontanarneli sempre più, quantunque alle volte credano il contrario, confondendo la natura colla ragione. Ma anche non confondendola, credono che l'uomo sarà felice quando si regolerà intieramente secondo la pura ragione. Ed allora si ammazzerà da se stesso. (23. Agosto 1820.). {{V. p. 358.}}

[371,1]  Sostengono come indubitato che l'uomo è perfettibile. Vale a dire ch'egli può perfezionare se stesso, perfezionar l'opera della natura. Considerate il sistema materiale del mondo, tanto nelle minime che nelle massime cose, tanto nell'organizzazione di un animale appena visibile, quanto nell'ordine degli astri, e voi troverete da per tutto un artifizio, una sapienza, una maestria tale, che non solamente non si può perfezionar nulla di quanto la natura ha fatto, non solamente non vi si può nè aggiungere nè levarne cosa alcuna, nè alterare in nessun modo senza guastare, ma quando anche noi avessimo quella stessa potenza di fare che ha avuto la natura, non c'è uomo d'ingegno così sottile e profondo e sublime, che fosse capace non dico di condurre a termine, ma di concepir solamente un piano così magistrale, così minuto, così strettamente legato insieme e corrispondente, così perfetto in ogni menomissima parte, come quello che vediamo eseguito dalla natura. Io dunque dico all'uomo  372 il quale asserisce d'essere perfettibile, e di potersi, anzi doversi perfezionare da se: perfeziona il tuo corpo, la tua notomia, la tua costruzione organica, o almeno qualche parte di lei: se non puoi questo, almeno immagina un disegno più perfetto, più completo, più giusto, più conveniente, più esatto, più squisito di quello della natura, relativamente alla organizzazione ec. del tuo corpo. L'uomo si mette a ridere, e confessa che non solo non c'è cosa più perfetta, ma ch'egli con lunghissimo studio, {dal principio del mondo in poi,} ancora non è arrivato a comprenderne interamente tutta la perfezione, e ogni giorno rivela qualche altra cosa da ammirare, ed accresce la sua maraviglia. Or come dunque non potendo perfezionare il tuo corpo, anzi non potendo neppur comprendere tutta la misura della sua perfezione naturale, presumi di perfezionare una parte tanto più nobile, astrusa, e difficile, qual'è lo spirito? Come dunque la natura tanto perfetta maestra, tanto accurata {e puntuale} e finita {e intera} in tutto il resto, e nominatamente nel tuo corpo, è stata così stupida {e manchevole e difettosa} nella parte più rilevante di te, in quella parte da cui dipendeva l'uso di quel tuo corpo così perfetto, e che anche doveva molto influire sugli altri ordini di enti? Come ti ha lasciato da far tanto in quella parte che più le doveva premere, non avendoti lasciato nulla da fare in quella che importava meno, e ch'era subordinata alla prima? Come soprattutto presumi di perfezionare, non solo il tuo spirito,  373 ma anche l'ordine vastissimo delle altre cose {terrestri,} in quanto ha stretta relazione e connessione e dipendenza cogli andamenti e lo stato della tua specie? (2. Dec. 1820.)

[376,1]  L'Essai sur l'indifférence en matière de religion, prima o seconda pagina del Capo 9. Ed è rimarcabile che tutti gli uomini... uniscono costantemente all'idea della felicità, l'idea del riposo, che non è altro fuorchè quella pace profonda, inalterabile, di cui gode necessariamente un essere pervenuto alla sua perfezione, e che S. Agostino chiama per eccellenza, la tranquillità dell'ordine... In una parola non si trova felicità fuorchè nel seno dell'ordine; e l'ordine è la sorgente del bene, come il disordine è la sorgente del male, tanto nel mondo morale, quanto nel mondo fisico; tanto pei popoli, quanto per gl'Individui. * L'amore dell'ordine, o l'idea della necessità dell'ordine, che è quanto dire dell'armonia e convenienza, è innata, assoluta, universale, giacchè è il fondamento del raziocinio, e il principio della cognizione o del giudizio falso o vero. Ma l'idea di un tal ordine, è variabile, dipendente dall'abitudine, opinione, ec. è relativa, e particolare. Il desiderio del riposo, non è in quanto riposo, o quiete, ma {1.} in quanto convenienza, armonia ec. colle qualità e la natura della specie o dell'individuo. 2. in quanto stabilità, o capacità di durare. L'uomo e nessun altro essere, non può trovar bene se non se in  377 uno stato che armonizzi colle sue qualità e natura. Senza questo stato, egli è in una condizione di contrasto, di sconvenienza, e perciò travaglioso, non per l'assenza della quiete assolutamente, ma dell'armonia relativa. Se alla sua natura convenisse la guerra, il moto perpetuo, l'azione continua, egli sarebbe in istato di pena, e violento, quando fosse costretto al riposo propriamente detto, e non riposerebbe, vale a dire, non troverebbe felicità, se non che nella guerra o fatica. Il riposo {e la pace} per lui sarebbe disordine, e la fatica {e la guerra} ordine. Sicchè il riposo che noi desideriamo, non è riposo o quiete assolutamente, ma armonia colla nostra natura tanto specifica, quanto individuale. Così diremo della stabilità, perchè quello che contrasta colla nostra natura, se anche ha l'atto della durata, non ha la potenza o il diritto, cosicchè l'uomo non ci può trovar quiete. Al contrario nel caso opposto. Ma questa quiete non è quiete assoluta, quasi che la quiete fosse essenzialmente e primordialmente buona; bensì è quiete relativa, o vogliamo dire armonia. Non bisogna dunque usare le proposizioni astratte nelle cose relative, nè pretendere di aver dimostrato che noi amiamo naturalmente un tal ordine, perciò che amiamo l'ordine. Amiamo l'ordine, l'amano tutti gli esseri; ma qual ordine? Odiamo il disordine, ma qual è questo disordine? Ciò bisogna  378 cercare, qui di nuovo i filosofi si dividono, e dal principio antecedente, incontrastabile e confessato, invano si presume di ricavar nulla di definito e concreto, circa la questione, dello stato e perfezione destinata particolarmente all'uomo, e desiderata da lui ardentemente. Io dico dunque: lo stato di perfezione, quello stato di ordine, fuori del quale non c'è riposo, fuor del quale non c'è la tranquillità dell'ordine, nè la felicità, è per l'uomo, come per tutte le altre cose esistenti, quello stato in cui la natura l'ha posto di sua propria mano, e non quello in cui egli o si sia posto, o si debba porre da se.

[385,1]  2o. E tanto è miser l'uom quant'ei si reputa, * e tanto è beato quant'ei si reputa. Così tanto è soddisfatto il desiderio di conoscere o concepire, dalla credenza di conoscere, quanto dalla vera conoscenza, e la verità assoluta è totalmente indifferente all'uomo anche per questo capo. Anzi il desiderio infinito di concepire può ben essere in qualche modo e spesso appagato dalla natura col mezzo della immaginazione {e delle persuasioni false ossiano errori;} ma non mai dalla ragione col mezzo della scienza, nè dai sensi col mezzo degli oggetti reali. Che se l'uomo avesse questa tendenza infinita non al concepire, ma precisamente al conoscere, cioè al vero, perchè la natura avrebbe posto tanti ostacoli a questa cognizione necessaria alla sua felicità? {Perchè avrebbe radicate nella sua mente tanto[tante] illusioni che appena il sommo incivilimento, e abito di ragionare, può estirpare, e non del tutto?} Perchè la verità sarebbe così difficile a scoprire? Da che l'uomo tende infinitamente alla precisa cognizione, nessuna verità è indifferente per lui.  386 Non solo la cognizione delle verità religiose, morali ec. ma di qualunque verità fisica ec. ec. diviene necessaria alla sua felicità. Ora quando anche si voglia supporre che l'uomo primitivo avesse mezzi sufficienti per conoscere le verità religiose e morali, (come par che supponga il nostro libro) è certo che non gli ebbe per infinite altre, è certo che infinite se ne ignorano ancora, che infinite se ne ignoreranno sempre, che la massima parte degli uomini è (tolto nella religione rivelata) ignorante quanto i primitivi, che i fanciulli lo sono parimente, {anche quanto alla religione.} È certo che quantunque l'uomo conosca Dio ch'è infinito, non lo conosce nè lo può conoscere infinitamente (come neanche amare, quantunque l'autore presuma che la nostra facoltà di amare sia infinita, essendo infinito il desiderio); anzi limitatissimamente. Dunque la sua cognizione non è infinita; dunque se la sua facoltà di conoscere è infinita, manca del suo oggetto, e perciò della sua felicità. Dunque l'uomo non può esser felice: dunque ripeterò coll'autore, egli è un essere contraddittorio, perchè avendo un fine, cioè la perfezione o la felicità, non ha alcun mezzo di pervenirvi * . E le illusioni che la natura ha poste saldissimamente in tutti noi, perchè ce le ha poste? Per contendergli espressamente la sua felicità? E se l'ignoranza è infelicità, perchè l'uomo esce dalle mani della natura, così strettamente infelice? In  387 somma le assurdità sono infinite quando non si vuol riconoscere che l'uomo esce perfetto dalle mani della natura, come tutte le altre cose; che la verità assoluta è indifferente all'uomo (quanto al bene, ma non sempre, anzi di rado, quanto al nuocergli); che lo scopo della sua facoltà intellettiva, non è la cognizione, in quanto cognizione derivata dalla realtà, ma la concezione, o l'opinione di conoscere, sia vera, sia falsa. Che vuol dire che gl'ignoranti in luogo di esser più infelici, sono evidentemente i più felici?

[391,1]   391 Il bene non è assoluto ma relativo. Non è assoluto nè primariamente o assolutamente nè secondariamente o relativamente. Non assolutamente perchè la natura delle cose poteva esser tutt'altra da quella che è; non relativamente, perchè in questa medesima natura tal qual esiste, quello ch'è bene per questa cosa non è bene per quella, quello che è male per questa è bene per quell'altra, cioè gli conviene. La convenienza è quella che costituisce il bene. L'idea astratta della convenienza si può credere la sola idea assoluta, e la sola base delle cose in qualunque ordine e natura. Ma l'idea concreta di essa convenienza è relativa. Non si può dunque dire che un essere sia più buono di un altro, cioè abbia o contenga maggior quantità o somma di bene, perchè il bene non è bene se non in quanto conviene alla natura degli esseri rispettivi. Solamente, {questo} si può dire degl'individui rispetto agli altri individui della stessa specie. Ogni specie dunque, ed ogni individuo in quanto è conforme alla natura della sua specie, è perfetto, e possiede la perfezione: (perfezione relativa, ma non essendoci perfezione assoluta, cioè tipo di perfezione, nessun essere o specie è più perfetta di un'altra) possiede tutto il bene che è bene per  392 lui, perchè il resto non sarebbe bene: è tanto buono quanto può essere, perchè per lui non c'è buono fuori della sua natura; anzi fuori di questa, tutto è per lui cattivo, perchè non c'è bene assoluto. Tutto ciò tanto nel fisico che nel morale. (8. Dicembre. 1820.). {{Questo io credo che sia il sistema (Leibniziano se non erro) dell'Ottimismo.}}

[393,1]  A quello che ho detto p. 175. fine - 176. principio, riferisci quello che ho detto p. 153. capoverso primo. I fanciulli parlano ad alta voce da se delle cose che faranno, delle speranze che hanno, si raccontano le cose che hanno fatte, vedute ec. o che loro sono accadute, si lodano, si compiacciono, predicano ed ammirano ad alta voce le cose che fanno, e non v'è per loro tanta solitudine ed inazione materiale, che non sia piena società conversazione, ed azione spirituale; società ed azione non languida nè passeggera, ma energica, presente, simile al vero, accompagnata anche da gesti e movimenti fisici d'ogni sorta, durevole ed inesauribile. (9. Dic. 1820.).

[655,1]  Examinez votre caractère, et mettez à profit vos défauts; il n'y en a point qui ne tienne à quelques vertus, et qui ne les favorise. La Morale n'a pas pour objet de détruire la nature, mais de la perfectionner. * Mme Lambert, Avis d'une Mère a sa fille, lieu cité ci-dessus, p. 84. E segue mostrando con parecchi esempi, come ciascuna  656 imperfezione conduca, serva, e quasi racchiuda qualche virtù, conchiudendo: Il n'y a pas une foiblesse, dont, si vous voulez, la vertu ne puisse faire quelque usage. * ib. p. citée. Da queste osservazioni fatte anche da molti altri, si può dedurre una verità molto generale ed importante, cioè con quanto leggere modificazioni quelle qualità umane che si chiamano viziose, e si presumono vizi naturali e inerenti, si riducano e si trovino, non esser altro che buone e giovevoli qualità, e come in origine e nella prima costituzione dell'uomo fosse buono ancor quello che ora pare essenzialmente e primitivamente cattivo, perciocchè essendosi facilmente corrotte quelle prime qualità naturali, e distoltesi dal loro fine, e non conoscendosi più a qual buon fine potessero esser destinate; la depravazione nostra ch'è opera dell'uomo, si prende per vizio naturale ed innato; e si confonde il mal uso delle qualità che si chiamano naturali, col buon uso a cui la natura le aveva destinate, e che ora non si scuopre più facilmente.  657 In somma da tutto ciò si conferma la dottrina della perfezione naturale, e primitiva dell'uomo, considerando come sieno originalmente buone {anche} quelle qualità, che per una parte si hanno per naturali ed innate, e sono; per l'altra, si hanno per naturalmente cattive, e non sono: ma questo errore fa che la natura si creda viziosa, e bisognosa della ragione. La qual ragione, anch'essa, abbiamo spessissimo dimostrato ch'è un sommo vizio, e contuttociò ell'è innata. Ma tal quale era innata, non era vizio; bensì è vizio tal quale ella si trova, ed è adoperata oggidì. (14. Feb. 1821.).

[830,1]  Non solamente è ridicolo che si pretenda la perfettibilità dell'uomo, in quanto alla mente, o a quello che vi ha riguardo, come ho detto in altro pensiero pp. 371-73, ma anche in quanto ai comodi corporali. Paiono oggi così necessari quelli che sono in uso, che si crede quasi impossibile la vita umana, senza di questi, o certo molto più misera, e si stimano i ritrovamenti di tali comodità, tanti passi verso la perfezione e la felicità della nostra specie, massime di certe comodità che sebbene lontanissime dalla natura, contuttociò si stimano essenziali e indispensabili all'uomo. Ora io non domanderò a costoro come abbian fatto gli uomini a viver tanto tempo privi di cose indispensabili; come facciano oggi tanti popoli di selvaggi; parecchi ancora de' nostrali e sotto a' nostri occhi, tuttogiorno. {+(anzi ancora quegli stessi più che mai assuefatti a tali cose pretese indispensabili, quando per mille diversità di accidenti, si trovano in circostanza di mancarne, alle volte anche volontariamente).} {Osservate in questo proposito che essendo certo non potersi perfezionare il corpo dell'uomo, anzi deperire nella civiltà, e quindi non darsi perfettibilità dell'uomo in quanto al corpo, (la quale infatti niuno asserì nè asserirebbe), tuttavia si sostiene la sua perfettibilità infinita in quanto all'animo (quando intorno al corpo, volendo anche prendere per perfezioni quelle che oggi si credono tali, e in natura sono la maggior parte il contrario, certo però la perfettibilità sarebbe finitissima).} I quali tutti, in luogo di accorgersi della loro infelicità, hanno anzi creduto  831 e credono e si accorgono molto meno di essere infelici, di quello che noi facciamo a riguardo nostro: e molto meno lo erano e lo sono, sì per questa credenza, come anche indipendentemente. Non chiamerò in mio favore la setta cinica, e l'esempio e l'istituto loro, diretto a mostrare col fatto, di quanto poco, e di quante poche invenzioni e sottigliezze abbisogni la vita naturale dell'uomo. Non ripeterò che, siccome l'abitudine è una seconda natura, così noi crediamo primitivo quel bisogno che deriva dalla nostra corruzione. E che molti anzi infiniti bisogni nostri sono oggi reali, non solamente per l'assuefazione, la quale, com'è noto, dà o toglie la capacità di questo o di quello, e di astenersi da questo o da quello; ma anche senza essa per lo indebolimento ed alterazione formale delle generazioni umane, divenute oggidì bisognose di certi aiuti, soggette a certi inconvenienti, e quindi necessitose di certi rimedi, che non avevano alcun luogo nella umanità primitiva. Così la medicina, così l'uso di certi cibi, di vesti diversificate secondo le stagioni, di  832 preservativi contra il caldo, il freddo ec. di chirurgia ec. ec. Lascerò tutte queste cose e perchè sono state dette da altri, e perchè potrebbero deridermi come partigiano dell'uomo a quattro gambe. Solamente ripeterò quel ragionamento che ho usato nella materia della perfettibilità mentale. Dunque se tutto questo era necessario {o conveniente} alla perfezione e felicità dell'uomo, come mai la natura tanto accurata e finita maestra in tutto, glielo ha non solo lasciato ignorare, ma nascosto, quanto era in lei? Diranno che la natura avendo dato a un vivente le facoltà necessarie, ha lasciato a lui che con queste facoltà ritrovasse e si procacciasse il bisognevole, e che all'uomo ha lasciato più che al bruto, perchè a lui diede maggiori facoltà, e così proporzionatamente ha fatto secondo le maggiori o minori facoltà negli altri bruti. Altro è questo, altro è mettere una specie di viventi in una infinita distanza da quello che si suppone necessario al suo ben essere, e alla perfezione della sua esistenza. Altro è permettere {anzi volere e disporre} che infinito  833 numero, che moltissime generazioni di questi viventi restassero prive {o} affatto o in massima parte di cose necessarie alla loro perfezione. Altro è mettere nel mondo il detto vivente tutto nudo, tutto povero, tutto infelice e misero, col solo compenso di certe facoltà, per le quali, solamente dopo un gran numero di secoli, sarebbe arrivato a conseguire qualche parte del bisognevole a minorare l'infelicità di una vita il cui scopo non è assolutamente altro che la felicità. Altro è ordinare le cose in modo che gran parte di questa specie (come tanti selvaggi poco fa scoperti, o da scoprirsi) dovesse restare fino al tempo nostro, e chi sa fino a quando, appresso a poco nella stessa imperfezione e infelicità primitiva (il che si può applicare anche alla pretesa perfettibilità della mente e delle varie facoltà dell'uomo). E tutto ciò in una specie privilegiata, e che si suppone la prima nell'ordine di tutti gli esseri. Bel privilegio davvero, ch'è quello di veder tutti gli altri viventi conseguire immediatamente la loro relativa perfezione  834 e felicità, senza stenti, nè sbagli, ed essa intanto per conseguire la propria, stentare, tentare mille strade, sbagliare mille volte, e tornare indietro, e finalmente dovere aspettare lunghissimo ordine di secoli, per conseguire in parte il detto fine. Osserviamo quanti studi, quante invenzioni, quante ricerche, quanti viaggi per terra e per mare a remotissime parte[parti], e combattendo infiniti ostacoli, sì della fortuna, sì (ch'è più notabile) e massimamente della natura, per ridurci, quanto al corpo, nello stato presente, e proccurarci di quelle stesse cose che ora si stimano essenziali alla nostra vita. Osserviamo quante di queste, ancorchè già ritrovate, abbiano bisogno ancora dei medesimi travagli infiniti per esserci procacciate. Osserviamo quanto ancora ci manchi, {+quanto sia di scoperta recentissima o assolutamente, o in comparazione dell'antichità della specie umana;} quanto ogni giorno si ritrovi, e quanto si accrescano le cognizioni pretese utili alla vita, anche delle più essenziali (come in chirurgia, medicina ec.); quante cose si ritroveranno e verranno poi in uso, che a noi avranno mancato, e che i nostri  835 posteri giudicheranno tanto indispensabili, quanto noi giudichiamo quelle che abbiamo. Domando se tutta questa serie di difficilissimi mezzi conducenti al fine primario della natura ch'è la felicità {e perfezione} delle cose esistenti e il loro ben essere, e massime de' viventi, e de' primi tra' viventi, entravano nel sistema, nel disegno, nel piano della natura, nell'ordine delle cose, nella primordiale disposizione e calcolo relativamente alla specie umana. Domando se nel piano nell'ordine nel calcolo de' mezzi conducenti al fine essenziale e primario, ch'è la felicità e perfezione, mezzi per conseguenza necessari ancor essi, v'entrava anche il caso. Ora è noto quante scoperte delle più sostanziali in questo genere, e dell'uso il più quotidiano, e di effetti e applicazioni rilevantissime, non le debba l'uomo se non al puro e semplice caso. Dunque il puro e semplice caso entrava nel sistema primordiale della natura; dunque ella lo ha calcolato come mezzo necessario; dunque  836 ella ne ha fatto dipendere il fine essenziale e primario; dunque si è contentata che non accadendo il tale e tale altro caso, o non accadendo in quel tal modo ec. ec. o accadendo bensì quello ma non questo ec. la specie umana, la maggiore delle sue opere, restasse imperfetta e infelice, e priva del fine della sua esistenza, e similmente tutte quelle parti dell'ordine delle cose che dipendono o hanno stretta connessione colla specie umana.

[1096,1]  Non si stimino esagerazioni le lodi ch'io fo dello stato antico, e delle antiche repubbliche. So bene ancor io, com'erano soggette a molte calamità, molti dolori, molti mali. Inconvenienti inevitabili nello stesso sistema magistrale della natura; quanto più negli ordini che finalmente sono, più o meno, opera umana! Ma il mio argomento consiste nella proporzione e nel paragone della felicità, o se vogliamo,  1097 infelicità degli uomini antichi, con quella de' moderni, nel bilancio e nell'analisi della massa de' beni e de' mali presso gli uni e presso gli altri. Converrò che l'uomo, specialmente uscito dei limiti della natura primitiva, non sia stato mai capace di piena felicità, sia anche stato sempre infelice. Ma l'opinione comune è quello[quella] della indefinita perfettibilità dell'uomo, e che quindi egli sia tanto più felice o meno infelice, quanto più s'allontana dalla natura; per conseguenza, che l'infelicità moderna sia minore dell'antica. Io dimostro che l'uomo essendo perfetto in natura, quanto più s'allontana da lei, più cresce l'infelicità sua: dimostro che la perfettibilità dello stato sociale è definitissima, e benchè nessuno stato sociale possa farci felici, tanto più ci fa miseri, quanto più colla pretesa sua perfezione ci allontana dalla natura; dimostro che l'antico stato sociale aveva toccato i limiti della sua perfettibilità, limiti tanto poco distanti dalla natura, quanto è compatibile coll'essenza di stato sociale, e coll'alterazione inevitabile che l'uomo ne riceve da quello ch'era primitivamente: dimostro infine con prove teoriche, e con prove storiche e di fatto,  1098 che l'antico stato sociale, stimato dagli altri imperfettissimo, e da me perfetto, era meno infelice del moderno. (27. Maggio 1821.).

[1170,1]  Si consideri per l'una parte che cosa sarebbe la civiltà senza l'uso della moneta. Oltre ch'ella non potrebbe reggersi, non sarebbe neppur giunta mai ad un punto di gran lunga inferiore al presente, essendo la moneta, di prima necessità ad un commercio vivo ed esteso, e questo commercio scambievole vivo ed esteso, tanto delle nazioni, quanto degl'individui di ciascuna, essendo forse la principal fonte dei progressi della civiltà, o della corruzione umana. E se bisognassero prove di una proposizione così manifesta, si potrebbe addurre, fra gli altri infiniti de' popoli selvaggi ec., l'esempio di Sparta che, avendo poco uso della moneta per le leggi di Licurgo, in mezzo al paese più civile del mondo a quei tempi, cioè la Grecia, si mantenne sì lungo spazio, e incorrotta, e quasi stazionaria, o certo la sua civiltà, o corruzione, fu sempre di molti gradi minore di quella degli altri popoli greci, e {le} andò sempre molti passi indietro.

[1452,1]  Ciascun uomo è come una pasta molle, suscettiva d'ogni possibile figura, impronta ec. S'indurisce col tempo, e da prima è difficile, finalmente impossibile il darle nuova figura ec. Tale è ciascun uomo, e tale diviene col progresso dell'età. Questa è la differenza caratteristica che distingue l'uomo dagli altri viventi. La maggiore o minore conformabilità primitiva, è la principal differenza di natura fra le diverse specie di animali, e fra i diversi individui di una stessa specie. La maggiore o minore conformabilità acquisita (mediante l'uso generale delle assuefazioni, che produce la facilità delle assuefazioni particolari) e le diverse forme ricevute  1453 da ciascun individuo di ciascuna specie, è tutta la differenza di accidente che si trova fra detti individui. Quindi considerate quanto sia ragionevole l'opinione delle cose assolute, anche dentro i limiti, e l'ordine effettivo della natura qual ella è, e dilatate questo pensiero.

[1558,2]  Discorre il Monti (Proposta ec. vol. 1. p. 227.) della separazione da farsi della natura bruta dalla coltivata. * Vedilo. Egli antepone, come si può {ben} credere, questa a quella. È verissimo. L'arte emenda, abbellisce, ec. ec. non poche volte la natura. La natura non tocca dall'arte, spessissimo è intollerabile, dannosa, schifosa * (come dice il Monti). Ma come tutto ciò? forse assolutamente? non già; ma relativamente all'uomo. Or tutto ciò che vuol dire? che la natura ha errato? ch'ell'è imperfetta nelle sue opere? Così la pensano coloro a' quali par molto più assurdo che l'uomo non faccia tutto bene, di quello che la natura abbia  1559 fatto ogni cosa male, e sbagliato a ogni tratto, e vada sempre mendicando l'opera e il soccorso delle sue proprie creature. Ma io dico. Quelle cose che senza un'infinita arte dell'uomo, non gli giovano, non gli piacciono, o gli nocciono, o fanno nausea ec. non erano e non son fatte per l'uomo. Il mondo non è tutto fatto per l'uomo. Quelle cose che eran fatte per lui, o dovevano aver relazione con lui, ed avercela in quel tal modo, la natura le ha ordinate con tutta la possibile perfezione al suo bene. Così ha fatto per tutte le altre cose, il cui bene non sempre si accorda con quello dell'uomo.

[1569,2]  Ma ben altro è la conformabilità, che la perfettibilità. Cosa generalmente non intesa dai filosofi, i quali credono di aver provato che l'uomo è perfettibile, quando hanno provato ch'è conformabile. Il che anzi dimostrerebbe l'opposto, cioè che le varie qualità e facoltà non primitive che si sviluppano nell'uomo mediante la coltura, ec. ec. non sono ordinate dalla natura, ma accidentali, e figlie delle circostanze, come le malattie che modificano viziosamente i nostri organi ec. ec. (27.)

[1570,1]   1570 La nostra civiltà, che noi chiamiamo perfezione essenzialmente dovuta all'uomo, è manifestamente accidentale, sì nel modo con cui s'è conseguita, sì nella sua qualità. Quanto al modo, l'ho già mostrato altrove pp. 830-38. Quanto alla qualità, essendo l'uomo diversissimamente conformabile, e potendo modificarsi in milioni di guise dopo che s'è allontanato dalla condizione primitiva, egli non è tale qual è oggi, se non a caso, e in diverso caso, poteva esser diversissimo. E questo genere di pretesa perfezione a cui siam giunti o vicini, è una delle diecimila diversissime condizioni a cui potevamo ridurci, e che avremmo pur chiamate perfezioni. Consideriamo le storie, e le fonti del nostro stato presente, e vediamo quale infinita combinazione di cause e circostanze differentissime ci abbia voluto a divenir quali siamo. La mancanza delle quali cause o combinazioni ec. in altre parti del globo, fa che gli uomini o restino senza civiltà, e poco lontani dallo stato primitivo, o siano civili (cioè perfetti) in diversissimo modo, come i Chinesi. Dunque è manifesto che la nostra civiltà, che si crede essenzialmente appartenerci, non è stata  1571 opera della natura, non conseguenza necessaria e {primordialmente} preveduta delle disposizioni da lei prese circa la specie umana (e tale dovrebb'essere, s'ella fosse perfezione), ma del caso. In maniera che, per così dire, neppur la natura formando l'uomo, poteva indovinare, non dico ciò che fosse per divenire, ma come potesse e dovesse divenir perfetto, e in che cosa consistesse la sua perfezione, ch'è pur lo scopo e l'integrità di quell'esistenza ch'ella stessa gli dava e formava. Non sapeva dunque che cosa ella si formasse, giacchè gli esseri e {le cose tutte} non vanno considerate, nè si può giudicar di loro, e della loro qualità ec. se non se nello stato di perfezione. Or com'è possibile che la natura la quale ha fatto ogni cosa perfetta, (nè poteva altrimenti) non abbia nè assegnato verun genere di perfezione alla sua principal creatura, nè disposto le cose in modo che l'uomo dovesse necessariamente conseguire questa perfezione, cioè la pienezza e il vero modo del suo essere? e che gli abbia detto; la perfezione, cioè l'esistenza intera, l'esistenza che ti conviene, il modo in cui devi essere, la forma e la natura tua propria, te la darà  1572 il caso come, e quando, e se vorrà, e quanto vorrà, cioè in quel grado e in quei luoghi che vorrà, e quale vorrà? (27 Agos. 1821.).

[1572,1]  Che immensa opera è la civilizzazione! quanto difficile; quanto ne sono lontani da che mondo è mondo la maggior parte degli uomini! che risultato d'infinite combinazioni accidentali! La perfezione essenziale alle cose, doveva essere assegnata dalla natura in questo modo alla principal cosa del nostro sistema, cioè all'uomo? (27. Agos. 1821.)

[1597,1]   1597 Tutto nella natura è armonia, ma soprattutto niente in essa è contraddizione. Non è possibile che, massime in un medesimo individuo, in un medesimo genere di esseri, e degli esseri più elevati nell'ordine naturale, siccom'è l'uomo, la perfezione di una parte principale e importantissima di esso, voluta e ordinata dalla natura, noccia a quella di un'altra parte similmente principalissima. Ora se quella che noi chiamiamo perfezione del nostro spirito, se la civiltà presente fosse stata voluta e ordinata dalla natura, e se ella fosse insomma veramente la nostra perfezione, allora la contraddizione assurda che ho detto, si verificherebbe; giacchè è incontrastabile che questa pretesa perfezione dell'animo nuoce al corpo.

[1611,1]  Nessun genere di animali o di cose, per essere qual deve, ebbe o ha bisogno che sorga un suo individuo fornito di singolari prerogative naturali o acquisite, che accada la tale scoperta importante, che {si} dieno le tali e tali infinite combinazioni ec. ec. La natura quando lo formò, fu ben certa ch'esso sarebbe qual doveva essere, e qual ella voleva. Ma il genere umano ha avuto ed ha bisogno di tutto ciò, per arrivare ad essere (così dicono) qual deve. Or dico io: perchè la perfezione cioè il vero modo di essere del solo genere umano fu abbandonato dalla natura al caso? È questo un privilegio, o un immenso svantaggio?  1612 Egli è certo che le facoltà del più privilegiato individuo umano, non bastano di gran lunga a condurlo a quella che si chiama perfezione. Dunque la natura non ha provveduto alla perfezione cioè al ben essere dell'uomo. - Ma egli è fatto per la società. - Neppur basta ch'egli si metta in questa società. Bisogna che questa duri una lunghissima serie di generazioni, e che si stenda fino a divenir quasi universale. Allora solo l'uomo, e l'individuo potrà avvicinarsi a quella perfezione alla quale ancora non siamo arrivati. È egli possibile che tutto ciò sia necessario al ben essere dell'uomo. E che la sua perfezione fosse posta dalla natura au bout di sì lunga e difficile carriera, che dopo seimila anni ancora non è compiuta? Oltre ch'ella, come risulta, dal sopraddetto, non poteva esser sicura che l'uomo vi arrivasse mai, essendo stata opera di circostanze non mai essenziali, tutti i pretesi progressi che si son fatti. (2. Sett. 1821.).

[1612,1]  Di più: qual sarà poi questa  1613 perfezione dell'uomo? quando e come saremo noi perfetti, cioè veri uomini? in che punto, in che cosa consisterà la perfezione umana? qual sarà la sua essenza? Ogni altro genere di viventi lo sa bene. Ma la nostra civiltà o farà sempre nuovi progressi, o tornerà indietro. Un limite, una meta (secondo i filosofi) non si può vedere, e non v'è. {Molto meno un punto di mezzo.} Dunque non sapremo mai {in eterno} che cosa e quale propriamente debba esser l'uomo, nè se noi siamo perfetti o no ec. ec. {+Tutto è incerto e manca di norma e di modello, dacchè ci allontaniamo da quello della natura, unica forma e ragione del modo di essere.} (2. Sett. 1821.).

[1618,1]  La distruzione delle idee innate distrugge altresì l'idea della perfettibilità dell'uomo. Pare tutto l'opposto, perchè se tutte le sue idee sono acquisite, dunque egli è meno debitore e dipendente della natura, e quindi si può e deve perfezionar da se. Ma anche le idee degli animali sono acquisite, nè essi sono perfettibili. Distrutta colle idee innate l'idea della perfezione assoluta, e sostituitale la relativa, cioè quello stato ch'è perfettamente conforme alla natura di ciascun genere di esseri, si viene a rinunziare alle pazze idee d'incremento di perfezione, di acquisto di nuove buone qualità (che non sono più buone per se stesse come si credevano), di perfezionamento modellato sopra le false idee del bene e del male assoluto ed assolutamente maggiore o minore; e si conclude che l'uomo è perfetto qual egli è in natura, appena le sue facoltà hanno conseguito quel tanto sviluppo che la natura gli ha primitivamente {e} decretato, e indicato. E  1619 non può se non essere imperfetto in altro stato. Nè la perfezione sua, o quella di verun altro genere, può mai crescere: bensì quella dell'individuo ec. (3. Sett. 1821.).

[1630,2]  Quanto la specie umana oggidì sia vicina a quella stessa perfezione relativa alla ragione, di cui si mena sì gran vanto, vedi il capo 11. di Wieland, Storia del saggio Danischmend e dei tre Calender, o  1631 l'Egoista ed il Filosofo. Milano. Scelta Raccolta di Romanzi. Batelli e Fanfani. vol. 25. (5. Sett. 1821.).

[1691,2]  Voi altri riformatori dello spirito umano, e dell'opera della natura, voi altri predicatori della ragione, provatevi un poco a  1692 fare un romanzo, un poema ec. il cui protagonista si finga perfettissimo e straordinario in tutte le parti morali, e dipendenti dall'uomo, e imperfetto {o men che perfetto} nelle parti fisiche, dove l'uomo non ha per se verun merito. Di che si parla in questo secolo sì spirituale massime in letteratura che oramai par che sdegni tutto ciò che sa di corporeo, di che si parla, dico, ne' poemi, ne' romanzi, nelle opere tutte d'immaginazione e sentimento, fuorchè di bellezza del corpo? Questa è la prima condizione in un personaggio che si vuol fare interessante. {+La perfettibilità dell'uomo, come altrove ha[ho] detto p. 830, non ha che fare col corpo. E contuttociò la perfezione del corpo, che non dipende dagli uomini nè è opera della ragione, si è la principal condizione che si ricerca in un eroe di poema ec. (o si dee supporre, perchè ogni menoma imperfezione corporale suppostagli guasterebbe ogni effetto) e la più efficace, supponendolo ancora perfetto nello spirito.} Questa circostanza non si può tacere; quando anche si taccia, la supplirà il lettore; ma fare espressamente un protagonista brutto, è lo stesso che rinunziare a qualsivoglia effetto. (V. ciò che dico in tal proposito dove parlo della compassione pp. 220-21). Mad. di Staël non era bella: in un'anima come la sua, questa circostanza avrà prodotto mille pensieri e sentimenti sublimi, nuovissimi a scriverli, profondissimi, sentimentalissimi: (così di Virgilio pretende Chateaubriand) ella amava sopra tutto l'originalità, e poco teneva il buon  1693 gusto (v. Allemagne tome 1. ch. dernier.): ella, come tutti i grandi, dipingeva ne' suoi romanzi il suo cuore, i suoi casi, e però si serve di donne per li principali effetti; nondimeno si guarda bene di far brutti o men che belli i suoi eroi o le sue eroine. Tutto lo spregiudizio, tutto l'ardire, tutta l'originalità di un autore in qualsivoglia tempo non può giunger fin qua. Che cosa è la bellezza? lo stesso in fondo, che la nobiltà e la ricchezza: dono del caso? È egli punto meno pregevole un uomo sensibile e grande, perchè non è bello? {+Quale inferiorità di vero merito si trova nel più brutto degli uomini verso il più bello?} Eppure non solamente lo scrittore o il poeta si deve guardare dal fingerlo brutto, ma deve anche guardarsi da entrare in comparazioni sulla {sua} bellezza. Ogni effetto svanirebbe se parlando o di se stesso (come fa il Petrarca) o del suo eroe, l'autore dicesse ch'egli era sfortunato nel tale amore perchè le sue forme, o anche il suo tratto e maniere esteriori (cosa al tutto corporea) non piacevano all'amata, o perch'egli era men bello di un suo rivale ec. ec. Che cosa è dunque il mondo fuorchè  1694 NATURA? Ho detto [pp. 601-603] p. 1026 p. 1262 p. 1657 che l'intelletto umano è materiale in tutte le sue operazioni e concezioni. La teoria stessa dell'intelletto si deve applicare al cuore e alla fantasia. La virtù, il sentimento, i più grandi pregi morali, le qualità dell'uomo le più pure, le più sublimi, infinite, le più immensamente lontane in apparenza dalla materia, non si amano, non fanno effetto veruno se non come materia, e in quanto materiali. Divideteli dalla bellezza, o dalle maniere esteriori, non si sente più nulla in essi. Il cuore può bene immaginarsi di amare lo spirito, o di sentir qualche cosa d'immateriale: ma assolutamente s'inganna.

[1699,2]  Alla p. 1562. fine. Non si dà salvatichezza in natura. Bensì per noi. Ciò vuol dire che non siamo quali dovevamo. Quello che per noi è salvatico, o non doveva servirci, e non era destinato all'uomo, o non è salvatico se non perchè noi siamo civili, e incapaci quindi di servircene come avremmo dovuto, e come la natura avea destinato. Non si nega che la coltura, i nesti ec. non migliorino le piante le frutta, e le razze loro, molte delle quali  1700 nel loro stato di salvatichezza, non ci potrebbero servire affatto, o ci servirebbero, o diletterebbero assai meno. ec. Così dico degli animali. ec. Ma questo miglioramento è relativo al nostro stato presente, non mica alla natura di quelle razze ec. pretese migliorate, nè alla natura propria nostra. Infatti quelle razze ec. coi miglioramenti che ricevono dalle nostri[nostre] arti, acquistano qualunque altra qualità fuorchè il vigore, la robustezza, la sanità, la forza di resistere alle intemperie alle fatiche ec. di operare ec. di crescere proporzionatamente ec. Anzi quanto guadagnano in altre qualità (non proprie nè primitive loro) altrettanto perdono in questa, ch'è il vero carattere della natura in tutte le sue opere, e senza la cui rispettiva dose proporzionata alla natura di ciascun genere, l'individuo è insomma in istato di malattia abituale. { V. la Veterinaria di Vegezio, prologo al lib. 2., nel passo riportato dal Cioni, Lettera a G. Capponi sopra Pelagonio, not. 19.} Il vigore rispettivo è la prima e più necessaria di tutte le facoltà, perchè insomma non è altro che la facoltà di pienamente esercitare tutte le proprie facoltà, e tutte le qualità rispettive della propria natura, e tutta la perfezion fisica della propria esistenza. Senza la qual perfezione  1701 fisica (che la natura ha dato immediatamente a tutti i generi, ed all'umano come agli altri, a differenza della pretesa perfezione dell'animo), nè l'animo (che dipende in tutto dal fisico) nè l'intero animale può mai essere se non imperfetto. (14. Sett. 1821.).

[1737,2]  Da che nacque l'invenzione del  1738 canocchiale che ha tanto influito sulla navigazione, sulla stessa filosofia metafisica, e quindi sulla civilizzazione? Dal caso. E l'invenzione della polvere che ha mutato faccia alla guerra, ed alle nazioni, e tanto contribuito a geometrizzare lo spirito del tempo, e distruggere le antiche illusioni, insieme col valore individuale ec. ec.? Dal caso. Chi sa che l'aereonautica non debba un giorno sommamente influire sullo stato degli uomini? E da che cosa ella deriva? Dal caso. E quelle scoperte infinite di numero, sorprendenti di qualità, che furono necessarie per ridurre l'uomo in quel medesimo imperfetto stato, in cui ce lo presenta la più remota memoria che ci sia giunta delle nazioni; scoperte che hanno avuto bisogno di lunghissimi secoli e per essere condotte a quella condizione ch'era necessaria per una società alquanto formata, e per essere poi perfezionate come lo sono oggidì; scoperte che oggi medesimo, dopo ch'elle son fatte da tanto tempo, dopo ch'elle sono perfezionate, dopo che la nostra mente vi s'è tanto abituata,  1739 lo spirito umano si smarrisce {cercando} come abbiano potuto mai esser concepite; le lingue, gli alfabeti, l'escavazione e fonditura de' metalli, la fabbrica de' mattoni, de' drappi d'ogni sorta, {la nautica e quindi il commercio de' popoli,} {+la coltura de' formenti, e delle viti, e la fabbrica del pane e vino, invenzioni che gli antichi attribuivano agli dei, che la scrittura pone dopo il diluvio, e che certo furono tardissime,} la stessa cocitura delle carni, dell'erbe, ec. ec. ec. tutte queste maravigliose e quasi spaventose invenzioni, da che cosa crediamo che abbiano avuto origine? Dal caso. Consideriamo tutte le difficili scoperte moderne, fatte pure in tempo dove la mente umana aveva tanti, ed immensi aiuti di più per inventare; e vedendo che tutte in un modo o nell'altro si debbono al caso, e nessuna o pochissime derivano da spontanea e deliberata applicazione della mente umana, nè dal calcolo delle conseguenze, e dal preciso progresso dei lumi; {+pochissime ancora da tentativi diretti, e sperienze appositamente istituite, benchè a tastoni e all'azzardo (come furono per necessità, si può dir, tutte quelle pochissime che fruttarono qualche insigne scoperta);} molto più dovremo creder lo stesso di tutte le scoperte antiche le più necessarie all'esistenza di una società formale. Se dunque porremo attenzione all'andamento delle cose, e alla storia dell'uomo, dovremo convenire che tutta quanta la sua civilizzazione è pura opera  1740 del caso. {+Il quale variando ne' diversi remoti paesi, o mancando, ha prodotto quindi diversi generi di civilizzazione (cioè perfezione), o l'assoluta mancanza di essa.} La perfezione del primo essere vivente doveva dunque essere dalla natura incaricata all'azzardo? (19. Sett. 1821.).

[1775,1]   1775 Consideriamo la gran quantità delle persone imperfette o nella forma o nelle facoltà del corpo, sia dalla nascita, sia per infermità {naturali} sofferte nell'infanzia o nella fanciullezza, prima insomma del perfetto ed intero sviluppo della macchina, e della maturità del corpo. Paragoniamo questo numero di persone imperfette nella loro maturità naturale, a quello degl'individui imperfetti in qualsivoglia specie di animali, avuta ragione della rispettiva numerosità di ciascuna specie, e lo troveremo strabocchevolmente maggiore. Che vuol dir ciò, se non che l'uomo è corrotto, e che il suo stato presente non è quello che gli conviene? Così per certo giudicheremmo e giudichiamo ogni qual volta ci vien fatta qualche simile osservazione intorno a qualunque specie o genere di enti naturali appartenente a qualsivoglia de' tre regni. Solamente a riguardo dell'uomo siamo ben lungi dal pronunziare un tale o simile giudizio; perchè l'uomo  1776 secondo noi, non ha che far colla natura, e le sue imperfezioni derivano non già dall'essersi egli allontanato, ma dal non essersi abbastanza ancora allontanato dalla natura.

[1858,2]  Da tutto ciò deducete 1. l'impotenza, e la contraddizione che involve in se, ed introduce nell'uomo, e nell'ordine delle cose umane, la ragione, la quale per far grandi effetti e decisi progressi ha bisogno di quelle stesse disposizioni naturali ch'ella distrugge o n'è distrutta, l'immaginazione e il sentimento. Facoltà generalmente {+e naturalmente} parlando incompatibili con lei, massime dovendo esser questa e quelle in  1859 grado sommo. Vedete quanto sieno naturali i grandi progressi della ragione, quanto la natura gli abbia favoriti nel fabbricar l'uomo, quanto sia facile e naturale il conseguimento della pretesa perfezione umana. Laddove l'immaginazione e il sentimento non hanno alcun bisogno della ragione. E siccome, sebben questa e quelle sieno qualità naturali, nondimeno quelle si ponno considerar come più proprie della natura, più generali, più perfetti modelli di essa, meglio armonizzanti con lei, più singolarmente proprie dell'uomo e delle nazioni e de' tempi naturali, de' fanciulli ec. così vedete la gran superiorità della natura sulla ragione, e su tutto ciò che l'uomo si proccura, si fabbrica, si perfeziona da se stesso e col tempo.

[1838,3]  Quindi si veda quanto sia difficile a trovare un vero e perfetto filosofo. Si può dire che questa qualità è la più rara e strana che si possa concepire, e che appena ne sorge uno ogni dieci secoli, seppur uno n'è mai sorto. (Qui riflettete quanto  1839 il sistema delle cose favorisca il preteso perfezionamento dell'uomo mediante la perfezione della ragione e della filosofia.) È del tutto indispensabile che un tal uomo sia sommo e perfetto poeta; ma non già per ragionar da poeta; anzi per esaminare da freddissimo ragionatore e calcolatore ciò che il solo {ardentissimo} poeta può conoscere. Il filosofo non è perfetto, s'egli non è che filosofo, e se impiega la sua vita e se stesso al solo perfezionamento della sua filosofia, della sua ragione, al puro ritrovamento del vero, che è pur l'unico e puro fine del perfetto filosofo. La ragione ha bisogno dell'immaginazione e delle illusioni ch'ella distrugge; il vero del falso; il sostanziale dell'apparente; l'insensibilità la più perfetta della sensibilità la più viva; il ghiaccio del fuoco; la pazienza dell'impazienza; l'impotenza della somma potenza; il piccolissimo del grandissimo; la geometria e l'algebra, della poesia. ec.

[1907,2]  Non v'è cosa più sciocca e ingiuriosa alla natura del dire e ripetere continuamente che la perfezione non è propria delle cose create, che niente al mondo è perfetto, che le cose umane sono imperfette, che non vi può esser uomo perfetto ec. ec. Che cosa mancava a quella insigne maestra ch'è la natura per far le sue opere perfette? forse l'intelligenza? forse il potere? Certo che nulla è nè può esser perfetto secondo la frivola idea che noi ci formiamo di una perfezione assoluta,  1908 che non esiste, di una perfezione indipendente da qualunque genere di cose, ed anteriore ad essi, quando in essi soli è rinchiusa ogni perfezione, da essi deriva, e in essi e nel loro modo di essere, ha l'unica ragione dell'esser suo, e dell'esser perfezione. Certo che nulla è perfetto in un modo che non è, in un modo in cui le cose non sono; e la natura delle cose che sono, non può corrispondere a quello ch'è fuor di loro, e non è riposto in nessun luogo. Noi sognando andiamo a cercare la perfezione di ciò che vediamo, fuori dell'esistenza, mentr'ella esiste qui con noi, e coesiste a ciascun genere di cose che conosciamo, {+e non sarebbe perfezione in verun altro caso possibile.} Non è maraviglia dunque se tutto ci pare imperfetto, quando per perfetto intendiamo l'esistere in un modo in cui le cose non son fatte, laddove la perfezione non consiste e non ha altra ragione di esser tale, che nel modo in cui le cose son fatte, ciascuna nel suo genere.

[1923,1]  Notate. L'uomo in assoluto stato di natura, il bambino, non differisce dagli animali (massime da quelli che nella catena del genere animale sono più vicini alla specie umana), se non per un menomo grado ch'egli ha di maggior disposizione ad assuefarsi. La differenza è dunque veramente menoma, e perfettamente gradata, fra l'uomo {in natura,} e l'animale il più intelligente, come fra questo e l'altro un po' meno intelligente ec. Ma di menoma, diventa somma, coll'esser coltivata, cioè col porre in atto e in esercizio quella alquanto maggiore disposizione che l'uomo ha ad assuefarsi. Un'assuefazioncella ch'egli può acquistare, e l'animale no, perchè alquanto meno disposto, ne facilita un'altra. Due assuefazioni (se così posso esprimermi) già acquistate, mediante  1924 quel piccolissimo mezzo di più, che la natura ha dato all'uomo, gliene facilitano altre sei o otto, ed accrescono nella stessa proporzione la facilità di acquistarle. Ecco che l'uomo viene acquistando mediante le sole assuefazioni la facoltà di assuefarsi. La quale da una piccolissima disposizione naturale, quasi dal grano di senapa, cresce sempre gradatamente, ma con proporzioni sempre crescenti, in modo che a forza di assuefazioni acquistate, e della facoltà di assuefarsi, l'uomo arriva a differenziarsi infinitamente da qualunque animale e dall'intera natura. E similmente col progresso delle generazioni arriva colla stessa proporzione crescente, a sempre più differenziarsi dal suo stato naturale, dagli uomini primitivi, dagli antichi ec. ec. L'andamento, o il così detto perfezionamento dello spirito umano rassomiglia interamente alla progressione geometrica che dal menomo termine, con proporzione crescente arriva all'infinito. Siccome  1925 appunto l'uomo da una menoma differenza o superiorità di naturale disposizione arriva ad una interminabile differenza dagli altri animali. E non è dubbio che quella che si chiama perfettibilità dell'uomo è suscettibile di aumento in infinito come la progression geometrica, e di aumento sempre proporzionalmente maggiore. (15. Ott. 1821.).

[1952,1]  Il toccar con mano che nessuno stato sociale fu nè sarà nè può esser perfetto, cioè perfettamente equilibrato ed armonico nelle sue forze costitutive, e nella sua ordinazione al ben essere dei popoli e degl'individui (tutti i savi lo confessano); e che quando anche potesse esser tale da principio, (come una monarchia, una repubblica) la stessa assoluta essenza della società porta in se i germi della corruzione, e distrugge immancabilmente e prestissimo questa perfezione, quest'armonia ec. ne' suoi principii costitutivi; non è ella una prova bastante che l'uomo non è fatto per la società, o almeno per una società stretta, e d'  1953 uomini inciviliti, e {che} questa è incompatibile con la natura umana, e contraddittoria ne' suoi principii? Una tal società da un lato abbisogna, dall'altro produce immancabilmente la civiltà; e la civiltà distrugge la perfezione e l'armonia di qualunque siffatta società. Essa non può trovarsi in natura, e frattanto, come altrove ho mostrato p. 1173 p. 1596, ella non può essere perfetta {e perfettamente ordinata al suo fine,} che in natura e fra uomini naturali. (19. Ott. 1821.).

[1957,2]  La natura è infinitamente e diversissimamente conformabile tutta quanta. Essa ha però disposto le cose in modo che quegli agenti e quelle forze animali o no, che la debbono conformare, la conformino in quella tal maniera ch'essa intendeva,  1958 e che risponde al suo sistema, al suo disegno, al suo {primo} piano, all'ordine da lei voluto. Se dunque l'uomo facendo evidentissimamente violenza alla natura, e vincendo infiniti ostacoli naturali, è giunto a conformare e se stesso, e quella parte di natura che da lui dipendeva naturalmente, e quella molto maggiore che n'è venuta a dipendere in sola virtù della di lui alterazione; è giunto dico a conformar tutto ciò in modo diversissimo da quel piano, da quell'ordine, che col savio ragionamento si sopre destinato, inteso, avuto in mira, voluto, disposto dalla natura; questa non può essere una prova nè contro la natura, nè che la natura non abbia voluto effettivamente quel tal ordine primitivo; nè che la perfezion delle cose, quanto all'uomo, non si sia perduta; nè che l'andamento della nostra specie, e di quanto ne dipende o le appartiene, sia naturale; nè che la natura non avesse effettivamente  1959 di mira, non avesse concepito, e con tutte le forze proccurato un ordine di cose quanto semplice ne' suoi principii costitutivi, ne' suoi elementi, nelle sue forze produttrici, nelle sue qualità analizzate e decomposte; tanto certo, determinato, costante, e al tempo stesso armonico, fecondo e variatissimo ne' suoi effetti, suscettibile d'infinite modificazioni, e soggetto anche a molte accidentali disarmonie, sebben forse non per altro che per maggiore armonia. (20. Ott. 1821.).

[1960,1]  Non crediamo già che le bestie non sieno capaci anch'esse di corruzione. Non tanto quanto l'uomo perchè meno conformabili; non tanto generale, perchè essendo meno conformabili sono meno sociali; non tanto estensibile agli oggetti estranei alla loro specie, perchè quella stessa natura che le fa tanto meno conformabili dell'uomo, dà loro tanto minore influenza sulle cose, influenza il cui sommo grado deriva nell'uomo dalla di lui somma conformabilità che nel sistema della natura, tutta conformabile, costituisce la superiorità dell'uomo fra tutti gli esseri. Ma pur sono capacissime di corruzione individuale, ed estensibile anche fino a un certo segno alle loro particolari società. Sono capacissime di misfatti, e quella bestia, che per pigrizia o altro uccide il proprio figlio, pecca contro natura e contro coscienza. Noi conosciamo poco la natura degli animali, e crediamo che tutti  1961 e in tutto ciò che fanno ec. ec. sieno precisamente conformi alle leggi e all'ordine della loro natura. Ma così pur giudicheranno essi dell'uomo, e quella specie di quell'altra ec. (20. Ott. 1821.).

[2114,1]  Gli antichi pensatori Cristiani, S. Paolo,  2115 i padri, e prima anche del Cristianesimo, i filosofi gentili, s'erano ben accorti di una contraddizione fra le qualità dell'animo umano, di una lotta e nemicizia evidente fra la ragione e la natura, di un impedimento essenziale ed ingenito nell'uomo (qual era divenuto) alla felicità, e per conseguenza di una degenerazione e corruzione dell'uomo, conosciuta e predicata anche nelle antichissime mitologie.

[2152,1]  Di molte facoltà umane che si considerano come naturali, o poco meno, o volute dalla natura ec., considerandole bene si vedrà, che la natura non ne avea posto nell'uomo neppure (per dir così) la disposizione, una disposizione cioè determinata, diretta, vicina, ma così lontana, ch'essa non è quasi altro che possibilità. Così è. Infinite sono {e comunissime} e giornaliere quelle facoltà umane, delle quali l'uomo non deve alla natura, altro che la purissima possibilità di acquistarle, e contrarle. (23. Nov. 1821.).

[2268,1]  Per mostrare come le facoltà umane e animali derivino tutte dall'assuefazione e di che cosa sia {ella} capace, e come lo spirito, e gli organi esteriori e interiori dell'uomo sieno maravigliosamente modificabili secondo le circostanze variabilissime e indipendenti affatto dall'ordine primitivo, voluto, e generale della natura, ho citato le facoltà dei ciechi, sordi, ec. p. 1569. Aggiungo. Non è egli evidente che la natura ha destinato le mani ad operare, e  2269 i piedi non ad altro che a camminare ec.? Chi dirà ch'ella abbia dato ai piedi la facoltà delle stesse cose che può far la mano? Eppure i piedi l'acquistano; e risiede in essi o altrettanta o poco minore disposizione che nelle mani, a tutte le facoltà e funzioni di questa. Io ho veduto un fanciullo nato senza braccia, far coi piedi le operazioni tutte delle mani, anche le più difficili, e che non s'imparano senza studio. Ho inteso da un testimonio di vista, di una donzella benestante che ricamava coi piedi. Che vuol dir ciò? Tanta facoltà naturale risiede nelle mani quanta nei piedi, cioè nessuna in nessuno dei due. L'assuefazione sola e le circostanze la proccurano alle une, e la possono proccurare agli altri.

[2270,1]   2270 Come dunque sarebbe assurdo il dire che la natura abbia dato al piede le facoltà della mano, e nondimeno vediamo che esso le acquista; così parimente è stolto il dire che la natura abbia dato alla mano alcuna facoltà, ma solamente la disposizione e la capacità di acquistarne; disposizione ch'ella ha pur dato al piede, bench'ella resti non solo inutile, ma sconosciuta e neppur sospettata in quasi tutti gli uomini; disposizione che non è quasi altro che possibilità; disposizione maggiore certo nella mano, che la natura aveva espressamente destinata ad acquistare le sue facoltà ec. (altro è però destinarla, altro porvi essa stessa veruna facoltà ingenita); e però l'aveva provveduta di maggior numero di articolazioni, e postala in parte più adattata ad operare ec. Discorrete allo stesso modo di tutte le facoltà umane, e di tutti gli organi intellettuali, esteriori, interiori ec. L'argomento va in regola, e dalle cose più materiali chiare e visibili, si può e si deve  2271 inferire e spiegare la natura ec. delle meno chiare e facili, e meno materiali in apparenza. (22. Dic. 1821.).

[2337,2]  Volete veder come sia naturale lo stato presente dell'uomo? Anche quello dell'agricoltore che pur conserva, tanto più che gli altri, della natura? L'uomo presente, e già da gran tempo, vuol latte vuol biade per cibarsi, vino per dissetarsi, lana per vestirsi, vuole uova ec. ec. Ecco seminagioni, vigne, pecore, capre, galline, buoi per arare ec. vacche per partorirli, e per latte ec. Ma il capro nuoce anzi distrugge la vigna; così fanno i buoi ed alla vigna e ad ogni albero da frutto se vi si lasciano appressare; le greggi, e gli armenti, e il  2338 pollame ec. sterminerebbero i seminati se non si avesse infinita cura d'impedirlo; il pollame nuoce alle stalle delle greggi, e degli armenti; i danni del porco sarebbero infiniti ai campi e al bestiame, se non vi si avesse l'occhio ec. ec. Insomma i bisogni che l'uomo si è fabbricati, anche i più semplici, rurali, ed universali, e propri anche della gente più volgare e men guasta, si contraddicono, si nocciono scambievolmente; e la cura dell'uomo non dev'esser solo di procacciare il necessario a questi bisogni con infiniti ostacoli, ma nel provvedere all'uno, guardare assai, perchè quella provvisione nuoce ad un altro bisogno ec. E pure è certo che più facilmente potremo annoverar le arene del mare di quello che trovare una sola contraddizione in qualunque di quelle cose che la natura ha veramente e manifestamente resa necessaria, o destinata all'uso sì dell'uomo, come di qualunque animale, vegetabile ec. (8. Gen. 1822.). {{V. p. 2389.}}

[2390,1]   2390 L'attenzione de' fanciulli è scarsa 1. per la moltitudine e forza delle impressioni in quell'età, conseguenza necessaria della novità ed inesperienza: le quali impressioni tirando fortemente l'attenzione loro in mille parti e continuamente, l'impediscono di esser sufficiente in nessuna: e questa è la distrazione che s'attribuisce ai fanciulli, tanto più distratti, quanto più suscettibili di sensazioni vive e profonde: 2. perchè anche la facoltà di attendere non si acquista senz'assuefazione ec: 3. perchè la natura ha provveduto in modo che fin che l'uomo è nello stato naturale, come sono i fanciulli, poco e insufficientemente attende, essendo l'attenzione la nutrice della ragione, e la prima ed ultima causa della corruzione ed infelicità umana. (16. Feb. 1822.)

[2391,1]   2391 Ma nulla fa chi troppe cose pensa. * Tasso Aminta, Atto 2. scena 3. v. ult. (20. Feb. primo di Quaresima. 1822.).

[2392,2]  Asseriscono che la natura ha data espressamente all'uomo la facoltà di perfezionarsi, e voluto che l'adoprasse, e però non ha provveduto a lui del necessario così bene come agli altri animali, anzi glien'ha mancato anche nel più essenziale. E da questa facoltà vogliono che l'uomo sia tenuto per superiore e più perfetto degli altri esseri. 1. Vi par questa una bella provvidenza? Dare all'uomo la facoltà di perfezionarsi, cioè di conseguire la felicità propria della sua natura; ma frattanto perchè questa perfezione non si poteva conseguire se non dopo lunghissimo spazio di tempo, e successione d'infinite esperienze,  2393 fare decisamente, e deliberatamente infelici un grandissimo numero di generazioni, cioè tutte quelle che dovevano essere innanzi che questa perfezione propria dell'esser loro, e non per tanto difficilissima e remotissima, si potesse conseguire, come ancora non possono affermare che si sia fatto. E per rispetto di questa medesima facoltà di perfezionarsi, di questo dono, di questo massimo privilegio dato dalla natura alla specie umana, mancare alla medesima del necessario, quando era evidente che questa facoltà non avrebbe avuto effetto, e non avrebbe potuto supplire al preteso mancamento della natura verso di noi, se non dopo lunghissimo tempo, e dopo che moltissime generazioni avrebbero dovuto, a differenza di tutti gli altri esseri, sentire e sopportare il detto mancamento, e l'infelicità che risulta dal non essere nello stato proprio della propria natura. In verità che questo, se fosse vero, mostrerebbe una gran predilezione della natura verso di noi, e gran superiorità nostra sugli altri esseri. 2. Non essendo la perfezione altro  2394 che l'essere nel modo conveniente alla propria natura, e tutti gli animali e le cose essendo così, tutte sono perfette nel loro genere, e ciò vuol dire che son perfette assolutamente, non potendo la perfezione considerarsi fuori del genere di cui si discorre. La natura dunque (giacchè gli animali e le cose non hanno acquistata questa perfezione da loro, e sono in tutto secondo natura) ha fatto gli animali e le cose tutte perfette. L'uomo solo, secondo voi, l'ha fatto perfettibile. Bella superiorità e privilegio. Dare agli altri il fine, a voi il mezzo; a tutti la perfezione, a voi non altro che il mezzo di ottenerla. E di più un mezzo o inefficace e quasi illusorio, o così poco efficace, che, lasciando gl'infiniti ostacoli, e l'immenso spazio di tempo che s'è dovuto passare prima di ridurci allo stato presente, in questo ancora non possiamo esser tanto arditi nè sciocchi da darci per perfetti (che vorrebbe dir felici, quando siamo il contrario): e oltre a questo non sappiamo quando lo potremo essere: anzi non possiamo congetturar neppure in che cosa potrà consistere la nostra  2395 perfezione se mai s'otterrà: e per ultimo, se parliamo da vero, siamo o dobbiamo essere omai più che persuasi, che la detta perfezione, qualunque ce la figuriamo, non s'otterrà mai, e non diverremo mai più felici. E pur gli animali lo sono dal principio del mondo in poi, senza essersi mossi dalla natura. Ecco la superiorità naturale su tutti gli esseri, che si scopre in noi mediante la bella e generale supposizione della nostra perfettibilità. (5. Marzo 1822.).

[2410,1]  Dalla mia teoria del piacere segue che per essenza naturale e immutabile delle cose, quanto è maggiore e più viva la forza, il sentimento, e l'azione e attività interna dell'amor proprio, tanto è necessariamente maggiore l'infelicità del vivente, o tanto più difficile il conseguimento d'una tal quale felicità. Ora la forza e il sentimento dell'amor proprio è tanto maggiore quanto è maggiore la vita, o il  2411 sentimento vitale in ciascun essere; e specialmente quanto è maggiore la vita interna, ossia l'attività dell'anima, cioè della sostanza sensitiva, e concettiva. Giacchè amor proprio e vita son quasi una cosa, non potendosi nè scompagnare il sentimento dell'esistenza propria (ch'è ciò che s'intende per vita) dall'amore dell'esistente, nè questo esser minore di quello, ma l'uno si può sempre esattamente misurare coll'altro. E tanto uno vive, quanto si ama, e tutti i sentimenti di chi vive sono compresi o riferiti o prodotti ec. dall'amor proprio: il quale è il sentimento universale che abbraccia tutta l'esistenza; e gli altri sentimenti del vivente (se pur ve n'ha che sieno veramente altri) non sono che modificazioni, o divisioni, o produzioni di questo, ch'è tutt'uno col sentimento dell'essere, o una parte essenziale del medesimo.

[2479,1]   2479 Quanto prevaglia nell'uomo la materia allo spirito, si può considerare anche dalla comparazione dei dolori. Perocchè i dolori dell'animo non sono mai paragonabili ai dolori del corpo, ragguagliati secondo la stessa proporzione di veemenza relativa. E sebben paia molte volte a chi è travagliato da grave pena dell'animo, che sarebbe più tollerabile altrettanta pena nel corpo; l'esperienza ragguagliata dell'una e dell'altra può convincere facilmente chiunque sa riflettere che tra' dolori dell'animo e quelli del corpo, supponendoli ancora, relativamente, in un medesimo grado, non v'è alcuna proporzione. E quelli possono esser superati dalla grandezza o forza dell'animo, dalla sapienza ec. (lasciando stare che il tempo consola ogni cosa), ma questi hanno forza d'abbattere e di vincere ogni maggior costanza. (15. Giugno 1822.).

[2493,1]  Nè il titolo di filosofo nè verun altro simile è tale che l'uomo se ne debba pregiare, nemmeno fra se stesso. L'unico titolo conveniente all'uomo, e del quale egli s'avrebbe a pregiare, si è quello di uomo. E questo titolo porterebbe che chi meritasse di portarlo, dovesse esser uomo vero, cioè secondo natura. In questo modo {e con questa condizione} il nome d'uomo è veramente da pregiarsene, vedendo ch'egli è la principale opera della natura terrestre, o sia del nostro pianeta, ec. (24. Giugno. dì del Battista. 1822.).

[2563,2]  L'uomo non è perfettibile ma corrottibile. Non è più perfettibile ma più corrottibile degli altri animali. È ridicolo, ma contuttociò è naturale, che la nostra corrottibilità, e degenerabilità, e depravabilità, sia  2564 stata presa, e si prenda a tutta bocca da' più grandi e sottili {e perspicaci e avveduti} ingegni e filosofi per perfettibilità. (10. Luglio 1822.).

[2567,1]  Una macchina dilicata (cioè più diligentemente e perfettamente organizzata) è più facile a guastarsi che una rozza: ma ciò non  2568 toglie che la non sia più perfetta di questa, e che andando come deve andare non vada meglio della rozza, {supponendole} anche tutt'e due in uno stesso genere, come due orologi. Così l'uomo è più dilicato assai di tutti gli altri animali, sì nella costruzione esterna, sì nelle fibre intellettuali. E perciò egli è senza dubbio il più perfetto nella scala degli animali. Ma ciò non prova ch'egli sia più perfettibile; bensì più guastabile, appunto perchè più delicato. E d'altra parte l'esser più facile a guastarsi, non toglie che non sia veramente la più perfetta delle creature terrestri, come ogni cosa lo dimostra. (18. Luglio. 1822.).

[2602,2]  Ho mostrato altrove pp. 835-36p. 837 pp. 1737-40 che quasi tutte le principali scoperte che servono alla vita civile sono state opera del caso, e tiratone le sue conseguenze. Voglio ora spiegare e confermar la cosa con un esempio. L'arte di fare il vetro, anzi l'idea di farlo, e la pura cognizione di poterlo fare (la qual arte è antichissima), è egli credibile che sia mai potuta venire  2603 all'uomo per via di ragionamento? Cavar dalle ceneri, e altre materie la cui specie esteriore è toto coelo distante dalle forme e qualità del vetro (v. l'Arte Vetraria d'Antonio Neri) un corpo traslucido, fusibile, configurabile a piacimento ec. ec. può mai essere stato a principio insegnato {da altro} che da uno o più semplicissimi e assolutissimi casi? Ora quanta parte abbia l'uso del vetro nell'uso della vita e delle comodità civili, com'esso appartenga al numero dei generi necessari, come abbia servito alle scienze, quante immense e infinite scoperte si sieno fatte in ogni genere per mezzo de' vetri ridotti a lenti ec. ec. ec., quanto debbano al vetro l'Astronomia, la Notomia, la Nautica (tanto giovata e promossa dalla scoperta dei satelliti di Giove {fatta col telescopio} ec.), tutte queste cose mi basta accennarle. Ma le accenno affinchè si veda che quando anche le successive scoperte, perfezionamenti ec. fatti, acquistati ec. intorno al vetro, o per mezzo del vetro ec. non sieno stati casuali ma pensati (sebbene l'invenzione dell'occhiale e del Cannocchiale si dice che fosse a caso): contuttociò si debbono  2604 tutti, esattamente parlando, riconoscere per casuali, essendo casuale la loro origine, cioè l'invenzione del vetro, senza la quale niente del sopraddetto avrebbe avuto luogo. E però tutta quella parte (non piccola) del sapere, dei comodi, della civiltà umana che ha dipendenza e principio ec. dall'invenzione del vetro, e che senza questa non si sarebbe conseguita, è realmente casuale, e per puro caso acquistata.

[2606,1]  Quello che ho detto del vetro, si dee dire di mille e mille altre importantissime invenzioni, che senza una benchè menoma notizia e traccia ec. che però il solo caso ha potuto somministrare, non si sarebbero mai potute fare, e però son tutte casuali, per applicate, accresciute, perfezionate che sieno state in seguito, e quando anche non si possano più riconoscere da quel che furono  2607 a principio, non si possa neanche investigare la loro prima origine e forma e natura, ec. ec. (10. Agosto. 1822.).

[2644,1]  L'uomo odia l'altro uomo per natura, e necessariamente, e quindi per natura esso, sì come gli altri animali è disposto contro il sistema sociale. E siccome la natura non si può mai vincere, perciò veggiamo che niuna repubblica, niuno istituto e forma di governo, niuna legislazione, {niun ordine,} niun mezzo morale, politico, filosofico, d'opinione, di forza, di circostanza qualunque, di clima ec. è mai bastato nè basta nè mai basterà a fare che la società cammini come si vorrebbe, e che le relazioni scambievoli degli uomini fra loro, vadano secondo le regole di quelli che si chiamano diritti sociali, e doveri dell'uomo verso l'uomo. (2. Nov. dì de' Morti. 1822).

[2645,1]   2645 Se l'uomo esce fuori della naturale puritade, allora pecca. Servando dunque la nostra condizione e virtù, bastiti o uomo, lo naturale ornamento, e non mutare l'opera del tuo Creatore, perocchè volerla mutare è un guastare. * Vite de' Santi Padri, parte 1. capitolo 9. fine, p. 25. e son degne d'esser vedute anche le cose precedenti a queste parole. Le quali sono in bocca di Sant'Antonio, e nella sua Vita, il cui testo originale greco è di S. Atanasio. (Recanati-Roma. Novembre. 1822.)

[2895,2]  Quanto sia facile l'imparare a parlare, quanto poco tempo debba esser corso innanzi che il genere umano  2896 arrivasse primieramente ad accorgersi di avere organi capaci di formare e articolare vari suoni, poi ad imparar di formare e articolar tali suoni, e finalmente a crear col loro diverso accozzamento una serie di voci di convenuta significazione, che fosse bastante a potersi scambievolmente communicare i proprii sensi, e più ancora innanzi che il genere umano arrivasse a portar questa serie al punto di poter essere chiamata lingua e di servire a tutti i bisogni dell'espressione; si consideri nel muto. Il quale, convivendo {pur} tutto giorno con uomini i quali parlano, ed usano una lingua già perfetta, non arriva mai in tutta quanta la sua vita nemmeno alla prima delle sopraddette cose, cioè ad accorgersi di avere organi capaci di suoni articolati: giacchè seppure egli manda fuori alcun suono di voce, questo è meno articolato e meno vario che non sono le voci delle bestie. Ora io torno in campo colla mia solita domanda. È egli possibile che se la natura aveva espressamente destinato l'uomo a parlare, se, come dice Dante, opera naturale è ch'uom favella * , essa natura lasciasse tanto da fare all'uomo per  2897 arrivare ad eseguire quest'opera naturale, e debita alla sua essenza, e propria di essa, quest'opera senza la quale egli non avrebbe mai corrisposto alla sua natura particolare, nè all'intenzione della natura in generale, e condannasse espressamente tanta moltitudine e tante generazioni d'uomini, quante dovettero passare prima che fosse trovata una lingua, altre a non sapere nè potere in alcun modo fare, altre a non poter fare se non se imperfettissimamente, quello che l'uomo doveva pur sapere e potere compiutamente fare per sua propria natura? E poichè l'uomo senza la lingua non sarebbe uscito mai del suo stato primitivo purissimo, e la lingua è il principale e più necessario istrumento col quale egli ha operato ed opera quello che si chiama suo perfezionamento; e se d'altronde tanto è per ciascuna cosa il ben essere, quanto l'esser perfetta, nè si dà per veruna specie di enti felicità veruna senza la perfezione conveniente ad essa specie; è egli possibile che se questa che si chiama perfezione dell'uomo, fosse veramente tale, e destinatagli dalla natura, essa natura nel formar l'  2898 uomo l'avesse posto così mirabilmente lontano dalla perfezione da lei voluta e destinatagli, ed a lui necessaria, che egli non avesse ancora nè potesse avere nemmeno una prima idea dell'istrumento, col quale dopo lunghissimi travagli, e lunghissimo corso di generazioni e di secoli, la sua specie sarebbe finalmente arrivata a conseguire alcuna parte di questa perfezione?

[3078,1]  La più bella e fortunata età dell'uomo, la sola che potrebb'esser felice oggidì, ch'è la fanciullezza, è tormentata in mille modi, con mille angustie, timori, fatiche dall'educazione e dall'istruzione, tanto che l'uomo adulto, anche in mezzo all'infelicità che porta la cognizion del vero, il disinganno, la noia della vita, l'assopimento della immaginazione, non accetterebbe di tornar fanciullo colla condizione di soffrir quello stesso che nella fanciullezza ha sofferto. E perchè così tormentata  3079 e fatta infelice quella povera età, nella quale l'infelicità parrebbe quasi impossibile a concepirsi? Perchè l'individuo divenga colto e civile, cioè acquisti la perfezione dell'uomo. Bella perfezione, e certo voluta dalla natura umana, quella che suppone necessariamente la {somma} infelicità di quel tempo che la natura ha manifestamente ordinato ad essere la più felice parte della nostra vita. Torno a domandare. Perchè fatta così infelice la fanciullezza? E rispondo più giusto. Perchè l'uomo acquisti a spese di tale infelicità quello che lo farà infelice per tutta la vita, cioè la cognizione di se stesso e delle cose, le opinioni, i costumi le abitudini contrarie alle naturali, e quindi esclusive della possibilità di esser felice; perchè colla infelicità della fanciullezza si compri e cagioni quella di tutte le altre età; o vogliamo dire perch'ei perda colla felicità della fanciullezza, quella che la natura avea destinato {e preparato} siccome a questa, così a ciascun'altra età dell'uomo, {+e ch'altrimenti egli avrebbe ottenuta in effetto.} (1. Agosto. 1823.).

[3082,1]  È cosa dimostrata e dalla ragione e dall'esperienza, dalle storie tutte, e dalla cognizione dell'uomo, che qualunque società, e più le civili, e massime le più civili, tendono continuamente a cadere nella monarchia, e presto o tardi, qualunque sia la loro politica costituzione, vi cadono inevitabilmente, e quando anche ne risorgono, poco dura il risorgimento e poco giova, e che insomma nella società non havvi nè vi può avere stato politico durabile se non il monarchico assoluto. È altrettanto dimostrato, e colle medesime prove, che la monarchia assoluta, qual ch'ella sia ne' suoi principii, qual ch'ella per effimere circostanze possa di quando in quando tornare ad essere per pochi momenti, tende sempre e cade quasi subito e irreparabilmente nel despotismo; perchè stante  3083 la natura dell'uomo, anzi d'ogni vivente, è quasi fisicamente impossibile che chi ha potere assoluto sopra i suoi simili, non ne abusi; vale a dire è impossibile che non se ne serva più per se che per gli altri, {anzi} non trascuri affatto gli altri per curarsi solamente di se, il che è nè più nè meno la sostanza e la natura del despotismo, e il contrario appunto di quello che dovrebb'essere e mai non fu nè sarà nè può essere la vera {e buona} monarchia, ente di ragione e immaginario. Ora egli è parimente certo, almeno lo fu per gli antichi, e lo è per tutti i savi moderni, che il peggiore stato politico possibile {e il più contrario alla natura} è quello del despotismo. Altrettanto certo si è che lo stato politico influisce per modo su quello della società, e n'è tanta parte, ch'egli è assolutamente impossibile ch'essendo cattivo quello, questo sia buono, e che quello essendo imperfetto, questo sia perfetto, e che dove quello è pessimo, non sia pessimo questo altresì. Or dunque lo stato  3084 politico di despotismo essendo inseparabile dallo stato di società, e più forte e maggiore e più durevole nelle società civili, e tanto più quanto son più civili, ricapitolando il sopraddetto, mi dica chi sa ragionare, se lo stato di società nel genere umano può esser conforme alla natura, e se la civiltà è perfezionamento, e se nella somma civiltà sociale e individuale si può riporre e far consistere la vera perfezione della società e dell'uomo, e quindi la maggior possibile felicità d'ambedue, come anche lo stato a cui l'uomo tende naturalmente, cioè quello a cui la natura l'aveva ordinato, e la felicità e perfezione ch'essa gli avea destinate. (2. Luglio[Agosto.] dì del Perdono. 1823.).

[3179,1]  È cosa indubitata che la civiltà ha introdotto nel genere umano mille spezie di morbi che prima di lei non si conoscevano, nè senza lei sarebbero state; e niuna, che si sappia, n'ha sbandito, o seppur qualcuna, così poche, e poco acerbe e poco micidiali, che sarebbe stato incomparabilmente meglio restar con queste che cambiarle con la moltitudine, fierezza e mortalità di quelle. (Vediamo infatti quanto poche e blande sieno le malattie spontanee degli altri animali, massime salvatichi, cioè non corrotti da noi; e similmente de' selvaggi, e massime de' più  3180 naturali, come i Californii; e che anche quelle degli agricoltori sono molte più poche e rare e men feroci che quelle de' cittadini). È parimente indubitato che la civiltà rende l'uomo inetto a mille fatiche e sofferenze che egli avrebbe e potuto e dovuto tollerare in natura, e suscettibilissimo d'esser danneggiato da quelle fatiche e patimenti che, o per natura generale o per circostanze particolari, egli è obbligato a sostenere, e che nello stato naturale avrebbe sostenuto senza verun detrimento, e, almeno in parte, senza incomodo. È indubitato che la civiltà debilita il corpo umano, a cui per natura (siccome a ogni altra cosa proporzionatamente) si conviene la forza, e {il} {quale} privo di forza, o con minor forza della sua natura, non può essere che imperfettissimo; {+e ch'ella rende propria dell'uomo {civile} la delicatezza rispettiva di corpo, qualità che in natura non è propria nè dell'uomo nè di veruno altro genere di cose, nè dev'esserlo (vedi la pag. 3084. segg. ).} È indubitato che le generazioni umane peggiorano in quanto al corpo di mano in mano, ogni generazione più, sì per se stessa, sì perch'ella così peggiorata non può non produrre una generazione peggior di se ec. ec. Da tutte queste e da cento altre cose, da me altrove in diversi luoghi considerate pp. 68-69 pp. 830-38 pp. 1597-602 pp. 1631-32, si fa più che certissimo e si tocca con mano, che i progressi della civiltà portano seco e producono inevitabilmente il successivo deterioramento  3181 del suo fisico, deterioramente[deterioramento] sempre crescente in proporzione d'essa civiltà. Nei progressi della civiltà, e non in altro, consiste quello che i nostri filosofi, e generalmente tutti, chiamano oggidì (e molti anche in antico) il perfezionamento dell'uomo e dello spirito umano. È dunque dimostrato e fuori di controversia che il perfezionamento dell'uomo include, non accidentalmente ma di necessità inevitabile, il corrispondente e sempre proporzionato deterioramento e, per così dire, imperfezionamento di una piccola parte di esso uomo, cioè del suo corpo: di modo che quanto l'uomo s'avanza verso la perfezione, tanto il suo fisico cresce nella imperfezione; e quando l'uomo sarà pienamente perfetto, il corpo umano, {generalmente parlando,} si troverà nel peggiore stato ch'e' mai siasi trovato, e {in} che gli sia possibile di trovarsi generalmente. Se con ciò si possa giustamente chiamare perfezionamento, quello che oggi s'intende sotto questo nome, cioè se l'incremento della civiltà sia perfezionamento dell'uomo, e la perfezione della civiltà perfezione dell'uomo; se una tal perfezione ci possa essere stata destinata dalla natura;  3182 se la nostra natura la richiegga ed a lei tenda; se veruna natura richiegga o possa richiedere una perfezione di questa sorta; se perciò che l'uomo è civilizzabile, e in quanto egli è civilizzabile, ei sia, come dicono, e come stabiliscono {e dichiarano} per fuori d'ogni controversia, perfettibile; si lascia giudicare a chiunque non è ancor tanto perfezionato, tanto vicino all'ultima perfezione dell'uomo, ch'egli abbia perduto affatto l'uso del raziocinio, {e non serbi neppur tanta parte del discorso naturale quanta è} propria ancora degli altri viventi. (17. Agosto. Domenica. 1823.).

[3374,1]  Dico in più luoghi pp. 1661-63 pp. 1680-82 pp.1923-25 che la natura non ingenera nell'uomo quasi altro che disposizioni. Or tra queste bisogna distinguere. Altre sono disposizioni a poter essere, altre ad essere. Per quelle l'uomo può divenir tale o tale; può, dico, e non più. Per queste l'uomo, naturalmente vivendo, e tenendosi lontano dall'arte, indubitatamente diviene quale la natura ha voluto ch'ei sia, bench'ella non l'abbia fatto, ma disposto solamente a divenir tale. In queste si deve considerare l'intenzione della natura: in quelle no. E se per quelle l'uomo può divenir tale o tale, ciò non importa che tale o tale divenendo, egli divenga quale la natura ha voluto ch'ei fosse: perocchè la natura per quelle disposizioni non ha fatto altro che lasciare all'uomo la possibilità di divenir tale o tale; nè quelle sono  3375 altro che possibilità. Ho distinto due generi di disposizioni per parlar più chiaro. Ora parlerò più esatto. Le disposizioni naturali a poter essere e quelle ad essere, non sono diverse individualmente l'une dall'altre, ma sono individualmente le medesime. Una stessa disposizione è ad essere e a poter essere. In quanto ella è ad essere, l'uomo, seguendo le inclinazioni naturali, e non influito da circostanze non naturali, non acquista che le qualità destinategli dalla natura, e diviene quale ei dev'essere, cioè quale la natura ebbe intenzione ch'ei divenisse, quando pose in lui quella disposizione. In quanto ella è disposizione a poter essere, l'uomo influito da varie circostanze non naturali, sião[siano] intrinseche siano estrinseche, acquista molte qualità non destinategli dalla natura, molte qualità contrarie eziandio all'intenzione della natura, e diviene qual ei non dev'essere, cioè quale la natura non intese ch'ei divenisse, nell'ingenerargli quella disposizione. Egli {però non} divien tale {per} natura, benchè questa disposizione sia naturale: perocchè essa {disposizione} non era ordinata a questo  3376 ch'ei divenisse tale, ma era ordinata ad altre qualità, molte delle quali affatto contrarie a quelle che egli ha per detta disposizione acquistato. Bensì s'egli non avesse avuto naturalmente questa disposizione, egli non sarebbe potuto divenir tale. Questa è tutta la parte che ha la natura in ciò che tale ei sia divenuto. Siccome, se la disposizion fisica del nostro corpo non fosse qual ella è per natura, l'uomo non potrebbe, per esempio, provare il dolore, divenir malato. Ma non perciò la natura ha così disposto il nostro corpo acciocchè noi sentissimo il dolore e infermassimo; nè quella disposizione è ordinata a questo, ma a tutt'altri e contrarii risultati. E l'uomo non inferma per natura; bensì può per natura infermare; ma infermando, ciò gli accade contra natura, o fuori e indipendentemente dalla natura, la quale non intese disporlo a infermare.

[3643,1]  Fuoco - Il suo uso è indispensabile necessità ad una vita comoda e civile, {+1. anzi pure ai primissimi comodi.} - Or tanto è lungi che la natura l'abbia insegnato all'uomo, che fuor di un puro caso, e senza lunghissime e diversissime esperienze, ei non può averlo scoperto nè concepito - E non possono neppure i filosofi indovinare come abbia fatto l'uomo non pure ad accendere, ma a vedere e scoprire il primo fuoco. Chi ricorre a un incendio cagionato dal fulmine, chi al frottement reciproco de' rami degli alberi cagionato da' venti nelle  3644 foreste, {chi a' volcani,} e chi ad altre tali ipotesi l'una peggio dell'altra - E conosciuto il fuoco, come avrà l'uomo trovato il modo di accenderlo sempre che gli piaceva? Senza di che e' non gli era di veruno uso. E di estinguerlo a suo piacere? Quanto avrà egli dovuto tardare a {sapere e a} trovar tutte queste cose - Gli antichi favoleggiavano che il fuoco fosse stato rapito al cielo e portato di lassù in terra. Segno che l'antica tradizione dava l'invenzione del fuoco e del suo uso e del modo di averlo, accenderlo, estinguerlo a piacere, per un'invenzione non delle volgari, ma delle più maravigliose; e che questa invenzione non fu fatta subito, ma dopo istituita la società, e non tanto ignorante, altrimenti ella non avrebbe potuto dar luogo a una favola, e a una favola la quale narra che il ratto del fuoco fu opera di chi volle beneficare la società umana ec - Non solo la natura non ha insegnato l'uso del fuoco, nè somministrato {pure} il fuoco {agli uomini} se non a caso, ma ello[ella] lo ha fatto eziandio formidabile, e pericolosissimo il suo uso. E lasciando i danni morali, quanti infiniti ed immensi danni fisici non ha fatto l'uso del fuoco sì all'altre  3645 parti della natura sì allo stesso genere umano. Niuno de' quali avrebbe avuto luogo se l'uomo non l'avesse adoperato, e contratto il costume di adoperarlo. Il fuoco è una di quelle materie, di quegli agenti terribili, come l'elettricità, che la natura sembra avere studiosamente seppellito e appartato, e rimosso dalla vista e da' sensi e dalla vita degli animali, e dalla superficie del globo, dove essa vita e la vegetazione e la vita totale della natura ha principalmente luogo, per non manifestarlo o lasciarlo manifestare che nelle convulsioni degli elementi e ne' fenomeni accidentali {{e particolari,}} com'è quello de' vulcani, che sono fuor dell'ordine {generale} e della regola ordinaria della natura. Tanto è lungi ch'ella abbia avuto intenzione di farne una materia d'uso ordinario e regolare nella vita degli animali o di qualsivoglia specie di animali, e nella superficie del globo, e di sottometterlo all'arbitrio dell'uomo, come le frutta o l'erbe ec., e di destinarlo come necessario alla felicità e quindi alla natural perfezione della principale specie di esseri terrestri -  3646 Orazio (1. od. 3.) considera l'invenzione e l'uso del fuoco come cosa tanto ardita, e come un ardire tanto contro natura, quanto lo è la navigazione, e l'invenzion d'essa; e come origine, principio e cagione di altrettanti mali e morbi ec. di quanti la navigazione; e come altrettanto colpevole della corruzione e snaturamento e indebolimento ec. della specie umana - Ma il fuoco è necessario all'uomo anche non sociale, ed alla vita umana semplicemente. Come si vivrebbe in Lapponia o sotto il polo, anzi pure in Russia ec. senza il fuoco? Primieramente, rispondo io, come dunque la natura l'ha così nascosto ec. come sopra? Come poteva ella negare agli esseri ch'ella produceva il precisamente necessario alla vita, all'esistenza loro? o render loro difficilissimo il procacciarselo? e pericolosissimo l'adoperare il necessario? pericolosissimo, dico, non meno a se stessi che altrui? Ed essendo quasi certo, secondo il già detto, che gli uomini non hanno potuto non tardare un pezzo (più o men lungo) a scoprire il fuoco, e più ad avvedersi che lor potesse  3647 servire ed a che, e più a trovare il come usarlo, il come averlo al bisogno ec. e a vincere il timore che e' dovette ispirar loro, sì naturalmente, sì per li danni che ne avranno ben tosto provati {e certo} prima di conoscerne {anzi pur d'immaginarne l'uso e la proprietà,} sì ancora forse per le cagioni che lo avranno prodotto (come se fulmini o volcani o tali fenomeni ec.), sì per gli effetti che n'avranno veduto fuor di se, come incendi e {{struggimenti}} d'arbori, di selve ec. morti e consunzioni e incenerimento d'animali, {o d'altri uomini} ec. ec.; stante dico tutto questo, come avranno potuto vivere tanti uomini, o sempre, o fino a un certo tempo, senza il necessario alla vita loro? Secondariamente, chiunque non consideri il genere umano per più che per una specie di animali, superiore bensì all'altre, ma una finalmente di esse; chiunque si contenti e si degni di tener l'uomo non per il solo essere, ma per un degli esseri, di questa terra, diverso dagli altri di specie, ma non di genere nè totalmente, nè formante un ordine e una natura a parte, ma compreso nell'ordine e nella natura di tutti gli altri esseri sì della terra sì di questo mondo,  3648 e partecipante delle qualità ec. degli altri, come gli altri delle sue, e in parte conforme in parte diverso dagli altri esseri, e fornito di qualità parte comuni parte proprie, come sono tutti gli altri esseri di questo mondo, ed insomma avente piena e vera proporzione cogli altri esseri, e non posto fuor d'ogni proporzione e gradazione e rispetto e attinenza e convenienza e affinità ec. verso gli altri; chiunque non crederà che tutto il mondo {o} tutta la terra e ciascuna parte di loro sian fatte unicamente ed espressamente per l'uomo, e che sia inutile e indegna della natura qualunque cosa, qualunque creatura, qualunque parte o della terra o del mondo non servisse o non potesse nè dovesse servire all'uomo, nè avesse per fine il suo servigio; chiunque così la pensi, risponderà facilmente alla soprascritta obbiezione. S'egli v'ha, come certo v'avrà, una specie di pianta, che rispetto al genere de' vegetabili ed alla propria natura loro {generale,} sia di tutti i vegetabili il più perfetto, e sia la sommità del genere vegetale, come lo è l'uomo dell'animale, non per questo  3649 seguirà nè sarà necessario ch'essa pianta nè si trovi nè prosperi, nè debba nè pur possa prosperare nè anche allignare nè nascere in tutti i paesi e climi della terra, nè in qualsivoglia regione de' climi ov'ella più prospera e moltiplica, nè in qualsivoglia terreno e parte delle regioni a lei più proprie e naturali. Così discorrasi nel genere o regno minerale, e negli altri qualunque. Che all'uomo in società giovi la moltiplicazione e diffusione della sua specie, o per meglio dire che alla società giovi la moltiplicazione e propagazione della specie umana, e tanto più quanto è maggiore, questo è altro discorso, {#1. questo suppone lo stato di società ch'io combatto.} e certo s'inganna assai chi lo nega. Ma che la natura {medesima} abbia destinato la specie umana a tutti i climi e paesi, e tutti i climi e paesi alla specie umana, questo è ciò che nè si può provare, e secondo l'analogia, che sarà sempre un fortissimo, e forse il più forte argomento di cognizione concesso all'uomo, si dimostra per falsissimo. Niuna pianta, niun vegetale, niun minerale, niuno animale conosciuto si trova in tutti i paesi e climi  3650 nè in tutti potrebbe vivere e nascere, non che prosperare ec. Altre specie di vegetabili e di animali {ec.} si trovano e stanno bene in più paesi e più diversi, altre in meno, niuna in tutti, e niuna in tanti e così vari di qualità e di clima, in quanti e quanto vari è diffusa la specie umana. Tra la propagazione e diffusione di questa specie e quella dell'altre non v'ha proporzione alcuna. E notisi che la propagazione di molte specie di animali, di piante ec. devesi {in gran parte} non alla natura, ma all'uomo stesso, onde non avrebbe forza di provar nulla nel nostro discorso. Molte specie che per natura non erano destinate se non se a un solo paese, o a una sola qualità di paesi, o a paesi poco differenti, sono state dagli uomini trasportate e stabilite in più paesi, in paesi differentissimi ec. Ciò è contro natura, come lo è lo stabilimento della specie umana medesima in quei luoghi che a lei non convengono. Le piante, gli animali ec. trasportate e stabilite dall'uomo in paesi a loro non convenienti, o non ci durano, o non prosperano, o ci degenerano, ci si trovano male ec. Gl'inconvenienti  3651 a cui le tali specie sono soggette ne' tali casi in siffatti luoghi, sono forse da attribuirsi alla natura? e se esse in detti luoghi, pur, benchè male, sussistono, si dee forse dire che la natura ve le abbia destinate? e il genere di vita ch'esse sono obbligate a tenere in siffatti luoghi, o che loro è fatto tenere, e i mezzi che impiegano a sussistere, o che s'impiegano a farle sussistere, si debbono forse considerare come naturali, come lor propri per loro natura? e argomentare da essi delle intenzioni della natura intorno a dette specie?

[3773,1]   3773 Vogliono che l'uomo per natura sia più sociale di tutti gli altri viventi. Io dico che lo è men di tutti, perchè avendo più vitalità, ha più amor proprio, e quindi necessariamente ciascun individuo umano ha più odio verso gli altri individui sì della sua specie sì dell'altre, secondo i principii da me in più luoghi sviluppati p. 55 pp. 872. sgg. pp. 1078-79 pp. 1083-84 pp. 2204-206 p. 2644 pp. 2736. sgg. p. 3291. Or qual altra qualità è più antisociale, più esclusiva per sua natura dello spirito di società, che l'amore estremo verso se stesso, l'appetito estremo di tirar tutto a se, e l'odio estremo verso gli altri tutti? Questi estremi si trovano tutti nell'uomo. Queste qualità sono naturalmente nell'uomo in assai maggior grado che in alcun'altra specie di viventi. Egli occupa nella natura terrestre il sommo grado per queste parti, siccome generalmente egli tiene la sommità fra gli esseri terrestri.

[3957,1]  In tutta l'America, abitata certo e frequentata da tempi remotissimi, poichè non s'ha notizia nè memoria alcuna del quando incominciasse, non si è trovato {alcuna sorta di} alfabeto nè orma alcuna di alfabeto, nè cosa che alla natura di esso si avvicinasse. {V. il Saggio di Algarotti sugl'Incas.} Non ostante la molta e maravigliosa coltura, le arti, manifatture, fabbriche ammirabili, {+politica squisita e legislazione,} ed altre grandi e numerose parti di civiltà che si trovarono nel paese soggetto al regno degl'Incas, cominciato da tre secoli prima della scoperta e conquista d'esso paese (cioè nel sec. 13.); e più ancora nel Messico, la cui civilizzazione credo che sia ancora più antica. Dico  3958 dell'ultima e più nota civiltà, poichè s'hanno molti indizi, e di tradizioni {patrie,} e d'avanzi d'edifizi e monumenti di gusto e maniera diversa da quelli dell'ultima epoca di civiltà, e d'altre cose, che dimostrano esservi state altre epoche in cui questa o quella parte dell'America (in particolare il Perù) fu, non si sa fino a qual segno, civile o dirozzata. Massime che l'America fu soggetta a rivoluzioni frequentissime e totali ne' paesi ov'elle accadevano, trasmigrazioni e totali estinzioni d'interi popoli e città, e devastazioni e assolamenti d'intere provincie, per la ferocia e frequenza e quasi continuità delle guerre, come ho detto altrove in più luoghi (v. la pag. 3932. fra l'altre con quelle ivi citate [p. 3795,2], e il pensiero [p. 3773,1 segg.] a cui quest'ultime appartengono). La scrittura del regno degl'incas si faceva con certi nodi (Algarotti Saggio sugl'Incas. opp. Cremona t. 4. p. 170-1); quella del Messico consisteva in pitture. Queste osservazioni si applichino al detto altrove pp. 830-38 pp. 1270-71 pp. 2602-606 pp. 2619-22 pp. 3661. sgg. pp. 3959-60 1. sopra l'unicità dell'invenzione dell'alfabeto, 2. sopra la difficoltà di questa invenzione tanto necessaria alla civiltà, e quindi tanto principal cagione dello snaturamento dell'uomo ec., 3. sopra le differenze essenziali tra lo stato de' popoli anche civili, che non abbiano avuto relazioni tra loro, 4. sopra l'unicità di tutte o quasi tutte le invenzioni più difficili, e più contribuenti alla civiltà, dimostrata dall'esser esse, benchè necessarissime, state sempre ignote ai popoli, anche fino a un certo segno civili, che non hanno avuto che fare cogli europei ec. dopo esse invenzioni, o viceversa agli europei ec. benchè civilissimi, quelle degli altri popoli, ancorchè molto addietro in coltura, e ciò per lunghissimi secoli, fino al cominciamento delle relazioni scambievoli degli europei ec. e di tali popoli. (8. Dec. Festa della Concezione. 1823.).

[3973,1]  Non è dubbio che la civiltà, i progressi dello spirito umano ec. hanno accresciuto mirabilmente e in numero e in grandezza e in estensione le facoltà umane, e generalmente le forze dell'uomo, il quale essendo ora, al contrario che da principio, più spirito che corpo, come dico altrove pp. 3909. sgg. pp. 3932. sgg. , può veramente, anche nelle cose materiali, infinitamente più che da principio. Ma bisogna vedere se queste nuove facoltà, questo accrescimento di forze ec. corrisponde ed era destinato dalla natura  3974 sì generale sì della specie umana in particolare, e giova o nuoce alla felicità d'essa specie, chè nocendo, è certo che non corrisponde alla natura ec. Di quante incredibili abilità vediamo noi col fatto che moltissimi animali (fino ai pulci addestrati da non so chi a tirare un cocchietto d'oro) sono capaci, e lo videro gli antichi che ne raccontano maraviglie, corrispondenti alle moderne, benchè alcune maggiori, per la maggiore industria degli antichi, in questa come in tante altre cose, manifatture, lavori d'arte ec. Chi non le avesse udite da testimonii irrecusabili, o vedute cogli occhi propri o ascoltate co' propri orecchi, neppur le avrebbe immaginate, nè figuratasene la possibilità, la capacità, l'attitudine fisica in quella specie di animali, come p. e. elefanti, cani, orsi, gatti, topi (cosa vera) ec. ec., anche ferocissime, e apparentemente le più incapaci di disciplina e di mutar costumi ec. e di mansuefarsi e obbedire agli uomini ec. Or chi dirà che tali abilità le quali accrescono le facoltà di quelli animali ec. fossero per ciò destinate dalla natura o generale, o loro particolare ec. giovino alla loro felicità ec. e che le loro rispettive specie sarebbero più perfette o meno imperfette, se tali abilità fossero in esse più comuni, o universali ec.? E senz'andar troppo lontano, quante {proprietà} abilità {ec.} lontanissime dalla sua primitiva condizione, non acquistano tuttodì sotto i nostri occhi, e tuttodì esercitano, i cavalli da tiro, da maneggio ec. proprietà ed abilità che non ci fanno più meraviglia alcuna, a causa dell'abitudine e frequenza, e che l'arte d'insegnar loro siffatte cose è comunissima {+e presentemente e da lungo tempo, facile}; ma nè questa nè quelle sono perciò men degne di maraviglia.  3975 Or con tutto questo, e con tutto che il numero degl'individui così ammaestrati sia tanto, e così continuo e successivo ec. chi dirà che ec. come sopra? se non chi stima che tutto il mondo, e in questo la specie de' cavalli, sia fatta di natura sua per servizio dell'uomo, e tenda a questo come a suo fine, e non abbia la sua perfezione fuor di questo, onde sia destinata e disposta naturalmente all'acquisto di quelle facoltà e qualità che si richiedono o convengono e giovano a tal servizio, di modo che un cavallo non sia perfettamente cavallo {+se e fino ch'}ei non sa portare un uomo sul suo dosso, e obbedire a' suoi segni e prevenirli e indovinarli ec. ec. e far tutto questo perfettamente. (11. Dec. 1823.).

[4041,7]  Gli uomini sarebbono felici se non avessero cercato e non cercassero di esserlo. Così molte nazioni o paesi sarebbero ricchi e felici (di felicità nazionale) se il governo, anche con ottima e sincera intenzione, non cercasse  4042 di farli tali, usando a questo effetto dei mezzi (qualunque) in cose dove l'unico mezzo che convenga si è non usarne alcuno, lasciar far la natura, come p. e. nel commercio ch'è più prospero quanto è più libero, e men se ne impaccia il governo. Similmente dicasi de' filosofi ec. Del resto la vita umana è come il commercio; tanto più prospera quanto men gli uomini, i filosofi ec. se ne impacciano, men proccurano la sua felicità, lasciano più far la natura. (7. Marzo. prima Domenica di Quaresima. 1824.).

[4135,5]  La società contiene ora più che mai facesse, semi di distruzione e qualità incompatibili colla sua conservazione ed esistenza, e di ciò è debitrice principalmente alla cognizione del vero e alla filosofia. Questa veramente non ha fatto quasi altro, massime nella moltitudine, che insegnare e stabilire verità negative e {non} positive, cioè distruggere pregiudizi, insomma torre e non dare. Con che ella ha purificato gli animi, e ridottigli quanto alle cognizioni in uno stato simile al naturale, nel quale niuno o ben pochi esistevano dei pregiudizi che ella ha distrutto. Come dunque può ella aver nociuto alla società? La verità, vale a dire l'assenza di questo o di quell'errore, come può nuocere? Sia nociva la cognizione di qualche verità che la natura ha nascosto, ma come sarà nocivo l'esser purificato da un errore che gli uomini per natura non avevano, e che il bambino non ha? Rispondo: l'uomo in natura non ha nemmeno società stretta. Quegli errori che non sono necessari all'uomo nello stato naturale, possono ben essergli necessari nello stato sociale; egli non gli aveva per natura; ciò non prova nulla; mille altre cose egli non aveva in natura, che gli sono necessarie per conservar lo stato sociale. Ritornare gli uomini alla condizione naturale  4136 in alcune cose, lasciandolo nel tempo stesso nella società, può non esser buono, può esser dannosissimo, perchè quella parte della condizione naturale può essere ripugnante allo stato di stretta società, il quale altresì non è in natura. Non sono naturali molte medicine, ma come non sono in natura quei morbi a cui elle rimediano, può ben essere ch'elle sieno convenienti all'uomo, posti quei morbi. La distruzione delle illusioni, quantunque non naturali, ha distrutto l'amor di patria, di gloria, di virtù ec. Quindi è nato, anzi rinato, uno universale egoismo. L'egoismo è naturale, proprio dell'uomo: tutti i fanciulli, tutti i veri selvaggi sono pretti egoisti. Ma l'egoismo è incompatibile colla società. Questo effettivo ritorno allo stato {naturale} per questa parte, è distruttivo dello stato sociale. Così dicasi della religione, così di mille altre cose. Conchiudo che la filosofia la quale sgombra dalla vita umana mille errori non naturali che la società aveva fatti nascere (e ciò naturalmente), la filosofia la quale riduce gl'intelletti della moltitudine alla purità naturale, e l'uomo alla maniera naturale di pensare e di agire in molte cose, può essere, ed effettivamente è, dannosa e distruttiva della società, perchè quegli errori possono essere, ed effettivamente sono, necessari alla sussistenza e conservazione della società, la quale per l'addietro gli ha sempre avuti in un modo o nell'altro, e presso tutti i popoli; e perchè quella purità e quello stato naturale, ottimi in se, possono esser pessimi all'uomo, posta la società; e questa può non poter sussistere in compagnia loro, o sussisterne in pessimo modo, come avviene in fatti al presente. (18. Aprile 1825.).

[4166,4]  {(Tanto è lungi che)} Non solo noi non possiamo sapere nè anche sufficientemente congetturare tutto quello di cui sia capace, aiutata da circostanze favorevoli, la natura umana in universale, ma eziandio di un solo individuo, o passato o presente o futuro, noi non possiamo sapere {esattamente} nè congetturare quanta estensione, in circostanze appropriate, avessero potuto {o pur potranno} acquistare le sue facoltà. (Bologna. 21. Feb. 1826.).

[4180,4]  Che guadagno fa l'uomo perfezionandosi? Incorrere ogni giorno in nuovi patimenti (i bisogni non sono per lo più altro che patimenti) che prima non aveva, e poi trovarvi il rimedio, il quale senza il perfezionamento dell'uomo non saria stato necessario nè utile, perchè quei patimenti non avrebbero avuto luogo. Proccurarsi nuovi piaceri, forse più vivi che i naturali, non però altrettanto 1. comuni, 2. durevoli, 3. facili ad acquistarsi, anzi i più, difficilissimi, perchè, se non altro, esigono una studiatissima educazione, e una lunga formazione dell'animo, e per ciò stesso non possono esser comuni a tutti, anzi ristretti a certe classi solamente, ed alcuni a certi individui. Nel tempo stesso distruggere in se la facoltà di provare, almeno durevolmente, i piaceri naturali. Lo stato naturale dell'uomo ha veramente dei piaceri, facili, comuni a tutti, durevoli, che non sono men veri perciò che noi non li possiamo più sentire, e però non concepiamo come sieno piaceri. Il solo stato di quiete e d'inazione sì frequente e lungo nel selvaggio (insopportabile al civile) è certamente un piacere, {non vivo, ma atto e sufficiente} a riempiere una grande {e forse massima} parte della vita del selvaggio. Vedesi ciò anche negli altri animali. Vedesi {+(tra i domestici, e più a portata della nostra osservazione)} nei cani, che se non sono turbati o forzati a muoversi, passano volentierissimo  4181 le ore intiere, sdraiati con gran placidezza e serenità di atti e di viso, sulle loro zampe. (Bologna. 3. Giugno. 1826.). {{Moltissimi patimenti poi, massime morali, che senza la civilizzazione non avrebbero luogo, quantunque abbiano il loro rimedio, proccurato dalla stessa civilizzazione, p. e. la filosofia pratica, è ben noto che sono senza comparazione più facili, più frequenti, più comuni essi, che l'applicazione effettiva e l'uso efficace di tali rimedi.}} (Bologna. 3. Giugno. 1826.).

[4185,2]  Pare affatto contraddittorio nel mio sistema sopra la felicità umana, il lodare io sì grandemente l'azione, l'attività, l'abbondanza della vita, e quindi preferire il costume e lo stato antico al moderno, e nel tempo stesso considerare come il più felice o il meno infelice di tutti i modi di vita, quello degli uomini i più stupidi, degli animali meno animali, ossia più poveri di vita, l'inazione e la infingardaggine dei selvaggi; insomma esaltare sopra tutti gli stati quello di somma vita, e quello di tanta morte quanta è compatibile coll'esistenza animale. Ma in vero queste due cose si accordano molto bene insieme, procedono da uno stesso principio, e ne sono conseguenze necessarie non meno l'una  4186 che l'altra. Riconosciuta la impossibilità tanto dell'esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza della vita dell'anima ad un fine impossibile a conseguirsi; riconosciuto che l'infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro nè deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d'infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gl'individui {animali} meno sensibili, {men vivi} per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento. Gli stati di animo meno sviluppato, e quindi di minor vita dell'animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli stati umani. Tale è quello del primitivo o selvaggio. Ecco perchè io preferisco lo stato selvaggio al civile. Ma incominciato ed arrivato fino a un certo segno lo sviluppo dell'animo, è impossibile il farlo tornare indietro, impossibile, tanto negl'individui che nei popoli, l'impedirne il progresso. Gl'individui e le nazioni d'europa e di una gran parte del mondo, hanno da tempo incalcolabile l'animo sviluppato. Ridurli allo stato primitivo e selvaggio e[è] impossibile. Intanto dallo  4187 sviluppo e dalla vita del loro animo, segue {una} maggior sensibilità, quindi un maggior sentimento della suddetta tendenza, quindi maggiore infelicità. Resta un solo rimedio: La distrazione. Questa consiste nella maggior somma possibile di attività, di azione, che occupi e riempia le sviluppate facoltà e la vita dell'animo. Per tal modo il sentimento della detta tendenza sarà o interrotto, o quasi oscurato, confuso, coperta e soffocata la sua voce, ecclissato. Il rimedio è ben lungi dall'equivalere allo stato primitivo, ma i suoi effetti sono il meglio che resti, lo stato che esso produce è il miglior possibile, da che l'uomo è incivilito. - Questo delle nazioni. Degl'individui similmente. P. e. il più felice italiano è quello che per natura {e per abito} è più stupido, meno sensibile, di animo più morto. Ma un italiano che o per natura o per abito abbia l'animo vivo, non può in modo alcuno acquistare o ricuperare la insensibilità. Per tanto io lo consiglio di occupare quanto può più la sua sensibilità. - Da questo discorso segue che il mio sistema, in vece di esser contrario all'attività, allo spirito di energia che ora domina una gran parte di europa, {+agli sforzi diretti a far progredire la civilizzazione in modo da render le nazioni e gli uomini {sempre} più attivi e più occupati,} gli è anzi direttamente e fondamentalmente favorevole (quanto al principio, dico, di attività {+e quanto alla civilizzazione considerata come aumentatrice di occupazione, di movimento, di vita reale, di azione, e somministratrice dei mezzi analoghi}), non ostante e nel tempo stesso che esso sistema considera lo stato selvaggio, l'animo il meno sviluppato, il meno sensibile, il meno attivo, come la miglior condizione possibile  4188 per la felicità umana. (Bologna 13. Luglio 1826.).

[4265,4]  Se era intenzione della natura, facendo l'uomo così debole e disarmato, che egli provvedendo alla vita ed al ben essere suo coll'ingegno, arrivasse allo stato di civiltà; perchè tante centinaia di nazioni selvagge e barbare dell'America, dell'Africa, dell'Asia dell'Oceanica, non vi sono arrivate ancora, non hanno fatto alcun  4266 passo per arrivarvi, e certo non vi arriveranno mai, nè saranno mai civili in niun modo (o non sarebbero mai state), se noi non ve li ridurremo (o non ve gli avessimo ridotti)? Le quali nazioni sono pure una buona metà, e più, del genere umano in natura. Perchè dato ancora che le popolazioni civili, nella somma loro, vincano di numero d'uomini la somma delle non civili nè state mai civilizzate, questa moltitudine di quelle è posteriore alla civilizzazione, ed effetto di essa: la quale favorisce la moltiplicazion della specie e l'aumento della popolazione. È stata dunque la natura così sciocca, e {così} mal provvidente, che ella abbia missed il suo intento per più della metà? (Recanati 30. Mar. ult. Venerdì. 1827.).

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Bisogni dell'uomo nella vita civile. (1827) (1)
Inconvenienti accidentali nella natura. (1827) (1)
che si credono innate, e derivano realmente dall'assuefazione. (1827) (1)
Fuoco (uso del). (1827) (1)
Mitologia greca. (1827) (1)
Mitologie, Simboli ec. Loro origine e ragione ec. (1827) (1)
Animali per la più parte, Femmine, Meridionali, sono più felici dell'uomo, de' maschi, de' settentrionali; perchè di vita più breve, sviluppo più rapido, vita più viva. (1827) (1)
Società degli animali. (1827) (1)
Monarchia e Repubblica. (1827) (1)
Uomo, se sia il più sociale de' viventi. (1827) (1)
Una sola fu l'invenzione della scrittura alfabetica. (1827) (1)
Barbarie estrema de' selvaggi sociali: la civiltà rende l'uomo più naturale: le società primitive sono le più lontane da natura; come lo stile di un fanciullo o di un principiante è il meno naturale. Antropofagia. (1827) (1)
Medicina. (1827) (1)
Impossibile conoscere quello che possa divenire, non solo il genere umano, ma un individuo. (1827) (1)
Civiltà e perfezionamento, non fa che sempre moltiplicare i bisogni e i patimenti, e poi trovarvi i rimedii. (1827) (1)
Piacere dell'inazione e del riposo. (1827) (1)
Felicità, impossibile, e non esistente nell'universo. (1827) (1)
Scrittura, alfabeto, ec. (1827) (1)
Conviene in molte cose col mio sistema sulla Natura. (1827) (1)
Despotismo. (1827) (1)
Difficoltà della prima invenzion della lingua e del parlare. (1827) (1)
Fanciulli. (1827) (1)
Fanciulli e Giovani, generalmente inclinati al distruggere; maturi e Vecchi al conservare. (1827) (1)
. Commenti alla sua opera sulla grandezza e la decadenza dei Romani. (1827) (1)
Irresoluzione. (1827) (1)
Riflessione. Irriflessione. (1827) (1)
Luogo del nell'. (1827) (1)
Infelicità umana (prove della). (1827) (1)
Fanciullezza, la più felice età per natura, è necessariamente la più tormentata e infelice nello stato civile. (1827) (1)
Uomini di gran talento. (1827) (1)
Dolori del corpo. (1827) (1)
Desiderio. (1827) (1)
Diritto delle genti, pubblico, universale ec. (1827) (1)
Natura. (1827) (1)
altro di (1827) (1)
Lingua. Una in principio, poi divisa. Storia filosofica delle lingue. (1827) (1)
Dolori dell'animo. (1827) (1)
Come si concilii nel mio sistema sulla felicità, il lodar la vita, l'attività ec. e dall'altra parte l'insensibilità, il torpore ec. Il mio sistema è favorevole allo spirito di energia e di avanzamento che oggi regna. (1827) (1)