Infelicità umana (prove della).
Human unhappiness (its proofs).
1974,1 2410,1 2549,1 2796,1 2861,1 2883,1 3622,1 4138,2 4167,12 4191,5 4287,1Infelicità umana (prove della). Prova morale.
Human unhappiness (its proofs). A moral proof.
4283,8[1974,1] Se mancassero altre prove che il vero è tutto
infelice, non basterebbe il vedere che gli uomini sensibili, di carattere e
d'immaginazione profonda, incapaci di pigliar le cose per la superficie, ed
avvezzi a ruminare sopra ogni accidente della vita loro, sono irresistibilmente
e sempre strascinati verso la infelicità? Onde ad un giovane sensibile, per
quanto le sue circostanze paiano prospere, si può senz'altro dubbio predire che
sarà
1975 presto o tardi infelice, o indovinare ch'egli
è tale. (23. Ott. 1821.).
[2410,1] Dalla mia teoria
del piacere segue che per essenza naturale e immutabile delle cose,
quanto è maggiore e più viva la forza, il sentimento, e l'azione e attività
interna dell'amor proprio, tanto è necessariamente maggiore l'infelicità del
vivente, o tanto più difficile il conseguimento d'una tal quale felicità. Ora la
forza e il sentimento dell'amor proprio è tanto maggiore quanto è maggiore la
vita, o il
2411 sentimento vitale in ciascun essere; e
specialmente quanto è maggiore la vita interna, ossia l'attività dell'anima,
cioè della sostanza sensitiva, e concettiva. Giacchè amor proprio e vita son
quasi una cosa, non potendosi nè scompagnare il sentimento dell'esistenza
propria (ch'è ciò che s'intende per vita) dall'amore dell'esistente, nè questo
esser minore di quello, ma l'uno si può sempre esattamente misurare coll'altro.
E tanto uno vive, quanto si ama, e tutti i sentimenti di chi vive sono compresi
o riferiti o prodotti ec. dall'amor proprio: il quale è il sentimento universale
che abbraccia tutta l'esistenza; e gli altri sentimenti del vivente (se pur ve
n'ha che sieno veramente altri) non sono che modificazioni, o divisioni, o
produzioni di questo, ch'è tutt'uno col sentimento dell'essere, o una parte
essenziale del medesimo.
[2549,1] La quistione se il suicidio giovi o non giovi
all'uomo (al che si riduce il sapere se sia o no ragionevole e preeleggibile),
si ristringe in questi puri termini. Qual delle due cose è la migliore, il
patire o il non patire? Quanto al piacere è cosa certa,
2550 immutabile e perpetua che l'uomo in qualunque condizione della
vita, anche felicissima secondo il linguaggio comune, non lo può provare,
giacchè, come ho dimostrato altrove pp. 532-35
pp. 646-50, il piacere è sempre futuro, e non mai presente. E come,
per conseguenza, ciascun uomo dev'essere fisicamente certo di non provar mai
piacere alcuno in sua vita, così anche ciascuno dev'esser certo di non passar
giorno senza patimento, e la massima parte degli uomini è certa di non passar
giorno senza patimenti molti e gravi, ed alcuni son certi di non passarne senza
lunghissimi e gravissimi (che sono i così detti infelici; poveri, malati
insanabili, ec. ec.). Ora io torno a dimandare qual cosa sia migliore, se il
patire o il non patire. Certo il godere, fors'anche il godere e patire sarebbe
meglio del semplice non patire, {+(giacchè la natura e l'amor proprio ci spinge e trasporta tanto verso il
godere, che c'è più grato il godere e patire, del non essere e non patire, e
non essendo non poter godere)} ma il godere essendo impossibile
all'uomo, resta escluso necessariamente e per natura
2551 da tutta la quistione. E si conchiude ch'essendo all'uomo più giovevole il
non patire che il patire, e non potendo vivere senza patire, è matematicamente
vero e certo che l'assoluto non essere giova e conviene all'uomo più
dell'essere. E che l'essere nuoce precisamente all'uomo. E però chiunque vive
(tolta la religione), vive per puro e formale error di calcolo: intendo il
calcolo delle utilità. Errore moltiplicato tante volte quanti sono gl'istanti
della nostra vita, in ciascuno de' quali noi
preferiamo il vivere al non vivere. E lo preferiamo col fatto non meno
che coll'intenzione, col desiderio, e col discorso più o meno espresso, più o
meno tacito ed implicito della nostra mente. Effetto dell'amor proprio ingannato
come in tante altre cattive elezioni ch'egli fa considerandole sotto l'aspetto
di bene, e del massimo bene che gli convenga in quelle tali circostanze.
[2796,1]
Καὶ μοι δοκεῖ, εἴ
τις τῶν ϑεῶν πάντας ἀνϑρώπους εἰς ἕνα που χῶρον συναγαγών, ἕκαστον
ἀπαιτήσει τὴν ἑαυτοῦ διηγήσασϑαι τύχην, εἶτα πάντων εἰπόντων, ἑκάστου
πύϑοιτο πάλιν, ποίαν ἔχειν ἕλοιτο; πάντας ἂν ἀποροῦντας σιγῆσαι μηδένα
ζηλωτὸν ϑεωμένους. ᾽Eντεῦϑεν ἄρα τινές, Tραύσους οἶμαι τὸ γένος
*
(nationem hanc) προσαγορεύουσι, τικτομένου μέν τινος
ὠλοϕύροντο σκοποῦντες, εἰς ὀσα ἦλϑε κακά, ἀπιόντος δὲ πανήγυριν
*
(festum) ἦγον, ὅσων ἠλευϑέρωται δυσχερῶν
ἐννοόυμενοι.
*
Χορικίου Σοϕιστοῦ ᾽Eπιτάϕιος ἐπὶ
Προκοπίῳ Σοϕιστῇ Γάζης. Oratio funebris in Procopium Sophistam-Gazaeum (§. 35. p. {{859.}}) primum edita gr. et lat. a Fabric. in B. G. edit. vet. t.
8. p. 841-63. lib. 5. c. 31.
(19. Giugno 1823).
[2861,1] In ciascun punto della vita, anche nell'atto del
maggior piacere, anche nei sogni, l'uomo {+o il vivente} è in istato di desiderio, e quindi
non v'ha un solo momento nella vita (eccetto quelli di totale assopimento e
sospensione dell'esercizio de' sensi e di quello del pensiero, da qualunque
cagione essa venga) nel quale l'individuo non sia in istato di pena, tanto
maggiore quanto egli o per età, o per carattere e natura, o per circostanze
mediate o immediate, o abitualmente o attualmente, è in istato di maggior
sensibilità {ed esercizio della vita,} e viceversa.
(30. Giugno 1823.). {{V. p. 3550.}}
[2883,1]
Io provo {presentemente} un piacere, io vorrei che
la condizione di tutta la mia vita, di tutta l'eternità, fosse uguale a
quella in cui mi trovo in questo momento. Questo è ciò che nessun uomo
dice mai nè può dire di buona fede, neppur per un solo momento, neppure
nell'atto del maggior piacere possibile. Ora se egli in quel momento provasse in
verità un piacer presente e perfetto (e se non è perfetto, non è piacere), egli
dovrebbe naturalmente desiderare di provarlo sempre, perchè il fine dell'uomo è
il piacere; e quindi desiderare che tutta la sua vita fosse tale qual è per lui
{quel} momento, e di più desiderare di viver
sempre, per sempre godere. Ma egli è certissimo che
2884 nessun uomo ha concepito nè formato mai questo desiderio nemmeno nel punto
più felice della sua vita, e nemmeno durante quel solo punto: egli è certissimo
che non ha concepito nè mai concepirà questo desiderio per un solo istante
neppur l'uomo, qualunque sia, che fra tutti gli uomini ha provato o è per
provare il massimo possibile piacere. E ciò perchè nemmeno in quel punto niuno
mai si trovò pienamente soddisfatto, nè lasciò nè sospese {{punto}} il desiderio nè anche {la speranza
di} un maggiore ed assai maggior piacere. Con che egli non venne in
quel punto a provare un vero e presente piacere. Bensì dopo passato quel tal
punto l'uomo spesse volte desidera che tutta la sua vita fosse conforme a quel
punto, ed esprime questo desiderio con se stesso e cogli altri di buona fede. Ma
egli ha il torto, perchè ottenendo il suo desiderio, lascerebbe di approvarlo
ec. (3. Luglio 1823.).
[3622,1]
3622 Sempre che l'uomo non prova piacere alcuno, ei
prova noia, se non quando o prova dolore, o vogliamo dir dispiacere qualunque, o
e' non s'accorge di vivere. Or dunque non accadendo mai propriamente che l'uomo
provi piacer vero, segue che mai per niuno intervallo di tempo ei non senta di
vivere, che ciò non sia o con dispiacere o con noia. Ed essendo la noia, pena e
dispiacere, segue che l'uomo, quanto ei sente la vita, tanto ei senta dispiacere
e pena. {#1. Massime quando l'uomo non ha
distrazioni, o troppo deboli per divertirlo potentemente dal desiderio
continuo del piacere; cioè insomma quando egli è in quello stato che noi
chiamiamo particolarmente di noia. V.
p. 3713.}
(7. Ott. 1823.)
[4138,2] Quanto più l'uomo cresce (massime di esperienza e di
senno, perchè molti sono sempre bambini), e crescendo si fa più incapace di
felicità, tanto egli si fa più proclive e domestico al riso, e più straniero al
pianto. Molti in una certa età (dove le sventure sono pur tanto maggiori che
nella fanciullezza) hanno quasi assolutamente perduta la facoltà di piangere. Le
più terribili disgrazie gli affliggeranno, ma non gli potranno trarre una
lagrima. Questa è cosa molto ordinaria. Tanta occasione ha l'uomo di farsi
familiare il dolore. (12. Maggio 1825.).
[4167,12] Molti divengono insensibili alle lodi, e restano
però sensibili al biasimo ed al ridicolo, sensibilità che essi perdono assai più
tardi o non mai. E ben più difficilmente si perde questa sensibilità che quella.
Certamente poi niuno si trova che essendo sensibile alle lodi, sia insensibile
ai biasimi, alle censure, alle male voci o calunnie, ai motteggi; bensì
viceversa si trovano molti. Tanto, anche nelle cose puramente sociali, la
facoltà di provar piacere è nell'uomo più caduca e più limitata che quella di
sentir dispiacere. (Bologna. 9. Marzo.
1826.)
[4191,5]
Felicità non è altro che contentezza
del proprio essere e del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto
del proprio stato, qualunque del resto esso {stato si}
sia, e fosse pur anco il più spregevole. Ora da questa
4192 sola definizione si può comprendere che la felicità è di sua
natura impossibile in un ente che ami se stesso sopra ogni cosa, quali sono per
natura tutti i viventi, soli capaci {d'altronde} di
felicità. Un amor di se stesso che non può cessare e che non ha limiti, è
incompatibile colla contentezza, colla soddisfazione. Qualunque sia il bene di
cui goda un vivente, egli si desidererà sempre un ben maggiore, perchè il suo
amor proprio non cesserà, e perchè quel bene, {per grande che
sia,} sarà sempre limitato, e il suo amor proprio non può aver limite.
Per amabile che sia il vostro stato, voi amerete voi stesso più che esso stato,
quindi voi desidererete uno stato migliore. Quindi non sarete mai contento, mai
in uno stato di soddisfazione, di perfetto amore del vostro modo di essere, di
perfetta compiacenza di esso. Quindi non sarete mai e non potete esser felice,
(30. Agosto. 1826. Bologna.)
{{nè in questo mondo, nè in un altro.}}
[4287,1] Veramente e perfettamente compassionevoli, non si
possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero più atti che gli altri,
quando sono nel fior dell'età, quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono
nulla, perchè se anche hanno materia di sofferire, non la sentono. Ma i giovani
non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le
considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d'un altro mondo,
perchè essi non hanno negli occhi che felicità. Chi patisce non è atto a
compatire. Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse
patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e
delle facoltà estrinseche. Ma non v'ha che il giovane (il quale non ha patito)
che sia così pieno di facoltà, e che non patisca nulla. Se altro non fosse, lo
stesso declinar della gioventù, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto
più si sente, quanto uno è d'altronde meno sventurato. Passati i venticinque
anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della
decadenza del suo corpo, dell'appassimento del fiore de' giorni suoi, della fuga
e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù.
(Firenze. 23. Lugl. 1827.).
[4283,8] Che la vita nostra, per sentimento di ciascuno, sia
composta di più assai dolore che piacere, male che bene, si dimostra per questa
esperienza. Io ho dimandato a parecchi se sarebbero stati contenti di tornare a
rifare la vita passata, con patto di rifarla nè più nè meno quale la prima
volta. L'ho dimandato anco sovente a me stesso.
4284
Quanto al tornare indietro a vivere, ed io e tutti gli altri sarebbero stati
contentissimi; ma con questo patto, nessuno; e piuttosto che accettarlo, tutti
(e così, io a me stesso) mi hanno risposto che avrebbero rinunziato a quel
ritorno alla prima età, che per se medesimo, sarebbe pur tanto gradito a tutti
gli uomini. Per tornare alla fanciullezza, avrebbero voluto rimettersi
ciecamente alla fortuna circa la lor vita da rifarsi, e ignorarne il modo, come
s'ignora quel della vita che ci resta da fare. Che vuol dir questo? Vuol dire
che nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti
abbiam provato più male che bene; e che se noi ci contentiamo, ed anche
desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per {l'ignoranza
del futuro, e per} una illusione della speranza, senza la quale
illusione {e ignoranza} non vorremmo più vivere, come
noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti.
(Firenze. 1. Luglio. 1827.).
Related Themes
Memorie della mia vita. (pnr) (7)
Piacere (Teoria del). (1827) (6)
Gioventù. (1827) (3)
Prova morale. (1827) (1)
Illusioni. (1827) (1)
Amor proprio. (1827) (1)
Perfettibilità o Perfezione umana. (1827) (1)
Uomini di gran talento. (1827) (1)
Suicidio. (1827) (1)
Vita. Perchè si vive. (1827) (1)
Suicidio. (danno) (1)
Vita umana, una commedia. (1827) (1)
deplorata da molti antichi. (1827) (1)
Manuale di filosofia pratica. (pnr) (1)
Lode. (1827) (1)
Facilmente si diviene insensibili al piacer della lode; non così al dispiacere del biasimo. (1827) (1)
Compassione. (1827) (1)
Educazione. Insegnamento. (1827) (1)
Vecchiezza. (1827) (1)
Noia. (1827) (1)
Della natura degli uomini e delle cose. (pnr) (1)