Malattie, debolezza corporale ec. prodotte dall'incivilimento, e dalla cultura delle facoltà mentali.
Illnesses, bodily weakness, etc. are products of civilization and of the cultivation of mental faculties.
1597,1 1631,2 1699,2 1775,1 1803,1 2544,1 2454,2 2686,1 3058,3 3179,1 3568,1 3643,1 4025,1[1597,1]
1597 Tutto nella natura è armonia, ma soprattutto
niente in essa è contraddizione. Non è possibile che, massime in un medesimo
individuo, in un medesimo genere di esseri, e degli esseri più elevati
nell'ordine naturale, siccom'è l'uomo, la perfezione di una parte principale e
importantissima di esso, voluta e ordinata dalla natura, noccia a quella di
un'altra parte similmente principalissima. Ora se quella che noi chiamiamo
perfezione del nostro spirito, se la civiltà presente fosse stata voluta e
ordinata dalla natura, e se ella fosse insomma veramente la nostra perfezione,
allora la contraddizione assurda che ho detto, si verificherebbe; giacchè è
incontrastabile che questa pretesa perfezione dell'animo nuoce al corpo.
[1631,2] Chi vuol vedere l'effetto della civiltà sul vigore
del corpo, paragoni gli uomini civili ai contadini o ai selvaggi, i contadini
d'oggi a ciò che noi sappiamo del vigore antico. ec. (Omero, com'è noto, assai spesso chiama l'età sua
degenerata dalle forze de' tempi troiani.) Osservi di quanto è capace il corpo
umano, vedendo l'impotenza nostra assoluta di far ciò che fa il meno robusto de'
villani; i pericoli a cui noi ci esporremmo volendo esporci a qualcuno de' loro
patimenti; le vergognose usanze quotidiane di fuggir l'aria il sole ec. di
maravigliarsi come il tale o tale abbia potuto affrontarlo per questa o quella
circostanza; le malattie o incomodi che tutto giorno si pigliano per un
1632 menomo strapazzo del corpo, o fatica di mente ec.
e poi dica se la civiltà rafforza l'uomo; accresce la sua capacità e potenza; se
gli antichi si maraviglierebbero o no della impotenza nostra; se la natura
stessa se ne debba o no vergognare; e se noi medesimi non lo dobbiamo, vedendo
sotto gli occhi per l'una parte di quanto sia capace il corpo umano, senza
veruno sforzo straordinario, e per l'altra di quanto poco sia capace il nostro.
(5. Sett. 1821.).
[1699,2]
Alla p. 1562.
fine. Non si dà salvatichezza
in natura. Bensì per noi. Ciò vuol dire che non siamo quali dovevamo. Quello che
per noi è salvatico, o non doveva servirci, e non era destinato all'uomo, o non
è salvatico se non perchè noi siamo civili, e incapaci quindi di servircene come
avremmo dovuto, e come la natura avea destinato. Non si nega che la coltura, i
nesti ec. non migliorino le piante le frutta, e le razze loro, molte delle quali
1700 nel loro stato di salvatichezza, non ci potrebbero servire affatto, o ci
servirebbero, o diletterebbero assai meno. ec. Così dico degli animali. ec. Ma
questo miglioramento è relativo al nostro stato presente, non mica alla natura
di quelle razze ec. pretese migliorate, nè alla natura propria nostra. Infatti
quelle razze ec. coi miglioramenti che ricevono dalle nostri[nostre] arti, acquistano qualunque altra qualità fuorchè il
vigore, la robustezza, la sanità, la forza di resistere alle intemperie alle
fatiche ec. di operare ec. di crescere proporzionatamente ec. Anzi quanto
guadagnano in altre qualità (non proprie nè primitive loro) altrettanto perdono
in questa, ch'è il vero carattere della natura in tutte le sue opere, e senza la
cui rispettiva dose proporzionata alla natura di ciascun genere, l'individuo è
insomma in istato di malattia abituale. {
V. la Veterinaria di
Vegezio, prologo al lib.
2., nel passo riportato
dal Cioni, Lettera a G. Capponi sopra Pelagonio, not.
19.} Il vigore rispettivo è la prima e più necessaria
di tutte le facoltà, perchè insomma non è altro che la facoltà di pienamente
esercitare tutte le proprie facoltà, e tutte le qualità rispettive della propria
natura, e tutta la perfezion fisica della propria esistenza. Senza la qual
perfezione
1701 fisica (che la natura ha dato
immediatamente a tutti i generi, ed all'umano come agli altri, a differenza
della pretesa perfezione dell'animo), nè l'animo (che dipende in tutto dal
fisico) nè l'intero animale può mai essere se non imperfetto. (14. Sett.
1821.).
[1775,1]
1775 Consideriamo la gran quantità delle persone
imperfette o nella forma o nelle facoltà del corpo, sia dalla nascita, sia per
infermità {naturali} sofferte nell'infanzia o nella
fanciullezza, prima insomma del perfetto ed intero sviluppo della macchina, e
della maturità del corpo. Paragoniamo questo numero di persone imperfette nella
loro maturità naturale, a quello degl'individui imperfetti in qualsivoglia
specie di animali, avuta ragione della rispettiva numerosità di ciascuna specie, e lo troveremo
strabocchevolmente maggiore. Che vuol dir ciò, se non che l'uomo è corrotto, e
che il suo stato presente non è quello che gli conviene? Così per certo
giudicheremmo e giudichiamo ogni qual volta ci vien fatta qualche simile
osservazione intorno a qualunque specie o genere di enti naturali appartenente a
qualsivoglia de' tre regni. Solamente a riguardo dell'uomo siamo ben lungi dal
pronunziare un tale o simile giudizio; perchè l'uomo
1776 secondo noi, non ha che far colla natura, e le sue imperfezioni derivano non
già dall'essersi egli allontanato, ma dal non essersi abbastanza ancora
allontanato dalla natura.
[1803,1] Una prova dell'indebolimento delle generazioni {+V. il
N.[Nuovo]
Ricoglitore, quaderno 31, p. 481.} si
è il vedere come oggi gli uomini generalmente e segnatamente le femmine sieno
(non per sola smorfia, ma in effetto)
1804 incapaci
dell'uso degli odori, che nuoce assolutamente ai loro nervi (e quanto il sistema
nervoso influisca e modifichi tutta la macchina e la vita umana, ciascuno lo
sperimenta), massime gli odori vivi, de' quali era sì gradito e continuo l'uso
non solo fra i greci e romani, com'è noto, ma fra' nostri antenati, come si vede
nel grande e costantissimo odore che esala da' vecchi armadi, scaffali, drappi
d'ogni sorta ec. ec. Oggi, massime la donna (che per l'addietro era
familiarissima agli odori), non può comportare se non gli odori deboli (e neppur
questi a lungo, nè troppo spesso), siccome la civiltà rende odiosi i colori
forti, introduce il gusto de' sapori languidi e dilicati. ec. ec. (29.
Sett. dì di S.
Michele. 1821.)
[2544,1] Quello ch'altrove ho detto pp. 1624-25 del
modo che in greco si chiama la malattia, cioè debolezza (ἀσϑένεια), si deve anche dire del latino, infirmitas, infirmus. (4. Luglio. 1822.).
{{Così anche languor ec.}}
[2454,2] Qual fosse l'opinione di Socrate, o di Senofonte, e anche degli altri antichi, circa quelle
arti e mestieri che da gran tempo si stimano e sono veramente necessarii all'uso
del viver civile, anzi parte, alimento ec. della civilizzazione, e che intanto
nocciono alla salute e al viver fisico, e in oltre all'animo, di chi gli
esercita, v. l'Econom. di Senofonte
cap. 4. §. 2. 3. (3. Giugno 1822.). {{e c.
6. §. 5. 6. 7.}}
[2686,1]
En
Europe le travail des mains déshonore. On
l'appelle travail méchanique. Celui même de labourer la terre y est le
plus méprisé de tous. Un artisan y est bien plus estimé qu'un
paysan.
*
loc. cit. pag. 136. Tutto l'opposto era fra gli
antichi, appresso i quali gli agricoltori e l'agricoltura erano in onore, e
l'arti manuali o meccaniche (αἱ βαναυσικαὶ τεχναί) e i professori delle medesime
erano infami. Vedi Cic.
de Offic. l. 1. e l'Economico di Senofonte, e quello attribuito già ad
Aristotele. (14.
Aprile 1823.).
[3058,3] persone imperfette, difettose, mostruose di corpo,
tra quelle che non arrivano a nascere e si perdono per aborti, sconciature ec.
non volontarie nè proccurate; tra quelle che son tali dalla nascita, e muoiono
appena nate o poco appresso, per vizi {{naturali}}
interni o esterni; quelle che così nate vivono e si veggono e si ponno
facilmente contare, annoverando le mostruosità e difettosità d'ogni sorta;
quelle finalmente che tali son divenute dopo la nascita, più
3059 presto o più tardi, naturalmente e senza esterna cagione
immediata, voglio dire o per vizio ingenito sviluppatosi in séguito, o per
malattia qualunque naturalmente sopravvenuta; sommando dico e raccogliendo tutti
questi individui insieme, si vedrà a colpo d'occhio e senza molta riflessione
che il loro numero nel solo genere umano, anzi nella sola parte civile di esso,
avanza di gran lunga non solamente quello che trovasi in qualsivoglia altro
intero genere d'animali, non solamente eziandio quello che veggiamo in
ciascheduna specie degli animali domestici, che pur sono corrotti {+e mutati dalla naturale condizione e
vita,} e da noi in mille guise travagliati e malmenati; ma tutto
insieme il numero degl'individui difettosi e mostruosi che noi veggiamo in tutte
le specie di animali che ci si offrono giornalmente alla vista, prese e
considerate insieme. La qual verità è così manifesta, che niuno, io credo,
purchè vi pensi un solo momento e raccolga le sue reminiscenze, la potrà
contrastare. Simile differenza si troverà in questo particolare fra le nazioni
civili e le selvagge, e proporzionatamente fra le più civili e le meno, secondo
un'esatta scala, come tra' franc. ital. ted. spagn. {ec.}
[3179,1] È cosa indubitata che la civiltà ha introdotto nel
genere umano mille spezie di morbi che prima di lei non si conoscevano, nè senza
lei sarebbero state; e niuna, che si sappia, n'ha sbandito, o seppur qualcuna,
così poche, e poco acerbe e poco micidiali, che sarebbe stato incomparabilmente
meglio restar con queste che cambiarle con la moltitudine, fierezza e mortalità
di quelle. (Vediamo infatti quanto poche e blande sieno le malattie spontanee
degli altri animali, massime salvatichi, cioè non corrotti da noi; e similmente
de' selvaggi, e massime de' più
3180 naturali, come i
Californii; e che anche quelle degli agricoltori sono molte più poche e rare e
men feroci che quelle de' cittadini). È parimente indubitato che la civiltà
rende l'uomo inetto a mille fatiche e sofferenze che egli avrebbe e potuto e
dovuto tollerare in natura, e suscettibilissimo d'esser danneggiato da quelle
fatiche e patimenti che, o per natura generale o per circostanze particolari,
egli è obbligato a sostenere, e che nello stato naturale avrebbe sostenuto senza
verun detrimento, e, almeno in parte, senza incomodo. È indubitato che la
civiltà debilita il corpo umano, a cui per natura (siccome a ogni altra cosa
proporzionatamente) si conviene la forza, e {il}
{quale} privo di forza, o con minor forza della sua
natura, non può essere che imperfettissimo; {+e ch'ella rende propria dell'uomo {civile} la delicatezza rispettiva di corpo, qualità che in natura
non è propria nè dell'uomo nè di veruno altro genere di cose, nè dev'esserlo
(vedi la pag. 3084.
segg. ).} È indubitato che le generazioni umane peggiorano
in quanto al corpo di mano in mano, ogni generazione più, sì per se stessa, sì
perch'ella così peggiorata non può non produrre una generazione peggior di se
ec. ec. Da tutte queste e da cento altre cose, da me altrove in diversi luoghi
considerate pp. 68-69
pp. 830-38
pp. 1597-602
pp.
1631-32, si fa più che certissimo e si tocca con mano, che i progressi
della civiltà portano seco e producono inevitabilmente il successivo
deterioramento
3181 del suo fisico,
deterioramente[deterioramento] sempre
crescente in proporzione d'essa civiltà. Nei progressi della civiltà, e non in
altro, consiste quello che i nostri filosofi, e generalmente tutti, chiamano
oggidì (e molti anche in antico) il perfezionamento dell'uomo e dello spirito
umano. È dunque dimostrato e fuori di controversia che il perfezionamento
dell'uomo include, non accidentalmente ma di necessità inevitabile, il
corrispondente e sempre proporzionato deterioramento e, per così dire,
imperfezionamento di una piccola parte di esso uomo, cioè del suo corpo: di modo
che quanto l'uomo s'avanza verso la perfezione, tanto il suo fisico cresce nella
imperfezione; e quando l'uomo sarà pienamente perfetto, il corpo umano, {generalmente parlando,} si troverà nel peggiore stato
ch'e' mai siasi trovato, e {in} che gli sia possibile
di trovarsi generalmente. Se con ciò si possa giustamente chiamare
perfezionamento, quello che oggi s'intende sotto questo nome, cioè se
l'incremento della civiltà sia perfezionamento dell'uomo, e la perfezione della
civiltà perfezione dell'uomo; se una tal perfezione ci possa essere stata
destinata dalla natura;
3182 se la nostra natura la
richiegga ed a lei tenda; se veruna natura richiegga o possa richiedere una
perfezione di questa sorta; se perciò che l'uomo è civilizzabile, e in quanto
egli è civilizzabile, ei sia, come dicono, e come stabiliscono {e dichiarano} per fuori d'ogni controversia,
perfettibile; si lascia giudicare a chiunque non è ancor tanto perfezionato,
tanto vicino all'ultima perfezione dell'uomo, ch'egli abbia perduto affatto
l'uso del raziocinio, {e non serbi neppur tanta parte del
discorso naturale quanta è} propria ancora degli altri viventi.
(17. Agosto. Domenica. 1823.).
[3568,1] Della corruzione, degenerazione, snaturamento,
deterioramento ec. delle generazioni degli uomini civili, e degli animali dagli
uomini dimesticati, cioè alterati, snaturati e corrotti, in quanto tal
deterioramento viene da cause fisiche, e in quanto la civiltà dell'uomo ec.
opera fisicamente sulla generazione, è
da esser veduto il Discorso o Lettera Del
tempo del partorire delle donne di Sperone Speroni, che tiene il 3.o luogo tra' suoi
Dialoghi, Venez. 1596. p. 53-54
principio.
(1. Ottobre. 1823.).
[3643,1] Fuoco - Il suo uso è indispensabile necessità ad una
vita comoda e civile, {+1. anzi pure ai
primissimi comodi.} - Or tanto è lungi che la natura l'abbia insegnato
all'uomo, che fuor di un puro caso, e senza lunghissime e diversissime
esperienze, ei non può averlo scoperto nè concepito - E non possono neppure i
filosofi indovinare come abbia fatto l'uomo non pure ad accendere, ma a vedere e
scoprire il primo fuoco. Chi ricorre a un incendio cagionato dal fulmine, chi al
frottement reciproco de' rami degli alberi
cagionato da' venti nelle
3644 foreste, {chi a' volcani,} e chi ad altre tali ipotesi l'una
peggio dell'altra - E conosciuto il fuoco, come avrà l'uomo trovato il modo di
accenderlo sempre che gli piaceva? Senza di che e' non gli era di veruno uso. E
di estinguerlo a suo piacere? Quanto avrà egli dovuto tardare a {sapere e a} trovar tutte queste cose - Gli antichi
favoleggiavano che il fuoco fosse stato rapito al cielo e portato di lassù in
terra. Segno che l'antica tradizione dava l'invenzione del fuoco e del suo uso e
del modo di averlo, accenderlo, estinguerlo a piacere, per un'invenzione non
delle volgari, ma delle più maravigliose; e che questa invenzione non fu fatta
subito, ma dopo istituita la società, e non tanto ignorante, altrimenti ella non
avrebbe potuto dar luogo a una favola, e a una favola la quale narra che il
ratto del fuoco fu opera di chi volle beneficare la società umana ec - Non solo
la natura non ha insegnato l'uso del fuoco, nè somministrato {pure} il fuoco {agli uomini} se non a caso,
ma ello[ella] lo ha fatto eziandio formidabile,
e pericolosissimo il suo uso. E lasciando i danni morali, quanti infiniti ed
immensi danni fisici non ha fatto l'uso del fuoco sì all'altre
3645 parti della natura sì allo stesso genere umano.
Niuno de' quali avrebbe avuto luogo se l'uomo non l'avesse adoperato, e
contratto il costume di adoperarlo. Il fuoco è una di quelle materie, di quegli
agenti terribili, come l'elettricità, che la natura sembra avere studiosamente
seppellito e appartato, e rimosso dalla vista e da' sensi e dalla vita degli
animali, e dalla superficie del globo, dove essa vita e la vegetazione e la vita
totale della natura ha principalmente luogo, per non manifestarlo o lasciarlo
manifestare che nelle convulsioni degli elementi e ne' fenomeni accidentali
{{e particolari,}} com'è quello de' vulcani, che
sono fuor dell'ordine {generale} e della regola
ordinaria della natura. Tanto è lungi ch'ella abbia avuto intenzione di farne
una materia d'uso ordinario e regolare nella vita degli animali o di
qualsivoglia specie di animali, e nella superficie del globo, e di sottometterlo
all'arbitrio dell'uomo, come le frutta o l'erbe ec., e di destinarlo come
necessario alla felicità e quindi alla natural perfezione della principale
specie di esseri terrestri -
3646
Orazio
(1. od. 3.) considera l'invenzione e l'uso del fuoco come cosa tanto
ardita, e come un ardire tanto contro natura, quanto lo è la navigazione, e
l'invenzion d'essa; e come origine, principio e cagione di altrettanti mali e
morbi ec. di quanti la navigazione; e come altrettanto colpevole della
corruzione e snaturamento e indebolimento ec. della specie umana - Ma il fuoco è
necessario all'uomo anche non sociale, ed alla vita umana semplicemente. Come si
vivrebbe in Lapponia o sotto il polo, anzi pure in
Russia ec. senza il fuoco? Primieramente, rispondo
io, come dunque la natura l'ha così nascosto ec. come sopra? Come poteva ella
negare agli esseri ch'ella produceva il precisamente necessario alla vita,
all'esistenza loro? o render loro difficilissimo il procacciarselo? e
pericolosissimo l'adoperare il necessario? pericolosissimo, dico, non meno a se
stessi che altrui? Ed essendo quasi certo, secondo il già detto, che gli uomini
non hanno potuto non tardare un pezzo (più o men lungo) a scoprire il fuoco, e
più ad avvedersi che lor potesse
3647 servire ed a che,
e più a trovare il come usarlo, il come averlo al bisogno ec. e a vincere il
timore che e' dovette ispirar loro, sì naturalmente, sì per li danni che ne
avranno ben tosto provati {e certo} prima di conoscerne
{anzi pur d'immaginarne l'uso e la proprietà,} sì
ancora forse per le cagioni che lo avranno prodotto (come se fulmini o volcani o
tali fenomeni ec.), sì per gli effetti che n'avranno veduto fuor di se, come
incendi e {{struggimenti}} d'arbori, di selve ec. morti
e consunzioni e incenerimento d'animali, {o d'altri
uomini} ec. ec.; stante dico tutto questo, come avranno potuto vivere
tanti uomini, o sempre, o fino a un certo tempo, senza il necessario alla vita
loro? Secondariamente, chiunque non consideri il genere umano per più che per
una specie di animali, superiore bensì all'altre, ma una finalmente di esse;
chiunque si contenti e si degni di tener l'uomo non per il solo essere, ma per
un degli esseri, di questa terra, diverso dagli altri di specie, ma non di
genere nè totalmente, nè formante un ordine e una natura a parte, ma compreso
nell'ordine e nella natura di tutti gli altri esseri sì della terra sì di questo mondo,
3648 e partecipante delle qualità ec. degli altri, come gli altri
delle sue, e in parte conforme in parte diverso dagli altri esseri, e fornito di
qualità parte comuni parte proprie, come sono tutti gli altri esseri di questo
mondo, ed insomma avente piena e vera proporzione cogli altri esseri, e non
posto fuor d'ogni proporzione e gradazione e rispetto e attinenza e convenienza
e affinità ec. verso gli altri; chiunque non crederà che tutto il mondo {o} tutta la terra e ciascuna parte di loro sian fatte
unicamente ed espressamente per l'uomo, e che sia inutile e indegna della natura
qualunque cosa, qualunque creatura, qualunque parte o della terra o del mondo
non servisse o non potesse nè dovesse servire all'uomo, nè avesse per fine il
suo servigio; chiunque così la pensi, risponderà facilmente alla soprascritta
obbiezione. S'egli v'ha, come certo v'avrà, una specie di pianta, che rispetto
al genere de' vegetabili ed alla propria natura loro {generale,} sia di tutti i vegetabili il più perfetto, e sia la
sommità del genere vegetale, come lo è l'uomo dell'animale, non per questo
3649 seguirà nè sarà necessario ch'essa pianta nè si
trovi nè prosperi, nè debba nè pur possa prosperare nè anche allignare nè
nascere in tutti i paesi e climi della terra, nè in qualsivoglia regione de'
climi ov'ella più prospera e moltiplica, nè in qualsivoglia terreno e parte
delle regioni a lei più proprie e naturali. Così discorrasi nel genere o regno
minerale, e negli altri qualunque. Che all'uomo in società giovi la
moltiplicazione e diffusione della sua specie, o per meglio dire che alla
società giovi la moltiplicazione e propagazione della specie umana, e tanto più
quanto è maggiore, questo è altro discorso, {#1. questo suppone lo stato di società ch'io
combatto.} e certo s'inganna assai chi lo nega. Ma che la natura {medesima} abbia destinato la specie umana a tutti i
climi e paesi, e tutti i climi e paesi alla specie umana, questo è ciò che nè si
può provare, e secondo l'analogia, che sarà sempre un fortissimo, e forse il più
forte argomento di cognizione concesso all'uomo, si dimostra per falsissimo.
Niuna pianta, niun vegetale, niun minerale, niuno animale conosciuto si trova in
tutti i paesi e climi
3650 nè in tutti potrebbe vivere
e nascere, non che prosperare ec. Altre specie di vegetabili e di animali {ec.} si trovano e stanno bene in più paesi e più
diversi, altre in meno, niuna in tutti, e niuna in tanti e così vari di qualità
e di clima, in quanti e quanto vari è diffusa la specie umana. Tra la
propagazione e diffusione di questa specie e quella dell'altre non v'ha
proporzione alcuna. E notisi che la propagazione di molte specie di animali, di
piante ec. devesi {in gran parte} non alla natura, ma
all'uomo stesso, onde non avrebbe forza di provar nulla nel nostro discorso.
Molte specie che per natura non erano destinate se non se a un solo paese, o a
una sola qualità di paesi, o a paesi poco differenti, sono state dagli uomini
trasportate e stabilite in più paesi, in paesi differentissimi ec. Ciò è contro
natura, come lo è lo stabilimento della specie umana medesima in quei luoghi che
a lei non convengono. Le piante, gli animali ec. trasportate e stabilite
dall'uomo in paesi a loro non convenienti, o non ci durano, o non prosperano, o
ci degenerano, ci si trovano male ec. Gl'inconvenienti
3651 a cui le tali specie sono soggette ne' tali casi in siffatti
luoghi, sono forse da attribuirsi alla natura? e se esse in detti luoghi, pur,
benchè male, sussistono, si dee forse dire che la natura ve le abbia destinate?
e il genere di vita ch'esse sono obbligate a tenere in siffatti luoghi, o che
loro è fatto tenere, e i mezzi che impiegano a sussistere, o che s'impiegano a
farle sussistere, si debbono forse considerare come naturali, come lor propri
per loro natura? e argomentare da essi delle intenzioni della natura intorno a
dette specie?
[4025,1] Qual cosa più snaturata che il non allattare le
madri i propri figliuoli? Ma egli è certo per mille esperienze che le donne
civilmente nutrite di radissimo possono sostenere senza gran detrimento della
salute loro, e pericolo eziandio della vita, il travaglio dell'allattare. Il che
è lo stesso {quanto a loro che se fossero} impotenti a
generare. E questo costume è antichissimo (a quel che credo), sin da quando
incominciarono le donne nobili o benestanti a far vita sedentaria e non
faticata. Raccolgasene se lo stato civile convenga all'uomo. (1. Feb.
1824.).
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