Corruzione e decadenza dell'uomo, cagionata dal sapere, è riconosciuta dagli antichissimi.
Corruption and decadence of man, caused by knowledge, is recognized by the ancients.
398-9 433,1 450,1 637,1 723,1 1004,1 2114,1 2250,23 2401,2 2939,1 3646 3666-7[394,1] 2o. Io ammetto anzi sostengo la corruzione dell'uomo,
e il suo decadimento dallo stato primitivo, stato di felicità; come appunto fa
il Cristianesimo. S'io dico che l'uomo fu corrotto dall'abuso della ragione, dal
sapere, e dalla società, questi sono i mezzi, o le cagioni secondarie della
corruzione, e non tolgono che la causa originale non sia stato il peccato. Io
non credo che nessuna vera e soda ragion di fede provi la scienza infusa in Adamo. S'egli ebbe subito un linguaggio,
si può stimare, ed è ben verosimile che n'abbiano anche le bestie per servire a
395 quella tal società di cui abbisognano; a quella
che sarebbe convenuta anche all'uomo nello stato primitivo, come conviene alle
bestie che sono ancora in esso stato; a quella che Dio volle indicare (e non
altro) quando disse: Non est bonum esse hominem solum: faciamus ei
adiutorium simile sibi[sui]
*
(Gen. 2.
18.); a quella della quale ho detto bastantemente altrove p.
370. E contuttociò le bestie non hanno scienza infusa, e dalla
Genesi non risulta niente di questo, riguardo ad Adamo, anzi il contrario. Giacchè
qualunque cosa si voglia intendere per l'albero della scienza del bene e del
male, è certo che il solo comando che Dio diede all'uomo dopo averlo posto in
paradiso voluptatis
*
(Gen. c. 2. v. 8. 15. {23. 24.})
(s'intende voluttà e felicità terrena, contro quello che si vuol sostenere, che
all'uomo non sia destinata naturalmente se non se una felicità spirituale e
d'un'altra vita), fu De ligno autem scientiae boni et mali ne comedas,
in quocumque enim die comederis ex eo, morte morieris.
*
(Gen. 2. 17.) Non è questo un
interdir chiaramente all'uomo il sapere? un voler porre soprattutte le altre
cose (giacchè questo fu il solo comando o divieto) un ostacolo agl'incrementi
della ragione, come quella che Dio conosceva essere per sua natura e dover
essere la distruttrice della felicità, e vera perfezione
396 di quella tal creatura, tal quale egli l'aveva fatta, e in quanto
era così fatta? Il serpente disse alla donna Scit enim Deus quod in
quocumque die comederitis ex eo, aperientur oculi vestri, et eritis
sicut dii, scientes bonum et malum.
*
(Gen. 3. 5.) In maniera che la sola prova a
cui Dio volle esporre la prima delle sue creature terrestri, per donargli quella
felicità che gli era destinata, fu appunto ed evidentemente il vedere s'egli
avrebbe saputo contenere la sua ragione, ed astenersi da quella scienza, da
quella cognizione, in cui pretendono che consista, e da cui vogliono che dipenda
la felicità umana: fu appunto il vedere s'egli avrebbe saputo conservarsi quella
felicità che gli era destinata, e vincere il solo ostacolo o pericolo che allora
se le opponesse, cioè quello della ragione e del sapere. Questa fu la prova a
cui Dio volle assoggettar l'uomo, se bene lo fece in un modo o materiale, o
misterioso. Di che cosa poi si trattava? È egli assurdo o cattivo per sua natura
il desiderio di conoscere {e discernere} il bene ed il
male? {(che in somma è quanto dire la cognizione)}
Secondo voi altri apologisti della Religione, non è. Ma all'autor della
Religione parve che fosse, perchè l'uomo già sapeva abbastanza per natura, cioè
per opera propria, immediata e primitiva di Dio, tutto ciò che gli conveniva
sapere. La colpa dell'uomo fu volerlo sapere per opera sua, cioè non
397 più per natura, ma per ragione, e conseguentemente
saper più di quello che gli conveniva, cioè entrare colle sue proprie facoltà
nei campi dello scibile, e quindi non dipendendo più dalle leggi della sua
natura nella cognizione, scoprir quello, che alle leggi della sua natura, era
contrario che si scoprisse. Questo e non altro fu il peccato di superbia che gli
scrittori sacri rimproverano ai nostri primi padri; peccato di superbia
nell'aver voluto sapere quello che non dovevano, e impiegare alla cognizione, un
mezzo e un'opera propria, cioè la ragione, in luogo dell'istinto, ch'era un
mezzo e un'azione immediata di Dio: peccato di superbia che a me pare che sia
rinnuovato precisamente da chi sostiene la perfettibilità dell'uomo. I primi
padri finalmente peccarono appunto per aver sognata questa perfettibilità, e
cercata questa perfezione {fattizia, ossia} derivata da
essi. Il loro peccato, la loro superbia, non consiste in altro che nella
ragione: ragione assoluta: ragione, parlando assolutamente, non male adoperata,
giacchè non cercava se non la scienza del bene e del male. Or questo appunto fu
peccato e superbia. Condannato ch'ebbe {la donna e}
l'uomo, disse Iddio: Ecce Adam
quasi unus ex nobis factus
398 est, sciens
bonum et malum.
*
(Gen. 3.
22.) E non aggiunse altro in questo proposito. Dunque egli non tolse
alla ragione umana quell'incremento che l'uomo indebitamente gli aveva
proccurato. Dunque l'uomo restò veramente simile a Dio per la ragione, restò più
sapiente assai di quando era stato creato. Dunque il decadimento dell'uomo, non
consistè nel decadimento della ragione, anzi nell'incremento. {+V.
p. 433. capoverso 1.} E sebben l'uomo ottenne precisamente
quello che il serpente aveva promesso ad Eva, cioè la scienza del bene e del male, non però
{questa} accrebbe la sua felicità, anzi la
distrusse. Questi mi paiono discorsi concludenti, e raziocini non istiracchiati
ma solidi, e dedotti naturalmente e da dedursi dalle parole e dallo spirito bene
inteso della narrazione Mosaica, e se ne può efficacemente concludere che lo
spirito di questa narrazione, è di attribuire formalmente la corruzione e
decadenza dell'uomo all'aumento della sua ragione, e all'acquisto della
sapienza; considerar come corruttrice dell'uomo la ragione e il sapere: cioè
come mezzi {espressi} di corruzione, perchè la causa
primaria fu la disubbidienza, ma la disubbidienza a un divieto che proibiva
appunto all'uomo di proccurarsi e di rendere efficaci questi mezzi di corruzione
e d'infelicità.
[433,1]
Alla p. 398.
Di più, soggiunse Iddio: nunc ergo ne forte mittat manum suam, et sumat
etiam de ligno vitae, et comedat, et vivat in aeternum.
*
(Gen. 3. 22.) Dunque il
ragionamento è chiaro. S'egli mangerà del frutto dell'albero di vita, vivrà
realmente in eterno: dunque avendo colto e mangiato dell'albero della scienza,
aveva realmente acquistato essa scienza. E Dio non gliel'aveva tolta, perchè
nello stesso modo gli poteva togliere l'immortalità, se avesse mangiato
dell'albero della vita. Ora egli tanto non giudicava di togliergli
quest'immortalità, nel caso che ne avesse mangiato, che anzi perchè non ne
mangiasse (non per il peccato, ma per questo espresso motivo, secondo la
chiarissima narrazion della Genesi) lo cacciò dal paradiso, dov'era
quell'albero di vita. Et emisit eum
*
(segue immediatamente
434 la Gen.) Dominus Deus de paradiso voluptatis... et
collocavit ante paradisum voluptatis Cherubim, et flammeum gladium
atque versatilem, ad custodiendam viam ligni
vitae.
*
(23. 24.) Vengano adesso i
teologi, e mi dicano che la corruzione dell'uomo consistè nella ribellione della
carne allo spirito, e nella superiorità acquistata da quella, ossia
nell'assoggettamento della parte ragionevole e intellettiva. Ovvero che questo
fu il {proprio} effetto della corruzione e del peccato.
È vero, e dico anch'io, che allora incominciò quella nemicizia della ragione e
della natura ch'io sempre predico, nemicizia che non ha luogo negli altri
viventi, provveduti per altro di raziocinio, e del principio di cognizione. Ma
questa nemicizia, questo squilibrio, questo contrasto di due qualità divenute
allora incompatibili, provenne e consistè nell'incremento e preponderanza
acquistata dalla ragione; e la degradazione dell'uomo non fu quella della
ragione {nè della cognizione, nè l'offuscazione
dell'intelletto.} Anzi dopo il peccato, e mediante il peccato l'uomo {ebbe
l'intelletto rischiaratissimo,} acquistò la scienza del bene e del
male, e divenne effettivamente per questa, quasi unus ex
nobis,
*
disse Iddio.
435 Tutto
ciò lo dice la Scrittura a lettere cubitali. Allora insomma la ragione dell'uomo
cominciò a contraddire alle sue 1. inclinazioni, 2. credenze primitive, cosa che
per l'avanti non aveva fatto; e questa fu una ribellione della ragione alla
natura, o dello spirito al corpo, non della natura alla ragione nè del corpo
allo spirito.
[450,1] Se poi ancora dubitaste di quello ch'io dico, cioè che
in Adamo fu primitivamente infusa la
credenza come negli altri animali,
e non la scienza propria; basta che
osserviate quello che dice la Scrittura, che dopo il peccato egli acquistò la
scienza del bene e del male. La
scienza del bene e e del male, non è altro che la cognizione assoluta,
451 la credenza vera non più relativamente ma
assolutamente, la cognizione delle cose come sono, cioè buone o cattive, non
relativamente all'uomo, ma indipendentemente e assolutamente; la cognizione
della realtà, della verità assoluta che per se stessa è indifferente all'uomo, e
nociva quando il conoscerla è contrario alla natura del conoscente. Se dunque
Adamo l'acquistò dopo il peccato,
non l'aveva per l'avanti. In fatti la Scrittura dice espressamente che non
l'aveva, e il serpente persuase alla donna di peccare per acquistarla. Questo è
un argomento vittorioso, ultimo, e decisivo. Come poteva essere infusa
primitivamente la scienza in Adamo, se dopo {e
mediante} il peccato egli acquistò la scienza del bene e del male? E
qual fosse l'effetto di questa precisa scienza, vedilo p. 446 - 447. (22. Dic. 1820.).
[637,1] Io non soglio credere alle allegorie, nè cercarle
nella mitologia, o nelle invenzioni dei poeti, o credenze del volgo. Tuttavia la
favola di Psiche, cioè dell'Anima, che
era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e la cui infelicità
provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e
nel tempo stesso così profondo, della natura dell'uomo e delle cose, della
nostra destinazion vera su questa terra, del danno del sapere, della felicità
che ci conveniva, che unendo questa considerazione, al manifesto significato del
nome di Psiche, appena posso
discredere che quella favola non sia un parto della più profonda sapienza, e
cognizione della natura dell'uomo e di questo mondo. V. quest'allegoria notata, e sebbene non profondamente,
tuttavia bastantemente spiegata nel morceau détaché di {Mad. Lambert}
intitolato Psyché en grec. Ame.
(così) dans ses oeuvres complètes
citées ci-dessus p. 284 -
285. E forse l'allegoria sopraddetta sarà stata osservata anche dagli
altri, e così credo. {+Certo è che, o la non la significa nulla, o significa quel
ch'io dico, e mostra che il mio sistema piacque agli antichissimi: con altro
sistema la non si spiega.} Del resto combinando quest'osservazione,
col racconto della Genesi,
638 dove
l'origine immediata della infelicità e decadimento dell'uomo, si attribuisce
manifestamente al sapere, come ho dimostrato altrove pp. 394-400
pp. 434-36 ; mi si fa
verisimile che in somma queste gran massime: l'uomo non
è fatto per sapere, la cognizione del vero è nemica della
felicità, la ragione è nemica della natura, ultimo
frutto ed apice della più moderna e profonda, e della più più perfetta o
perfettibile filosofia che possa mai essere; fossero non solamente note, ma
proprie, e quasi fondamentali dell'antichissima sapienza, se non altro di quella
arcana {e misteriosa,} come l'orientale, e come
l'egiziana dalla quale è chi pretende derivata, almeno in parte, la mitologia e
la sapienza greca. (10. Feb. 1821.).
[723,1]
*
Orazio, od. 3. v. 29-33. l. I.
Questo effetto, attribuendolo Orazio
favolosamente alla violazione delle leggi degli Dei, ed alla temerità degli
uomini verso il cielo, viene ad attribuirlo nel vero significato, alla
violazione e corruzione delle leggi naturali e della natura; verissima cagione
dell'incremento che l'imperio della morte ha guadagnato sopra gli uomini.
(7. Marzo 1821.)
Post ignem aetheria domo
Subductum, macies, et nova {{febrium}}
Terris incubuit cohors,
Semotique prius tarda necessitas
Leti corripuit gradum.
[1004,1]
1004 Uno dei principali dogmi del Cristianesimo è la
degenerazione dell'uomo da uno stato primitivo più perfetto e felice: e con
questo dogma è legato quello della Redenzione, e si può dir, tutta quanta la
Religion Cristiana. Il principale
insegnamento del mio sistema, è appunto la detta degenerazione. Tutte, per
tanto, le infinite osservazioni e prove generali o particolari, ch'io adduco per
dimostrare come l'uomo fosse fatto primitivamente alla felicità, come il suo
stato perfettamente naturale (che non si trova mai nel fatto) fosse per lui il
solo perfetto, come quanto più ci allontaniamo dalla natura, tanto più diveniamo
infelici ec. ec: tutte queste, dico, sono altrettante prove dirette di uno dei
dogmi principali del Cristianesimo, e possiamo dire, della verità dello stesso
Cristianesimo. (1. Maggio 1821.).
[2114,1] Gli antichi pensatori Cristiani, S. Paolo,
2115 i padri, e
prima anche del Cristianesimo, i filosofi gentili, s'erano ben accorti di una
contraddizione fra le qualità dell'animo umano, di una lotta e nemicizia
evidente fra la ragione e la natura, di un impedimento essenziale ed ingenito
nell'uomo (qual era divenuto) alla felicità, e per conseguenza di una
degenerazione e corruzione dell'uomo, conosciuta e predicata anche nelle
antichissime mitologie.
[2250,3] Quell'antica e si famosa opinione del secol d'oro,
della perduta felicità di quel tempo, dove i costumi erano semplicissimi e
rozzissimi, e non pertanto gli uomini fortunatissimi, di quel tempo, dove i soli
cibi erano quelli che dava la natura, le ghiande le quai fuggendo
tutto 'l mondo onora,
*
ec. ec. quest'opinione sì
celebre presso gli antichi e i moderni poeti, ed anche fuor della poesia, non
può ella molto bene servire a conferma
2251 del mio
sistema, a dimostrare l'antichissima tradizione di una degenerazione dell'uomo,
di una felicità perduta dal genere umano, e felicità non consistente in altro
che in uno stato di natura, e simile a quello delle bestie, e non goduta in
altro tempo che nel primitivo, e in quello che precedette i cominciamenti della
civilizzazione, anzi le prime alterazioni della natura umana derivate dalla
società? (13. Dic. 1821.). {Puoi vedere in tal proposito
la Vita antica di Virgil. dove parla delle sue Bucoliche, c. 21.
e il principio del 22.}
[2401,2]
Estaban persuadidos
*
(los Mexicanos) à que
no huvo Dioses de essotra parte del Cielo
*
(cioè che non ci ebbe
altri Dei se non un solo che tra essi non avea nome, ma s'aveva per
superiore a tutti, e se gli attribuiva la creazione del Cielo e della Terra,
e davasegli sede in cielo), hasta que multiplicandose los hombres, empezaron sus
calamidades; considerando los Dioses como unos genios
favorables, que se producian, quando era necessaria su operacion; sin
hacerles dissonancia
*
(à los Mexicanos), que
adquiriessen el Sèr
*
(estos Dioses), y la
Divinidad en la miserias de la Naturaleza.
*
Don Antonio de Solìs, Hist. de la Conquista de
Mexico, lib. 3. capitulo 17. en Madrid,
año de 1748. p. 259. col. 1.
(21. Aprile. 1822.).
[2939,1] Dalle lunghe considerazioni da me fatte circa quello
che voglia significare nella Genesi l'albero della scienza ec.
pp. 393. sgg. ,
dalla favola di Psiche della quale ho
parlato altrove pp. 637-68, e da altre o favole o dogmi ec.
antichissimi, che mi pare avere accennato in diversi luoghi pp.
63-64, si può raccogliere non solo quello che generalmente si dice,
che la corruzione e decadenza del genere umano da uno stato migliore, sia
comprovata da una remotissima, universale, costante e continua tradizione, ma
che eziandio sia comprovato da una tal tradizione e dai monumenti della più
antica storia e sapienza, che questa corruttela e decadimento del genere umano
da uno stato felice, sia nato dal sapere, e dal troppo conoscere, e che
l'origine della sua infelicità sia stata la scienza e di se stesso e del mondo,
e il troppo uso della ragione. E pare che questa verità fosse nota ai più
antichi sapienti, e una
2940 delle principali e
capitali fra quelle che essi, forse come pericolose a sapersi, enunziavano sotto
il velo dell'allegoria e coprivano di mistero e vestivano di finzioni, o si
contentavano di accennare confusamente al popolo; il quale era in quei tempi
assai più diviso per ogni rispetto dalla classe de' sapienti, che oggi non è:
onde nasceva l'arcano in cui dovevano restare quei dogmi ch'essendo sempre
proprii de' soli sapienti, non erano {allora} quasi per
niun modo communicati al popolo, separato affatto dai saggi. Oltrechè in quei
tempi l'immaginazione influiva e dominava così nel popolo, come anche nei
sapienti medesimi, onde nasceva che questi, eziandio senz'alcuna intenzione di
misteriosità, e senz'alcun secondo fine, vestissero le verità di {figure,} e le rappresentassero {altrui} con sembianza di favole. E infatti i primi sapienti furono i
poeti, o vogliamo dire i primi sapienti si servirono della poesia, e le prime
verità furono annunziate in versi, non, cred'io, con espressa intenzione di
velarle e farle poco intelligibili, ma perchè esse si presentavano
2941 alla mente stessa dei saggi in un abito lavorato
dall'immaginazione, e in gran parte erano trovate da questa anzi che dalla
ragione, {+anzi avevano eziandio gran
parte d'immaginario, specialmente riguardo alle cagioni ec., benchè di buona
fede creduto dai sapienti che le concepivano o annunziavano.} E
inoltre per propria inclinazione e per secondar quella degli uditori, cioè de'
popoli a cui parlavano, i saggi si servivano della poesia e della favola per
annunziar le verità, benchè niuna intenzione avessero di renderle méconnaissables. (11. Luglio 1823.).
[3643,1] Fuoco - Il suo uso è indispensabile necessità ad una
vita comoda e civile, {+1. anzi pure ai
primissimi comodi.} - Or tanto è lungi che la natura l'abbia insegnato
all'uomo, che fuor di un puro caso, e senza lunghissime e diversissime
esperienze, ei non può averlo scoperto nè concepito - E non possono neppure i
filosofi indovinare come abbia fatto l'uomo non pure ad accendere, ma a vedere e
scoprire il primo fuoco. Chi ricorre a un incendio cagionato dal fulmine, chi al
frottement reciproco de' rami degli alberi
cagionato da' venti nelle
3644 foreste, {chi a' volcani,} e chi ad altre tali ipotesi l'una
peggio dell'altra - E conosciuto il fuoco, come avrà l'uomo trovato il modo di
accenderlo sempre che gli piaceva? Senza di che e' non gli era di veruno uso. E
di estinguerlo a suo piacere? Quanto avrà egli dovuto tardare a {sapere e a} trovar tutte queste cose - Gli antichi
favoleggiavano che il fuoco fosse stato rapito al cielo e portato di lassù in
terra. Segno che l'antica tradizione dava l'invenzione del fuoco e del suo uso e
del modo di averlo, accenderlo, estinguerlo a piacere, per un'invenzione non
delle volgari, ma delle più maravigliose; e che questa invenzione non fu fatta
subito, ma dopo istituita la società, e non tanto ignorante, altrimenti ella non
avrebbe potuto dar luogo a una favola, e a una favola la quale narra che il
ratto del fuoco fu opera di chi volle beneficare la società umana ec - Non solo
la natura non ha insegnato l'uso del fuoco, nè somministrato {pure} il fuoco {agli uomini} se non a caso,
ma ello[ella] lo ha fatto eziandio formidabile,
e pericolosissimo il suo uso. E lasciando i danni morali, quanti infiniti ed
immensi danni fisici non ha fatto l'uso del fuoco sì all'altre
3645 parti della natura sì allo stesso genere umano.
Niuno de' quali avrebbe avuto luogo se l'uomo non l'avesse adoperato, e
contratto il costume di adoperarlo. Il fuoco è una di quelle materie, di quegli
agenti terribili, come l'elettricità, che la natura sembra avere studiosamente
seppellito e appartato, e rimosso dalla vista e da' sensi e dalla vita degli
animali, e dalla superficie del globo, dove essa vita e la vegetazione e la vita
totale della natura ha principalmente luogo, per non manifestarlo o lasciarlo
manifestare che nelle convulsioni degli elementi e ne' fenomeni accidentali
{{e particolari,}} com'è quello de' vulcani, che
sono fuor dell'ordine {generale} e della regola
ordinaria della natura. Tanto è lungi ch'ella abbia avuto intenzione di farne
una materia d'uso ordinario e regolare nella vita degli animali o di
qualsivoglia specie di animali, e nella superficie del globo, e di sottometterlo
all'arbitrio dell'uomo, come le frutta o l'erbe ec., e di destinarlo come
necessario alla felicità e quindi alla natural perfezione della principale
specie di esseri terrestri -
3646
Orazio
(1. od. 3.) considera l'invenzione e l'uso del fuoco come cosa tanto
ardita, e come un ardire tanto contro natura, quanto lo è la navigazione, e
l'invenzion d'essa; e come origine, principio e cagione di altrettanti mali e
morbi ec. di quanti la navigazione; e come altrettanto colpevole della
corruzione e snaturamento e indebolimento ec. della specie umana - Ma il fuoco è
necessario all'uomo anche non sociale, ed alla vita umana semplicemente. Come si
vivrebbe in Lapponia o sotto il polo, anzi pure in
Russia ec. senza il fuoco? Primieramente, rispondo
io, come dunque la natura l'ha così nascosto ec. come sopra? Come poteva ella
negare agli esseri ch'ella produceva il precisamente necessario alla vita,
all'esistenza loro? o render loro difficilissimo il procacciarselo? e
pericolosissimo l'adoperare il necessario? pericolosissimo, dico, non meno a se
stessi che altrui? Ed essendo quasi certo, secondo il già detto, che gli uomini
non hanno potuto non tardare un pezzo (più o men lungo) a scoprire il fuoco, e
più ad avvedersi che lor potesse
3647 servire ed a che,
e più a trovare il come usarlo, il come averlo al bisogno ec. e a vincere il
timore che e' dovette ispirar loro, sì naturalmente, sì per li danni che ne
avranno ben tosto provati {e certo} prima di conoscerne
{anzi pur d'immaginarne l'uso e la proprietà,} sì
ancora forse per le cagioni che lo avranno prodotto (come se fulmini o volcani o
tali fenomeni ec.), sì per gli effetti che n'avranno veduto fuor di se, come
incendi e {{struggimenti}} d'arbori, di selve ec. morti
e consunzioni e incenerimento d'animali, {o d'altri
uomini} ec. ec.; stante dico tutto questo, come avranno potuto vivere
tanti uomini, o sempre, o fino a un certo tempo, senza il necessario alla vita
loro? Secondariamente, chiunque non consideri il genere umano per più che per
una specie di animali, superiore bensì all'altre, ma una finalmente di esse;
chiunque si contenti e si degni di tener l'uomo non per il solo essere, ma per
un degli esseri, di questa terra, diverso dagli altri di specie, ma non di
genere nè totalmente, nè formante un ordine e una natura a parte, ma compreso
nell'ordine e nella natura di tutti gli altri esseri sì della terra sì di questo mondo,
3648 e partecipante delle qualità ec. degli altri, come gli altri
delle sue, e in parte conforme in parte diverso dagli altri esseri, e fornito di
qualità parte comuni parte proprie, come sono tutti gli altri esseri di questo
mondo, ed insomma avente piena e vera proporzione cogli altri esseri, e non
posto fuor d'ogni proporzione e gradazione e rispetto e attinenza e convenienza
e affinità ec. verso gli altri; chiunque non crederà che tutto il mondo {o} tutta la terra e ciascuna parte di loro sian fatte
unicamente ed espressamente per l'uomo, e che sia inutile e indegna della natura
qualunque cosa, qualunque creatura, qualunque parte o della terra o del mondo
non servisse o non potesse nè dovesse servire all'uomo, nè avesse per fine il
suo servigio; chiunque così la pensi, risponderà facilmente alla soprascritta
obbiezione. S'egli v'ha, come certo v'avrà, una specie di pianta, che rispetto
al genere de' vegetabili ed alla propria natura loro {generale,} sia di tutti i vegetabili il più perfetto, e sia la
sommità del genere vegetale, come lo è l'uomo dell'animale, non per questo
3649 seguirà nè sarà necessario ch'essa pianta nè si
trovi nè prosperi, nè debba nè pur possa prosperare nè anche allignare nè
nascere in tutti i paesi e climi della terra, nè in qualsivoglia regione de'
climi ov'ella più prospera e moltiplica, nè in qualsivoglia terreno e parte
delle regioni a lei più proprie e naturali. Così discorrasi nel genere o regno
minerale, e negli altri qualunque. Che all'uomo in società giovi la
moltiplicazione e diffusione della sua specie, o per meglio dire che alla
società giovi la moltiplicazione e propagazione della specie umana, e tanto più
quanto è maggiore, questo è altro discorso, {#1. questo suppone lo stato di società ch'io
combatto.} e certo s'inganna assai chi lo nega. Ma che la natura {medesima} abbia destinato la specie umana a tutti i
climi e paesi, e tutti i climi e paesi alla specie umana, questo è ciò che nè si
può provare, e secondo l'analogia, che sarà sempre un fortissimo, e forse il più
forte argomento di cognizione concesso all'uomo, si dimostra per falsissimo.
Niuna pianta, niun vegetale, niun minerale, niuno animale conosciuto si trova in
tutti i paesi e climi
3650 nè in tutti potrebbe vivere
e nascere, non che prosperare ec. Altre specie di vegetabili e di animali {ec.} si trovano e stanno bene in più paesi e più
diversi, altre in meno, niuna in tutti, e niuna in tanti e così vari di qualità
e di clima, in quanti e quanto vari è diffusa la specie umana. Tra la
propagazione e diffusione di questa specie e quella dell'altre non v'ha
proporzione alcuna. E notisi che la propagazione di molte specie di animali, di
piante ec. devesi {in gran parte} non alla natura, ma
all'uomo stesso, onde non avrebbe forza di provar nulla nel nostro discorso.
Molte specie che per natura non erano destinate se non se a un solo paese, o a
una sola qualità di paesi, o a paesi poco differenti, sono state dagli uomini
trasportate e stabilite in più paesi, in paesi differentissimi ec. Ciò è contro
natura, come lo è lo stabilimento della specie umana medesima in quei luoghi che
a lei non convengono. Le piante, gli animali ec. trasportate e stabilite
dall'uomo in paesi a loro non convenienti, o non ci durano, o non prosperano, o
ci degenerano, ci si trovano male ec. Gl'inconvenienti
3651 a cui le tali specie sono soggette ne' tali casi in siffatti
luoghi, sono forse da attribuirsi alla natura? e se esse in detti luoghi, pur,
benchè male, sussistono, si dee forse dire che la natura ve le abbia destinate?
e il genere di vita ch'esse sono obbligate a tenere in siffatti luoghi, o che
loro è fatto tenere, e i mezzi che impiegano a sussistere, o che s'impiegano a
farle sussistere, si debbono forse considerare come naturali, come lor propri
per loro natura? e argomentare da essi delle intenzioni della natura intorno a
dette specie?
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