Vitalità, Sensibilità. Il grado dell'amor proprio e dell'infelicità del vivente, è in proporzione di esse.
Vitality, Sensitivity. The living being's degree of self-love and unhappiness is in proportion to these.
1382,2 1584,1.2 2410,1 2493,2 2495,1 2496,1 2629,3 2673,3 2736,1 2861,1 3291,1 3773,1 3835,1 3842,2 3846,2 3921,1 4037,6 4074,1 4133,2[1382,2] Alla mia teoria
del piacere aggiungi che quanto più gli organi del vivente sono
suscettibili, sensibili, mobili, vivi, insomma quanto è maggiore la vita
naturale del vivente, tanto più sensibile {e vivo} è
l'amor proprio {(ch'è quasi tutt'uno colla vita)} e
quindi il desiderio della felicità ch'è impossibile, e quindi l'infelicità. Così
accade dunque agli uomini rispetto alle bestie, così a queste pure gradatamente,
così agl'individui umani ec. più sensibili, immaginosi ec. rispetto agli altri
individui della stessa specie. E l'uomo {{anche in
natura,}} è quindi ben conseguentemente, il più infelice degli animali
(come vediamo), perciò stesso che ha più vita, più forza e sentimento vitale che
gli altri viventi. (25.[24.] Luglio
1821.).
[2410,1] Dalla mia teoria
del piacere segue che per essenza naturale e immutabile delle cose,
quanto è maggiore e più viva la forza, il sentimento, e l'azione e attività
interna dell'amor proprio, tanto è necessariamente maggiore l'infelicità del
vivente, o tanto più difficile il conseguimento d'una tal quale felicità. Ora la
forza e il sentimento dell'amor proprio è tanto maggiore quanto è maggiore la
vita, o il
2411 sentimento vitale in ciascun essere; e
specialmente quanto è maggiore la vita interna, ossia l'attività dell'anima,
cioè della sostanza sensitiva, e concettiva. Giacchè amor proprio e vita son
quasi una cosa, non potendosi nè scompagnare il sentimento dell'esistenza
propria (ch'è ciò che s'intende per vita) dall'amore dell'esistente, nè questo
esser minore di quello, ma l'uno si può sempre esattamente misurare coll'altro.
E tanto uno vive, quanto si ama, e tutti i sentimenti di chi vive sono compresi
o riferiti o prodotti ec. dall'amor proprio: il quale è il sentimento universale
che abbraccia tutta l'esistenza; e gli altri sentimenti del vivente (se pur ve
n'ha che sieno veramente altri) non sono che modificazioni, o divisioni, o
produzioni di questo, ch'è tutt'uno col sentimento dell'essere, o una parte
essenziale del medesimo.
[2493,2] L'amor proprio, il quale, come ho dimostrato pp. 646-48
p.
1382
pp. 2410. sgg.
p. 2490 più volte, è necessaria o quasi necessaria sorgente
d'infelicità, era però (oltre l'essere una essenziale conseguenza e parte
2494 dell'esistenza sentita e conosciuta
dall'esistente) necessario ancora e indispensabile alla felicità. Come si può
dare amor della felicità senz'amor di se stesso? anzi questi due amori sono
precisamente una cosa sola con due nomi. E come si potrebbe dar felicità senza
amor di felicità? Giacchè l'animale non può godere e compiacersi di quel che non
ama. Dunque non amando la felicità, non potrebbe goderla nè compiacersene.
Dunque quella non sarebbe felicità, ed egli non la potrebbe provare. Dunque
l'animale, se non amasse se stesso, non potrebbe esser felice, e sarebbe
essenzialmente incapace della felicità, e in disposizione contraddittoria colla
natura di essa. Quindi si deve scusar la natura, e riconoscere che sebbene
l'amor proprio produce necessariamente l'infelicità (maggiore o minore), la
natura non ha però sbagliato nell'ingenerarlo ai viventi, essendo necessario
alla felicità, e però il suddetto
2495 inconveniente
era inevitabile come tanti altri, e derivato come tanti altri da una cosa ch'è
un bene, e fatta per bene. (24. Giugno. 1822.).
[2495,1] Quanto sia vero che l'amor proprio è cagione
d'infelicità, e che com'egli è maggiore e più attivo, maggiore si è la detta
infelicità, si dimostra per l'esperienza giornaliera. Perocchè il giovane non
solo è soggetto a mille dolori d'animo, ma incapace ancora di godere i maggiori
beni del mõdo[mondo], e di goderli e desfrutarlos più che sia possibile, e
nel miglior modo possibile, finchè il suo amor proprio, a forza di patimenti,
non è mortificato, incallito, intormentito. Allora si gode qualche poco. Cosa
osservata. Com'è anche osservatissimo che l'uomo è tanto più infelice quanto ha
più e più vivi desiderii, e che l'arte della felicità consiste nell'averne pochi
e poco vivi ec. (Ch'è appunto la cagione per cui il giovane nel predetto stato,
con
2496 un ardore incredibile che lo trasporta verso
la felicità, con la maggior forza possibile per poter gustare e sostenere i
piaceri e anche fabbricarseli coll'immaginazione, proccurarseli coll'opera ec.;
in un'età a cui tutto sorride, e porge quasi spontaneamente i diletti;
contuttochè sia privo del disinganno, e però veda le cose sotto il più
bell'aspetto possibile, {+e di più
essendo nuovo e inesperto dei piaceri, sia ancor lontano e ben difeso dalla
sazietà, e capace di dar peso a ogni godimento,} non gode mai nulla, e
pena più d'ogni altro, {e si sazia più presto;} e tanto
più quanto {egli} è più vivo [così spesso il Casa] {e sensitivo
ec.,} e quindi per necessità più amante di se stesso.) Ora la misura
dei desiderii, la loro copia vivezza ec. è sempre in proporzione della misura,
vivezza, energia, attività dell'amor proprio. Giacchè il desiderio non è d'altro
che del piacere, e l'amor della felicità non è altro che il desiderio del
piacere, e l'amor della felicità non è altro che l'amor proprio. (24.
Giugno. 1822.). {{V. p.
2528.}}
[2496,1] Quindi osservate che tutto quanto si dice dell'amor
proprio si deve anche intendere
2497 dell'amor della
felicità ch'è tutt'uno (v. p.
2494.). E però la misura, la forza, l'estensione, le vicende,
gl'incrementi, gli scemamenti, tanto individuali che generali, dell'uno di
questi amori, son comuni all'altro nè più nè meno. (24. Giugno.
1822.
[2629,3] Le sensazioni o fisiche o massimamente morali che
l'uomo può provare, sono, niuna di vero piacere, ma indifferenti o dolorose.
Quanto alle indifferenti la sensibilità non giova nulla. Restano solo le
dolorose. Quindi la sensibilità, benchè
2630
assolutamente considerata sia disposta indifferentemente a sentire ogni sorta di
sensazioni, in sostanza però non viene a esser altro che una maggior capacità di
dolore. Quindi è che necessariamente l'uomo sensibile, sentendo più vivamente
degli altri, e quel che l'uomo può vivamente sentire in sua vita non essendo
altro che dolore, dev'esser più infelice degli altri. Egli più capace
d'infelicità, e questa capacità non può mancar d'esser empiuta nell'uomo.
(5. Ottobre 1822.).
[2673,3]
Dei
beni umani il più supremo colmo È sentir meno il
duolo.
*
Sentenza che racchiude la somma di tutta la
filosofia morale e antropologica. Poeta antico nel luogo citato qui sopra.
(19. Feb. 1823.).
[2736,1] È cosa indubitata che i giovani, almeno nel presente
stato degli uomini, dello spirito umano e delle nazioni, non solamente soffrono
più che i vecchi (dico quanto all'animo), ma eziandio (contro quello che può
parere, e che si è sempre detto e si crede comunemente), s'annoiano più che i
vecchi, e sentono molto più di questi il peso della vita, e la fatica e la pena
e la difficoltà di portarlo e di strascinarlo. E questa si è una conseguenza dei
principii posti nella mia teoria del
piacere. Perciocchè ne' giovani è
2737 più
vita o più vitalità che nei vecchi, cioè maggior sentimento dell'esistenza e di
se stesso; e dove è più vita, quivi è maggior grado di amor proprio, o maggiore
intensità e sentimento e stimolo {e vivacità} e forza
del medesimo; e dove è maggior grado o efficacia di amor proprio, quivi è
maggior desiderio e bisogno di felicità; e dove è maggior desiderio di felicità,
quivi è maggiore appetito e smania ed avidità e fame {e
bisogno} di piacere: e non trovandosi il piacere nelle cose umane è
necessario che dove n'è maggior desiderio quivi sia maggiore infelicità, ossia
maggior sentimento dell'infelicità; {quivi maggior senso di
privazione e di mancanza e di vuoto; quivi} maggior noia, maggior
fastidio della vita, maggior difficoltà e pena di sopportarla, maggior disprezzo
e noncuranza della medesima. Quindi tutte queste cose debbono essere in maggior
grado ne' giovani che ne' vecchi; siccome
2738 sono,
massime in questa presente mortificazione e monotonia della vita umana, che
contrastano colla vitalità ed energia della giovanezza; in questa mancanza di
distrazioni violente che stacchino il giovine da se medesimo, e lo tirino fuori
del suo interno; in questa impossibilità di adoperare sufficientemente la forza
vitale, di darle sfogo ed uscita dall'individuo, di versarla fuori, e
liberarsene al possibile; in somma in questo ristagno della vita al cuore e alla
mente e alle facoltà interne dell'uomo, e del giovane massimamente.
[2861,1] In ciascun punto della vita, anche nell'atto del
maggior piacere, anche nei sogni, l'uomo {+o il vivente} è in istato di desiderio, e quindi
non v'ha un solo momento nella vita (eccetto quelli di totale assopimento e
sospensione dell'esercizio de' sensi e di quello del pensiero, da qualunque
cagione essa venga) nel quale l'individuo non sia in istato di pena, tanto
maggiore quanto egli o per età, o per carattere e natura, o per circostanze
mediate o immediate, o abitualmente o attualmente, è in istato di maggior
sensibilità {ed esercizio della vita,} e viceversa.
(30. Giugno 1823.). {{V. p. 3550.}}
[3291,1]
Alla p. 3282.
Bisogna distinguere tra egoismo e amor proprio. Il primo non è che una specie
del secondo. L'egoismo è quando l'uomo ripone il suo amor proprio in non pensare
{che} a se stesso, non operare che per se stesso
immediatamente, rigettando l'operare per altrui con intenzione lontana e non ben
distinta dall'operante, ma reale, saldissima e continua, d'indirizzare quelle
medesime operazioni a se stesso come ad ultimo ed unico vero fine, {+il che l'amor proprio può ben fare, e
fa.} Ho detto altrove p. 1382
pp. 2410-12
pp. 2736-38
pp.
2752-55 che l'amor proprio è tanto maggiore nell'uomo quanto in esso è
maggiore la vita o la vitalità, e questa è tanto maggiore quanto è maggiore la
forza {+e l'attività dell'animo, e del
corpo ancora.} Ma questo, ch'è verissimo dell'amor proprio, non è nè
si deve intendere dell'egoismo. Altrimenti i vecchi, i moderni, gli uomini poco
sensibili e poco immaginosi sarebbero meno egoisti dei {fanciulli e dei} giovani, degli antichi, degli uomini sensibili e di
forte immaginazione.
3292 Il che si trova essere
appunto in contrario. Ma non già quanto all'amor proprio. Perocchè l'amor
proprio è veramente maggiore assai ne' fanciulli e ne' giovani che ne' maturi e
ne' vecchi, maggiore negli uomini sensibili e immaginosi che ne' torpidi. {Che l'amor proprio sia maggiore ne'
fanciulli e ne' giovani che nell'altre età, segno n'è quella infinita e
sensibilissima tenerezza verso se stessi, e quella suscettibilità e
sensibilità e delicatezza intorno a se medesimi che coll'andar degli anni e
coll'uso della vita proporzionatamente si scema, e in fine si suol
perdere.} I fanciulli, i giovani, gli uomini sensibili sono assai più
teneri di se stessi che nol sono i loro contrarii. Così generalmente furono gli
antichi rispetto ai moderni, e i selvaggi rispetto ai civili, perchè più forti
di corpo, più forti ed attivi e vivaci d'animo e d'immaginazione (sì per le
circostanze fisiche, sì per le morali), meno disingannati, e insomma
maggiormente e più intensamente viventi. {Nella stessa guisa discorrasi dei deboli rispetto ai forti e simili.}
(Dal che seguirebbe che gli antichi fossero stati più infelici generalmente de'
moderni, secondo che la infelicità è in proporzion diretta del maggiore amor
proprio, come altrove ho mostrato: p. 1382
pp. 2410-11
pp. 2752-55
pp. 2736-37
pp.
2495-96
p. 2754 ma l'occupazione {e l'uso} delle proprie forze, la distrazione e simili
cose, essendo state infinitamente maggiori in antico che oggidì; e il maggior
grado di vita esteriore essendo stato anticamente più che in
3293 proporzione del maggior grado di vita interiore, resta, come ho
in mille luoghi provato, che gli antichi fossero anzi mille volte meno infelici
de' moderni: e similmente ragionisi de' selvaggi e de' civili: non così de'
giovani e de' vecchi oggidì, perchè a' giovani presentemente è interdetto il
sufficiente uso delle proprie forze, e la vita esterna, della quale tanto ha
quasi il vecchio oggidì quanto il giovane; per la quale e per l'altre cagioni da
me in più luoghi accennate, maggiore presentemente è l'infelicità del giovane
che del vecchio, come pure altrove ho conchiuso pp. 277-80
pp. 2736-38
pp.
2752-55).
[3773,1]
3773 Vogliono che l'uomo per natura sia più sociale di
tutti gli altri viventi. Io dico che lo è men di tutti, perchè avendo più
vitalità, ha più amor proprio, e quindi necessariamente ciascun individuo umano
ha più odio verso gli altri individui sì della sua specie sì dell'altre, secondo
i principii da me in più luoghi sviluppati p. 55
pp. 872. sgg.
pp.
1078-79
pp.
1083-84
pp.
2204-206
p.
2644
pp. 2736. sgg.
p.
3291. Or qual altra qualità è più antisociale, più esclusiva per sua
natura dello spirito di società, che l'amore estremo verso se stesso, l'appetito
estremo di tirar tutto a se, e l'odio estremo verso gli altri tutti? Questi
estremi si trovano tutti nell'uomo. Queste qualità sono naturalmente nell'uomo
in assai maggior grado che in alcun'altra specie di viventi. Egli occupa nella
natura terrestre il sommo grado per queste parti, siccome generalmente egli
tiene la sommità fra gli esseri terrestri.
[3835,1] L'esaltamento di forze proveniente da' liquori o da'
cibi o da altro accidente (non morboso), se non cagiona, come suole sovente, un
torpore e una specie di assopimento letargico (come diceva il Re di Prussia), essendo un
accrescimento di vita, accresce l'effetto essenziale di essa, ch'è il desiderio
del piacere, perocchè coll'intensità della vita cresce {quella del}l'amor proprio, e l'amor proprio è desiderio della propria
felicità, e la felicità è piacere {#1. V. p. 3905.}
{Puoi vedere la p. 3842. seg..} Quindi l'uomo in quello
stato è oltre modo, e più ch'ei non suole, avido {e
famelico} di sensazioni piacevoli, e inquieto per questo desiderio, e
le cerca, e tende con più forza e più direttamente e immediatamente al vero fine
della sua vita e del suo essere e di se stesso, e alla vera somma e sostanza
ultima della felicità, ch'è il piacere, poco, {o men del suo
solito,} curando le altre cose, che spesso son fini delle operazioni e
desiderii umani, ma fini secondarii, benchè tuttogiorno si prendano per primarii
{e per felicità}; perch'essi stessi tendono
essenzialmente ad un altro fine, e tutti ad un fine medesimo, cioè a dire al
piacere. In somma l'uomo è allora rispetto a se stesso ed al solito suo, quello
che sono {sempre} i più forti rispetto agli altri, cioè
più sitibondi della felicità, e più inquieti da' desiderii, cioè dal desiderio
della propria felicità, e più immediatamente e specialmente, e in modo più
espresso, sensibile e manifesto sì agli altri che a se medesimi, avidi del
piacere
3836 (al quale tutti tendono e sempre, ma i più
forti più, e più immediatamente e chiaramente, o ciò più spesso e più
ordinariamente degli altri), perocch'essi sono {abitualmente} più vivi degli altri.
[3842,2] Sempre che l'uomo pensa, ei desidera, perchè tanto
quanto pensa ei si ama. Ed in ciascun momento, a proporzione che la sua facoltà
di pensare è più libera ed intera e {con minore}
impedimento, e che egli più pienamente ed intensamente la esercita, il suo
desiderare è maggiore. Quindi in uno stato di assopimento, di letargo, di {certe} ebbrietà, {#1. V. la pag. 3835.
seg. e 3846.
fine-8.} nell'accesso e recesso del sonno, e in simili stati in
cui la proporzione, la somma, la forza del pensare, l'esercizio del pensiero, la
libertà e la facoltà attuale del pensare, è minore, più impedita, scarsa ec.
l'uomo desidera meno vivamente a proporzione, il suo desiderio, la forza, {la} somma di questo, è minore; e perciò l'uomo è
proporzionatamente meno infelice. Quanto si stende quell'azione della mente ch'è
inseparabile dal sentimento della vita, e sempre proporzionata
3843 al grado di questo sentimento, tanto, e sempre
proporzionato al di lei grado, si stende il desiderio dell'uomo e del vivente, e
l'azione del desiderare. Ogni atto {libero} della
mente, ogni pensiero che non sia indipendente dalla volontà, è in qualche modo
un desiderio {attuale,} perchè tutti cotali atti e
pensieri hanno un fine qualunque, il quale dall'uomo in quel punto è desiderato
in proporzione dell'intensità ec. di quell'atto o pensiero, e tutti cotali fini
spettano alla felicità che l'uomo {e il vivente} per
sua natura sopra tutte le cose necessariamente desidera e non può non
desiderare. (6. Nov. 1823.).
[3846,2] Sempre che il vivente si accorge dell'esistenza, e
tanto più quanto ei più la sente, egli ama se stesso, {Puoi vedere p.
3835. seg.; p. 3842.
seg.} e sempre attualmente,
3847
cioè con una successione continuata e non interrotta di atti, tanto più vivi,
quanto il detto sentimento è attualmente o abitualmente maggiore. Sempre e in
ciascuno istante ch'egli ama {attualmente} se stesso,
egli desidera la sua felicità, e la desidera attualmente, con una serie continua
di atti di desiderio, o con un desiderio sempre presente, e non sol potenziale,
ma posto sempre in atto, tanto più vivo, quanto ec. come sopra. Il vivente non
può mai conseguire la sua felicità, perchè questa vorrebb'essere infinita, come
s'è spiegato altrove pp. 165.
sgg.
pp. 1017-18, e tale ei la desidera; or tale in effetto ella non può
essere. Dunque il vivente non ottiene mai e non può mai ottenere l'oggetto del
suo desiderio. Sempre pertanto ch'ei desidera, egli è {necessariamente} infelice, perciò appunto ch'ei desidera inutilmente,
esclusa anche ogni altra cagione d'infelicità; giacchè un desiderio non
soddisfatto è uno stato penoso, dunque uno stato d'infelicità. E tanto più
infelice quanto ei desidera più vivamente. Non v'è dunque pel vivente altra
felicità possibile, e questa solamente negativa, cioè mancanza d'infelicità; non
è, dico, possibile al vivente il mancare d'infelicità positiva altrimenti che
non desiderando la sua felicità, nè per altro mezzo che quello di non bramar la
felicità. Ma sempre ch'ei si ama, ei la desidera; e mentre ch'ei sente di
esistere, non può, nè anche per un istante, cessare di amarsi; e più ch'ei sente
di esistere, più si ama e più desidera. Il discorso dunque della felicità umana
e di qualunque vivente si riduce per evidenza a questi termini, {+e a questa conclusione.} Una specie
di
3848 viventi rispetto all'altra {o all'altre generalmente ec.,} è tanto più felice, cioè tanto meno
infelice, tanto più scarsa d'infelicità positiva, quanto meno dell'altra ella
sente l'esistenza, cioè quanto men vive {e più si accosta ai
generi non animali.} (Dunque la specie de' polipi, {+zoofiti ec.} è la più felice delle
viventi). Così un individuo rispetto all'altro o agli altri. (Dunque il più
stupido degli uomini è di questi il più felice: e la nazion de' Lapponi la più
felice delle nazioni ec.). E un individuo rispetto a se stesso allora è più
felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso; dunque in una ebbrietà
letargica, in uno alloppiamento, come quello de' turchi, {debolezza non penosa,} ec. negl'istanti che precedono il sonno o il
risvegliarsi ec. Ed allora solo sì l'uomo, sì il vivente è e può essere
pienamente felice, cioè pienamente non infelice e privo d'infelicità positiva,
quando ei non sente in niun modo la vita, cioè nel sonno, letargo, svenimento
totale, negl'istanti che precedono la morte, cioè la fine del suo esser di
vivente ec. Ciò vuol dire quando ei non è capace neanche di felicità veruna, nè
di piacere o bene veruno, assolutamente; quando ei vivendo, non vive; allora
solo egli è pienamente felice. S'ei desidera la felicità, non può esser felice;
meno ei la desidera, meno è infelice; nulla desiderandola, non è punto infelice.
Quindi l'uomo {e il vivente} è anche tanto meno
infelice, quanto egli è più distratto dal desiderio della felicità, mediante
l'azione e l'occupazione esteriore o interiore, come ho spiegato altrove pp.
172-73
pp. 1584-86. O
distrazione o letargo: ecco i soli mezzi di felicità che hanno e possono mai
aver gli animali. (7. Nov. 1823.).
[3921,1]
3921 Dico altrove in più luoghi p. 1382
pp. 2410-14
pp. 2736-39
pp.
3291. sgg.
pp. 3835-36
p.
3906 che gli uomini e i viventi più forti o per età o per complessione
{o per clima} o per qualunque causa, abitualmente o
attualmente o comunque, avendo più vita ec. hanno anche più amor proprio ec. e
quindi sono più infelici. Ciò è vero per una parte. Ma essi sono anche tanto più
capaci e di azion viva ed esterna, e di piaceri {forti
e} vivi. Quindi tanto più capaci di viva distrazione ed occupazione, e
di poter fortemente divertire l'operazione {interna}
dell'amor proprio e del desiderio di felicità sopra loro stessi e sul loro
animo. La qual potenza ridotta in atto è uno de' principalissimi mezzi, anzi
forse il principal mezzo di felicità o di minore infelicità conceduto ai
viventi. (Io considero quelli che si chiamano piaceri come utili e conducenti
alla felicità, solo in quanto distrazioni forti, e vivi divertimenti dell'amor
proprio, (chè infatti essi non sono utili in altro modo) e tanto più forti
distrazioni, quanto più vivi e forti sono essi piaceri, così chiamati, e
maggiore il loro essere di piacere, e la sensazion loro più viva. I deboli sono
incapaci di piaceri forti, o solo di rado e poco frequenti, e men forti sempre
che non ne provano i vigorosi, perchè la lor natura non ha la facoltà o di
sentire più che tanto vivamente, o di sentire piacevolmente quando le sensazioni
sieno più che tanto vive.) Se l'uomo forte in qualunque modo, è privo, per
qualunque cagione, di piaceri, o di piaceri abbastanza forti, e di sensazioni
vive, e di poter mettere in opera la sua facoltà di azione, o di metterla in
opera più che il debole, egli è veramente più infelice che il debole, e soffre
3922 di più. Perciò, fra le altre cose, nel
presente stato delle nazioni e quanto alla sua natura, i giovani sono
generalmente più infelici dei vecchi, e questo stato è più conveniente e buono
alla vecchiezza che alla giovanezza. L'uomo forte è meno infelice del debole in
uguali dispiaceri e dolori; più infelice s'egli è privo di piaceri, o di piaceri
più vivi {e frequenti} che non son quelli del debole.
Egli {è} più atto a soffrire, e meno atto a non godere;
o vogliamo dire men disadatto all'uno, e più disadatto all'altro.
[4037,6] Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel
conversare, e massime gli sprezzanti avessero più amor proprio degli altri e più
stima di se, e i timidi meno. Tutto al contrario. I timidi per eccesso di amor
proprio e per il troppo conto che fanno di se, temendo sempre di sfigurare e
perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di acquistarla e di
figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del proprio onore, del
proprio concetto, del proprio amore, e occupati e legati da questo pensiero,
sono senza coraggio, e non si ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti fanno al
contrario
4038 per la contraria cagione, cioè per aver
poca cura e poco concetto concetto di se, o desiderio della stima degli altri
(che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura, o per
abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano
di offendere l'amor proprio degli altri, e n'hanno poca cura, per poco amor di
se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille scrupoli e riguardi, e non
impetrano mai da se stessi non che di lederlo menomamente, ma di porsene a
rischio benchè leggero e lontano, e ciò per soverchio amor proprio, il quale
parrebbe che dovesse principalmente offendere e muoverli ad offendere quello
degli altri. E così per soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar
dispregio degli altri, e infatti non gli spregiano, anzi gli stimano
eccessivamente non per altro che per lo smisurato desiderio e conto che fanno
della loro stima, anche conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema
che hanno di perderla, eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per
rispetto al merito di coloro. Tali sono ordinariamente i fanciulli e i giovani
ancora inesperti e inesercitati nel commercio umano e nelle palestre dell'amor
proprio, dov'esso riporta tanti colpi, che alla fine incallisce; e tali sono più
o manco, per più o men lungo tempo, ed alcune per tutta la vita, le persone
sensibili e immaginose, le quali restano {sovente}
fanciulle anche in età matura, e vecchia, sì quanto a {molte} altre cose, sì quanto a questa della timidità {nel consorzio umano,} che in esse è sempre difficile a
vincere più {assai} che negli altri, e in alcune è
assolutamente invincibile, come {fu} in Rousseau. La cagione si è l'eccesso
dell'amor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza
dell'animo; ed insieme la vivacità della immaginazione, la quale non mai
veramente spenta {in loro,} nè anche quando pare
affatto agghiacciata, e quando effettivamente ha cessato affatto di partorire
alcun piacere all'individuo medesimo, continuamente,
4039 secondo la sua natura, va fingendo ad esso amor proprio che è per se
vivissimo, mille falsi pericoli e difficoltà, o smisuratamente accrescendo e
moltiplicando i veri. Sì, Rousseau e gli
altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da
un'invincibile e irrepugnabile timidità, anzi mauvaise
honte ed erubescenza, non furono e non son tali se non
per eccesso di amor proprio e d'immaginazione. Altro danno e infelicità somma
della soprabbondanza della vita interna dell'anima (oltre i tanti da me altrove
notati p. 1382
p.
1584
pp. 2410-14
pp.
2629-30
pp. 2736-39
p.
2861
pp.
3921. sgg.), della sensibilità, della squisitezza dell'ingegno, della
natura riflessiva, immaginosa ec. Poichè in essa l'amor proprio essendo
eccessivo e però tanto più bisognoso di successi, e desiderando la stima altrui
e temendo la disistima molto più che gli altri non fanno, e impedito di
conseguire e costretto ad incontrare quelli che gli altri con molto minor
desiderio e bisogno conseguono facilissimamente ogni dì, ed evitano con molto
minor tema, e che quando nol conseguissero o non lo evitassero, ne sarebbero
molto meno afflitti e infelicitati, per la minore vivacità {e
sensibilità} dell'amor proprio, ed anche della immaginazione, la quale
a quegli altri accresce eziandio per se stessa e con mille false esagerazioni e
finzioni la grandezza delle perdite fatte, di quello che essi desiderano
naturalmente di conseguire, di quello che non ottengono, dei mali successi
incontrati nella società, delle ἀσχημοσύναι, che anche bene spesso non son vere
affatto, ma fabbricate di pianta dall'immaginazione, e non esistono se non
nell'idea di questi tali, e così anche i buoni successi o gli oggetti che essi
si propongono di conseguire che spessissimo sono vani e immaginari, e da niuno
ottenuti nè possibili ad ottenere ec. ec. (1. Marzo. penultimo dì di
Carnevale. 1824.) Ciò che ho detto dell'immaginazione, dico
4040 dell'amor proprio, il quale in questi tali, anche
quando sembra rotto e fiaccato dall'uso de' mali, {dispiaceri, punture ec.} anzi minore assai che non è negli altri, e
quasi al tutto agghiacciato, addormentato e spento, è sempre in verità vivissimo
assai più che negli altri anche giovani e principianti, caldissimo, e {ancora} in istato da esser chiamato tenerezza di se
stesso (come suol essere nella gioventù) benchè sia in loro più {negativo che} positivo, più atto a impedire che a
cagionare, piuttosto causa di passione che d'azione ec. quale egli è
proporzianatamente[proporzionatamente] anche
ne' primi anni di questi tali. (3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri.
1824.).
[4074,1]
4074
{Alla p.
4043.} Qualunque poesia o scrittura, o qualunque parte di
esse esprime o collo stile o co' sentimenti, il piacere e la voluttà, esprime
ancora o collo stile o co' sentimenti formali o con ambedue un abbandono una
noncuranza una negligenza una specie di dimenticanza d'ogni cosa. E generalmente
non v'ha altro mezzo che questo ad esprimere la voluttà. Tant'è, il piacere non
è che un abbandono e un oblio della vita, e una specie di sonno e di morte. Il
piacere è piuttosto una privazione o una depressione di sentimento che un
sentimento, e molto meno un sentimento vivo. Egli è quasi un'imitazione della
insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario
alla vita ed alla privazione di essa, perchè la vita per sua natura è dolore.
Onde è piacevole l'esserne privato in quanta parte si può, senza dolore e
senz'altro patimento che nasca o sia annesso a questa privazione. Quindi il
piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che
privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario.
Tali almeno sono i maggiori e più veraci piaceri. I piaceri vivi sono anche
manco piaceri. Sempre portano seco qualche pena, qualche sensazione incomoda,
qualche turbamento, e ciò annesso {cagionato} e
dipendente essenzialmente da loro. (19. Aprile. Lunedì di Pasqua.
1824.) Dunque la vita è un male e un dispiacere per se, poichè la
privazione di essa in quanto si può è naturalmente piacere. Infatti la vita è
naturalmente uno stato violento, poichè {naturalmente}
priva del suo sommo e naturale
4075 bisogno, desiderio,
fine, e perfezione che è la felicità. E non cessando mai questa violenza, non
v'è un solo momento di vita sentita che sia senza positiva infelicità e positiva
pena e dispiacere. (20. Aprile. Martedì di Pasqua. 1824.). {{+ [p. 4057,2]}}
[4133,2] Tutta la natura è insensibile, fuorchè solamente gli
animali. E questi soli sono infelici, ed è meglio per essi il non essere che
l'essere, o vogliamo dire il non vivere che il vivere. Infelici però tanto meno
quanto meno sono sensibili (ciò dico delle specie e degli individui) e
viceversa. La natura tutta, e l'ordine eterno delle cose non è in alcun modo
diretto alla felicità degli esseri sensibili o degli animali. Esso vi è anzi
contrario. Non vi è neppur diretta la natura loro propria e l'ordine {eterno} del loro essere. Gli enti sensibili sono per
natura enti souffrants, una parte essenzialmente souffrant dello universo. Poichè essi esistono e le
loro specie si perpetuano, convien dire che essi siano un anello necessario alla
gran catena degli esseri, e all'ordine e alla esistenza di questo tale universo,
al quale sia utile il loro danno, poichè la loro esistenza è un danno per loro,
essendo essenzialmente una souffrance. Quindi questa
loro necessità è un'imperfezione della natura, e dell'ordine universale,
imperfezione essenziale ed eterna, non accidentale. Se però la souffrance d'una menoma parte della
4134 natura, qual è tutto il genere animale preso insieme, merita di
esser chiamato[chiamata] un'imperfezione. Almeno
ella è piccolissima e quasi un menomo neo nella natura {universale} nell'ordine ed esistenza del gran tutto. Menomo perchè
gli animali rispetto alla somma di tutti gli altri esseri, e alla immensità del
gran tutto sono un nulla. E se noi li consideriamo come la parte principale
delle cose, gli esseri più considerabili, e perciò come una parte non minima,
anzi massima, perchè grande per valore se minima per estensione; questo nostro
giudizio viene dal nostro modo di considerar le cose, di pesarne i rapporti, di
valutarle comparativamente, di estimare e riguardare il gran sistema del tutto;
modo e giudizio naturale a noi che facciamo parte noi stessi del genere animale
e sensibile, ma non vero, nè fondato sopra basi indipendenti e assolute, nè
conveniente colla realtà delle cose, nè conforme al giudizio e modo (diciamo
così) di pensare della natura universale, nè corrispondente all'andamento del
mondo, nè al vedere che tutta la natura, fuor di questa sua menoma parte, è
insensibile, e che gli esseri sensibili sono per necessità souffrants, {+e tanto più
sempre, quanto più sensibili.} Onde anzi si dovrebbe conchiudere, che
essi stessi, o la sensibilità astrattamente, sono una imperfezione della natura,
o vero gli ultimi, cioè infimi di grado e di nobiltà {e
dignità} nella serie degli esseri e delle proprietà delle cose.
(9. Aprile. Sabato in Albis. 1825.). {{V. p.
4137.}}
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