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[72,2]  Anche il dolore {che nasce} dalla noia e dal sentimento della vanità delle cose è più tollerabile {assai} che la stessa noia.

[140,1]  Il dolore o la disperazione che nasce dalle grandi passioni e illusioni {o da qualunque sventura della vita} non è paragonabile all'affogamento che nasce dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di tutte le cose, e della impossibilità di esser felice a questo mondo, e dalla immensità del vuoto che si sente nell'anima. Le sventure o {d'}immaginazione o reali, potranno anche indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma quel dolore ha più della vita, anzi, massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e quest'{altro dolore} ch'io dico è tutto morte; e quella  141 medesima morte prodotta immediatamente dalle sventure è cosa più viva, laddove quest'altra è più sepolcrale, senz'azione senza movimento senza calore, e quasi senza dolore, ma piuttosto con un'oppressione smisurata e un accoramento simile a quello che deriva dalla paura degli spettri nella fanciullezza, o dal pensiero dell'inferno. Questa condizione dell'anima è l'effetto di somme sventure reali, e di una grand'anima piena una volta d'immaginazione e poi spogliatane affatto, e anche di una vita così evidentemente nulla e monotona, che renda sensibile e palpabile la vanità delle cose, perchè senza ciò la gran varietà delle illusioni che la misericordiosa natura ci mette innanzi tuttogiorno, impedisce questa fatale e sensibile evidenza. E perciò non ostante che questa condizione dell'anima sia ragionevolissima anzi la sola ragionevole, con tutto ciò essendo contrarissima anzi la più dirittamente contraria alla natura, non si sa se non di pochi che l'abbiano provata, come del Tasso.

[172,1]  Da questa teoria del piacere deducete che la grandezza anche delle cose non piacevoli per se stesse, diviene un piacere per questo solo ch'è grandezza. E non attribuite questa cosa alla grandezza immaginaria della nostra natura. Posta la detta teoria, si viene a conoscere (quello ch'è veramente) che il desiderio del piacere diviene una pena, e una specie {di travaglio} abituale dell'anima. Quindi 1. un assopimento dell'anima è piacevole. I turchi se lo proccurano coll'oppio, ed è grato all'anima perchè in quei momenti non è affannata dal desiderio, perchè è come un riposo dal desiderio tormentoso, e impossibile a soddisfar pienamente; {un intervallo come il sonno nel quale se ben l'anima forse non lascia di pensare, tuttavia non se n'avvede.} 2. la vita continuamente occupata è la più felice, quando anche non sieno occupazioni e sensazioni vive, e varie. L'animo occupato è distratto da quel desiderio innato che non lo lascerebbe in pace, o lo rivolge a quei piccoli fini della giornata (il terminare un lavoro {il provvedere ai suoi bisogni ordinari ec.} ec. ec.) giacchè li considera allora come piaceri (essendo piacere tutto quello che l'anima desidera), e conseguitone uno, passa a un altro, così che è distratto da desideri maggiori, e non ha campo di affliggersi della vanità e del vuoto delle cose, e la speranza di quei  173 piccoli fini, e i {piccoli} disegni sulle occupazioni {avvenire} o sulle speranze di un esito {generale} lontano e desiderato, bastano a riempierlo, e a trattenerlo nel tempo del suo riposo, il quale non è troppo lungo perchè sottentri la noia; oltre che il riposo dalla fatica è un piacere per se. Questa dovea esser la vita dell'uomo, ed era quella dei primitivi, ed è quella dei selvaggi, {degli agricoltori ec.} e gli animali non per altra cagione se non per questa principalmente, vivono felici. Ed osservate come lo spettacolo della vita occupata laboriosa e domestica, sembri anche oggidì, a chi vive nel mondo, lo spettacolo della felicità, anche per la mancanza dei dolori, e delle cure e afflizioni reali. 3. il maraviglioso, lo straordinario è piacevole, quantunque la sua qualità particolare non appartenga a nessuna classe delle cose piacevoli. L'anima prova sempre piacere quando è piena (purchè non sia di dolore), e la distrazione viva ed intera è un piacere {rispetto a lei} assolutamente, come il riposo dalla fatica è piacere, perchè una tal distrazione è riposo dal desiderio. E come è piacevole lo stupore cagionato dall'oppio (anche relativamente alla dimenticanza dei mali positivi), così quello cagionato dalla maraviglia, dalla novità, e dalla singolarità. Quando anche la maraviglia non sia tanta che riempia l'anima, se non altro l'occupa sempre fortemente, ed è piacevole per questa parte. Notate che la natura aveva voluto che la maraviglia {1.} fosse cosa ordinarissima all'uomo, 2. fosse {spessissimo} intera, cioè capace di riempier tutta l'anima. Così accade ne' fanciulli, e accadeva ne' primitivi, e ora negl'ignoranti, ma non può accadere senza l'ignoranza, e l'ignoranza d'oggi non può mai esser come quella dell'uomo che non vive in società, perchè vivendo in società,  174 l'esperienza de' passati e de' presenti l'istruisce, più o meno, ma sempre l'istruisce, e la novità diventa rara. 4. anche l'immagine del dolore e delle cose terribili ec. è piacevole, come ne' drammi e poesie d'ogni sorta, spettacoli ec. Purchè l'uomo non tema o non si dolga per se, la forza della distrazione gli è sempre piacevole. Non è bisogno che quelle immagini siano di cose straordinarie: in questo caso cadrebbero sotto la categoria precedente. Ma la semplice immagine del dolore ec. è sufficiente a riempier l'animo e distrarlo. 5. la grandezza di ogni qualsivoglia genere (eccetto del proprio {male}) è piacevole. Naturalmente il grande occupa più spazio del piccolo, salvo se la piccolezza è straordinaria, nel qual caso occupa più della grandezza ordinaria. Questo ch'io dico della grandezza è un effetto materiale derivante dalla inclinazione dell'uomo al piacere, e non dalla inclinazione alla grandezza. Si potrebbe forse dir lo stesso del sublime, il quale è cosa diversa dal bello ch'è piacevole all'uomo per se stesso. In somma la noia non è altro che una mancanza del piacere che è l'elemento della nostra esistenza, e di cosa che ci distragga dal desiderarlo. Se non fosse la tendenza imperiosa dell'uomo al piacere sotto qualunque forma, la noia, quest'affezione tanto comune, tanto frequente, e tanto abborrita non esisterebbe. E infatti per che motivo l'uomo dovrebbe sentirsi male, quando non ha male nessuno? Poniamo un uomo isolato senza nessuna occupazione spirituale o corporale, e senza nessuna cura o afflizione o dolor positivo, o annoiato  175 dalla uniformità di una cosa non penosa nè dispiacevole per sua natura, e ditemi per che motivo quest'uomo deve soffrire. E pur vediamo che soffre, e si dispera, e preferirebbe qualunque travaglio a quello stato. (Anzi è famosa la risposta affermativa data dai medici consultati dal duca di Brancas, se la noia potesse uccidere: Lady Morgan France l. 8. notes) Non per altro se non per un desiderio ingenito e compagno inseparabile dell'esistenza, che in quel tempo non è soddisfatto, non ingannato, non mitigato, non addormentato. E la natura è certo che ha provveduto in tutti i modi contro questo male, all'orrore e ripugnanza del quale nell'uomo, si può paragonare quell'orrore del vuoto che gli antichi fisici supponevano nella natura, per ispiegare alcuni effetti naturali. Ha provveduto col dare all'uomo molti bisogni, e nella soddisfazione del bisogno (come della fame e della sete, {freddo, caldo ec.}) porre il piacere, quindi col volerlo occupato; colla gran varietà, {colla immaginazione che l'occupa anche del nulla,} ed anche col timore (il quale sebbene è un effetto naturale e spontaneo anch'esso dell'amor proprio, tuttavia bisogna considerare il sistema della natura in genere, e la mirabile armonia e corrispondenza di diversi effetti a questo o quello scopo), coi pericoli i quali affezionano maggiormente alla vita, e sciolgono la noia, {colle turbazioni degli elementi,} coi dolori e coi mali istessi, perchè è più dolce il guarir dai mali, che il vivere senza mali; {+e con tali altri disastri, che si considerano come mali, e quasi difetti della natura, scusandola col definirli per accidenti fuori dell'ordine; ma che forse essendo tali ciascuno, non lo sono tutti insieme; ed appartengono anch'essi al gran sistema universale.} In somma il sistema della natura rispetto all'uomo è sempre diretto ad allontanar da lui questo male formidabile della noia, che a detta di tutti i filosofi essendo così frequente all'uomo moderno, è quasi sconosciuto al primitivo (e così agli animali). E osservate come i fanciulli {anche} in una quasi perfetta inazione, pur di rado o {non} mai sentano  176 il vero tormento della noia, perchè ogni minima bagattella basta ad occuparli tutti interi, e la forza della loro immaginazione dà corpo e vita e azione ad ogni fantasia che si affacci loro alla mente ec. e trovano in somma in se stessi una sorgente inesauribile di occupazioni {e} sempre varie. Questo senza cognizioni, senza esperienze, senza viaggi, senz'aver veduto udito ec. in un mondo ristrettissimo {e uniforme.} E laddove parrebbe che quanto più questo mondo e questo campo si accresce {e diversifica,} tanto più {ampio e vario per} l'uomo dovesse essere il fondo delle occupazioni interne come son quelle dei fanciulli, {e la noia tanto più rara,} nondimeno vediamo accadere tutto il contrario. Gran lezione per chi non vuol riconoscere la natura come sorgente quasi unica di felicità, e l'alterazione di lei, come certa cagione d'infelicità. Del resto che la forza e fecondità dell'immaginazione 1. come rende facilissima l'azione, così spessissimo renda facile l'inazione, 2. sia cosa ben diversa dalla profondità della mente, la quale per lo contrario conduce all'infelicità, è manifesto per l'esempio de' popoli meridionali, segnatamente degl'italiani, rispetto ai settentrionali. Giacchè gl'italiani {1.} come una volta per il loro entusiasmo figlio di un'immaginazione viva e più ricca che profonda, erano attivissimi, così ora una delle cagioni per cui non si accorgono o {almeno} non si disperano affatto di una vita sempre uniforme, e di una perfetta inazione, è la stessa immaginazione ugualmente ricca e varia, e la soprabbondanza delle sensazioni che ne deriva, la quale gl'immerge senza che se n'avvedano in una specie di rêve, come i fanciulli quando son soli ec. cosa continuamente inculcata dalla Staël, {laddove i settentrionali non avendo tal sorgente di occupazione interna atta a consolarli, per necessità ricorrono all'esterna, e divengono attivissimi.} 2. la profondità della mente,  177 e la facoltà di penetrare nei più intimi recessi del vero dell'astratto ec. quantunque non sia loro ignota a cagione della loro sottigliezza, {prontezza e penetrazione, (che rende loro più facile il concepimento e la scoperta del vero, laddove agli altri bisogna più fatica, e perciò spesso sbagliano con tutta la profondità)} contuttociò non è il loro forte, e per lo contrario forma tutta l'occupazione e quindi l'infelicità dei settentrionali colti (osservate perciò la frequenza de' suicidi in inghilterra) i quali non hanno cosa che li distragga dalla considerazione del vero. E quantunque paia che l'immaginazione anche appresso loro sia caldissima originalissima ec. tuttavia quella è piuttosto filosofia e profondità, che immaginazione, e la loro poesia piuttosto metafisica che poesia, venendo più dal pensiero che dalle illusioni. {E il loro sentimentale è piuttosto disperazione che consolazione.} E la poesia antica perciò appunto non è stata mai fatta per loro; perciò appunto hanno gusti tutti differenti, e si compiacciono degli {enti} allegorici, delle astrazioni ec. (V. p. 154.) perciò appunto sarà sempre vero che la nostra è propriamente la patria della poesia, e la loro quella del pensiero. (v. p. 143-144.)

[239,1]  Non per altro che per odio della noia vediamo oggidì concorrere avidamente il popolo agli spettacoli sanguinosi delle esecuzioni pubbliche, e a tali altri, che non hanno niente di piacevole in se (come potevano averne quelli de' gladiatori e delle bestie nel circo, per la gara, l'apparato ec.) ma solamente in quanto fanno un vivo contrasto colla monotonia della vita. Così tutte le altre cose straordinarie, e perciò gradite, benchè non solo non piacevoli, ma dispiacevolissime in se.

[262,1]  L'uomo si disannoia per lo stesso sentimento vivo della noia universale e necessaria.

[1690,1]  Alla p. 1656. principio. La malinconia per es. fa veder le cose e le verità (così dette) in aspetto diversissimo e contrarissimo a quello in cui le fa veder l'allegria. {+V'è anche uno stato di mezzo che le fa pur vedere al suo modo, cioè la noia.} E l'allegro e il malinconico {ec.} (sieno pur due pensatori e filosofi, o uno stesso filosofo in due diversi tempi e stati) sono persuasissimi di  1691 vedere il vero, ed hanno le loro convincenti ragioni per crederlo. Vero è pur troppo che astrattamente parlando, l'amica della verità, la luce per discoprirla, la meno soggetta ad errare è la malinconia {e soprattutto la noia}; ed il vero filosofo nello stato di allegria non può far altro che persuadersi, non che il vero sia bello o buono, ma che il male cioè il vero si debba dimenticare, e consolarsene, {+o che sia conveniente di dar qualche sostanza alle cose, che veramente non l'hanno.} (13. Sett. 1821.). {{V. p. 1694. fine.}}

[1815,1]  La noia è la più sterile delle passioni umane. Com'ella è figlia della nullità, così è madre del nulla: giacchè non solo è sterile per se, ma rende tale tutto ciò a cui si mesce o avvicina ec. (30. Sett. 1821.).

[1988,3]  L'uomo che a tutto si abitua, non si abitua mai alla inazione. Il tempo che tutto alleggerisce, indebolisce, distrugge, non distrugge mai nè indebolisce il disgusto e la fatica che l'uomo prova nel non far nulla. L'assuefazione  1989 intanto può influire sull'inazione, in quanto può trasportare l'azione dall'esterno all'interno, e l'uomo forzato a non muoversi, o in qualunque modo a non operare al di fuori, acquista appoco appoco l'abito di operare al di dentro, di farsi compagnia da se stesso, di pensare, d'immaginare, di trattenersi insomma vivamente col proprio solo pensiero (come fanno i fanciulli, come si avvezzano a fare i carcerati ec.). Ma la pura noia, il puro nulla, nè il tempo nè alcuna forza possibile (se non quella che intorpidisce o estingue o sospende le facoltà umane, come il sonno, l'oppio, il letargo, una totale prostrazione di forze ec.) non basta a renderlo meno intollerabile. Ogni momento di pura inazione è tanto grave all'uomo dopo dieci anni {di assuefazione,} quanto la prima volta. La nullità, il non fare, il non vivere, la morte, è l'unica cosa di cui l'uomo sia incapace, e  1990 alla quale non possa avvezzarsi. Tanto è vero che l'uomo, il vivente, e tutto ciò che esiste, è nato per fare, e per fare tanto vivamente, quanto egli è capace, vale a dire che l'uomo è nato per l'azione esterna ch'è assai più viva dell'interna. {+Tanto più che l'interna nuoce al fisico quanto ell'è maggiore e più assidua, e l'esterna viceversa. Quanto all'azione interna dell'immaginazione, essa sprona e domanda impazientemente l'esterna, e riduce l'uomo a stato violento, se questa gli è impedita.} E quella infatti agognano i giovani, i primitivi, gli antichi, e non si può loro impedire senza metter la loro natura in istato violento. Ciò non per altro se non perchè l'uomo {e il vivente} tende sempre naturalmente alla vita, e a quel più di vita che gli conviene. (26. Ott. 1821.).

[2219,3]  La disperazione è molto ma molto più piacevole della noia. La natura ha  2220 provveduto, ha medicato tutti i nostri mali possibili, anche i più crudeli ed estremi, anche la morte (di cui v. i miei pensieri relativi pp. 281-83 pp. 290-93 pp. 2182-84), a tutti ha misto del bene, anzi ne l'ha fatto risultare, l'ha congiunto all'essenza loro; a tutti i mali, dico, fuorchè alla noia. Perchè questa è la passione la più contraria e lontana alla natura, quella a cui non aveva non solo destinato l'uomo, ma neppur sospettato nè preveduto che vi potesse cadere, e destinatolo e incamminatolo dirittamente a tutt'altro possibile che a questa. Tutti i nostri mali infatti possono forse trovare i loro analoghi negli animali: fuorchè la noia. Tanto ell'è stata proscritta dalla natura, ed ignota a lei. Come no infatti? la morte nella vita? la morte sensibile, il nulla nell'esistenza? {+e il sentimento di esso, e della nullità di ciò che è, e di quegli stesso che la concepisce e sente, e in cui sussiste?} e morte e nulla vero, perchè le morti e distruzioni corporali, non sono altro che trasformazioni di sostanze e e di qualità, e il fine di esse non è la morte,  2221 ma la vita perpetua della gran macchina naturale, e perciò esse furono volute e ordinate dalla natura.

[2242,2]  Ogni uomo sensibile prova un sentimento di dolore, o una commozione, un senso di malinconia, fissandosi col pensiero in una cosa che sia finita per sempre, massime s'ella è stata al tempo suo, e familiare a lui. Dico di qualunque cosa soggetta  2243 a finire, come la vita o la compagnia della persona la più indifferente per lui (ed anche molesta, anche odiosa), la gioventù della medesima; un'usanza, un metodo di vita. ec. Fuorchè se questa cosa per sempre finita, non è appunto un dolore, una sventura ec. {+o una fatica, o se l'esser finita, non è lo stesso che aver conseguito il suo proprio scopo, esser giunta dove per suo fine mirava ec.} Sebbene anche, nel caso che a questa ci siamo abituati, proviamo ec. Solamente della noia non possiamo dolerci mai che sia finita.

[2433,1]  Amando il vivente {quasi} sopra ogni cosa la vita, non è maraviglia che odi quasi sopra ogni cosa la noia, la quale è il contrario della vita vitale (come dice Cic. in Lael.). Ed in tanto non l'odia sempre sopra ogni cosa, in quanto non ama neppur sempre la vita sopra ogni cosa; p. e. quando un eccesso di dolor fisico gli fa desiderare anche naturalmente la morte, e preferirla a quel dolore. Vale a  2434 dire quando l'amor proprio si trova in maggiore opposizione colla vita che colla morte. E perciò solo egli preferisce la noia al dolore, cioè perchè gli preferisce eziandio la morte, se non quanto spera di liberarsi dal dolore, e il desiderio della vita è così mantenuto puramente dalla speranza.

[2599,1]  L'uniformità è certa cagione di noia. L'uniformità è noia, e la noia uniformità. D'uniformità vi sono moltissime specie. V'è anche l'uniformità prodotta dalla continua varietà, e questa pure è noia, come ho detto altrove p. 51, e provatolo con esempi. V'è la continuità di tale o tal piacere, la qual continuità è uniformità, e perciò noia ancor essa, benchè il suo soggetto sia il piacere. Quegli sciocchi poeti, i quali vedendo che le descrizioni nella poesia sono piacevoli hanno ridotto la poesia a {continue} descrizioni, hanno tolto il piacere, e sostituitagli la noia (come i bravi poeti stranieri moderni, detti descrittivi): ed io ho veduto persone di niuna letteratura, leggere avidamente l'Eneide  2600 (ridotta nella loro lingua) la qual par che non possa esser gustata da chi non è intendente, e gettar via dopo i primi libri le Metamorfosi, che {pur} paiono scritte per chi si vuol divertire con poca spesa. Vedi quello che dice Omero in persona di Menelao: Di tutto è sazietà, della cetra, del sonno * ec. La continuità de' piaceri, (benchè fra loro diversissimi) o di cose poco differenti dai piaceri, anch'essa è uniformità, e però noia, e però nemica del piacere. E siccome la felicità consiste nel piacere, quindi la continuità de' piaceri (qualunque si sieno) è nemica della felicità per natura sua, essendo nemica e distruttiva del piacere. La Natura ha proccurato in tutti i modi la felicità degli animali. Quindi ell'ha dovuto allontanare e vietare agli animali la continuità dei piaceri. (Di più abbiamo veduto {parecchie volte} pp. 172-77 pp. 2433-34 come la Natura ha combattuto la noia in tutti i modi possibili, ed avutala in quell'orrore che gli antichi le attribuivano rispetto al vuoto.) Ecco come i mali vengono ad esser necessarii alla stessa felicità, e pigliano vera e reale essenza  2601 di beni nell'ordine generale della natura: massimamente che le cose indifferenti, cioè non beni e non mali, sono cagioni di noia per se, come ho provato altrove pp. 1554-55, e di più non interrompono il piacere, e quindi non distruggono l'uniformità, così vivamente e pienamente come fanno, e soli possono fare, i mali. Laonde le convulsioni degli elementi e altre tali cose che cagionano l'affanno e il male del timore all'uomo naturale o civile, e parimente agli animali ec. le infermità, e cent'altri mali inevitabili ai viventi, anche nello stato primitivo, (i quali mali benchè accidentali uno per uno, forse il genere e l'università loro non è accidentale) si riconoscono per conducenti, e in certo modo necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti e collocati e ricevuti nell'ordine naturale, il qual mira in tutti i modi alla predetta felicità. E ciò non solo perch'essi mali danno risalto ai beni, e perchè più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma perchè senza essi mali, i beni  2602 non sarebbero neppur beni, {a poco andare,} venendo a noia, e non essendo gustati, nè sentiti come beni e piaceri, e non potendo la sensazione del piacere, in quanto realmente piacevole, durar lungo tempo ec. (7. Agosto 1822.).

[2661,1]  Et quamquam optatissimum est, perpetuo fortunam quam florentissimam permanere; illa tamen aequabilitas vitae non tantum habet sensum, * (mallem sensus 2do casu, quod magis tullianum est) quantum cum ex saevis et perditis rebus ad meliorem statum fortuna revocatur. * Cic. ap. Ammian. Marcell. XV. 5. (23. Dic. antivigilia di Natale 1822.)

[2736,1]  È cosa indubitata che i giovani, almeno nel presente stato degli uomini, dello spirito umano e delle nazioni, non solamente soffrono più che i vecchi (dico quanto all'animo), ma eziandio (contro quello che può parere, e che si è sempre detto e si crede comunemente), s'annoiano più che i vecchi, e sentono molto più di questi il peso della vita, e la fatica e la pena e la difficoltà di portarlo e di strascinarlo. E questa si è una conseguenza dei principii posti nella mia teoria del piacere. Perciocchè ne' giovani è  2737 più vita o più vitalità che nei vecchi, cioè maggior sentimento dell'esistenza e di se stesso; e dove è più vita, quivi è maggior grado di amor proprio, o maggiore intensità e sentimento e stimolo {e vivacità} e forza del medesimo; e dove è maggior grado o efficacia di amor proprio, quivi è maggior desiderio e bisogno di felicità; e dove è maggior desiderio di felicità, quivi è maggiore appetito e smania ed avidità e fame {e bisogno} di piacere: e non trovandosi il piacere nelle cose umane è necessario che dove n'è maggior desiderio quivi sia maggiore infelicità, ossia maggior sentimento dell'infelicità; {quivi maggior senso di privazione e di mancanza e di vuoto; quivi} maggior noia, maggior fastidio della vita, maggior difficoltà e pena di sopportarla, maggior disprezzo e noncuranza della medesima. Quindi tutte queste cose debbono essere in maggior grado ne' giovani che ne' vecchi; siccome  2738 sono, massime in questa presente mortificazione e monotonia della vita umana, che contrastano colla vitalità ed energia della giovanezza; in questa mancanza di distrazioni violente che stacchino il giovine da se medesimo, e lo tirino fuori del suo interno; in questa impossibilità di adoperare sufficientemente la forza vitale, di darle sfogo ed uscita dall'individuo, di versarla fuori, e liberarsene al possibile; in somma in questo ristagno della vita al cuore e alla mente e alle facoltà interne dell'uomo, e del giovane massimamente.

[3622,1]   3622 Sempre che l'uomo non prova piacere alcuno, ei prova noia, se non quando o prova dolore, o vogliamo dir dispiacere qualunque, o e' non s'accorge di vivere. Or dunque non accadendo mai propriamente che l'uomo provi piacer vero, segue che mai per niuno intervallo di tempo ei non senta di vivere, che ciò non sia o con dispiacere o con noia. Ed essendo la noia, pena e dispiacere, segue che l'uomo, quanto ei sente la vita, tanto ei senta dispiacere e pena. {#1. Massime quando l'uomo non ha distrazioni, o troppo deboli per divertirlo potentemente dal desiderio continuo del piacere; cioè insomma quando egli è in quello stato che noi chiamiamo particolarmente di noia. V. p. 3713.} (7. Ott. 1823.)

[3876,1]  Dico che l'uomo è sempre in istato di pena, perchè sempre desidera invano ec. Quando l'uomo si trova senza quello che positivamente si chiama dolore o dispiacere o cosa simile, la pena inseparabile dal sentimento della vita, gli è quando più, quando meno sensibile, secondo ch'egli è più o meno occupato o distratto {da checchessia e massime} da quelli che si chiamano piaceri, secondo che per natura o per abito o attualmente egli è più vivo e più sente la vita, ed ha maggior vita abituale o attuale ec. Spesso la detta pena è tale che, per qualunque cagione, e massime perch'ella è continua, e l'uomo v'è assuefatto fino dal primo istante della sua vita, non l'osserva, e non se n'avvede espressamente, ma non però è men vera. Quando l'uom se n'avvede, e ch'ella sia diversa da' positivi dolori, dispiaceri ec., ora ella ha nome di noia, ora la chiamiamo con altri nomi. Sovente essa pena, che non vien da altro se non dal desiderare invano, e che in questo solo consiste, e che per conseguenza tanto è maggiore {{e più sensibile}} quanto il desiderio abitualmente o attualmente è più vivo, sovente, dico, ella è maggiore nell'atto e nel punto medesimo del piacere, che nel tempo  3877 della indifferenza e quiete {e ozio} dell'animo, e mancanza di sensazioni {o concezioni ec. passioni ec.} determinatamente grate o ingrate; e talvolta maggiore eziandio che nel tempo del positivo dispiacere, o sensazione ingrata sino a un certo segno. Ella è maggiore, perchè maggiore e più vivo in quel tempo è il desiderio, come quello ch'è punto e infiammato dalla presente e attuale apparenza del piacere, a cui l'uomo continuamente sospira; {#1. dalla vicina anzi presente, straordinaria e fortissima, {+e fermissima e vivissima} anzi si può dir certa speranza} e quasi dal vedersi vicinissima e sotto la mano la felicità, ch'è il suo perpetuo e sovrano fine, senza però poterla afferrare, perocchè il desiderio è ben più vivo allora, ma non più fruttuoso nè più soddisfatto che all'ordinario. Il desiderio del piacere, nel tempo di quello che si chiama piacere è molto più vivo dell'ordinario, più vivo che nel tempo d'indifferenza. Non si può meglio definire l'atto del piacere umano, che chiamandolo un accrescimento del naturale e continuo desiderio del piacere, tanto maggiore accrescimento quanto quel preteso e falso piacere è più vivo, quella sembianza è sembianza di piacer maggiore. L'uomo desidera allora la felicità più che nel tempo d'indifferenza ec. e con {assolutamente} eguale inutilità. Dunque il desiderio essendo più vivo da un lato, ed egualmente vano dall'altro, la pena compagna naturale del sentimento della vita, la qual nasce appunto e consiste in questo desiderio di felicità e {quindi} di piacere, dev'esser maggiore e più sensibile nell'atto del piacere (così detto) che all'ordinario. Essa lo è infatti (se non quando e quanto la sensazione piacevole, o l'immaginazione  3878 piacevole, o quella qualunque cosa in cui consiste e da cui nasce il così detto piacere, serve e debb'esser considerata come una distrazione e una forte occupazione ec. dell'animo, {dell'amor proprio, della vita} e dello stesso desiderio; e questo è il migliore e più veramente piacevole effetto del piacere umano o animale; occupare l'animo, e, non soddisfare il desiderio ch'è impossibile, ma per una parte, e in certo modo, quasi distrarlo, e riempiergli quasi la gola, come la focaccia di Cerbero insaziabile). E l'uomo, che in uno stato ordinario bene spesso, anzi forse il più del tempo, appena si avvede di detta pena, nell'atto del piacere, se ne avvede sempre o quasi sempre, ma non sempre l'osserva nè ha campo di porvi mente, e ben di rado l'attribuisce alla sua vera cagione e ne conosce la vera natura; di radissimo poi {+nè in quel punto, nè mai, o ch'ei rifletta sul suo stato d'allora in qualche altro tempo, o che mai non lo consideri ec.} rimonta al principio e generalizza ec. nel qual caso egli ritroverebbe quelle {universali e grandi} verità che noi andiamo osservando e dichiarando, e che niuno forse ancora ha bene osservate, o interamente e chiaramente comprese e concepute ec. (13. Nov. 1823.).

[3879,1]  Alla p. 3715. Sono molte volte che la noia è un non so che di più vivo, che ha più sembianza perciò di passione, e quindi avviene che non sia sempre in tali casi chiamata noia, benchè filosoficamente parlando, ella lo sia, consistendo in quel medesimo in cui consiste quel che si chiama noia, cioè nel desiderio di felicità lasciato puro, senza infelicità nè felicità positiva, e differendo solo nel grado da quella che noia comunemente è chiamata. E differisce nel grado, in quanto ell'è noia, in certo modo più intensa, sensibile e viva, qualità che l'avvicinano all'infelicità così chiamata positivamente, e che paiono poco convenevoli  3880 alla noia. Ella infatti, benchè del genere stesso, è più passione è più penosa, che la noia, così comunemente chiamata, non è. Ed è tale perch'ella nasce e consiste in un desiderio più vivo, e al tempo stesso ugualmente vano. Questa sorta di passione è quella che provano generalmente i giovani quando sono in istato di non piacere e non dispiacere. Essi sono poco capaci della noia comunemente detta. Essi sono poco capaci di trovarsi giammai senza un'attuale, ancorchè indeterminata passione, {#1. Se non {in} quanto essi sono più capaci di occupazione e distrazion forte dell'animo, e quando essi si trovano attualmente in tale stato (che accade loro più frequentemente che agli altri per molte ragioni) del che vedi la pag. 3878. principio.} più viva d'essa noia, perchè il loro amor proprio, e quindi il lor desiderio di felicità e di piacere, ugualmente vano che nell'altre età, è molto più vivo, generalmente parlando. Incapaci di noia comunemente detta, benchè privi di piacere e dispiacere, sono ancora similmente quegli stati dell'individuo, di cui ho detto p. 3835.-6. 3876-8. e simili. Altresì lo stato di desiderio presente e vivo determinato a qual si sia cosa; benchè privo anche questo stato, di piacere e dispiacere positivo ec. E così discorrendo. Questa sorta di passione, diversa dalla noia comunemente detta, ma dello stesso genere ec., questa ancora io voglio comprendere sotto il nome di noia, e ad essa ancora si deve intendere ch'io abbia riguardo quando affermo che la noia corre immancabilmente e immediatamente a riempiere qualunque vuoto lasciato dal piacere o dispiacer così detto ec. e che l'assenza dell'uno e dell'altro è noia per sua natura, e che mancando essi, v'è la noia necessariamente, e che posta tal mancanza è posta la noia ec. come alle p. 3713-5. (13. Nov. 1823.).

[4043,2]  Nè la occupazione nè il divertimento qualunque, non danno veramente agli uomini piacere alcuno. Nondimeno è certo che l'uomo occupato o divertito comunque, è manco infelice del disoccupato, e di quello che vive vita uniforme senza distrazione alcuna. Perchè? se nè questi nè quelli sono punto superiori gli uni agli altri nel godimento e nel piacere, ch'è l'unico bene dell'uomo? Ciò vuol dire che la vita è per se stessa un male. Occupata o divertita, ella si sente e si conosce meno, e passa, in apparenza più presto, e perciò solo, gli uomini occupati o divertiti, non avendo alcun bene nè piacere più degli altri, sono però manco infelici: e gli uomini disoccupati e non divertiti, sono più infelici, non perchè abbiano minori beni, ma per maggioranza di male, cioè maggior sentimento, conoscimento, e diuturnità (apparente) della vita, benchè questa sia senza alcun altro male particolare. Il sentir meno la vita, e l'abbreviarne l'apparenza è il sommo bene, o vogliam dire la somma minorazione di male e d'infelicità, che l'uomo possa conseguire. La noia è manifestamente un male, e l'annoiarsi una infelicità. Or che cosa è la noia? Niun male nè dolore particolare, (anzi l'idea e la natura della noia esclude la presenza di qualsivoglia particolar male o dolore), ma la semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all'individuo, ed occupantelo. Dunque la vita è semplicemente un male: e il non vivere, o il viver meno, sì per estensione che per intensione è semplicemente un bene, o un minor male, ovvero preferibile per se ed assolutamente alla vita ec. (8. Marzo. 1824.). {{V. p. 4074.}}

[4266,1]  In qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere, tu non lo trovi mai: tu non provi altro che noia, e spesso disgusto. Bisogna, per provar piacere in qualunque azione ovvero occupazione, cercarvi qualche altro fine che il piacere stesso. (Può servire al Manuale di filosofia pratica). (30. Marzo. 1827.). Così accade (fra mille esempi che se ne potrebbero dare) nella lettura. Chi legge un libro (sia il più piacevole e il più bello del mondo) non con altro fine che il diletto, vi si annoia, anzi se ne disgusta, alla seconda pagina. Ma un matematico trova diletto grande a leggere una dimostrazione di geometria, la qual certamente egli non legge per dilettarsi. {+V. p. 4273.} E forse per questa ragione gli spettacoli e i divertimenti pubblici per se stessi, senza altre circostanze, sono le più terribilmente noiose e fastidiose cose del mondo; perchè non hanno altro fine che il piacere; questo solo vi si vuole, questo vi si aspetta; e una cosa da cui si aspetta e si esige piacere (come un debito) non ne dà quasi mai: dà anzi il contrario. Il piacere (si può dir con perfettissima verità) non vien mai se non inaspettato; e colà dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo. Per questo nel bollore della gioventù, quando l'uomo si precipita col desiderio e colla speranza dietro al piacere, ei non prova che spaventevole e tormentoso disgusto e noia nelle più dilettevoli cose della vita. E non si comincia a provar qualche piacere nel mondo, se non sedato quell'impeto, e cominciata  4267 la freddezza, e ridotto l'uomo a curarsi poco e a disperare {omai} del piacere. (30. Marzo. 1827.). {{Simile è in ciò il piacere alla quiete, la quale quanto più si cerca {e si desidera} per se e da se sola, tanto si trova e si gode meno, come ho esposto in altro pensiero poco addietro pp. 4259-60. Il desiderio stesso di lei, è necessariamente esclusivo di essa, ed incompatibile seco lei.}}

[4267,1]  Alla p. 4240. La sopraddetta utilità della pazienza, non si ristringe al solo dolore, ma si stende anche ad altre mille occasioni; come se tu hai da aspettare, da fare un'operazione lunga, monotona e fastidiosa; {+da soffrire una compagnia noiosa, mentre hai altro da fare; ascoltare un discorso lungo di cosa che nulla t'importa, un poeta o scrittore che ti reciti una sua composizione;} e così discorrendo: dove l'impazienza, la fretta, l'ansietà di finire, {l'inquietudine} ti raddoppiano la molestia. In somma si stende a tutte le occasioni {e stati} dove può aver luogo quello che noi chiamiamo pazienza e impazienza; a tutti i dispiaceri; o sieno dolori o noie. (Recanati. 31. Marzo. 1827.).

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