19. Aprile. - 20. Aprile. Martedì di Pasqua. 1824.
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{Alla p.
4043.} Qualunque poesia o scrittura, o qualunque parte di
esse esprime o collo stile o co' sentimenti, il piacere e la voluttà, esprime
ancora o collo stile o co' sentimenti formali o con ambedue un abbandono una
noncuranza una negligenza una specie di dimenticanza d'ogni cosa. E generalmente
non v'ha altro mezzo che questo ad esprimere la voluttà. Tant'è, il piacere non
è che un abbandono e un oblio della vita, e una specie di sonno e di morte. Il
piacere è piuttosto una privazione o una depressione di sentimento che un
sentimento, e molto meno un sentimento vivo. Egli è quasi un'imitazione della
insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario
alla vita ed alla privazione di essa, perchè la vita per sua natura è dolore.
Onde è piacevole l'esserne privato in quanta parte si può, senza dolore e
senz'altro patimento che nasca o sia annesso a questa privazione. Quindi il
piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che
privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario.
Tali almeno sono i maggiori e più veraci piaceri. I piaceri vivi sono anche
manco piaceri. Sempre portano seco qualche pena, qualche sensazione incomoda,
qualche turbamento, e ciò annesso {cagionato} e
dipendente essenzialmente da loro. (19. Aprile. Lunedì di Pasqua.
1824.) Dunque la vita è un male e un dispiacere per se, poichè la
privazione di essa in quanto si può è naturalmente piacere. Infatti la vita è
naturalmente uno stato violento, poichè {naturalmente}
priva del suo sommo e naturale
4075 bisogno, desiderio,
fine, e perfezione che è la felicità. E non cessando mai questa violenza, non
v'è un solo momento di vita sentita che sia senza positiva infelicità e positiva
pena e dispiacere. (20. Aprile. Martedì di Pasqua. 1824.). {{+ [p. 4057,2]}}