[3842,2] Sempre che l'uomo pensa, ei desidera, perchè tanto
quanto pensa ei si ama. Ed in ciascun momento, a proporzione che la sua facoltà
di pensare è più libera ed intera e {con minore}
impedimento, e che egli più pienamente ed intensamente la esercita, il suo
desiderare è maggiore. Quindi in uno stato di assopimento, di letargo, di {certe} ebbrietà, {#1. V. la pag. 3835.
seg. e 3846.
fine-8.} nell'accesso e recesso del sonno, e in simili stati in
cui la proporzione, la somma, la forza del pensare, l'esercizio del pensiero, la
libertà e la facoltà attuale del pensare, è minore, più impedita, scarsa ec.
l'uomo desidera meno vivamente a proporzione, il suo desiderio, la forza, {la} somma di questo, è minore; e perciò l'uomo è
proporzionatamente meno infelice. Quanto si stende quell'azione della mente ch'è
inseparabile dal sentimento della vita, e sempre proporzionata
3843 al grado di questo sentimento, tanto, e sempre
proporzionato al di lei grado, si stende il desiderio dell'uomo e del vivente, e
l'azione del desiderare. Ogni atto {libero} della
mente, ogni pensiero che non sia indipendente dalla volontà, è in qualche modo
un desiderio {attuale,} perchè tutti cotali atti e
pensieri hanno un fine qualunque, il quale dall'uomo in quel punto è desiderato
in proporzione dell'intensità ec. di quell'atto o pensiero, e tutti cotali fini
spettano alla felicità che l'uomo {e il vivente} per
sua natura sopra tutte le cose necessariamente desidera e non può non
desiderare. (6. Nov. 1823.).
[3846,2] Sempre che il vivente si accorge dell'esistenza, e
tanto più quanto ei più la sente, egli ama se stesso, {Puoi vedere p.
3835. seg.; p. 3842.
seg.} e sempre attualmente,
3847
cioè con una successione continuata e non interrotta di atti, tanto più vivi,
quanto il detto sentimento è attualmente o abitualmente maggiore. Sempre e in
ciascuno istante ch'egli ama {attualmente} se stesso,
egli desidera la sua felicità, e la desidera attualmente, con una serie continua
di atti di desiderio, o con un desiderio sempre presente, e non sol potenziale,
ma posto sempre in atto, tanto più vivo, quanto ec. come sopra. Il vivente non
può mai conseguire la sua felicità, perchè questa vorrebb'essere infinita, come
s'è spiegato altrove pp. 165.
sgg.
pp. 1017-18, e tale ei la desidera; or tale in effetto ella non può
essere. Dunque il vivente non ottiene mai e non può mai ottenere l'oggetto del
suo desiderio. Sempre pertanto ch'ei desidera, egli è {necessariamente} infelice, perciò appunto ch'ei desidera inutilmente,
esclusa anche ogni altra cagione d'infelicità; giacchè un desiderio non
soddisfatto è uno stato penoso, dunque uno stato d'infelicità. E tanto più
infelice quanto ei desidera più vivamente. Non v'è dunque pel vivente altra
felicità possibile, e questa solamente negativa, cioè mancanza d'infelicità; non
è, dico, possibile al vivente il mancare d'infelicità positiva altrimenti che
non desiderando la sua felicità, nè per altro mezzo che quello di non bramar la
felicità. Ma sempre ch'ei si ama, ei la desidera; e mentre ch'ei sente di
esistere, non può, nè anche per un istante, cessare di amarsi; e più ch'ei sente
di esistere, più si ama e più desidera. Il discorso dunque della felicità umana
e di qualunque vivente si riduce per evidenza a questi termini, {+e a questa conclusione.} Una specie
di
3848 viventi rispetto all'altra {o all'altre generalmente ec.,} è tanto più felice, cioè tanto meno
infelice, tanto più scarsa d'infelicità positiva, quanto meno dell'altra ella
sente l'esistenza, cioè quanto men vive {e più si accosta ai
generi non animali.} (Dunque la specie de' polipi, {+zoofiti ec.} è la più felice delle
viventi). Così un individuo rispetto all'altro o agli altri. (Dunque il più
stupido degli uomini è di questi il più felice: e la nazion de' Lapponi la più
felice delle nazioni ec.). E un individuo rispetto a se stesso allora è più
felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso; dunque in una ebbrietà
letargica, in uno alloppiamento, come quello de' turchi, {debolezza non penosa,} ec. negl'istanti che precedono il sonno o il
risvegliarsi ec. Ed allora solo sì l'uomo, sì il vivente è e può essere
pienamente felice, cioè pienamente non infelice e privo d'infelicità positiva,
quando ei non sente in niun modo la vita, cioè nel sonno, letargo, svenimento
totale, negl'istanti che precedono la morte, cioè la fine del suo esser di
vivente ec. Ciò vuol dire quando ei non è capace neanche di felicità veruna, nè
di piacere o bene veruno, assolutamente; quando ei vivendo, non vive; allora
solo egli è pienamente felice. S'ei desidera la felicità, non può esser felice;
meno ei la desidera, meno è infelice; nulla desiderandola, non è punto infelice.
Quindi l'uomo {e il vivente} è anche tanto meno
infelice, quanto egli è più distratto dal desiderio della felicità, mediante
l'azione e l'occupazione esteriore o interiore, come ho spiegato altrove pp.
172-73
pp. 1584-86. O
distrazione o letargo: ecco i soli mezzi di felicità che hanno e possono mai
aver gli animali. (7. Nov. 1823.).
[3876,1] Dico che l'uomo è sempre in istato di pena, perchè
sempre desidera invano ec. Quando l'uomo si trova senza quello che positivamente
si chiama dolore o dispiacere o cosa simile, la pena inseparabile dal sentimento
della vita, gli è quando più, quando meno sensibile, secondo ch'egli è più o
meno occupato o distratto {da checchessia e massime} da
quelli che si chiamano piaceri, secondo che per natura o per abito o attualmente
egli è più vivo e più sente la vita, ed ha maggior vita abituale o attuale ec.
Spesso la detta pena è tale che, per qualunque cagione, e massime perch'ella è
continua, e l'uomo v'è assuefatto fino dal primo istante della sua vita, non
l'osserva, e non se n'avvede espressamente, ma non però è men vera. Quando l'uom
se n'avvede, e ch'ella sia diversa da' positivi dolori, dispiaceri ec., ora ella
ha nome di noia, ora la chiamiamo con altri nomi. Sovente essa pena, che non
vien da altro se non dal desiderare invano, e che in questo solo consiste, e che
per conseguenza tanto è maggiore {{e più sensibile}}
quanto il desiderio abitualmente o attualmente è più vivo, sovente, dico, ella è
maggiore nell'atto e nel punto medesimo del piacere, che nel tempo
3877 della indifferenza e quiete {e
ozio} dell'animo, e mancanza di sensazioni {o
concezioni ec. passioni ec.} determinatamente grate o ingrate; e
talvolta maggiore eziandio che nel tempo del positivo dispiacere, o sensazione
ingrata sino a un certo segno. Ella è maggiore, perchè maggiore e più vivo in
quel tempo è il desiderio, come quello ch'è punto e infiammato dalla presente e
attuale apparenza del piacere, a cui l'uomo continuamente sospira; {#1. dalla vicina anzi presente,
straordinaria e fortissima, {+e
fermissima e vivissima} anzi si può dir certa speranza} e
quasi dal vedersi vicinissima e sotto la mano la felicità, ch'è il suo perpetuo
e sovrano fine, senza però poterla afferrare, perocchè il desiderio è ben più
vivo allora, ma non più fruttuoso nè più soddisfatto che all'ordinario. Il
desiderio del piacere, nel tempo di quello che si chiama piacere è molto più
vivo dell'ordinario, più vivo che nel tempo d'indifferenza. Non si può meglio
definire l'atto del piacere umano, che chiamandolo un accrescimento del naturale
e continuo desiderio del piacere, tanto maggiore accrescimento quanto quel
preteso e falso piacere è più vivo, quella sembianza è sembianza di piacer
maggiore. L'uomo desidera allora la felicità più che nel tempo d'indifferenza
ec. e con {assolutamente} eguale inutilità. Dunque il
desiderio essendo più vivo da un lato, ed egualmente vano dall'altro, la pena
compagna naturale del sentimento della vita, la qual nasce appunto e consiste in
questo desiderio di felicità e {quindi} di piacere,
dev'esser maggiore e più sensibile nell'atto del piacere (così detto) che
all'ordinario. Essa lo è infatti (se non quando e quanto la sensazione
piacevole, o l'immaginazione
3878 piacevole, o quella
qualunque cosa in cui consiste e da cui nasce il così detto piacere, serve e
debb'esser considerata come una distrazione e una forte occupazione ec.
dell'animo, {dell'amor proprio, della vita} e dello
stesso desiderio; e questo è il migliore e più veramente piacevole effetto del
piacere umano o animale; occupare l'animo, e, non soddisfare il desiderio ch'è
impossibile, ma per una parte, e in certo modo, quasi distrarlo, e riempiergli
quasi la gola, come la focaccia di Cerbero insaziabile). E l'uomo, che in uno stato
ordinario bene spesso, anzi forse il più del tempo, appena si avvede di detta
pena, nell'atto del piacere, se ne avvede sempre o quasi sempre, ma non sempre
l'osserva nè ha campo di porvi mente, e ben di rado l'attribuisce alla sua vera
cagione e ne conosce la vera natura; di radissimo poi {+nè in quel punto, nè mai, o ch'ei rifletta sul suo stato
d'allora in qualche altro tempo, o che mai non lo consideri ec.}
rimonta al principio e generalizza ec. nel qual caso egli ritroverebbe quelle
{universali e grandi} verità che noi andiamo
osservando e dichiarando, e che niuno forse ancora ha bene osservate, o
interamente e chiaramente comprese e concepute ec. (13. Nov.
1823.).
[4126,3] Dalla mia teoria
del piacere séguita che l'uomo e il vivente anche nel momento del
maggior piacere della sua vita, desidera non solo di più, ma infinitamente di
più che egli non ha, cioè maggior piacere in infinito, e un infinitamente
maggior piacere, perocchè egli sempre desidera una felicità e quindi un piacere
infinito. E che l'uomo in ciascuno istante della sua vita pensante e sentita
desidera infinitamente di più {o di meglio} di ciò
ch'egli ha. (12. Marzo. 1825.).
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