Amor proprio.
Self-love.
Vedi Piacere (Teoria del). See Pleasure (Theory of). 57,4 133,1 390,1 507,2 516,2 610,1 646,2 822,1 872,1 958,1 960,2 1100,1 1164,13 1201,1 1382,2 1431,1 1545,1 1723,1 2153,2 2204,2 2219,2 2315,1 2410,1 2493,2 2495,1 2496,1 2499,1 2736,1 3107,1 3291,1 3471,1 3773,1 3813,1 3842,2 3846,2 3921,1 4037,6 4127,9 4242,1[57,4] Il principio universale dei vizi umani è l'amor proprio
in quanto si rivolge sopra lo stesso essere, delle virtù, lo stesso amore in
quanto si ripiega sopra altrui, sia sopra gli altri uomini, sia sopra la virtù,
sia sopra Dio. ec.
[133,1] Dice Luciano
nelle Lodi della
Patria (t. 2. p. 479.), καὶ τοὺς κατὰ τὸν
τῆς ἀποδημίας χρόνον λαμπροὺς γενομένους ἢ διὰ χρημάτων κτῆσιν, ἢ διὰ
τιμῆς δόξαν
*
(vel ob honoris gloriam), ἢ διὰ παιδείας μαρτυρίαν, ἢ δι᾽
ἀνδρίας[ἀνδρείας] ἔπαινον, ἔστιν
ἰδεῖν ἐς τὴν πατρίδα {πάντας}
ἐπειγομένους
*
(properantes) ὡς οὐκ ἂν ἐν ἄλλοις βελτίοσιν
ἐπιδειξομένους τὰ αὐῶν καλά. καὶ τοσούτῳ γε μᾶλλον ἕκαστος σπεύδει
λαβέσθαι τῆς πατρίδος ὅσῳπερ ἂν ϕαίνηται μειζόνων παρ᾽ ἄλλοις
ἠξιωμένος
*
. Questo è vero, e quando anche tu viva in una
città molto maggiore della tua patria, non ostante il gran cambiamento delle
opinioni antiche a questo riguardo, desidererai anche adesso, se non altro che
la gloria o qualunque altro bene che tu hai acquistato sia ben noto, e faccia
romore particolare nella tua patria. Ma la cagione non è mica l'amor della
patria, come stima Luciano, e come
pare a prima vista. E infatti stando nella tua stessa patria, tu provi lo stesso
effetto
134 riguardo alla {tua}
famiglia, e a' tuoi più intimi conoscenti. La ragione è che noi desideriamo che
i nostri onori o pregi siano massimamente noti a coloro che ci conoscono più
intieramente, e che ne sieno testimoni quelli che sanno più per minuto le nostre
qualità, i nostri mezzi, la nostra natura, i nostri costumi ec. E come non ti
contenteresti di una fama anonima, cioè di esser celebrato senza che si sapesse
il tuo nome, perchè quella fama, ti parrebbe piuttosto generica che tua propria,
così proporzionatamente desideri ch'ella sia sulle bocche di quelli presso i
quali, conoscendoti più intimamente e particolarmente, la tua stima viene ad
essere più individuale e propria tua, perchè si applica a tutto te, che sei loro
noto minutamente. E viene anche ciò dalla inclinazione che tutti abbiamo per li
nostri simili, onde non saremmo soddisfatti di una fama acquistata appresso una
specie di animali diversa dall'umana, e così venendo per gradi, poco ci
cureremmo di esser famosi fra i Lapponi o gl'irocchesi, essendo ignoti ai popoli
colti, e non saremmo contenti di una celebrità francese o inglese, essendo
sconosciuti ai nostri italiani, e così finalmente arriveremo ai nostri propri
cittadini, e anche alla nostra famiglia. Aggiungete le tante relazioni che si
hanno o si sono avute colle persone più attenenti alla nostra, le emulazioni, le
gare, le invidie, le contrarietà avute, le amicizie fatte ec. ec. alle quali
cose tutte applichiamo il sentimento che ci cagiona la nostra gloria, o
qualunque vantaggio acquistato. In somma
135 la cagione
è l'amore {immediato} di noi stessi, e {non} della nostra patria. {{V. p. 536,
capoverso 2.}}
[390,1] L'immaginarsi di essere il primo ente della natura
{e che il mondo sia fatto per noi,} è una
conseguenza naturale dell'amor proprio necessariamente coesistente con noi, e
necessariamente illimitato. Onde è naturale che ciascuna specie d'animali
s'immagini, se non chiaramente, certo confusamente e fondamentalmente la stessa
cosa. Questo accade nelle specie o generi rispetto agli altri generi o specie.
Ma proporzionatamente lo vediamo accadere anche negl'individui, riguardo, non
solo alle altre specie o generi, ma agli altri individui della medesima
specie.
[507,2] Qual è la più grata compagnia? Quella che rileva
l'idea che abbiamo di noi medesimi; quella che ci fa compiacere di noi stessi,
che ci persuade di valer più che non credevamo, che ci mostra come lodevoli
alcune qualità, dove non credevamo di meritar lode, o non tanta;
508 quella da cui partiamo con maggiore stima di noi,
che ci lascia più soddisfatti di noi stessi. Tutto è amor proprio nell'uomo e in
qualunque vivente. Amabile non pare e non è, se non quegli che lusinga, giova
ec. l'amor proprio degli altri. Questa è una delle principali osservazioni ed
artifizi per farsi stimare di buona compagnia, rendersi piacevole e amabile,
farsi desiderare e far fortuna: nominatamente nella galanteria. Cosa ben
conosciuta dai professori di quest'ultima arte. V. quello che Lord
Nelvil di Mad.
d'Arbigny presso la Staël nella Corinna. Si
desidera bene spesso la compagnia di qualcuno, ci si trova un pascolo un piacere
nuovo e straordinario: nè si vede bene perchè, ma si attribuisce all'amabilità
delle sue maniere e del suo carattere. La ragion vera ch'egli sa fare che noi ci
stimiamo da più di quello che facessimo, o confermarci nella buona opinione che
avevamo di noi. (15. Gen. 1821.).
[516,2] Oltre la compassione, si può notare come indipendente
affatto dall'amor proprio, un altro moto naturale, che sebbene somiglia alla
compassione, non per ciò è la stessa cosa. Ed è quella certa sensibilissima pena
che noi proviamo nel vedere p. e. un fanciullo fare una cosa la quale noi
sappiamo che gli farà male: un uomo che si esponga a un manifesto pericolo; una
persona vicina a cadere in qualche precipizio, senz'avvedersene.
517 E simili. Questo dei mali non ancora accaduti.
Allora proviamo ancora un'assoluta necessità d'impedirlo, se possiamo, e se no
una pena assai maggiore. Certo è che il veder uno che si fa male o sta per
soffrire, o volontariamente, o non sapendo ec. il vederlo, e non impedirlo, o
non sentirsi accorare non potendo, è contro natura. Nell'atto dei mali
parimente, vedendo qualcuno cadere ec. ancorchè quel male non sia degli orribili
e stomachevoli all'apparenza, contuttociò ne proviamo naturalmente e indeliberatamente gran pena. E chi
osserverà bene, questi moti sono distinti dalla compassione, la quale vien
dietro al male, e non lo precede, o accompagna. Anche nelle cose inanimate, o
negli esseri d'altra specie dalla nostra, vedendo a perire, o in pericolo di
perire o guastarsi, un oggetto bello, prezioso, raro, {utile,
e} che so io, un animale ec. proviamo lo stesso sentimento doloroso,
la stessa necessità di esclamare,
d'impedirlo potendo. ec. E ciò, quantunque quella cosa
518 non appartenga a veruno in particolare, e la sua perdita o guasto non
danneggi nessuno in particolare. Così che quel sentimento dispiacevole che noi
proviamo allora, si riferisce immediatamente all'oggetto paziente, forse ancora
quand'esso abbia un possessore, e che questo c'interessi. Dicono che la donna è
ben forte, quando può vedere a rompere la sua porcellana senza turbarsi. Ma non
solamente le donne; anche gli uomini; e non solamente nelle cose proprie, anche
nelle altrui, o comuni, o di nessuno, purch'elle sieno di un certo conto,
provano nei detti casi la detta sensazione, indipendentemente dalla volontà. La
radice di questo sentimento non par che si possa trovare nell'amor proprio. Par
che la natura nostra abbia una certa cura di ciò ch'è degno di considerazione, e
una certa ripugnanza a vederlo perire, sebbene affatto alieno da noi pp.
108-109. {v. la p. seguente
[p. 519,1].} L'orrore della distruzione
(il quale si potrebbe in ultima analisi riportare all'amor proprio) non par che
519 abbia parte in questo, almeno principalmente.
Noi vediamo perire {tuttogiorno} senza ripugnanza, o
cura d'impedirlo, mille cose di cui non facciamo conto. (17. Gen.
1821.)
[610,1] Neanche l'amor proprio è infinito, ma solamente
indefinito. Non è infinito, dico io non già secondo l'origine e il significato
proprio di questa voce, ma secondo la forza che le sogliamo attribuire: come
diciamo che Dio è infinito, perchè contiene perfettamente e realmente in se
stesso tutta l'infinità. Laddove sebbene l'uomo, e qualunque vivente, si ama
senza confine veruno, e l'amor proprio non ha limiti nè misura, nè per durata nè
per estensione, contuttociò l'animo umano o di qualunque vivente non è capace di
un sentimento il quale contenga la totalità dell'infinito, e in questo senso
dico io che l'amor proprio non è infinito: e che quantunque non abbia limiti,
non deriva da questo che l'animo nostro abbia niente d'infinito, non più che
quello di qualsivoglia animale. E così non si può dedur nulla in questo
proposito, dalla infinità dei nostri desideri, conseguenza della sopraddetta e
spiegata
611 infinità dell'amor proprio. Nè dalla nostra
infinita, o vogliamo dire indefinita capacità di amare, cioè di essere
piacevolmente affetti e inclinati verso gli oggetti; conseguenza dell'infinito
amor del piacere, il quale deriva immediatamente e necessariamente dall'amor
proprio infinito, o senza limiti nè misura. (4. Feb. 1821.).
[646,2] La somma della teoria del piacere, e si può dir anche, della natura dell'animo
nostro e di qualunque vivente, è questa. Il vivente si ama senza limite nessuno,
e non cessa mai di amarsi. Dunque non cessa mai di desiderarsi il bene, e si
desidera il bene senza limiti. Questo bene in sostanza non è altro che il
piacere. Qualunque piacere ancorchè grande, ancorchè reale, ha limiti. Dunque
nessun piacere possibile è proporzionato ed uguale alla
647 misura dell'amore che il vivente porta a se stesso. Quindi nessun
piacere può soddisfare il vivente. Se non lo può soddisfare, nessun piacere,
ancorchè reale astrattamente e assolutamente, è reale relativamente a chi lo
prova. Perchè questi desidera sempre di più, giacchè per essenza si ama, e
quindi senza limiti. Ottenuto anche di più, quel di più similmente non gli
basta. Dunque nell'atto del piacere, o nella felicità, non sentendosi
soddisfatto, non sentendo pago il desiderio, il vivente non può provar pieno
piacere; dunque non vero piacere, perchè inferiore al desiderio, e perchè il
desiderio soprabbonda. Ed eccoti la tendenza naturale e necessaria dell'animale
all'indefinito, a un piacere senza limiti. Quindi il piacere che deriva
dall'indefinito, piacere sommo possibile, ma non pieno, perchè l'indefinito non
si possiede, anzi non è. E bisognerebbe possederlo pienamente, e al tempo stesso indefinitamente, perchè l'animale fosse pago, cioè
felice, cioè l'amor proprio suo che non ha limiti, fosse definitamente soddisfatto: cosa
648 contraddittoria e impossibile. Dunque la felicità è impossibile a
chi la desidera, perchè il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità,
e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente, perchè la felicità
assoluta è indefinita, e non ha limiti. Dunque questo desiderio stesso è cagione
a se medesimo di non poter esser soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza
necessaria, anzi si può dir tutt'uno coll'amor proprio. E questo amore è
conseguenza necessaria della vita, in quell'ordine di cose che esiste, e che noi
concepiamo, e altro non possiamo concepire, ancorchè possa essere, ancorchè
fosse realmente. Dunque ogni vivente, perciò stesso che vive (e quindi si ama, e
quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza
limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio {suo} non può esser soddisfatto) perciò stesso, dico, che vive, non
può essere attualmente felice. E la felicità ed il piacere è sempre futuro, cioè
non esistendo, nè potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del
vivente, e nella speranza, o aspettativa che ne segue. {{Le
649 présent n'est
jamais notre but; le passé et le présent sont nos moyens; le
seul avenir est notre objet:}} ainsi nous ne vivons pas,
mais nous espérons de vivre,
*
dice {Pascal}. Quindi
segue che il più felice possibile, è il più distratto dalla intenzione della
mente alla felicità assoluta. Tali sono gli animali, tale era l'uomo in natura.
Nei quali il desiderio della felicità cangiato nei desiderii di questa o di
quella felicità, {o fine,} e soprattutto mortificato e
dissipato dall'azione continua, da' presenti bisogni ec. non aveva e non ha
tanta forza di rendere il vivente infelice. Quindi l'attività massimamente, è il
maggior mezzo di felicità possibile.
Oltre l'attività, altri mezzi meno universali o durevoli o valevoli, ma pur
mezzi, sono gli altri da me notati nella teoria del piacere, p. e. (ed è uno de' principali) lo stupore 1. di
carattere e d'indole: gli uomini così fatti sono i più felici: gli uomini
incapaci di questa qualità, sono i più infelici: sii grande e
infelice,
*
dice la natura agli uomini grandi, {detto di D'Alembert, Éloges de l'Académie Françoise
(così, Françoise)} agli uomini
sensibili, passionati ec: il senso vivo del desiderio di felicità li tormenta:
questo desiderio
650 bisogna sentirlo il meno possibile,
quantunque innato, e continuo
necessariamente. 2. derivato da languore o torpore ec. artefatto, come per via
dell'oppio, o proveniente da lassezza ec. ec. 3. derivato da impressioni
straordinarie, dalla maraviglia di qualunque sorta, da avvenimenti, da cose
vedute, udite ec. insomma da sensazioni straordinarie di qualsivoglia genere: 4.
dalla immaginazione, dall'estasi che deriva dalla fantasia, da un sentimento
indefinito, dalla bella natura ec. e v. la
teoria del piacere. Notate che l'immaginazione {la
vivacità,} la sensibilità, le quali nocciono alla felicità per la
parte dello stupore, giovano per la parte dell'attività. E perciò sono piuttosto
un dono della natura (ancorchè spesso doloroso), di quello che un danno; perchè
effettivamente l'attività è il mezzo {di distrazione
il} più facile, più sicuro e forte, più durevole, più frequente e
generale e realizzabile nella vita. (12. Feb. 1821.).
[822,1] Non solamente ciascuna specie di bruti stima o
esplicitamente e distintamente, o certo implicitamente e confusamente, di esser
la prima e più perfetta nella natura, e nell'ordine delle cose, e che tutto sia
fatto per lei, ma anche nello stesso modo ciascun individuo. E così accade tra
gli uomini, che implicitamente
823 e naturalmente
ciascuno si persuade la stessa cosa.
[872,1] L'amor proprio dell'uomo, e di qualunque individuo di
qualunque specie, è un amore di preferenza. Cioè l'individuo amandosi
naturalmente quanto può amarsi, si preferisce dunque agli altri, dunque cerca di
soverchiarli in quanto può, dunque effettivamente l'individuo odia l'altro
individuo, e l'odio degli altri è una conseguenza necessaria ed immediata
dell'amore di se stesso, il quale essendo innato, anche l'odio degli altri viene
ad essere innato in ogni vivente. {{V. p. 926. capoverso 1.}}
[958,1] Una delle principali cagioni per cui l'infelicità
rende l'uomo inetto al fare, e lo debilita e snerva, onde l'infelicità toglie la
forza, non è altra se non che l'infelicità debilità[debilita] l'amor di se stesso. E intendo massimamente della
infelicità grave e lunga. La quale col continuo contrasto che oppone all'amor di
se stesso che era nel paziente, {colla battaglia
ostinatissima e fortissima che gli fa,} e coll'obbligarlo ad uno stato
contrario del tutto a quello ch'è scopo, oggetto e desiderio di questo amore,
finalmente illanguidisce questo amore, rende l'uomo meno tenero di se stesso,
siccome avvezzo a sentirsi infelice malgrado gli sforzi che ci opponeva. Anzi
una tale infelicità, se non riduce l'uomo alla disperazion viva, e al suicidio o
all'odio di se stesso {ch'è il sommo grado, e la somma
intensità dell'amor proprio in tali circostanze,} lo deve ridurre per
necessità ad uno stato opposto, cioè alla freddezza e indifferenza verso se
stesso; giacchè s'egli continuasse ad essere così infiammato verso se medesimo,
com'era da principio, in che modo potrebbe sopportare la vita, o contentarsi di
sopravvivere, vedendo e sentendo sempre infelice questo oggetto del suo sommo
amore, e di tutta la sua vita sotto tutti i rispetti?
[960,2] Le sopraddette considerazioni possono portare ad una
gran generalità, e semplicizzare l'idea che abbiamo del sistema delle cose
umane, {o la teoria dell'uomo,} facendo conoscere come
sotto tutti i riguardi, ed in tutte le circostanze possibili della vita, agisca
quell'unico principio ch'è l'amor proprio, e come tutti gli effetti della vita
umana sieno proporzionati alla maggiore o minor forza, maggiore o minor
debolezza, e diversa direzione di quel solo movente: per quanto i detti effetti
si presentino a prima vista, come derivati da diverse cagioni. (19. Aprile
1821.).
[1100,1]
1100 L'uomo non si può muovere neanche alla virtù, se
non per solo e puro amor proprio, modificato in diverse guise. Ma oggi quasi
nessuna modificazione dell'amor proprio può condurre alla virtù. E così l'uomo
non può esser virtuoso per natura. Ecco come l'egoismo universale, rendendo per
ogni parte inutile anzi dannoso ogni genere di virtù all'individuo, e la
mancanza delle illusioni {e di cose che le destino, le
mantengano, le realizzino,} producono inevitabilmente l'egoismo
individuale, anche nell'uomo per indole più fortemente e veramente e vivamente
virtuoso. Perchè l'uomo non può assolutamente scegliere quello che si oppone
evidentemente e per ogni parte all'amor
proprio suo. E perciò gli resta solo l'egoismo, cioè la più brutta modificazione
dell'amor proprio, e la più esclusiva d'ogni genere di virtù. (28. Maggio
1821.).
[1164,3] L'invidia, passione naturalissima, e primo vizio del
primo figlio dell'uomo secondo la S. Scrittura, è un effetto, e un indizio
manifesto dell'odio naturale dell'uomo verso l'uomo, nella società, quantunque
imperfettissima, e piccolissima. Giacchè s'invidia anche quello che noi abbiamo,
ed anche in maggior grado; s'invidia ancor quello che altri possiede senza il
menomo nostro danno; ancor quello che ci è impossibile assolutamente di avere, e
che neanche ci converrebbe; e finalmente quasi ancor quello che non desideriamo,
e che anche potendo avere non vorremmo. Così che il solo e puro bene altrui, il
solo aspetto dell'altrui supposta felicità, ci è grave naturalmente per se
stessa, ed è il soggetto di questa passione, la quale per conseguenza non può
derivare se non dall'odio verso gli altri, derivante dall'amor proprio, ma
derivante, se m'è lecito di
1165 così spiegarmi, nel
modo stesso nel quale dicono i teologi che la persona del Verbo procede dal
Padre, e lo Spirito Santo da entrambi, cioè non v'è stato un momento in cui il
Padre esistesse, e il Verbo o lo Spirito Santo non esistesse. (13. Giugno
1821.).
[1201,1] Perchè la parzialità è sempre odiosa e
intollerabile, quando anche colui che favorisce o benefica alcuno più degli
altri, non tolga niente agli altri del loro dovuto, nè di quello che darebbe
loro in ogni caso, nè li disfavorisca in nessun modo? Per l'odio naturale
dell'uomo verso l'uomo, {inseparabile dall'amor
proprio.} E v. in questo proposito la parabola del padre di famiglia e
degli operai del Vangelo. (21. Giugno, dì del Corpus Domini.
1821.). {{V. p. 1205.
fine.}}
[1382,2] Alla mia teoria
del piacere aggiungi che quanto più gli organi del vivente sono
suscettibili, sensibili, mobili, vivi, insomma quanto è maggiore la vita
naturale del vivente, tanto più sensibile {e vivo} è
l'amor proprio {(ch'è quasi tutt'uno colla vita)} e
quindi il desiderio della felicità ch'è impossibile, e quindi l'infelicità. Così
accade dunque agli uomini rispetto alle bestie, così a queste pure gradatamente,
così agl'individui umani ec. più sensibili, immaginosi ec. rispetto agli altri
individui della stessa specie. E l'uomo {{anche in
natura,}} è quindi ben conseguentemente, il più infelice degli animali
(come vediamo), perciò stesso che ha più vita, più forza e sentimento vitale che
gli altri viventi. (25.[24.] Luglio
1821.).
[1431,1] Non c'è miglior modo di far colpo e fortuna con una
giovane superba e sprezzante, che disprezzandola. Or chi crederebbe che l'amor
proprio (giacchè dal solo amor proprio deriva l'amore altrui) potesse produrre
questo effetto, che quando egli è punto, si provasse inclinazione per chi lo
punge? Chi non crederebbe al contrario che una donna altera e innamorata di se
stessa, dovesse vincersi, interessarsi, allettarsi cogli ossequi, cogli omaggi,
ec.? Eppur così è. Non solo l'ossequio e l'omaggio ti farà sempre più disprezzar
da costei, ma se disprezzandola tu sei pervenuto a fissarla, e a produrle una
inclinazione per te, ed allora o per amore, o per abbandono, o per credere di
aver fatto abbastanza, ec. tu cerchi di cattivartela coi mezzi più naturali, e
le dai qualche piccolo segno di sommissione,
1432 di
amore che si dimostri per vero ec. tu hai tutto perduto, ed ella immediatamente
si disgusta di te, e ti disprezza. Conviene che tu segua imperturbabile a
mostrarle noncuranza fino alla fine. Ed è questo un effetto semplicissimo di
quel centiforme amor proprio, che produce gli effetti i più svariati e contrari.
Tanto che, mentre quasi tutte le donne si cattivano col disprezzo, {+(sebbene alcune volte, e in certe
circostanze, se ne offendono)} quelle però massimamente dove l'amor
proprio è più vivo e tirannico, cioè le più superbe ed egoiste ec. {+V. in questo proposito les Mémoires
secrets de Duclos à Lausanne 1791. t. 1. p.
95. e p. 271-273.} V. in questo proposito altro
pensiero p. 1083 dove ho notato questo effetto, discorrendo
della grazia. Certo è però che questa modificazione dell'amor proprio, non è
delle più naturali, benchè non molto lontana dalla natura; e ricerca un
carattere alquanto alterato, ma per altro comunissimo. (1. Agos.
1821.).
[1545,1] L'uomo senza la speranza non può assolutamente
vivere, come senza amor proprio. La disperazione medesima contiene la speranza,
non solo perchè resta sempre nel fondo dell'anima una speranza, un'opinione
direttamente o quasi direttamente, ovvero obbliquamente contraria a quella ch'è
l'oggetto della disperazione; ma perchè questa medesima nasce ed è mantenuta
dalla speranza o di soffrir meno col non isperare nè desiderare più nulla; e
forse anche con questo mezzo, di goder qualche cosa; o di esser più libero e
sciolto e padrone di se, e disposto ad agire a suo talento, non avendo più nulla
da perdere, {+più sicuro, anzi totalmente
(se è possibile e v. la p.
1477.) sicuro in mezzo a qualunque futuro caso della vita ec.;}
o di qualche altro vantaggio simile; o finalmente, se la disperazione è estrema
{ed intera cioè
su tutta la vita,} di vendicarsi della fortuna e di se stesso, di
goder della stessa disperazione, della stessa agitazione, vita interiore,
sentimenti gagliardi ch'ella suscita ec. Il piacere della disperazione è ben
conosciuto, e quando si rinunzi alla speranza e al desiderio di tutti gli altri,
non si lascia mai di sperare
1546 e desiderar questo.
Insomma la disperazione medesima non sussisterebbe senza la speranza, e l'uomo
non dispererebbe se non isperasse. Infatti la disperazione più debole e meno
energica è quella dell'uomo vecchio, lungamente disgraziato, sperimentato ec.
che spera veramente meno. La più forte, intera, sensibile, e formidabile, è
quella del giovane ardente {e inesperto,} ch'è pieno di
speranze, e che gode {perciò} sommamente {benchè barbaramente} della stessa disperazione ec.
(22. Agos. 1821.).
[1723,1] Chi ha disperato di se stesso, o per qualunque
ragione, si ama meno vivamente, è meno invidioso, odia meno i suoi simili, ed è
quindi più suscettibile di amicizia {{per questa}}
parte, o almeno in minor contraddizione con lei. Chi più si ama meno può amare.
Applicate questa osservazione alle nazioni, ai diversi gradi di amor patrio
sempre proporzionali a' diversi gradi di odio nazionale; alla necessità di
render l'uomo egoista di una patria perch'egli possa amare i suoi simili a
cagion di se stesso, appresso a poco come dicono i teologi che l'uomo deve amar
se stesso e i suoi prossimi in Dio, e
1724 per l'amore
di Dio. (17. Sett. 1821.).
[2153,2] Non solo l'egoismo o l'amor proprio si trova in
qualunque azione, affetto ec. possibile all'uomo, ancorchè paia il più lontano,
e il più contrario all'amor di se stesso, ma in questi medesimi atti, affetti
ec. l'amor proprio, v'ha tanta parte, vi si trova in misura e grado e forza
tale, l'uomo
2154 o il vivente vi mira tanto a se
stesso, quanto nell'azione o nell'affetto che deriva dal più sublimato, dal più
schietto, infame, manifesto egoismo.
[2204,2] Come l'amor proprio, così l'odio verso altrui che
n'è indivisibile conseguenza, o fratello, si può bensì nascondere, o travisare
sotto infiniti aspetti, ma non perdere nè scemare mai in verun individuo della
razza animale, nè esser maggiore o minore
2205 in
questo individuo che in quello. Se non quanto può esser maggiore o minore l'amor
proprio, non così che l'individuo non si ami sempre quanto più può, ma riguardo
all'intensità, ed a quella forza maggiore o minore di passione e di sentimento,
che la natura ha dato ai diversi individui e specie di animali, e che
l'assuefazione ha conservato, o cresciuto o scemato. Sotto questo aspetto l'amor
proprio, il grado, la forza, la massa di esso può esser maggiore o minore
secondo gl'individui e specie, e quindi anche l'odio verso altrui. Può anche
esser maggiore o minore nello stesso individuo secondo le diverse età,
assuefazioni successive, circostanze accidentali, giornaliere, momentanee, tanto
fisiche che morali. Può parimente esser maggiore o minore in una medesima specie
{+generalmente,} nelle diverse
sue epoche fisiche e morali,
2206 circostanze, ec. P.
e. verso i suoi simili l'odio naturale può talvolta esser maggiore talvolta
minore che verso gli altri animali ec. (1. Dic. 1821.).
[2219,2] E questo è ciò che ci proccura il detto piacere, il
quale non è in somma che una pura straordinaria soddisfazione dell'amor proprio.
E questa soddisfazione dove la prova egli l'amor proprio? nell'estrema e piena
disperazione. E donde gli viene, in che si fonda, che soggetto ha? l'eccesso,
l'irremediabilità del proprio male.
[2315,1] L'animo umano è sempre ingannato nelle sue speranze,
e sempre ingannabile: sempre deluso dalla speranza medesima, e sempre capace
2316 di esserlo: aperto non solo, ma posseduto dalla
speranza nell'atto stesso dell'ultima disperazione, nell'atto stesso del
suicidio. La speranza è come l'amor proprio, dal quale immediatamente deriva.
L'uno e l'altra non possono, per essenza e natura dell'animale, abbandonarlo mai
finch'egli vive, cioè sente la sua esistenza. (31. Dic. 1821.).
[2410,1] Dalla mia teoria
del piacere segue che per essenza naturale e immutabile delle cose,
quanto è maggiore e più viva la forza, il sentimento, e l'azione e attività
interna dell'amor proprio, tanto è necessariamente maggiore l'infelicità del
vivente, o tanto più difficile il conseguimento d'una tal quale felicità. Ora la
forza e il sentimento dell'amor proprio è tanto maggiore quanto è maggiore la
vita, o il
2411 sentimento vitale in ciascun essere; e
specialmente quanto è maggiore la vita interna, ossia l'attività dell'anima,
cioè della sostanza sensitiva, e concettiva. Giacchè amor proprio e vita son
quasi una cosa, non potendosi nè scompagnare il sentimento dell'esistenza
propria (ch'è ciò che s'intende per vita) dall'amore dell'esistente, nè questo
esser minore di quello, ma l'uno si può sempre esattamente misurare coll'altro.
E tanto uno vive, quanto si ama, e tutti i sentimenti di chi vive sono compresi
o riferiti o prodotti ec. dall'amor proprio: il quale è il sentimento universale
che abbraccia tutta l'esistenza; e gli altri sentimenti del vivente (se pur ve
n'ha che sieno veramente altri) non sono che modificazioni, o divisioni, o
produzioni di questo, ch'è tutt'uno col sentimento dell'essere, o una parte
essenziale del medesimo.
[2493,2] L'amor proprio, il quale, come ho dimostrato pp. 646-48
p.
1382
pp. 2410. sgg.
p. 2490 più volte, è necessaria o quasi necessaria sorgente
d'infelicità, era però (oltre l'essere una essenziale conseguenza e parte
2494 dell'esistenza sentita e conosciuta
dall'esistente) necessario ancora e indispensabile alla felicità. Come si può
dare amor della felicità senz'amor di se stesso? anzi questi due amori sono
precisamente una cosa sola con due nomi. E come si potrebbe dar felicità senza
amor di felicità? Giacchè l'animale non può godere e compiacersi di quel che non
ama. Dunque non amando la felicità, non potrebbe goderla nè compiacersene.
Dunque quella non sarebbe felicità, ed egli non la potrebbe provare. Dunque
l'animale, se non amasse se stesso, non potrebbe esser felice, e sarebbe
essenzialmente incapace della felicità, e in disposizione contraddittoria colla
natura di essa. Quindi si deve scusar la natura, e riconoscere che sebbene
l'amor proprio produce necessariamente l'infelicità (maggiore o minore), la
natura non ha però sbagliato nell'ingenerarlo ai viventi, essendo necessario
alla felicità, e però il suddetto
2495 inconveniente
era inevitabile come tanti altri, e derivato come tanti altri da una cosa ch'è
un bene, e fatta per bene. (24. Giugno. 1822.).
[2495,1] Quanto sia vero che l'amor proprio è cagione
d'infelicità, e che com'egli è maggiore e più attivo, maggiore si è la detta
infelicità, si dimostra per l'esperienza giornaliera. Perocchè il giovane non
solo è soggetto a mille dolori d'animo, ma incapace ancora di godere i maggiori
beni del mõdo[mondo], e di goderli e desfrutarlos più che sia possibile, e
nel miglior modo possibile, finchè il suo amor proprio, a forza di patimenti,
non è mortificato, incallito, intormentito. Allora si gode qualche poco. Cosa
osservata. Com'è anche osservatissimo che l'uomo è tanto più infelice quanto ha
più e più vivi desiderii, e che l'arte della felicità consiste nell'averne pochi
e poco vivi ec. (Ch'è appunto la cagione per cui il giovane nel predetto stato,
con
2496 un ardore incredibile che lo trasporta verso
la felicità, con la maggior forza possibile per poter gustare e sostenere i
piaceri e anche fabbricarseli coll'immaginazione, proccurarseli coll'opera ec.;
in un'età a cui tutto sorride, e porge quasi spontaneamente i diletti;
contuttochè sia privo del disinganno, e però veda le cose sotto il più
bell'aspetto possibile, {+e di più
essendo nuovo e inesperto dei piaceri, sia ancor lontano e ben difeso dalla
sazietà, e capace di dar peso a ogni godimento,} non gode mai nulla, e
pena più d'ogni altro, {e si sazia più presto;} e tanto
più quanto {egli} è più vivo [così spesso il Casa] {e sensitivo
ec.,} e quindi per necessità più amante di se stesso.) Ora la misura
dei desiderii, la loro copia vivezza ec. è sempre in proporzione della misura,
vivezza, energia, attività dell'amor proprio. Giacchè il desiderio non è d'altro
che del piacere, e l'amor della felicità non è altro che il desiderio del
piacere, e l'amor della felicità non è altro che l'amor proprio. (24.
Giugno. 1822.). {{V. p.
2528.}}
[2496,1] Quindi osservate che tutto quanto si dice dell'amor
proprio si deve anche intendere
2497 dell'amor della
felicità ch'è tutt'uno (v. p.
2494.). E però la misura, la forza, l'estensione, le vicende,
gl'incrementi, gli scemamenti, tanto individuali che generali, dell'uno di
questi amori, son comuni all'altro nè più nè meno. (24. Giugno.
1822.
[2499,1]
2499 Ho assegnato altrove pp. 2017-18
pp. 2410-12
pp. 2433-34 come
principio d'infinite e variatissime qualità dell'animo umano (p. e. l'amor delle
sensazioni vivaci) l'amor della vita. Questo amore però è non solo necessaria
conseguenza, ma parte, ovvero operazione naturale dell'amor proprio, il quale
non può non essere amore della propria esistenza, se non quando quest'esistenza
è divenuta una pena. Ma ciò non in quanto esistenza, chè l'esistenza in quanto
esistenza, è per natura eternamente amata sopra ogni cosa dall'esistente.
Perocchè tanto è amar la propria esistenza in quanto esistenza, quanto è amar se
stesso. E sarebbe una contraddizione quasi impossibile a concepirsi, che
l'esistenza non fosse amata dall'esistente; e quindi che in certo modo
l'esistenza fosse odiata dall'esistenza, e combattuta dall'esistenza, e
contraria all'esistenza, o anche semplicemente non cara e non gradita a se
stessa, nemmeno inquanto se stessa. (26. Giugno. 1822.).
[2736,1] È cosa indubitata che i giovani, almeno nel presente
stato degli uomini, dello spirito umano e delle nazioni, non solamente soffrono
più che i vecchi (dico quanto all'animo), ma eziandio (contro quello che può
parere, e che si è sempre detto e si crede comunemente), s'annoiano più che i
vecchi, e sentono molto più di questi il peso della vita, e la fatica e la pena
e la difficoltà di portarlo e di strascinarlo. E questa si è una conseguenza dei
principii posti nella mia teoria del
piacere. Perciocchè ne' giovani è
2737 più
vita o più vitalità che nei vecchi, cioè maggior sentimento dell'esistenza e di
se stesso; e dove è più vita, quivi è maggior grado di amor proprio, o maggiore
intensità e sentimento e stimolo {e vivacità} e forza
del medesimo; e dove è maggior grado o efficacia di amor proprio, quivi è
maggior desiderio e bisogno di felicità; e dove è maggior desiderio di felicità,
quivi è maggiore appetito e smania ed avidità e fame {e
bisogno} di piacere: e non trovandosi il piacere nelle cose umane è
necessario che dove n'è maggior desiderio quivi sia maggiore infelicità, ossia
maggior sentimento dell'infelicità; {quivi maggior senso di
privazione e di mancanza e di vuoto; quivi} maggior noia, maggior
fastidio della vita, maggior difficoltà e pena di sopportarla, maggior disprezzo
e noncuranza della medesima. Quindi tutte queste cose debbono essere in maggior
grado ne' giovani che ne' vecchi; siccome
2738 sono,
massime in questa presente mortificazione e monotonia della vita umana, che
contrastano colla vitalità ed energia della giovanezza; in questa mancanza di
distrazioni violente che stacchino il giovine da se medesimo, e lo tirino fuori
del suo interno; in questa impossibilità di adoperare sufficientemente la forza
vitale, di darle sfogo ed uscita dall'individuo, di versarla fuori, e
liberarsene al possibile; in somma in questo ristagno della vita al cuore e alla
mente e alle facoltà interne dell'uomo, e del giovane massimamente.
[3107,1] Altra proprietà dell'uomo si è che laddove la
superiorità, laddove la virtù congiunta colla fortuna non produce se non un
interesse debole, cioè l'ammirazione; per lo contrario la sventura in qualunque
{caso}, ma molto più la sventura congiunta colla
virtù, produce un interesse vivissimo, durevole e dolcissimo. Perocchè l'uomo si
compiace nel sentimento della compassione, perchè nulla sacrificando, ottiene
con essa quel sentimento che in ogni cosa e in ogni occasione gli è gratissimo,
cioè una quasi coscienza di proprio eroismo e nobiltà d'animo. La sventura è
naturalmente cagione di dispregio e anche d'odio verso lo sventurato, perchè
l'uomo per natura odia, come il dolore, così le idee dolorose. Mirando dunque,
malgrado la sciagura, alla virtù dello sciagurato, e non {abbominandolo nè} disdegnandolo quãtunque[quantunque] tale, e finalmente giungendo a compassionarlo, cioè a
voler coll'animo entrare a parte de' suoi
3108 mali,
pare all'uomo di fare uno sforzo sopra se stesso, di vincere la propria natura,
di ottenere una prova della propria magnanimità, di avere un argomento con cui
possa persuadere a se medesimo di esser dotato di un animo superiore
all'ordinario; tanto più ch'essendo proprio dell'uomo l'egoismo, e il
compassionevole interessandosi per altrui, stima con questo interesse che niun
sacrifizio gli costa, mostrarsi a se stesso straordinariamente magnanimo,
singolare, eroico, più che uomo, poichè può non essere egoista, e impegnarsi
seco medesimo per altri che per se stesso. L'uomo nel compatire s'insuperbisce e
si compiace di se medesimo: quindi è ch'egli goda nel compatire, e ch'ei si
compiaccia della compassione. {Veggansi le pagg. 3291-97. e
3480-2.}
L'atto della compassione è un atto d'orgoglio che l'uomo fa tra se stesso. Così
anche la compassione che sembra l'affetto il più lontano, anzi il più contrario,
all'amor proprio, e che sembra non potersi in nessun modo e per niuna parte
ridurre o riferire a questo amore, non
3109 deriva in
sostanza (come tutti gli altri affetti) se non da esso, anzi non è che amor
proprio, ed atto di egoismo. {+Il quale arriva a prodursi e fabbricarsi un piacere
col persuadersi di morire, o d'interrompere le sue funzioni, applicando
l'interesse dell'individuo ad altrui. Sicchè l'egoismo si compiace
perchè crede di aver cessato o sospeso il suo proprio essere di egoismo.
V. p.
3167.}
[3291,1]
Alla p. 3282.
Bisogna distinguere tra egoismo e amor proprio. Il primo non è che una specie
del secondo. L'egoismo è quando l'uomo ripone il suo amor proprio in non pensare
{che} a se stesso, non operare che per se stesso
immediatamente, rigettando l'operare per altrui con intenzione lontana e non ben
distinta dall'operante, ma reale, saldissima e continua, d'indirizzare quelle
medesime operazioni a se stesso come ad ultimo ed unico vero fine, {+il che l'amor proprio può ben fare, e
fa.} Ho detto altrove p. 1382
pp. 2410-12
pp. 2736-38
pp.
2752-55 che l'amor proprio è tanto maggiore nell'uomo quanto in esso è
maggiore la vita o la vitalità, e questa è tanto maggiore quanto è maggiore la
forza {+e l'attività dell'animo, e del
corpo ancora.} Ma questo, ch'è verissimo dell'amor proprio, non è nè
si deve intendere dell'egoismo. Altrimenti i vecchi, i moderni, gli uomini poco
sensibili e poco immaginosi sarebbero meno egoisti dei {fanciulli e dei} giovani, degli antichi, degli uomini sensibili e di
forte immaginazione.
3292 Il che si trova essere
appunto in contrario. Ma non già quanto all'amor proprio. Perocchè l'amor
proprio è veramente maggiore assai ne' fanciulli e ne' giovani che ne' maturi e
ne' vecchi, maggiore negli uomini sensibili e immaginosi che ne' torpidi. {Che l'amor proprio sia maggiore ne'
fanciulli e ne' giovani che nell'altre età, segno n'è quella infinita e
sensibilissima tenerezza verso se stessi, e quella suscettibilità e
sensibilità e delicatezza intorno a se medesimi che coll'andar degli anni e
coll'uso della vita proporzionatamente si scema, e in fine si suol
perdere.} I fanciulli, i giovani, gli uomini sensibili sono assai più
teneri di se stessi che nol sono i loro contrarii. Così generalmente furono gli
antichi rispetto ai moderni, e i selvaggi rispetto ai civili, perchè più forti
di corpo, più forti ed attivi e vivaci d'animo e d'immaginazione (sì per le
circostanze fisiche, sì per le morali), meno disingannati, e insomma
maggiormente e più intensamente viventi. {Nella stessa guisa discorrasi dei deboli rispetto ai forti e simili.}
(Dal che seguirebbe che gli antichi fossero stati più infelici generalmente de'
moderni, secondo che la infelicità è in proporzion diretta del maggiore amor
proprio, come altrove ho mostrato: p. 1382
pp. 2410-11
pp. 2752-55
pp. 2736-37
pp.
2495-96
p. 2754 ma l'occupazione {e l'uso} delle proprie forze, la distrazione e simili
cose, essendo state infinitamente maggiori in antico che oggidì; e il maggior
grado di vita esteriore essendo stato anticamente più che in
3293 proporzione del maggior grado di vita interiore, resta, come ho
in mille luoghi provato, che gli antichi fossero anzi mille volte meno infelici
de' moderni: e similmente ragionisi de' selvaggi e de' civili: non così de'
giovani e de' vecchi oggidì, perchè a' giovani presentemente è interdetto il
sufficiente uso delle proprie forze, e la vita esterna, della quale tanto ha
quasi il vecchio oggidì quanto il giovane; per la quale e per l'altre cagioni da
me in più luoghi accennate, maggiore presentemente è l'infelicità del giovane
che del vecchio, come pure altrove ho conchiuso pp. 277-80
pp. 2736-38
pp.
2752-55).
[3471,1]
Mὴ μετέχοντας δὲ τῆς
πολιτείας, πῶς οἷόν τε ϕιλικῶς ἔχειν πρὸς τὴν πολιτεῖαν
*
; Aristot.
Polit. l. 2. ed. Victor.
Flor. 1576. ap. Juntas, p.
131. (19. Sett. 1823.).
[3773,1]
3773 Vogliono che l'uomo per natura sia più sociale di
tutti gli altri viventi. Io dico che lo è men di tutti, perchè avendo più
vitalità, ha più amor proprio, e quindi necessariamente ciascun individuo umano
ha più odio verso gli altri individui sì della sua specie sì dell'altre, secondo
i principii da me in più luoghi sviluppati p. 55
pp. 872. sgg.
pp.
1078-79
pp.
1083-84
pp.
2204-206
p.
2644
pp. 2736. sgg.
p.
3291. Or qual altra qualità è più antisociale, più esclusiva per sua
natura dello spirito di società, che l'amore estremo verso se stesso, l'appetito
estremo di tirar tutto a se, e l'odio estremo verso gli altri tutti? Questi
estremi si trovano tutti nell'uomo. Queste qualità sono naturalmente nell'uomo
in assai maggior grado che in alcun'altra specie di viventi. Egli occupa nella
natura terrestre il sommo grado per queste parti, siccome generalmente egli
tiene la sommità fra gli esseri terrestri.
[3813,1] L'amor della vita, il piacere delle sensazioni vive,
dell'aspetto della vita ec. {+delle quali
cose altrove}
pp.
2107-108
p.
2499
pp. 1988-90
pp. 2017-18
p. 2415
pp. 2433-34 è ben
consentaneo negli animali. La natura è vita. Ella è esistenza. Ella stessa ama
la vita, e proccura in tutti i modi la vita, e tende in ogni sua operazione alla
vita. Perciocch'ella esiste e vive. Se la natura fosse morte, ella non sarebbe.
Esser morte, son termini contraddittorii. S'ella tendesse in alcun modo alla
morte, se in alcun modo la proccurasse, ella tenderebbe e proccurerebbe contro
se stessa. S'ella non proccurasse la vita con ogni sua forza possibile, s'ella
non amasse la vita quanto più si può amare, e se la vita non fosse tanto più
cara alla natura, quanto maggiore e più intensa e in maggior grado, la natura
non amerebbe se stessa (vedi la pagina 3785. principio), non proccurerebbe se stessa o il proprio bene, o
non si amerebbe quanto più può (cosa impossibile), nè amerebbe il suo maggior
3814 possibile bene, e non proccurerebbe il suo
maggior bene possibile (cose che parimente, come negl'individui e nelle specie
ec., così sono impossibili nella natura). Quello che noi chiamiamo natura non è
principalmente altro che l'esistenza, l'essere, la vita, sensitiva o non
sensitiva, delle cose. Quindi non vi può esser cosa {nè
fine} più naturale, nè più naturalmente amabile e desiderabile e
ricercabile, che l'esistenza e la vita, la quale è quasi tutt'uno colla stessa
natura, nè amore più naturale, nè naturalmente maggiore che quel della vita. (La
felicità non è che la perfezione {il compimento} e il
proprio stato della vita, secondo la sua diversa proprietà ne' diversi generi di
cose esistenti. Quindi ell'è in certo modo la vita o l'esistenza stessa, siccome
l'infelicità in certo modo è lo stesso che morte, o non vita, perchè vita non
secondo il suo essere, e vita imperfetta ec. Quindi la natura, ch'è vita, è
anche felicità.). E quindi è necessario alle cose esistenti amare e cercare la
maggior vita possibile a ciascuna di loro. E il piacere non è altro che vita ec.
E la vita è piacere necessariamente, e maggior piacere, quanto essa vita è
maggiore e più viva. La vita generalmente e[è]
tutt'uno colla natura, la vita divisa ne' particolari è tutt'uno co' rispettivi
subbietti esistenti. Quindi ciascuno essere, amando la vita, ama se stesso:
pertanto non può non amarla, e non amarla quanto si possa il più. L'essere
esistente non può amar la morte, {#1. (in
quanto la morte abbia rispetto a lui)} veramente parlando, non può
tendervi, non può proccurarla, non può non odiarla il più ch'ei possa, in veruno
istante dell'esser suo; per la stessa ragione per cui egli non può
3815 odiar se stesso, proccurare, amare il suo male,
tendere al suo male, non odiarlo sopra ogni cosa e il più ch'ei possa, non
amarsi, non solo sopra ogni cosa, ma il più ch'egli possa onninamente amare.
Sicchè l'uomo, l'animale ec. ama le sensazioni vive ec. ec. e vi prova piacere,
perch'egli ama se stesso. (31. Ott. 1823.).
[3842,2] Sempre che l'uomo pensa, ei desidera, perchè tanto
quanto pensa ei si ama. Ed in ciascun momento, a proporzione che la sua facoltà
di pensare è più libera ed intera e {con minore}
impedimento, e che egli più pienamente ed intensamente la esercita, il suo
desiderare è maggiore. Quindi in uno stato di assopimento, di letargo, di {certe} ebbrietà, {#1. V. la pag. 3835.
seg. e 3846.
fine-8.} nell'accesso e recesso del sonno, e in simili stati in
cui la proporzione, la somma, la forza del pensare, l'esercizio del pensiero, la
libertà e la facoltà attuale del pensare, è minore, più impedita, scarsa ec.
l'uomo desidera meno vivamente a proporzione, il suo desiderio, la forza, {la} somma di questo, è minore; e perciò l'uomo è
proporzionatamente meno infelice. Quanto si stende quell'azione della mente ch'è
inseparabile dal sentimento della vita, e sempre proporzionata
3843 al grado di questo sentimento, tanto, e sempre
proporzionato al di lei grado, si stende il desiderio dell'uomo e del vivente, e
l'azione del desiderare. Ogni atto {libero} della
mente, ogni pensiero che non sia indipendente dalla volontà, è in qualche modo
un desiderio {attuale,} perchè tutti cotali atti e
pensieri hanno un fine qualunque, il quale dall'uomo in quel punto è desiderato
in proporzione dell'intensità ec. di quell'atto o pensiero, e tutti cotali fini
spettano alla felicità che l'uomo {e il vivente} per
sua natura sopra tutte le cose necessariamente desidera e non può non
desiderare. (6. Nov. 1823.).
[3846,2] Sempre che il vivente si accorge dell'esistenza, e
tanto più quanto ei più la sente, egli ama se stesso, {Puoi vedere p.
3835. seg.; p. 3842.
seg.} e sempre attualmente,
3847
cioè con una successione continuata e non interrotta di atti, tanto più vivi,
quanto il detto sentimento è attualmente o abitualmente maggiore. Sempre e in
ciascuno istante ch'egli ama {attualmente} se stesso,
egli desidera la sua felicità, e la desidera attualmente, con una serie continua
di atti di desiderio, o con un desiderio sempre presente, e non sol potenziale,
ma posto sempre in atto, tanto più vivo, quanto ec. come sopra. Il vivente non
può mai conseguire la sua felicità, perchè questa vorrebb'essere infinita, come
s'è spiegato altrove pp. 165.
sgg.
pp. 1017-18, e tale ei la desidera; or tale in effetto ella non può
essere. Dunque il vivente non ottiene mai e non può mai ottenere l'oggetto del
suo desiderio. Sempre pertanto ch'ei desidera, egli è {necessariamente} infelice, perciò appunto ch'ei desidera inutilmente,
esclusa anche ogni altra cagione d'infelicità; giacchè un desiderio non
soddisfatto è uno stato penoso, dunque uno stato d'infelicità. E tanto più
infelice quanto ei desidera più vivamente. Non v'è dunque pel vivente altra
felicità possibile, e questa solamente negativa, cioè mancanza d'infelicità; non
è, dico, possibile al vivente il mancare d'infelicità positiva altrimenti che
non desiderando la sua felicità, nè per altro mezzo che quello di non bramar la
felicità. Ma sempre ch'ei si ama, ei la desidera; e mentre ch'ei sente di
esistere, non può, nè anche per un istante, cessare di amarsi; e più ch'ei sente
di esistere, più si ama e più desidera. Il discorso dunque della felicità umana
e di qualunque vivente si riduce per evidenza a questi termini, {+e a questa conclusione.} Una specie
di
3848 viventi rispetto all'altra {o all'altre generalmente ec.,} è tanto più felice, cioè tanto meno
infelice, tanto più scarsa d'infelicità positiva, quanto meno dell'altra ella
sente l'esistenza, cioè quanto men vive {e più si accosta ai
generi non animali.} (Dunque la specie de' polipi, {+zoofiti ec.} è la più felice delle
viventi). Così un individuo rispetto all'altro o agli altri. (Dunque il più
stupido degli uomini è di questi il più felice: e la nazion de' Lapponi la più
felice delle nazioni ec.). E un individuo rispetto a se stesso allora è più
felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso; dunque in una ebbrietà
letargica, in uno alloppiamento, come quello de' turchi, {debolezza non penosa,} ec. negl'istanti che precedono il sonno o il
risvegliarsi ec. Ed allora solo sì l'uomo, sì il vivente è e può essere
pienamente felice, cioè pienamente non infelice e privo d'infelicità positiva,
quando ei non sente in niun modo la vita, cioè nel sonno, letargo, svenimento
totale, negl'istanti che precedono la morte, cioè la fine del suo esser di
vivente ec. Ciò vuol dire quando ei non è capace neanche di felicità veruna, nè
di piacere o bene veruno, assolutamente; quando ei vivendo, non vive; allora
solo egli è pienamente felice. S'ei desidera la felicità, non può esser felice;
meno ei la desidera, meno è infelice; nulla desiderandola, non è punto infelice.
Quindi l'uomo {e il vivente} è anche tanto meno
infelice, quanto egli è più distratto dal desiderio della felicità, mediante
l'azione e l'occupazione esteriore o interiore, come ho spiegato altrove pp.
172-73
pp. 1584-86. O
distrazione o letargo: ecco i soli mezzi di felicità che hanno e possono mai
aver gli animali. (7. Nov. 1823.).
[3921,1]
3921 Dico altrove in più luoghi p. 1382
pp. 2410-14
pp. 2736-39
pp.
3291. sgg.
pp. 3835-36
p.
3906 che gli uomini e i viventi più forti o per età o per complessione
{o per clima} o per qualunque causa, abitualmente o
attualmente o comunque, avendo più vita ec. hanno anche più amor proprio ec. e
quindi sono più infelici. Ciò è vero per una parte. Ma essi sono anche tanto più
capaci e di azion viva ed esterna, e di piaceri {forti
e} vivi. Quindi tanto più capaci di viva distrazione ed occupazione, e
di poter fortemente divertire l'operazione {interna}
dell'amor proprio e del desiderio di felicità sopra loro stessi e sul loro
animo. La qual potenza ridotta in atto è uno de' principalissimi mezzi, anzi
forse il principal mezzo di felicità o di minore infelicità conceduto ai
viventi. (Io considero quelli che si chiamano piaceri come utili e conducenti
alla felicità, solo in quanto distrazioni forti, e vivi divertimenti dell'amor
proprio, (chè infatti essi non sono utili in altro modo) e tanto più forti
distrazioni, quanto più vivi e forti sono essi piaceri, così chiamati, e
maggiore il loro essere di piacere, e la sensazion loro più viva. I deboli sono
incapaci di piaceri forti, o solo di rado e poco frequenti, e men forti sempre
che non ne provano i vigorosi, perchè la lor natura non ha la facoltà o di
sentire più che tanto vivamente, o di sentire piacevolmente quando le sensazioni
sieno più che tanto vive.) Se l'uomo forte in qualunque modo, è privo, per
qualunque cagione, di piaceri, o di piaceri abbastanza forti, e di sensazioni
vive, e di poter mettere in opera la sua facoltà di azione, o di metterla in
opera più che il debole, egli è veramente più infelice che il debole, e soffre
3922 di più. Perciò, fra le altre cose, nel
presente stato delle nazioni e quanto alla sua natura, i giovani sono
generalmente più infelici dei vecchi, e questo stato è più conveniente e buono
alla vecchiezza che alla giovanezza. L'uomo forte è meno infelice del debole in
uguali dispiaceri e dolori; più infelice s'egli è privo di piaceri, o di piaceri
più vivi {e frequenti} che non son quelli del debole.
Egli {è} più atto a soffrire, e meno atto a non godere;
o vogliamo dire men disadatto all'uno, e più disadatto all'altro.
[4037,6] Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel
conversare, e massime gli sprezzanti avessero più amor proprio degli altri e più
stima di se, e i timidi meno. Tutto al contrario. I timidi per eccesso di amor
proprio e per il troppo conto che fanno di se, temendo sempre di sfigurare e
perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di acquistarla e di
figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del proprio onore, del
proprio concetto, del proprio amore, e occupati e legati da questo pensiero,
sono senza coraggio, e non si ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti fanno al
contrario
4038 per la contraria cagione, cioè per aver
poca cura e poco concetto concetto di se, o desiderio della stima degli altri
(che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura, o per
abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano
di offendere l'amor proprio degli altri, e n'hanno poca cura, per poco amor di
se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille scrupoli e riguardi, e non
impetrano mai da se stessi non che di lederlo menomamente, ma di porsene a
rischio benchè leggero e lontano, e ciò per soverchio amor proprio, il quale
parrebbe che dovesse principalmente offendere e muoverli ad offendere quello
degli altri. E così per soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar
dispregio degli altri, e infatti non gli spregiano, anzi gli stimano
eccessivamente non per altro che per lo smisurato desiderio e conto che fanno
della loro stima, anche conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema
che hanno di perderla, eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per
rispetto al merito di coloro. Tali sono ordinariamente i fanciulli e i giovani
ancora inesperti e inesercitati nel commercio umano e nelle palestre dell'amor
proprio, dov'esso riporta tanti colpi, che alla fine incallisce; e tali sono più
o manco, per più o men lungo tempo, ed alcune per tutta la vita, le persone
sensibili e immaginose, le quali restano {sovente}
fanciulle anche in età matura, e vecchia, sì quanto a {molte} altre cose, sì quanto a questa della timidità {nel consorzio umano,} che in esse è sempre difficile a
vincere più {assai} che negli altri, e in alcune è
assolutamente invincibile, come {fu} in Rousseau. La cagione si è l'eccesso
dell'amor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza
dell'animo; ed insieme la vivacità della immaginazione, la quale non mai
veramente spenta {in loro,} nè anche quando pare
affatto agghiacciata, e quando effettivamente ha cessato affatto di partorire
alcun piacere all'individuo medesimo, continuamente,
4039 secondo la sua natura, va fingendo ad esso amor proprio che è per se
vivissimo, mille falsi pericoli e difficoltà, o smisuratamente accrescendo e
moltiplicando i veri. Sì, Rousseau e gli
altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da
un'invincibile e irrepugnabile timidità, anzi mauvaise
honte ed erubescenza, non furono e non son tali se non
per eccesso di amor proprio e d'immaginazione. Altro danno e infelicità somma
della soprabbondanza della vita interna dell'anima (oltre i tanti da me altrove
notati p. 1382
p.
1584
pp. 2410-14
pp.
2629-30
pp. 2736-39
p.
2861
pp.
3921. sgg.), della sensibilità, della squisitezza dell'ingegno, della
natura riflessiva, immaginosa ec. Poichè in essa l'amor proprio essendo
eccessivo e però tanto più bisognoso di successi, e desiderando la stima altrui
e temendo la disistima molto più che gli altri non fanno, e impedito di
conseguire e costretto ad incontrare quelli che gli altri con molto minor
desiderio e bisogno conseguono facilissimamente ogni dì, ed evitano con molto
minor tema, e che quando nol conseguissero o non lo evitassero, ne sarebbero
molto meno afflitti e infelicitati, per la minore vivacità {e
sensibilità} dell'amor proprio, ed anche della immaginazione, la quale
a quegli altri accresce eziandio per se stessa e con mille false esagerazioni e
finzioni la grandezza delle perdite fatte, di quello che essi desiderano
naturalmente di conseguire, di quello che non ottengono, dei mali successi
incontrati nella società, delle ἀσχημοσύναι, che anche bene spesso non son vere
affatto, ma fabbricate di pianta dall'immaginazione, e non esistono se non
nell'idea di questi tali, e così anche i buoni successi o gli oggetti che essi
si propongono di conseguire che spessissimo sono vani e immaginari, e da niuno
ottenuti nè possibili ad ottenere ec. ec. (1. Marzo. penultimo dì di
Carnevale. 1824.) Ciò che ho detto dell'immaginazione, dico
4040 dell'amor proprio, il quale in questi tali, anche
quando sembra rotto e fiaccato dall'uso de' mali, {dispiaceri, punture ec.} anzi minore assai che non è negli altri, e
quasi al tutto agghiacciato, addormentato e spento, è sempre in verità vivissimo
assai più che negli altri anche giovani e principianti, caldissimo, e {ancora} in istato da esser chiamato tenerezza di se
stesso (come suol essere nella gioventù) benchè sia in loro più {negativo che} positivo, più atto a impedire che a
cagionare, piuttosto causa di passione che d'azione ec. quale egli è
proporzianatamente[proporzionatamente] anche
ne' primi anni di questi tali. (3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri.
1824.).
[4127,9]
D. Le plaisir
est-il l'objet principal et immédiate[immédiat] de notre existence, comme l'ont dit quelques
philosophes? R. Non: il ne l'est pas plus que la douleur; le plaisir est
un encouragement à vivre, comme la douleur est un repoussement à mourir.
D. Comment prouvez-vous cette assertion? R. Par deux faits palpables:
l'un, que le plaisir, s'il est pris au-delà du besoin, conduit à la
destruction: par exemple, un homme qui abuse du plaisir de manger ou de
boire, attaque sa santé, et nuit à sa vie. L'autre,
4128 que la douleur conduit quelquefois à la conservation: par
exemple un homme qui se fait couper un membre gangrené, souffre de la
douleur, et c'est afin de ne pas périr tout entier.
*
Volney, La loi naturelle, ou Catéchisme du citoyen
français, chap. 3. à la suite des Ruines (Les Ruines) ou
Méditation sur les Révolutions des Empires, par le même
auteur, 4.me édition. Paris 1808. p. 359-360.
Bisogna distinguere tra il fine della natura generale e quello della umana, il
fine dell'esistenza universale, e quello della esistenza umana, o per meglio
dire, il fine naturale dell'uomo, e quello della sua esistenza. Il fine naturale
dell'uomo e di ogni vivente, in ogni momento della sua esistenza sentita, non è
nè può essere altro che la felicità, e quindi il piacere, suo proprio; e questo
è anche il fine unico del vivente in quanto a tutta la somma della sua vita,
azione, pensiero. Ma il fine della sua esistenza, o vogliamo dire il fine della
natura nel dargliela e nel modificargliela, come anche nel modificare
l'esistenza degli altri enti, e in somma il fine dell'esistenza generale, e di
quell'ordine e modo di essere che hanno le cose e per se, e nel loro rapporto
alle altre, non è certamente in niun modo la felicità nè il piacere dei viventi,
non solo perchè questa felicità è impossibile (Teoria del piacere), ma anche perchè sebbene la natura nella
modificazione di ciascuno animale e delle altre cose per rapporto a loro, ha
provveduto e forse avuto la mira ad alcuni piaceri di essi animali, queste cose
sono un nulla rispetto a quelle nelle quali il modo di essere di ciascun
vivente, e delle altre cose rispetto a loro, risultano necessariamente e
costantemente in loro dispiacere; sicchè e la somma e la intensità del
dispiacere nella vita intera di ogni animale, passa senza comparazione
4129 la somma e intensità del suo piacere. Dunque la
natura, la esistenza non ha in niun modo per fine il piacere nè la felicità
degli animali; piuttosto al contrario; ma ciò non toglie che ogni animale abbia
di sua natura per necessario,
perpetuo e solo suo fine il suo piacere, e la sua felicità, e così ciascuna
specie presa insieme, e così la università dei viventi. Contraddizione evidente
e innegabile nell'ordine delle cose e nel modo della esistenza, contraddizione
spaventevole; ma non perciò men vera: misterio grande, da non potersi mai
spiegare, se non negando (giusta il mio sistema) ogni verità o falsità assoluta,
e rinunziando in certo modo anche al principio di cognizione, non potest idem simul esse et non esse. Un'altra
contraddizione, o in altro modo considerata, in questo essere gli animali necessariamente e regolarmente e per natura loro e
per natura universale, infelici (essere - infelicità,
cose contraddittorie), si è da me dichiarata altrove pp. 4099-4100.
[4242,1] L'amor della vita e il timor della morte non sono
innati {per se:} altrimenti niuno s'ammazzerebbe.
Innato è l'amor di se, e quindi del proprio bene, e l'odio del proprio male: e
però niun può non amarsi, nè amare il suo creduto male ec. È però naturale che
ogni vivente giudichi la vita il suo maggior bene e la morte il maggior male. E
infatti così egli giudica infallibilmente, se non è molto allontanato dallo
stato di natura. Ecco dunque che la natura ha veramente provveduto alla
conservazione, rendendo immancabile questo error di giudizio; benchè non abbia
ingenerato
4243 un amor della vita. Esso è un
ragionamento, non un sentimento: però non può essere innato. Sentimento è l'amor
proprio, di cui l'amor della vita è una naturale, benchè falsa conclusione. Ma
di esso altresì è conclusione (bensì non naturale) quella di chi risolve
uccidersi da se stesso. (8. 1827.).
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