Uomo, se sia la più perfetta creatura terrestre.
Man, whether he is the most perfect earthly creature.
2392,2 2410,1 2567,1 2898,1 3374,1 3846,2 4133,2[2392,2] Asseriscono che la natura ha data espressamente
all'uomo la facoltà di perfezionarsi, e voluto che l'adoprasse, e però non ha
provveduto a lui del necessario così bene come agli altri animali, anzi glien'ha
mancato anche nel più essenziale. E da questa facoltà vogliono che l'uomo sia
tenuto per superiore e più perfetto degli altri esseri. 1. Vi par questa una
bella provvidenza? Dare all'uomo la facoltà di perfezionarsi, cioè di conseguire
la felicità propria della sua natura; ma frattanto perchè questa perfezione non
si poteva conseguire se non dopo lunghissimo spazio di tempo, e successione
d'infinite esperienze,
2393 fare decisamente, e
deliberatamente infelici un grandissimo numero di generazioni, cioè tutte quelle
che dovevano essere innanzi che questa perfezione propria dell'esser loro, e non
per tanto difficilissima e remotissima, si potesse conseguire, come ancora non
possono affermare che si sia fatto. E per rispetto di questa medesima facoltà di
perfezionarsi, di questo dono, di questo massimo privilegio dato dalla natura
alla specie umana, mancare alla medesima del necessario, quando era evidente che
questa facoltà non avrebbe avuto effetto, e non avrebbe potuto supplire al
preteso mancamento della natura verso di noi, se non dopo lunghissimo tempo, e
dopo che moltissime generazioni avrebbero dovuto, a differenza di tutti gli
altri esseri, sentire e sopportare il detto mancamento, e l'infelicità che
risulta dal non essere nello stato proprio della propria natura. In verità che
questo, se fosse vero, mostrerebbe una gran predilezione della natura verso di
noi, e gran superiorità nostra sugli altri esseri. 2. Non essendo la perfezione
altro
2394 che l'essere nel modo conveniente alla
propria natura, e tutti gli animali e le cose essendo così, tutte sono perfette
nel loro genere, e ciò vuol dire che son perfette assolutamente, non potendo la
perfezione considerarsi fuori del genere di cui si discorre. La natura dunque
(giacchè gli animali e le cose non hanno acquistata questa perfezione da loro, e
sono in tutto secondo natura) ha fatto gli animali e le cose tutte perfette.
L'uomo solo, secondo voi, l'ha fatto perfettibile. Bella superiorità e
privilegio. Dare agli altri il fine, a voi il mezzo; a tutti la perfezione, a
voi non altro che il mezzo di ottenerla. E di più un mezzo o inefficace e quasi
illusorio, o così poco efficace, che, lasciando gl'infiniti ostacoli, e
l'immenso spazio di tempo che s'è dovuto passare prima di ridurci allo stato
presente, in questo ancora non possiamo esser tanto arditi nè sciocchi da darci
per perfetti (che vorrebbe dir felici, quando siamo il contrario): e oltre a
questo non sappiamo quando lo potremo essere: anzi non possiamo congetturar
neppure in che cosa potrà consistere la nostra
2395
perfezione se mai s'otterrà: e per ultimo, se parliamo da vero, siamo o dobbiamo
essere omai più che persuasi, che la detta perfezione, qualunque ce la
figuriamo, non s'otterrà mai, e non diverremo mai più felici. E pur gli animali
lo sono dal principio del mondo in poi, senza essersi mossi dalla natura. Ecco
la superiorità naturale su tutti gli esseri, che si scopre in noi mediante la
bella e generale supposizione della nostra perfettibilità. (5. Marzo
1822.).
[2410,1] Dalla mia teoria
del piacere segue che per essenza naturale e immutabile delle cose,
quanto è maggiore e più viva la forza, il sentimento, e l'azione e attività
interna dell'amor proprio, tanto è necessariamente maggiore l'infelicità del
vivente, o tanto più difficile il conseguimento d'una tal quale felicità. Ora la
forza e il sentimento dell'amor proprio è tanto maggiore quanto è maggiore la
vita, o il
2411 sentimento vitale in ciascun essere; e
specialmente quanto è maggiore la vita interna, ossia l'attività dell'anima,
cioè della sostanza sensitiva, e concettiva. Giacchè amor proprio e vita son
quasi una cosa, non potendosi nè scompagnare il sentimento dell'esistenza
propria (ch'è ciò che s'intende per vita) dall'amore dell'esistente, nè questo
esser minore di quello, ma l'uno si può sempre esattamente misurare coll'altro.
E tanto uno vive, quanto si ama, e tutti i sentimenti di chi vive sono compresi
o riferiti o prodotti ec. dall'amor proprio: il quale è il sentimento universale
che abbraccia tutta l'esistenza; e gli altri sentimenti del vivente (se pur ve
n'ha che sieno veramente altri) non sono che modificazioni, o divisioni, o
produzioni di questo, ch'è tutt'uno col sentimento dell'essere, o una parte
essenziale del medesimo.
[2567,1] Una macchina dilicata (cioè più diligentemente e
perfettamente organizzata) è più facile a guastarsi che una rozza: ma ciò non
2568 toglie che la non sia più perfetta di questa,
e che andando come deve andare non vada meglio della rozza, {supponendole} anche tutt'e due in uno stesso genere, come due
orologi. Così l'uomo è più dilicato assai di tutti gli altri animali, sì nella
costruzione esterna, sì nelle fibre intellettuali. E perciò egli è senza dubbio
il più perfetto nella scala degli
animali. Ma ciò non prova ch'egli sia più perfettibile; bensì più guastabile,
appunto perchè più delicato. E d'altra parte l'esser più facile a guastarsi, non
toglie che non sia veramente la più perfetta delle creature terrestri, come ogni
cosa lo dimostra. (18. Luglio. 1822.).
[2898,1] Certo se questo è vero, perchè diciamo noi che
l'uomo è {per natura} il più perfetto degli esseri
terrestri? Lasciamo stare che la perfezione è sempre relativa a quella tale
specie in che ella si considera. Ma paragonando pur l'uomo colle altre specie di
questo mondo, se la sua perfezione è quella che altri dice, come non si dovrà
sostenere che l'uomo è per natura la più imperfetta di tutte le cose? Perocchè
tutte le altre cose hanno da natura la perfezione che loro si conviene, e però
sono tutte {naturalmente} così perfette, come debbono
essere, che {è} quanto dire perfettissime. Solo l'uomo,
secondo il presupposto che abbiamo fatto, è per natura così lontano dallo stato
che gli conviene, che più, quasi, non potrebb'essere, e quindi laddove tutte
2899 l'altre cose sono in natura perfettissime, l'uomo
è in natura imperfettissimo. Pertanto la specie umana lungi da esser la prima in
natura, è anzi l'ultima di tutte le specie conosciute.
[3374,1] Dico in più luoghi pp. 1661-63
pp. 1680-82
pp.1923-25 che la natura non ingenera nell'uomo quasi altro che
disposizioni. Or tra queste bisogna distinguere. Altre sono disposizioni a poter
essere, altre ad essere. Per quelle l'uomo può divenir tale o tale; può, dico, e
non più. Per queste l'uomo, naturalmente vivendo, e tenendosi lontano dall'arte,
indubitatamente diviene quale la natura ha voluto ch'ei sia, bench'ella non
l'abbia fatto, ma disposto solamente a divenir tale. In queste si deve
considerare l'intenzione della natura: in quelle no. E se per quelle l'uomo può
divenir tale o tale, ciò non importa che tale o tale divenendo, egli divenga
quale la natura ha voluto ch'ei fosse: perocchè la natura per quelle
disposizioni non ha fatto altro che lasciare all'uomo la possibilità di divenir
tale o tale; nè quelle sono
3375 altro che possibilità.
Ho distinto due generi di disposizioni per parlar più chiaro. Ora parlerò più
esatto. Le disposizioni naturali a poter essere e quelle ad essere, non sono
diverse individualmente l'une dall'altre, ma sono individualmente le medesime.
Una stessa disposizione è ad essere e a poter essere. In quanto ella è ad
essere, l'uomo, seguendo le inclinazioni naturali, e non influito da circostanze
non naturali, non acquista che le qualità destinategli dalla natura, e diviene
quale ei dev'essere, cioè quale la natura ebbe intenzione ch'ei divenisse,
quando pose in lui quella disposizione. In quanto ella è disposizione a poter
essere, l'uomo influito da varie circostanze non naturali, sião[siano] intrinseche siano estrinseche, acquista molte
qualità non destinategli dalla natura, molte qualità contrarie eziandio
all'intenzione della natura, e diviene qual ei non dev'essere, cioè quale la
natura non intese ch'ei divenisse, nell'ingenerargli quella disposizione. Egli
{però non} divien tale {per} natura, benchè questa disposizione sia naturale: perocchè essa
{disposizione} non era ordinata a questo
3376 ch'ei divenisse tale, ma era ordinata ad altre
qualità, molte delle quali affatto contrarie a quelle che egli ha per detta
disposizione acquistato. Bensì s'egli non avesse avuto naturalmente questa
disposizione, egli non sarebbe potuto divenir tale. Questa è tutta la parte che
ha la natura in ciò che tale ei sia divenuto. Siccome, se la disposizion fisica
del nostro corpo non fosse qual ella è per natura, l'uomo non potrebbe, per
esempio, provare il dolore, divenir malato. Ma non perciò la natura ha così
disposto il nostro corpo acciocchè noi sentissimo il dolore e infermassimo; nè
quella disposizione è ordinata a questo, ma a tutt'altri e contrarii risultati.
E l'uomo non inferma per natura; bensì può per natura infermare; ma infermando,
ciò gli accade contra natura, o fuori e indipendentemente dalla natura, la quale
non intese disporlo a infermare.
[3846,2] Sempre che il vivente si accorge dell'esistenza, e
tanto più quanto ei più la sente, egli ama se stesso, {Puoi vedere p.
3835. seg.; p. 3842.
seg.} e sempre attualmente,
3847
cioè con una successione continuata e non interrotta di atti, tanto più vivi,
quanto il detto sentimento è attualmente o abitualmente maggiore. Sempre e in
ciascuno istante ch'egli ama {attualmente} se stesso,
egli desidera la sua felicità, e la desidera attualmente, con una serie continua
di atti di desiderio, o con un desiderio sempre presente, e non sol potenziale,
ma posto sempre in atto, tanto più vivo, quanto ec. come sopra. Il vivente non
può mai conseguire la sua felicità, perchè questa vorrebb'essere infinita, come
s'è spiegato altrove pp. 165.
sgg.
pp. 1017-18, e tale ei la desidera; or tale in effetto ella non può
essere. Dunque il vivente non ottiene mai e non può mai ottenere l'oggetto del
suo desiderio. Sempre pertanto ch'ei desidera, egli è {necessariamente} infelice, perciò appunto ch'ei desidera inutilmente,
esclusa anche ogni altra cagione d'infelicità; giacchè un desiderio non
soddisfatto è uno stato penoso, dunque uno stato d'infelicità. E tanto più
infelice quanto ei desidera più vivamente. Non v'è dunque pel vivente altra
felicità possibile, e questa solamente negativa, cioè mancanza d'infelicità; non
è, dico, possibile al vivente il mancare d'infelicità positiva altrimenti che
non desiderando la sua felicità, nè per altro mezzo che quello di non bramar la
felicità. Ma sempre ch'ei si ama, ei la desidera; e mentre ch'ei sente di
esistere, non può, nè anche per un istante, cessare di amarsi; e più ch'ei sente
di esistere, più si ama e più desidera. Il discorso dunque della felicità umana
e di qualunque vivente si riduce per evidenza a questi termini, {+e a questa conclusione.} Una specie
di
3848 viventi rispetto all'altra {o all'altre generalmente ec.,} è tanto più felice, cioè tanto meno
infelice, tanto più scarsa d'infelicità positiva, quanto meno dell'altra ella
sente l'esistenza, cioè quanto men vive {e più si accosta ai
generi non animali.} (Dunque la specie de' polipi, {+zoofiti ec.} è la più felice delle
viventi). Così un individuo rispetto all'altro o agli altri. (Dunque il più
stupido degli uomini è di questi il più felice: e la nazion de' Lapponi la più
felice delle nazioni ec.). E un individuo rispetto a se stesso allora è più
felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso; dunque in una ebbrietà
letargica, in uno alloppiamento, come quello de' turchi, {debolezza non penosa,} ec. negl'istanti che precedono il sonno o il
risvegliarsi ec. Ed allora solo sì l'uomo, sì il vivente è e può essere
pienamente felice, cioè pienamente non infelice e privo d'infelicità positiva,
quando ei non sente in niun modo la vita, cioè nel sonno, letargo, svenimento
totale, negl'istanti che precedono la morte, cioè la fine del suo esser di
vivente ec. Ciò vuol dire quando ei non è capace neanche di felicità veruna, nè
di piacere o bene veruno, assolutamente; quando ei vivendo, non vive; allora
solo egli è pienamente felice. S'ei desidera la felicità, non può esser felice;
meno ei la desidera, meno è infelice; nulla desiderandola, non è punto infelice.
Quindi l'uomo {e il vivente} è anche tanto meno
infelice, quanto egli è più distratto dal desiderio della felicità, mediante
l'azione e l'occupazione esteriore o interiore, come ho spiegato altrove pp.
172-73
pp. 1584-86. O
distrazione o letargo: ecco i soli mezzi di felicità che hanno e possono mai
aver gli animali. (7. Nov. 1823.).
[4133,2] Tutta la natura è insensibile, fuorchè solamente gli
animali. E questi soli sono infelici, ed è meglio per essi il non essere che
l'essere, o vogliamo dire il non vivere che il vivere. Infelici però tanto meno
quanto meno sono sensibili (ciò dico delle specie e degli individui) e
viceversa. La natura tutta, e l'ordine eterno delle cose non è in alcun modo
diretto alla felicità degli esseri sensibili o degli animali. Esso vi è anzi
contrario. Non vi è neppur diretta la natura loro propria e l'ordine {eterno} del loro essere. Gli enti sensibili sono per
natura enti souffrants, una parte essenzialmente souffrant dello universo. Poichè essi esistono e le
loro specie si perpetuano, convien dire che essi siano un anello necessario alla
gran catena degli esseri, e all'ordine e alla esistenza di questo tale universo,
al quale sia utile il loro danno, poichè la loro esistenza è un danno per loro,
essendo essenzialmente una souffrance. Quindi questa
loro necessità è un'imperfezione della natura, e dell'ordine universale,
imperfezione essenziale ed eterna, non accidentale. Se però la souffrance d'una menoma parte della
4134 natura, qual è tutto il genere animale preso insieme, merita di
esser chiamato[chiamata] un'imperfezione. Almeno
ella è piccolissima e quasi un menomo neo nella natura {universale} nell'ordine ed esistenza del gran tutto. Menomo perchè
gli animali rispetto alla somma di tutti gli altri esseri, e alla immensità del
gran tutto sono un nulla. E se noi li consideriamo come la parte principale
delle cose, gli esseri più considerabili, e perciò come una parte non minima,
anzi massima, perchè grande per valore se minima per estensione; questo nostro
giudizio viene dal nostro modo di considerar le cose, di pesarne i rapporti, di
valutarle comparativamente, di estimare e riguardare il gran sistema del tutto;
modo e giudizio naturale a noi che facciamo parte noi stessi del genere animale
e sensibile, ma non vero, nè fondato sopra basi indipendenti e assolute, nè
conveniente colla realtà delle cose, nè conforme al giudizio e modo (diciamo
così) di pensare della natura universale, nè corrispondente all'andamento del
mondo, nè al vedere che tutta la natura, fuor di questa sua menoma parte, è
insensibile, e che gli esseri sensibili sono per necessità souffrants, {+e tanto più
sempre, quanto più sensibili.} Onde anzi si dovrebbe conchiudere, che
essi stessi, o la sensibilità astrattamente, sono una imperfezione della natura,
o vero gli ultimi, cioè infimi di grado e di nobiltà {e
dignità} nella serie degli esseri e delle proprietà delle cose.
(9. Aprile. Sabato in Albis. 1825.). {{V. p.
4137.}}
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