6. Luglio. 1823.
[2895,2] Quanto sia facile l'imparare a parlare, quanto poco
tempo debba esser corso innanzi che il genere umano
2896 arrivasse primieramente ad accorgersi di avere organi capaci di formare e
articolare vari suoni, poi ad imparar di formare e articolar tali suoni, e
finalmente a crear col loro diverso accozzamento una serie di voci di convenuta
significazione, che fosse bastante a potersi scambievolmente communicare i
proprii sensi, e più ancora innanzi che il genere umano arrivasse a portar
questa serie al punto di poter essere chiamata lingua e di servire a tutti i
bisogni dell'espressione; si consideri nel muto. Il quale, convivendo {pur} tutto giorno con uomini i quali parlano, ed usano
una lingua già perfetta, non arriva mai in tutta quanta la sua vita nemmeno alla
prima delle sopraddette cose, cioè ad accorgersi di avere organi capaci di suoni
articolati: giacchè seppure egli manda fuori alcun suono di voce, questo è meno
articolato e meno vario che non sono le voci delle bestie. Ora io torno in campo
colla mia solita domanda. È egli possibile che se la natura aveva espressamente
destinato l'uomo a parlare, se, come dice
Dante, opera naturale è ch'uom favella
*
, essa natura lasciasse
tanto da fare all'uomo per
2897 arrivare ad eseguire
quest'opera naturale, e debita alla sua
essenza, e propria di essa, quest'opera senza la quale egli non avrebbe mai
corrisposto alla sua natura particolare, nè all'intenzione della natura in
generale, e condannasse espressamente tanta moltitudine e tante generazioni
d'uomini, quante dovettero passare prima che fosse trovata una lingua, altre a
non sapere nè potere in alcun modo fare, altre a non poter fare se non se
imperfettissimamente, quello che l'uomo doveva pur sapere e potere compiutamente
fare per sua propria natura? E poichè l'uomo senza la lingua non sarebbe uscito
mai del suo stato primitivo purissimo, e la lingua è il principale e più
necessario istrumento col quale egli ha operato ed opera quello che si chiama
suo perfezionamento; e se d'altronde tanto è per ciascuna cosa il ben essere,
quanto l'esser perfetta, nè si dà per veruna specie di enti felicità veruna
senza la perfezione conveniente ad essa specie; è egli possibile che se questa
che si chiama perfezione dell'uomo, fosse veramente tale, e destinatagli dalla
natura, essa natura nel formar l'
2898 uomo l'avesse
posto così mirabilmente lontano dalla perfezione da lei voluta e destinatagli,
ed a lui necessaria, che egli non avesse ancora nè potesse avere nemmeno una
prima idea dell'istrumento, col quale dopo lunghissimi travagli, e lunghissimo
corso di generazioni e di secoli, la sua specie sarebbe finalmente arrivata a
conseguire alcuna parte di questa perfezione?
[2898,1] Certo se questo è vero, perchè diciamo noi che
l'uomo è {per natura} il più perfetto degli esseri
terrestri? Lasciamo stare che la perfezione è sempre relativa a quella tale
specie in che ella si considera. Ma paragonando pur l'uomo colle altre specie di
questo mondo, se la sua perfezione è quella che altri dice, come non si dovrà
sostenere che l'uomo è per natura la più imperfetta di tutte le cose? Perocchè
tutte le altre cose hanno da natura la perfezione che loro si conviene, e però
sono tutte {naturalmente} così perfette, come debbono
essere, che {è} quanto dire perfettissime. Solo l'uomo,
secondo il presupposto che abbiamo fatto, è per natura così lontano dallo stato
che gli conviene, che più, quasi, non potrebb'essere, e quindi laddove tutte
2899 l'altre cose sono in natura perfettissime, l'uomo
è in natura imperfettissimo. Pertanto la specie umana lungi da esser la prima in
natura, è anzi l'ultima di tutte le specie conosciute.
[2899,1] Questa conseguenza deriva dal supposto principio: ma
come il principio è falso, così essa non è vera; e questa proposizione
considerata ancora in se sola, si riconosce agevolmente per falsissima. Poichè
relativamente all'ordine delle cose terrestri, l'uomo come l'essere più di tutti
conformabile, è il più perfetto di tutti.
[2899,2] Se però nel detto ordine delle cose terrestri,
considerando la perfezione di ciascheduna specie in modo comparativo, cioè
relativamente l'una all'altra, non vogliamo immaginare una doppia scala, ovvero
una scala parte ascendente e parte discendente. E nella estremità {inferiore} della prima, porre gli esseri affatto o più
di tutti gli altri inorganizzati. Indi salendo fino alla sommità, porre gli
esseri più organizzati, fino a quelli che tengono il mezzo della organizzazione,
della sensibilità, della conformabilità. E di questi farne il sommo
2900 grado della scala, cioè della perfezione
comparativamente considerata, come quelli che forse sono per natura i più
disposti a conseguire la propria particolare e relativa felicità, e conservarla.
Da questi in poi sempre discendendo giù giù per gli esseri più organizzati
sensibili e conformabili, porre nell'ultimo e più basso grado dell'altra parte
della scala l'uomo, come il più organizzato, sensibile, e conformabile degli
esseri terrestri.
[2900,1] Discorrendo in questo modo, e raddoppiando o
ripiegando così la scala, troveremmo che l'uomo è veramente nella estremità non
della perfezione (come ci parrebbe se facessimo una scala sola o semplice e
retta), ma della imperfezione; e in una estremità più bassa ancora di quella che
è dall'altra parte della scala. Perocchè dalla comparativa imperfezione degli
esseri posti in quel grado, non ne segue ai medesimi alcuna infelicità laddove
all'uomo all'uomo grandissima.
[2900,2] E veramente io così penso. L'uomo non è per natura
infelice. La natura non ha posto
2901 in lui nessuna
qualità che lo renda tale per se {medesima}, nessuna
che tal qual è naturalmente, si opponga da niuna parte al suo ben essere; e però
la natura direttamente non ha prodotto l'uomo nè infelice, nè tale ch'ei debba
necessariamente divenirlo. Perocchè l'uomo potrebbe conservarsi nello stato suo
primitivo puro, come gli altri esseri si conservano nel loro, e conservandocisi,
sarebbe così felice, o così non infelice, come gli altri esseri sono felici o
non sono infelici durando nel naturale stato. Sicchè la natura in ordine
all'uomo non ha violato per niun conto nè trapassato le sue universali leggi,
che ciascuno essere abbia nella sua propria essenza immediatamente quanto
abbisogna alla felicità che gli conviene, e nulla che per se lo sforzi alla
infelicità. Ma l'eccessiva, o diciamo meglio, la suprema conformabilità e organizzazione dell'uomo, che
lo rende il più mutabile e quindi il più corruttibile di tutti gli esseri
terrestri, lo rende eziandio per conseguenza il più infelicitabile, benchè non
lo renda per se {stessa e naturalmente} infelice, cioè
lo rende il
2902 più disposto a potersi, e più d'ogni
altro essere, allontanare dal suo stato naturale, e quindi dalla sua propria
perfezione, e quindi dalla sua felicità; perch'essa stessa conformabilità umana
è più d'ogni altra disposta e facile a poter perdere il suo primitivo stato,
uso, operazioni, applicazioni e simili. Talchè difficilmente l'uomo si conserva
{in effetto} nel suo naturale e primitivo stato, e
però difficilmente si salva in fatti dalla infelicità. Stante le quali
considerazioni, e stante appunto la somma conformabilità e organizzazione dell'uomo, metafisicamente
considerata in ordine alla vera e metafisica perfezione, diremo che l'uomo è il
più imperfetto degli esseri terrestri, anche per natura, in quanto però
solamente ella è naturale in lui {una}
disposizione maggiore che in
qualunqu'altro essere a perdere il suo stato e la sua perfezione naturale. Niuna
imperfezione, neppure in ordine all'uomo, si può trovare {{propriamente}} nella natura; l'uomo non è imperfetto nè in natura, nè
per natura; anzi se volete, in natura e per natura egli è il più perfetto degli
esseri; ma
2903 in natura e per natura egli è più di
tutti disposto a divenire imperfetto; e ciò per ragione appunto della somma sua
perfezione naturale; come quelle macchine o quei lavorii compitissimi e
perfettissimi, che per esser tali, sono {minutamente
lavorati, e quindi} delicatissimi, e per la somma delicatezza più
facilmente degli altri si guastano, e perdono l'essere e l'uso loro.
[2903,1] Ma ad essi si trovano forse artefici che possono
ripararli, a noi guasti e snaturati una volta, non si trova mano che ci riponga
nel primo stato, (nè da noi medesimi siamo atti a farlo). Poichè nè la natura ci
ripiglia in mano per riformarci, come l'artefice il suo lavoro sconciato, nè
altra potenza v'ha che ci possa restaurare come un nuovo artefice il lavoro
altrui. (6. Luglio. 1823.).