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Nel tempo del piacere, la noia è più viva che mai. Definizione del piacere, quale egli si trova realmente.

In time of pleasure, boredom is stronger than ever. Definition of pleasure, as it really is.

3876,1 4074,1

[3876,1]  Dico che l'uomo è sempre in istato di pena, perchè sempre desidera invano ec. Quando l'uomo si trova senza quello che positivamente si chiama dolore o dispiacere o cosa simile, la pena inseparabile dal sentimento della vita, gli è quando più, quando meno sensibile, secondo ch'egli è più o meno occupato o distratto {da checchessia e massime} da quelli che si chiamano piaceri, secondo che per natura o per abito o attualmente egli è più vivo e più sente la vita, ed ha maggior vita abituale o attuale ec. Spesso la detta pena è tale che, per qualunque cagione, e massime perch'ella è continua, e l'uomo v'è assuefatto fino dal primo istante della sua vita, non l'osserva, e non se n'avvede espressamente, ma non però è men vera. Quando l'uom se n'avvede, e ch'ella sia diversa da' positivi dolori, dispiaceri ec., ora ella ha nome di noia, ora la chiamiamo con altri nomi. Sovente essa pena, che non vien da altro se non dal desiderare invano, e che in questo solo consiste, e che per conseguenza tanto è maggiore {{e più sensibile}} quanto il desiderio abitualmente o attualmente è più vivo, sovente, dico, ella è maggiore nell'atto e nel punto medesimo del piacere, che nel tempo  3877 della indifferenza e quiete {e ozio} dell'animo, e mancanza di sensazioni {o concezioni ec. passioni ec.} determinatamente grate o ingrate; e talvolta maggiore eziandio che nel tempo del positivo dispiacere, o sensazione ingrata sino a un certo segno. Ella è maggiore, perchè maggiore e più vivo in quel tempo è il desiderio, come quello ch'è punto e infiammato dalla presente e attuale apparenza del piacere, a cui l'uomo continuamente sospira; {#1. dalla vicina anzi presente, straordinaria e fortissima, {+e fermissima e vivissima} anzi si può dir certa speranza} e quasi dal vedersi vicinissima e sotto la mano la felicità, ch'è il suo perpetuo e sovrano fine, senza però poterla afferrare, perocchè il desiderio è ben più vivo allora, ma non più fruttuoso nè più soddisfatto che all'ordinario. Il desiderio del piacere, nel tempo di quello che si chiama piacere è molto più vivo dell'ordinario, più vivo che nel tempo d'indifferenza. Non si può meglio definire l'atto del piacere umano, che chiamandolo un accrescimento del naturale e continuo desiderio del piacere, tanto maggiore accrescimento quanto quel preteso e falso piacere è più vivo, quella sembianza è sembianza di piacer maggiore. L'uomo desidera allora la felicità più che nel tempo d'indifferenza ec. e con {assolutamente} eguale inutilità. Dunque il desiderio essendo più vivo da un lato, ed egualmente vano dall'altro, la pena compagna naturale del sentimento della vita, la qual nasce appunto e consiste in questo desiderio di felicità e {quindi} di piacere, dev'esser maggiore e più sensibile nell'atto del piacere (così detto) che all'ordinario. Essa lo è infatti (se non quando e quanto la sensazione piacevole, o l'immaginazione  3878 piacevole, o quella qualunque cosa in cui consiste e da cui nasce il così detto piacere, serve e debb'esser considerata come una distrazione e una forte occupazione ec. dell'animo, {dell'amor proprio, della vita} e dello stesso desiderio; e questo è il migliore e più veramente piacevole effetto del piacere umano o animale; occupare l'animo, e, non soddisfare il desiderio ch'è impossibile, ma per una parte, e in certo modo, quasi distrarlo, e riempiergli quasi la gola, come la focaccia di Cerbero insaziabile). E l'uomo, che in uno stato ordinario bene spesso, anzi forse il più del tempo, appena si avvede di detta pena, nell'atto del piacere, se ne avvede sempre o quasi sempre, ma non sempre l'osserva nè ha campo di porvi mente, e ben di rado l'attribuisce alla sua vera cagione e ne conosce la vera natura; di radissimo poi {+nè in quel punto, nè mai, o ch'ei rifletta sul suo stato d'allora in qualche altro tempo, o che mai non lo consideri ec.} rimonta al principio e generalizza ec. nel qual caso egli ritroverebbe quelle {universali e grandi} verità che noi andiamo osservando e dichiarando, e che niuno forse ancora ha bene osservate, o interamente e chiaramente comprese e concepute ec. (13. Nov. 1823.).

[4074,1]   4074 {Alla p. 4043.} Qualunque poesia o scrittura, o qualunque parte di esse esprime o collo stile o co' sentimenti, il piacere e la voluttà, esprime ancora o collo stile o co' sentimenti formali o con ambedue un abbandono una noncuranza una negligenza una specie di dimenticanza d'ogni cosa. E generalmente non v'ha altro mezzo che questo ad esprimere la voluttà. Tant'è, il piacere non è che un abbandono e un oblio della vita, e una specie di sonno e di morte. Il piacere è piuttosto una privazione o una depressione di sentimento che un sentimento, e molto meno un sentimento vivo. Egli è quasi un'imitazione della insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario alla vita ed alla privazione di essa, perchè la vita per sua natura è dolore. Onde è piacevole l'esserne privato in quanta parte si può, senza dolore e senz'altro patimento che nasca o sia annesso a questa privazione. Quindi il piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario. Tali almeno sono i maggiori e più veraci piaceri. I piaceri vivi sono anche manco piaceri. Sempre portano seco qualche pena, qualche sensazione incomoda, qualche turbamento, e ciò annesso {cagionato} e dipendente essenzialmente da loro. (19. Aprile. Lunedì di Pasqua. 1824.) Dunque la vita è un male e un dispiacere per se, poichè la privazione di essa in quanto si può è naturalmente piacere. Infatti la vita è naturalmente uno stato violento, poichè {naturalmente} priva del suo sommo e naturale  4075 bisogno, desiderio, fine, e perfezione che è la felicità. E non cessando mai questa violenza, non v'è un solo momento di vita sentita che sia senza positiva infelicità e positiva pena e dispiacere. (20. Aprile. Martedì di Pasqua. 1824.). {{+ [p. 4057,2]}}