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Ubbriachezza.

Vedi Vino.

Drunkenness.

See Wine. 109,3 152,1 1581,1 1975,1 3835,1 3924-5 4079,1

[109,3]  L'ubbriachezza è madre dell'allegrezza, così il vigore. Che segno è questo? Perchè l'ubbriachezza non cagiona la malinconia? Prima perchè questa deriva dal vero e non dal falso, e l'ubbriachezza cagiona la dimenticanza del vero, dalla quale sola può nascere l'allegrezza. Secondo, che gli uomini nello stato di natura, cioè di vigore molto maggiore del presente, eran fatti per esser felici, è[e] abbandonarsi alle illusioni, e vederle e sentirle come cose vive e corporee e presenti.

[152,1]  L'ubbriachezza mette in fervore tutte le passioni, e rende l'uomo facile a tutte, all'ira, alla sensualità ec. massime alle dominanti in ciascheduno. Così proporzionatamente il vigore del corpo. È famoso quello di S. Paolo, castigo corpus meum et in servitutem redigo. * In fatti in un corpo debole non ha forza nessuna passione.

[1581,1]   1581 Parecchie volte un vigore straordinario e passeggero, cagiona al corpo e a' nervi un certo torpore, per cui l'animo s'abbandona in seno di una negligenza circa le cose e se stesso, in maniera che o vede tutto dall'alto, e come non gli appartenesse se non debolissimamente; o non pensa quasi a nulla, e desidera e teme il meno che sia possibile. Questo stato è per se stesso un piacere.

[1975,1]  Un uomo di forte e viva immaginazione, avvezzo a pensare ed approfondare, in un punto di straordinario e passeggero vigore corporale, di entusiasmo, {+di disperazione, di vivissimo dolore o passione qualunque, di pianto, insomma di quasi ubbriachezza, e furore,} ec. scopre delle verità che molti secoli non bastano alla pura e fredda e geometrica ragione per iscoprire; e che annunziate da lui non sono ascoltate, ma considerate come sogni, perchè lo spirito umano manca tuttavia delle condizioni necessarie per sentirle, e comprenderle come verità, e perch'esso non può universalmente fare in un punto tutta la strada che ha fatto quel pensatore, ma segue necessariamente la sua marcia, e il suo progresso gradato, senza sconcertarsi. Ma l'uomo in quello stato vede tali rapporti, passa da una proposizione all'altra così rapidamente, ne comprende così vivamente e facilmente il legame, accumula in un momento  1976 tanti sillogismi, e così ben legati e ordinati, e così chiaramente concepiti, che fa d'un salto la strada di più secoli. E forse esso stesso dopo quel punto, non crede più alle verità che allora avea concepite e trovate, cioè o non si ricorda, o non vede più con egual chiarezza, i rapporti, le proposizioni, i sillogismi, e le loro concatenazioni che l'avevano portato a quelle conseguenze. Il mondo alla fine è sempre in istato di freddo, e le verità scoperte nel calore, per grandi che siano non mettono radici nella mente umana, finchè non sono sanzionate dal placido progresso della fredda ragione, arrivata che sia dopo lungo tempo a quel segno. Grandi verità scoprivano certamente gli antichi colla lor grande immaginazione, grandi salti facevano nel cammino della ragione, ridendosi della lentezza, e degl'infiniti mezzi che abbisognano al puro raziocinio ed esperienza per avanzarsi altrettanto, grandi spazi occupati poi da' loro posteri, preoccupavano essi e  1977 conquistavano in un baleno, ma questi progressi restavano necessariamente individuali, perchè molto tempo abbisognava a renderli generali; queste conquiste non si conservavano, anzi erano piuttosto viaggi che conquiste, perchè l'individuo penetrava solamente in quei nuovi paesi, e li riconosceva, senza esser seguito dalla moltitudine che vi stabilisse il suo dominio; i progressi de' grandi individui non giovavano gli uni agli altri, perchè mancanti di una disposizione generale e comune nel mondo, che li rendesse intelligibili gli uni agli altri, mancanti anche di una lingua atta a stabilire, dar corpo, determinare e render a tutti egualmente chiaro quello che ciascun individuo scopriva. Così che gli antichi grandi spiriti penetravano nelle terre della verità, ciascuno isolatamente, e senza aiutarsi l'un l'altro, e quando anche si scontrassero nel cammino, o giungessero ad un medesimo  1978 punto, e quivi casualmente si riunissero, non si riconoscevano; e tornati dalla loro corsa, e narrandola altrui, non s'accorgevano di dir le stesse cose, nè il pubblico se n'avvedeva, perchè non le dicevano allo stesso modo, mancando di un linguaggio filosofico, uniforme; oltre che le stesse ragioni che impedivano all'universale di riconoscere quelle proposizioni per pienamente vere, gl'impediva altresì di scoprire l'uniformità che esisteva tra le proposizioni e i sentimenti di questo e di quel grand'uomo. E così le grandi scoperte de' grandi antichi, appassivano, e non producevano frutto, e non erano applicate, mancando i mezzi e di coltivarle, e di aiutare e legare una verità coll'altra mediante il commercio de' pensieri, e della società pensante. (23. Ott. 1821.).

[3835,1]  L'esaltamento di forze proveniente da' liquori o da' cibi o da altro accidente (non morboso), se non cagiona, come suole sovente, un torpore e una specie di assopimento letargico (come diceva il Re di Prussia), essendo un accrescimento di vita, accresce l'effetto essenziale di essa, ch'è il desiderio del piacere, perocchè coll'intensità della vita cresce {quella del}l'amor proprio, e l'amor proprio è desiderio della propria felicità, e la felicità è piacere {#1. V. p. 3905.} {Puoi vedere la p. 3842. seg..} Quindi l'uomo in quello stato è oltre modo, e più ch'ei non suole, avido {e famelico} di sensazioni piacevoli, e inquieto per questo desiderio, e le cerca, e tende con più forza e più direttamente e immediatamente al vero fine della sua vita e del suo essere e di se stesso, e alla vera somma e sostanza ultima della felicità, ch'è il piacere, poco, {o men del suo solito,} curando le altre cose, che spesso son fini delle operazioni e desiderii umani, ma fini secondarii, benchè tuttogiorno si prendano per primarii {e per felicità}; perch'essi stessi tendono essenzialmente ad un altro fine, e tutti ad un fine medesimo, cioè a dire al piacere. In somma l'uomo è allora rispetto a se stesso ed al solito suo, quello che sono {sempre} i più forti rispetto agli altri, cioè più sitibondi della felicità, e più inquieti da' desiderii, cioè dal desiderio della propria felicità, e più immediatamente e specialmente, e in modo più espresso, sensibile e manifesto sì agli altri che a se medesimi, avidi del piacere  3836 (al quale tutti tendono e sempre, ma i più forti più, e più immediatamente e chiaramente, o ciò più spesso e più ordinariamente degli altri), perocch'essi sono {abitualmente} più vivi degli altri.

[3922,1]  Ma oltre di tutto ciò, bisogna accuratamente distinguere la forza dell'animo dalla forza del corpo. L'amor proprio risiede nell'animo. L'uomo è tanto più infelice generalmente, quanto è più forte e viva in lui quella parte che si chiama animo. Che la parte detta corporale sia più forte, ciò per se medesimo non fa ch'egli sia più infelice, nè accresce il suo amor proprio, se non in quanto il maggiore o minor vigore del corpo è per certe parti {+e rispetti, e in certi modi,} legato e corrispondente e proporzionato a quello della parte chiamata animo. Ma nel totale e sotto il più de' rispetti, tanto è lungi che la maggior forza del corpo sia cagione di maggiore amor proprio e infelicità, che anzi questa e quello sono {naturalmente} in ragione inversa della forza propriamente corporale, sia abituale sia passeggera. L'amor proprio e quindi l'infelicità sono in proporzione diretta del sentimento della vita. Ora accade, generalmente e naturalmente parlando, che ne' più forti di corpo la vita sia bensì maggiore, ma il sentimento della vita minore, e tanto minore quanto maggiore si è e la somma della vita e la forza. Ne' più deboli {di corpo} viceversa. O volendoci esprimere in altro modo, e forse più chiaramente, ne' più forti  3923 di corpo la vita esterna e{è} maggiore, ma l'interna è minore; e al contrario ne' più deboli di corpo. Infatti è cosa osservata che generalmente, naturalmente, e in parità di altre circostanze, le nazioni e gl'individui più deboli di corpo sono più disposti e meno impediti a pensare, riflettere, ragionare, immaginare, che non sono i più forti; e un individuo medesimo lo è più in uno stato e tempo di debolezza corporale o di minor forza, che in istato di forza corporale, o di forza maggiore. Gli uomini sensibili, di cuore, di fantasia; insomma di animo mobile, suscettibile, e più vivo in una parola che gli altri, sono delicati e deboli di complessione, e ciò così ordinariamente, che il contrario, cioè molta e straordinaria sensibilità ec. in un corpo forte, sarebbe un fenomeno. {#2. V. p. 3945.} La vita è il sentimento dell'esistenza. Questo è tutto in quella parte dell'uomo, che noi chiamiamo spirituale. Dunque la maggiore o minor vita, e quindi amor proprio e infelicità, si dee misurare dalla maggior forza non del corpo ma dello spirito. E la maggior forza dello spirito consiste nella maggior delicatezza, finezza ec. degli organi che servono alle funzioni spirituali. Delicatezza d'organi difficilmente si trova in una complessione non delicata; e viceversa ec. La delicatezza del fisico interno corrisponde naturalmente ed è accompagnata da quella dell'esterno. Di più la forza del corpo rende l'uomo più materiale, e quindi propriamente parlando, men vivo, perchè la vita, cioè il sentimento dell'esistenza, è nello spirito e dello spirito. {+Così le passioni ed azioni, le sensazioni e piaceri {ec.} materiali, tanto più quanto sono più forti; {#1. (rispettivamente alla capacità ed agli abiti fisici e morali, ec. dell'individuo)}; le attuali attualmente, le abituali abitualmente.} Le sensazioni materiali in un corpo forte, o in un individuo che per esercizio o per altra  3924 cagione ha acquistato maggior forza corporale ch'ei non aveva per natura, o in un corpo debole che si trovi in passeggero stato di straordinaria forza, sono più forti, ma non perciò veramente più vive, anzi meno perchè più tengono del materiale, e la materia (cioè quella parte delle cose e dell'uomo che noi più peculiarmente chiamiamo materia) non vive, e il materiale non può esser vivo, e non ha che far colla vita, ma solo colla esistenza, la quale considerata senza vita, non è capace nè di amor proprio nè d'infelicità. Così la materia non è capace di vita, e una cosa, un'azione, una sensazione ec. quanto è più materiale, tanto è men viva. Insomma ciascuna specie di viventi rispetto all'altre, ciascuno individuo rispetto a' suoi simili, ciascuna nazione rispetto all'altre, ciascuno stato dell'individuo sia naturale, sia abituale, sia attuale e passeggero, rispetto agli altri suoi stati, quanto ha più del materiale, e meno dello spirituale, tanto è, propriamente parlando, men vivo, tanto meno partecipa della vita e per quantità e per intensità e grado, tanto ha minor somma e forza di amor proprio, e tanto è meno infelice. Quindi tra' viventi le specie meno organizzate, avendo un'esistenza più materiale, e meno di vita propriamente detta, sono meno infelici. Tra le nazioni {umane} le settentrionali, più forti di corpo, men vive di spirito, sono meno infelici delle meridionali. Tra gl'individui umani i più forti di corpo, men delicati di spirito, sono meno infelici. Tra' vari stati degl'individui, quello p. e. di ebbrietà, benchè più vivo quanto al corpo, essendo però men vivo quanto  3925 allo spirito (che in quel tempo è obruto dalla materia, e le sensazioni spirituali dalle materiali, e le azioni stesse dello spirito, {{benchè più forti ec,}} hanno allora più del materiale che all'ordinario), e quindi la vita essendo allora più materiale, e quindi propriamente men vita (come in tempo di sonno o letargo, benchè questo sia inerte, e l'ebbrietà più svegliata ancora e più attiva talvolta che lo stato sobrio), è meno infelice.

[4079,1]  Nel Dialogo della Natura e dell'Anima ho considerato come la ragione e l'immaginazione e in somma le facoltà mentali eccellenti nell'uomo sopra quelle di ciascun altro vivente, gli sieno causa di non poter mai o quasi mai, e in ogni modo difficilmente, far uso di tutte le sue forze naturali, come fanno tutto dì e  4080 senza difficultà veruna tutti gli altri animali. Aggiungi. Si dice che i pazzi hanno una forza straordinaria, a cui non si può resistere, massime da solo a solo. Si crede che la loro malattia dia questa forza per se stessa, al contrario di tutte l'altre infermità. Non è egli chiaro che ciò procede dal non aver essi in se medesimi niuno impedimento a usare tutte le loro forze naturali? che i pazzi hanno più forza degli altri, solo perchè usano tutte quelle che hanno, o maggior parte che gli altri non usano? appunto come fa un animale nè più nè meno. Dal che deduco: quanti animali che si dicono fisicamente essere più forti dell'uomo, in verità non lo sono! quante forze debbe avere perdute l'uomo per i progressi del suo spirito, non solo radicalmente, ma anche per essere impedito a usare quelle che gli rimangono! quanto è più forte l'uomo, anche corrotto e indebolito, di quel che egli si crede. I pazzi lo dimostrano, che sovente superano di forze fisiche persone molto più robuste di loro, ed animali creduti ordinariamente più forti dell'uomo a corpo a corpo. L'ubbriachezza accresce le forze non solo radicalmente, ma eziandio negativamente per l'uso, che ella impedisce o turba, della ragione. Senza un'assoluta mancanza o sospensione di quest'uso, niuno uomo nè anche irriflessivo, nè anche fanciullo, nè anche selvaggio, nè anche disperato (i quali però tutti si vede per esperienza che hanno {o piuttosto mostrano di avere} a proporzione molta più forza de' loro contrari), non usa, nè anche ne' maggiori bisogni, ne' maggiori pericoli, tutte le forze precisamente che egli ha in tutte le loro specie e in tutta la loro estensione. Non così gli animali: o certo essi risparmiano infinitamente minor parte delle loro  4081 forze, anche ne' menomi pericoli, bisogni, desiderii, propositi, che non risparmia l'uomo, anche il più disperato ec., ne' maggiori. (23. Apr. 1824.). {{Il detto de' pazzi dicasi proporzionatamente de' disperati.}} {{V. p. 4090.}}