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Montesquieu. Commenti alla sua opera sulla grandezza e la decadenza dei Romani.

Montesquieu. Comments on his work on the greatness and decline of the Romans.

113,1 113,3 114,1 116,4 117,1.2 119,2 120,1.2 121,1.2 122,1 123,2 124,1 299,1 222,3 358,2 457,1 883 915,segg. 1601 1606,12

[113,1]  La cagione di quello che dice Montesquieu (Grandeur ec. c. 4. Amsterdam 1781. p. 31. fine) è non solamente che nessun privato perde quanto il principe nella rovina di uno stato, ma eziandio che nessuno crede di poter cagionare quella rovina che non può impedire.

[113,3]  A colui che occupa una nuova provincia o per armi o per trattato è molto più vantaggioso il suscitarci e il mantenerci due fazioni, l'una favorevole e l'altra contraria al nuovo governo, di quello che averla tutta ubbidiente e sottomessa e indifferente dell'animo. Perchè la prima fazione essendo ordinariamente più forte della seconda, e perciò questa non potendo nuocere, si cavano da ciò due vantaggi. L'uno d'indebolire i paesani e renderli molto più incapaci di riunirsi insieme per intraprender nulla, di quello che se tutti fossero indifferenti, il che poi viene a dire tacitamente malcontenti. L'altro di avere un partito per se molto più energico e infervorato di quello che se non esistesse un partito contrario, perchè i principi non dovendo aspettarsi di essere amati nè favoriti dai sudditi per se stessi nè per ragione, debbono cercare di esserlo per odio degli altri, e per passione. Giacchè il contrasto eccita anche quei sentimenti che in altro caso appena si proverebbero, e quello che non si farebbe mai per affetto proprio, si fa per l'opposizione  114 altrui, come i migliori cattolici sono quelli che vivono in paese eretico, e così l'opposto, nè ci ebbe mai tanto ostinati e infocati partigiani del papa come a tempo dei Ghibellini. V. Montesquieu l. c. ch. 6. p. 68. (5. Giugno 1820.) E neanche dai benefizi i principi possono aspettar tanto quanto dallo spirito di parte e dal contrasto che rende l'affare come proprio di colui che lo sostiene, laddove la gratitudine è un debito verso altrui. E l'esperienza di tutti i secoli dimostra quanta gratitudine ispirino i benefizi de' regnanti e dei grandi. E se bene gli uomini hanno imparato a regolare i capricci e le passioni loro, queste però naturalmente possono in loro molto più dell'interesse. (5. Giugno 1820.).

[114,1]  Tanto è vero che l'anarchia conduce dirittamente al dispotismo, e che la libertà dipende da un'armonia delle parti, e da una forza costante delle leggi e delle istituzioni della repubblica, che roma non fu mai tanto libera nel senso comune di questa parola, quanto nei tempi immediatamente precedenti la tirannia. Vedete gli affari di Clodio e Montesquieu l. c. p. 115. lin. ult. e 116. lin. 1. e 5. chapit. 11. (6. Giugno 1820). E lo stesso si può dir della francia passata di salto da una libertà furiosa al dispotismo di Buonaparte.

[116,4]  La cagione di quello che dice Montesquieu, l. c. ch. 11. p. 124. fine è che l'uomo s'offende più del disprezzo che del danno. E la cagione di questo è l'amor proprio il quale considera più noi stessi che i nostri comodi. Vero è che certe anime basse non si curano del disprezzo, e non si dolgono che  117 dei danni. La cagione è che in questi l'amor proprio essendo più basso, ha per oggetto prima i beni materiali che la stima l'onore la dignità della persona, i quali diremmo in certo modo beni spirituali. Per lo contrario ci sono ancora degli uomini superiori i quali disprezzando il disprezzo, si guardano però dai danni, perchè questi son cose reali, e il disprezzo appresso a poco ci nuoce tanto quanto noi lo stimiamo.

[119,2]  È osservabile come i francesi mentre sono la nazione più moderna del mondo per costumi ec. abbiano tuttavia quella disposizione antica che ora tutte le nazioni civili hanno abbandonata, voglio dire il disprezzo e quasi odio degli stranieri. Il quale non può tornar loro a nessuna lode, perchè contrasta assurdamente coll'eccessivo moderno di tutte le altre loro opinioni costumi ec. Ed è tanto più ridicola, quanto nei greci finalmente era ragionevole, perchè non avendo conosciuto i romani se non tardissimo, {+V. Montesquieu Grandeur ec. Ch. 5. p. 48. e la nota} non c'era effettivamente altra nazione che gli uguagliasse di grandissima lunga. E quanto ai Romani è noto che non ostante il loro sommo amor patrio, furono sempre imparzialissimi  120 nel giudicare degli stranieri, anzi ebbero per istituto di adottar sempre tutte quelle novità forestiere che giudicavano utili, quando anche per adottar queste bisognasse lasciare {o correggere} le loro proprie usanze.

[122,1]  La cagione che adduce Montesquieu dell'esser sovente il principio de' cattivi regni, come il fine dei buoni, (ch. 15. p. 160) non è buona, perchè va a terra quando un cattivo principe succede a un buono. Io credo che la vera sia, prima, che il suo fine essendo di regnar male, egli fa bene nel principio per inesperienza, e male nell'ultimo, al contrario dei buoni, poi, che una certa generosità naturale  123 nei primi momenti della prosperità e del potere è verisimile anche nei cattivi, anzi sarebbe inverisimile il contrario. Poi coll'assuefazione a quello stato si torna a riprendere il proprio carattere, interrotto da quella novità straordinaria, come avviene spessissimo nella vita. (11 Giugno 1820.).

[123,2]  Lo spatrio cioè il trapiantarsi d'un paese in un altro era {possiamo dire} ignoto agli antichi popoli civili, finchè durò la loro civiltà, segno di quanto fosse il loro amor patrio, e l'odio o disprezzo degli stranieri. Al contrario quando declinarono alla barbarie. (V. Montesquieu Grandeur ec. ch. 2. p. 20. fine e ch. 16. p. 179 e la nota 6.) Le colonie non erano altro che ampliazioni della patria, dove ciascuno restava fra' suoi compatriotti, colle stesse leggi, costumi ec.

[124,1]   124 La cagione di quella contentezza di noi stessi che proviamo nel leggere le vite o le gesta dei grandi e virtuosi (v. Montesquieu l. c. ch. 16. p. 176.) è che (eccetto i malvagi di professione e di coscienza, i quali certo non provano questo effetto) l'uomo o è buono, o mezzo buono mezzo cattivo, come la maggior parte, nel qual caso ciascuno sente che l'istinto suo naturale e la sua destinazione è la virtù, e si considera appresso a poco come virtuoso. Ora quello che gli dà una grande idea della virtù e gli mostra coll'esempio a che cosa porti, e come si faccia ammirare, accresce l'idea di se stesso, ancorchè uno non vi rifletta, cioè ingrandisce l'opinione e la stima di quella qualità, che ciascuno, anche senza avvedersene {distintamente,} sente esser naturale in lui, e propria del suo essere. Così dico del coraggio, e dell'eroismo ec. Oltre che quell'esempio e la lode e la fama risultatane a quei grandi uomini, servendo come di sprone ad imitarli, ciascuno in quel momento perchè prova un certo desiderio benchè ordinariamente inefficace di fare altrettanto, si crede capace confusamente di farlo se si presentasse l'occasione, la quale è lontana, e in lontananza si vedono molte belle cose, e si fanno molti bei propositi. Omero farà sempre in tutti questo effetto, e un francese diceva che gli uomini gli parevano un palmo più alti quando leggeva Omero. Per questo lato anche i cattivi sono suscettibili del detto effetto. (12. Giugno 1820.).

[299,1]  I principi non possono essere amati per altra passione che per quella che consiste nell'amor di parte.  300 L'ambizione, l'avarizia ec. cadono sotto la categoria dell'interesse, consistono nel freddo calcolo dell'egoismo, e perciò spettano alla ragione, tutto l'opposto del fervido, irriflessivo e cieco impeto della passione. E chi sacrifica se stesso al principe per ambizione, avarizia, o altre mire di propria utilità, non si sacrifica veramente al principe ma a se stesso, e tanto quanto lo crede utile a se stesso, e in caso diverso, abbandona la sua causa. Ma l'amor di parte conduce a sacrificarsi furiosamente, e senza riserva nè condizione nè ritegno nè calcolo veruno, all'oggetto di questo amore, e così la passione primieramente è più forte della ragione e dell'interesse, e conduce ad affrontare molto maggiori ostacoli e pericoli; in secondo luogo non è soggetta a cambiar di strada secondo le circostanze, come l'interesse che da una causa porta a difenderne un'altra, secondo che meglio torna. I principi dunque non potendo esser favoriti dai sudditi per altra passione che per la sopraddetta, e l'interesse non essendo nè così forte, nè molto meno così costante, la ragione poi essendo inoperosissima (giacchè vediamo tutto giorno che quella parte  301 dei sudditi la quale ama o favorisce il suo governo per mera persuasione, come anche quella che lo odia nello stesso modo, è la parte più immobile e più passiva del popolo) debbono fomentare l'amor di parte. E siccome questo non è attivo anzi non esiste, se non v'è parte contraria, perciò, quantunque sembri un paradosso, si può affermare che giova al principe il dar luogo a una fazione contraria alla sua, quando esista la favorevole, e sia più forte com'è il più naturale e ordinario. Questa fu la pratica dei romani la quale riuscì loro così bene come nessuno ignora. E i realisti di francia, e le provincie o città realiste non sarebbero così ardenti sostenitori del re, se non avessero lo spirito di parte, e se non esistesse un partito contrario considerabile, il quale non è più forte, ma se fosse, l'affare sarebbe fuor del caso. E cento altri esempi e prove simili può fornire la storia antica e moderna e presente. Quello dunque che ho detto p. 113. de' conquistatori, si può estendere a tutti i principi e governi (27. 8.bre 1820.) {{massime monarchici, oligarchici, aristocratici ec. perchè nelle repubbliche  302 il caso è alquanto diverso, e le fazioni sono utili per altre ragioni, ma non però che anche questa non si possa applicare ad esse pure.}} {{V. p. 1242.}}

[222,3]  Dice Macchiavelli che a voler conservare un regno una repubblica o una setta, è necessario ritirarli spesso verso i loro principii. Così tutti i politici. V. Montesquieu, Grandeur etc. Ch. 8. dalla metà in poi, dove parla dei Censori. Giordani sulle poesie di M. di Montrone applica questo detto alle arti imitatrici. Ai principii s'intende, non quando erano bambine, ma a quel primo tempo in cui ebbero consistenza. {(Così anche si potrebbe applicare alle lingue.)} Ed io dico nello stesso senso; a voler conservare gli uomini, cioè farli felici, bisogna richiamarli ai loro principii, vale a dire alla natura. - Oh pazzia. Tu non sai che la perfettibilità dell'uomo è dimostrata. - Io vedo che di tutte le altre opere della natura è dimostrato tutto l'opposto, cioè che non si possono perfezionare, ma alterandole, si può solamente corromperle, e questo principalmente per nostra mano. Ma l'uomo si considera quasi come fuori della natura, e non sottomesso alle leggi naturali che governano tutti gli esseri, e appena si riguarda come  223 opera della natura. - Frattanto l'uomo è più perfetto di prima. - Tanto perfetto che, tolta la religione, gli è più spediente il morire di propria mano che il vivere. Se la perfezione degli esseri viventi si misura dall'infelicità, va bene. Ma che altro indica il grado della loro perfezione se non la felicità? E qual altro è il fine, anzi la perfezione dell'esistenza? Il fatto sta che oggidì pare assurdo il richiamare gli uomini alla natura, e lo scopo vero e costante anche dei più savi e profondi filosofi, è di allontanarneli sempre più, quantunque alle volte credano il contrario, confondendo la natura colla ragione. Ma anche non confondendola, credono che l'uomo sarà felice quando si regolerà intieramente secondo la pura ragione. Ed allora si ammazzerà da se stesso. (23. Agosto 1820.). {{V. p. 358.}}

[358,2]  Alla p. 223. Le dottrine non rimontano mai verso la loro sorgente, e la Riforma invano si sforzava d'arrestare il corso del fiume che la trascinava, * dice l'Essai sur l'indifférence en matière de religion, a poco più di un terzo del Capo 6. Così tutte le sette, istituzioni, corporazioni, ogni cosa umana si guasta e perde quando s'allontana da' suoi principii, e non c'è altro rimedio che richiamarvela, cosa ben difficile, perchè l'uomo non torna indietro senza qualche ragione universale, necessaria ec. come sovversioni del globo, o di  359 nazioni, barbarie simile a quella che rinculò il mondo ne' tempi bassi, ec.: ma di spontanea volontà, e ad occhi aperti, e per sola ragione e riflessione, non mai; non essendo possibile che la {causa} del male, cioè la corruzione, la ragione, i lumi eccessivi ec. siano anche la causa del rimedio. Del resto la religion Cattolica non si mantiene meglio delle altre, dopo tanti secoli, se non per la somma cura dell'antichità, e del conservare lo stato primitivo, e bandire la novità, nello stesso modo che dice Montesquieu (l. cit. nel pensiero, a cui questo si riferisce) della costituzione d'inghilterra custodita e osservata {e protetta e richiamata sempre} gelosamente dalla camera.

[457,1]   457 Quanto sia vero che l'amore universale distruggendo l'amor patrio non gli sostituisce verun'altra passione attiva, e {che} quanto più l'amor di corpo guadagna in estensione, tanto perde in intensità ed efficacia, si può considerare anche da questo, che i primi sintomi della malattia mortale che distrusse la libertà e quindi la grandezza di Roma, furono contemporanei alla cittadinanza data all'italia dopo la guerra sociale, e alla gran diffusione delle colonie spedite per la prima volta fuori d'italia per legge di Gracco o di Druso, 30 anni circa dopo l'affare di C. Gracco e 40 circa dopo quello di Tiberio Gracco del quale dice Velleio, (II. 3.) Hoc initium in {urbe} Roma civilis sanguinis, gladiorumque impunitatis fuit. * col resto, dove viene a considerarlo come il principio del guasto e della decadenza di Roma. Vedilo l. 2. c. 2. c. 6. c. 8. init. et c. 15. et lib. I. c. 15. fine. colle note Varior. Le quali colonie portando con se la cittadinanza Romana, diffondevano Roma per tutta l'italia, e poi per tutto l'impero. V. in particolare Montesquieu, Grandeur etc. ch. 9. p. 99. - 101. {e quivi le note.} Ainsi Rome n'étoit pas proprement une Monarchie  458 ou une République, mais la tête d'un corps formé par tous les peuples du monde... Les peuples... ne faisoient un corps que par une obéissance commune; et sans être compatriotes, ils etoient[étoient] tous Romains * (ch. 6. fin. p. 80. dove però egli parla sotto un altro rapporto). Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che Cosmopolita, non si amò nè Roma nè il mondo: l'amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini Romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto. (24. Dic. 1820.).

[883,1]  Tornando al proposito, Platone nella Repubblica l. 5. (vedilo) dice: i Greci non distruggeranno certo i greci, non li faranno schiavi, non desoleranno le campagne, nè bruceranno le case loro; ma in quella vece faranno tutto questo ai Barbari. * E le Orazioni d'Isocrate tutte piene di misericordia verso i mali de' Greci, sono spietate verso i barbari, o Persiani, ed esortano continuamente la nazione e Filippo, a sterminarli. {+Sono notabilissime in questo proposito le sue due Orazioni Πανηγυρικός, e πρὸς Φίλιππον, dove inculca di proposito l'odio de' Barbari nello stesso tempo e per le stesse ragioni che l'amore dei greci, e come conseguenza di questo. V. specialmente quel luogo del panegirico, che comincia Eὐμολπίδαι δὲ καὶ Kήρυκες * , e finisce τῶν αὐτῶν ἔργων ἐκείνοις ἐπιϑυμῶμεν * , dove parla di Omero e de' Troiani, p. 175.-176. della edizione del Battie, Cambridge 1729. molto dopo la metà dell'orazione ma ancor lungi dal fine.} E questa opposizione di misericordia e giustizia verso i propri, e fierezza e ingiustizia verso gli stranieri, è il  884 carattere costante di tutti gli antichi greci e romani, e massime de' più cittadini, e assolutamente de' più grandi e famosi: nominatamente poi degli scrittori, anche i più misericordiosi, umani e civili.

[915,1]  Tale infatti era la schiavitù nelle antiche repubbliche. Tale in grecia, tale quella degl'Iloti, stirpe tutta schiava presso i Lacedemoni, oriunda di Elos (῞Ελος) terra (oppidum) o città (così Strabone presso il Cellar. 1. 967.) del Peloponneso, presa a forza da' Lacedemoni nelle guerre, credo, Messeniache, e ridottane tutta la popolazione in ischiavitù, {sì essa come i suoi} discendenti in perpetuo. V. l'Encicloped. Antiquités, art. Ilotes, e il Cellario 1. 973. Tale la schiavitù presso i Romani, della quale v. fra gli altri il Montesquieu,  916 Grandeur etc. ch. 17. innanzi alla metà. Floro 3. 19. Terra frugum ferax, * (Sicilia) et quodammodo suburbana provincia, latifundiis civium Romanorum tenebatur. Hic ad cultum agri frequentia ergastula, catenatique cultores, materiam bello praebuere. * E quanta fosse la moltitudine degli schiavi presso ai Romani si può congetturare dalla guerra servile, e dal pericolo che ne risultò. Ne avevano i Romani, cred'io, d'ogni genere di nazioni; e Floro l. c. nomina un servo Siro cagione e capo della guerra servile; Frontone nell'ultima epist. greca, una serva Sira ec. ec. cose che si possono vedere in tutti gli scrittori delle antichità Romane. {+V. il Pignorio de Servis, e, se vuoi, l'articolo originale del Cav. Hager nello Spettatore di Milano 1. Aprile 1818. Quaderno 97. p. 244. fine - 245. principio, dove si tocca questo argomento della gran moltitudine de' servi romani, e se ne adducono alcuni esempi e prove, e si cita il detto Pignorio che dovrebbe trovarsi nel Grevio ec. Cibale schiava Affricana è nominata nel Moretum.}

[1601,1]   1601 Ora che la civiltà abbia realmente e grandemente pregiudicato, e continuamente pregiudichi al corpo umano, e ne attenui il valore, ve ne hanno mille altre prove, ma considereremo solamente questa. Non può negarsi quello che tanti antichi degnissimi di fede, e anche testimoni oculari raccontano delle straordinarie corporature de' Galli e de' Germani prima che fossero civilizzati. Ora mediante la civiltà essi son ridotti alla forma ordinaria, e si può ben credere che così sia avvenuto agli altri popoli la cui civilizzazione è più antica. Lascio gli atleti greci e romani, delle cui forze v. Celso. Delle forze ordinarie de' soldati romani v. Montesquieu Grandeur ec. ch. 2. p. 15. nota, p. 16. segg. Che la nosologia degli antichi fosse più scarsa di quella de' moderni, è visibile. Ma essi eran già molto civilizzati, massime a' tempi p. e. di Celso. La nosologia de' popoli selvaggi è di ben poche pagine, e il loro stato ordinario di salute e di robustezza, è cosa manifesta a chiunque li visita, e ciò anche ne' più difficili climi. Insomma egli è più che evidente che la nosologia cresce di volume,  1602 e la salute umana decresce, in proporzione della civiltà. Questo si vede anche nelle razze de' cavalli, de' tori ec. che passati dalle selve alle nostre stalle, e ad una vita meno incivile, indeboliscono e degenerano appoco appoco. Lo stesso dico delle piante coltivate con cura ec. Esse acquisteranno in delicatezza ec. ec. ma perderanno sempre in forza, e se per quella delicatezza saranno meglio adattate a' nostri usi (massime nel nostro stato presente, sì diverso dal naturale), ciò non prova che non sieno degenerate. Effettivamente la principal qualità naturale, la principal perfezione materiale voluta e ordinata dalla natura in tutto che vive o vegeta, {+non è la delicatezza ec. ma} il vigore {relativo a ciascun genere di esseri.} Il vigore è salute {+v. p. 1624.} il vigore è potenza, è facoltà di eseguire completamente tutte le convenienti operazioni ec. ec. è facilità di vivere; il vigore insomma è tutto in natura: e la natura non è principalmente e caratteristicamente delicata, ma forte rispettivamente e proporzionatamente alla capacità ec. di ciascuna sua parte. (31. Agos. - 1. Sett. 1821.). {{V. p. 1606. fine.}}

[1606,2]  Alla p. 1602 fine. Nè solo il vigor del  1607 corpo, ma anche quello dello spirito è singolarmente ordinato dalla natura. Almeno i primi progressi dello spirito umano sono sempre compagni di una forza (in tutta l'estensione e le classificazioni del termine) che va di mano in mano scemando e perdendosi coi successivi progressi della civiltà. Parlino le storie. V. il pensiero precedente che appartiene pure a questo, perchè l'odio è una delle più vigorose passioni dell'anima; ed è oggi o estinto o travisato in maniera che è fonte di tutt'altro che di forza. V. pure il pensiero seguente [p. 1607,1]. (2. Sett. 1821.).