Barbarie.
Barbarism.
115,1 118,1.2 163,1 205,1 356 403-4 420,2 471,1 646,1 669,1 821,1 823,1.2.3 866,1 868,1 870,2 926,2 1077,1 1100,2 1170,1 2334-5 3797,1 3882,1 4172,8[115,1] La barbarie non consiste principalmente nel difetto
della ragione ma della natura. (7. Giugno 1820.).
[163,1] Io riguardo l'indebolimento corporale delle
generazioni umane, come l'una delle principali cause del gran cangiamento del
mondo e dell'animo e cuore umano dall'antico al moderno. Così anche della
barbarie de' secoli di mezzo, stante la depravazione de' costumi sotto i primi
imperatori e in seguito, la quale è certa cagione d'infiacchimento corporale,
come
164 appresso i Persiani divenuti fiacchissimi (e
perciò barbari e privi di libertà) per la depravazione degli antichi costumi e
istituti che li rendevano vigorosissimi. V.
la Ciroped. cap. ult. art. 5. e segg. sino
al fine.
[205,1]
Ossian prevedeva il deterioramento
degli uomini e della sua nazione. V.
Cesarotti osservazione ultima
al poemetto della guerra di Caroso. Ma certo quando egli diceva ec.
(v. gli ultimi versi d'esso
poemetto) non prevedeva che la generazione degl'imbelli si dovesse
chiamar civile, e barbara la sua, e le altre che la somigliarono.
[353,1] Quanto anche la religion cristiana sia contraria alla
natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando
questo solo serve di norma, si può vedere per questo esempio. Io ho conosciuto
intimamente una donna {madre di famiglia} che non era
punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e
negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei
genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e
sinceramente, perchè questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean
liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in
pericolo di perdere i suoi figli nella stessa
354 età,
non pregava Dio che li facesse morire, perchè la religione non lo permette, ma
gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava
in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era esattissima negli
uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell'anima desiderava che
fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava
nell'interrogare o consultare i medici, era di sentirne opinioni o ragguagli di
miglioramento. Vedendo ne' malati qualche segno di morte vicina, sentiva una
gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che la
condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno
allegro ed ameno, nè sapeva comprendere come il marito fosse sì poco savio da
attristarsene. Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi
figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia.
Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi
pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente alla vita nella loro
prima gioventù: se resistevano, se cercavano il contrario, se vi riuscivano in
qualche minima parte, n'era indispettita, scemava quanto poteva colle parole e
coll'opinion sua i loro successi (tanto de' brutti quanto de' belli, perchè
n'ebbe molti), e non lasciava
355 passare anzi cercava
studiosamente l'occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro
difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro
inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce. {Sentiva i cattivi successi de' suoi figli in questo o simili particolari,
con vera consolazione, e si tratteneva di preferenza con loro sopra ciò che
aveva sentito in loro disfavore.} Tutto questo per liberarli dai
pericoli dell'anima, e nello stesso modo si regolava in tutto quello che spetta
all'educazione dei figli, al produrli nel mondo, al collocarli, ai mezzi tutti
di felicità temporale. Sentiva infinita compassione per li peccatori, ma
pochissima per le sventure corporali o temporali, eccetto se la natura talvolta
la vinceva. Le malattie, le morti le più compassionevoli de' giovanetti estinti
nel fior dell'età, fra le più belle speranze, col maggior danno delle famiglie o
del pubblico ec. non la toccavano in verun modo. Perchè diceva che non importa
l'età della morte, ma il modo: e perciò soleva sempre informarsi curiosamente se
erano morti bene secondo la religione, o quando erano malati, se mostravano
rassegnazione ec. E parlava di queste disgrazie con una freddezza marmorea.
Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo, ed era
stata così ridotta dalla sola religione. Ora questo che altro è se non barbarie?
E tuttavia non è altro che un calcolo matematico, e una conseguenza immediata e
necessaria dei
356 principii di religione esattamente
considerati; di quella religione che a buon diritto si vanta per la più
misericordiosa ec. Ma la ragione è così barbara che dovunque ella occupa il
primo posto, e diventa regola assoluta, da qualunque principio ella parta, e
sopra qualunque base ella sia fondata, tutto diventa barbaro. Così vediamo le
tante barbarie delle religioni antiche, se ben queste fossero figlie
dell'immaginazione. E anche senza i principii religiosi, è pur troppo evidente
che la sola stretta ragione, ci porta alle conseguenze specificate di sopra. Non
c'è che la pura natura la quale ci scampi dalla barbarie, con quegli errori
ch'ella ispira, e dove la ragione non entra. S'ella ci fa piangere la morte dei
figli, non è che per un'illusione, perchè perdendo la vita non hanno perduto
nulla, anzi hanno guadagnato. Ma il non piangerne è barbaro, e molto più il
rallegrarsene, benchè sia conforme all'esatta ragione. Tutto ciò conferma quello
ch'io voglio dire che la ragione spesso è fonte di barbarie (anzi barbarie da se
stessa), l'eccesso della ragione sempre; la natura non mai, perchè finalmente
non è barbaro se non ciò che è contro natura, (25. Nov. 1820.)
{{sicchè natura e barbarie son cose contraddittorie, e la
natura non può esser barbara per essenza.}}
[403,1] 6o. Se la Religione ha poi divinizzato la ragione e il
sapere; dato la preferenza allo spirito sopra i sensi; fatto consistere la
perfezione dell'uomo nella ragione a differenza dei bruti; e in somma dato alla
ragione il primato nell'uomo sopra la natura: tutto ciò non si oppone al mio
sistema. L'uomo era corrotto, cioè, come ho dimostrato, la ragione aveva preso
il disopra sulla natura: e quindi l'uomo era divenuto sociale: quindi l'uomo era
divenuto infelice, perchè prevalendo la ragione, la sua natura primitiva era
alterata e guasta, ed egli era, decaduto dalla sua perfezione primigenia, la
quale non consisteva in altro che nella sua essenza o condizione propria e
primordiale. Da questo stato di corruzione, l'esperienza prova che l'uomo non
può tornare indietro senza un miracolo: lo prova anche la ragione, perchè quello
che si è imparato non si dimentica. In fatti la storia dell'uomo non presenta
altro che un passaggio continuo da un grado di civiltà ad un altro, poi
all'eccesso di civiltà, e finalmente alla barbarie, e poi da capo. Barbarie,
s'intende, di corruzione, non già stato primitivo
404
assolutamente e naturale, giacchè questo non sarebbe barbarie. Ma la storia non
ci presenta mai l'uomo in questo stato preciso. Bensì ci dimostra che l'uomo tal
quale è ridotto, non può godere maggior felicità che in uno stato di civiltà
media, dove prevalga la natura, quanto è compatibile colla sua ragione già
radicata in un posto più alto del primitivo. Questo stato non è il naturale
assoluto, ma è quello stabilito appresso a poco dalla religione, come dirò poi.
Lo stato naturale assoluto non poteva dunque tornare senza un miracolo. Il
discorso de' miracoli, è sopraumano, e non entra in filosofia. Perchè dunque
l'uomo corrotto com'è, non abbia mai ricuperato nè sia per ricuperare lo stato
puramente naturale, e la felicità di cui godono tutti gli altri esseri, rimane,
colla detta ragione, spiegato in filosofia. In religione anche meglio; perchè
Dio in pena del peccato, avendo condannato l'uomo all'infelicità della
corruzione derivata da esso peccato, non voleva nè doveva fare questo miracolo.
Volendo mostrargli la sua misericordia, e dare al suo stato una perfezione
compatibile colla sua condanna, cioè colla sua infelicità, non restava altro che
perfezionare la sua ragione, cioè quella parte che aveva prevaluto {immutabilmente} nell'uomo
405
per la sua disubbidienza, e con ciò causata la sua corruzione. La perfezion
della ragione non è la perfezione dell'uomo assolutamente, ma bensì dell'uomo
tal qual è dopo la corruzione. Perchè la perfezione di un essere non è altro che
l'intiera conformità colla sua essenza primigenia. Ora l'essenza primigenia
dell'uomo supponeva e conteneva l'ubbidienza della ragione, in somma tutto
l'opposto della perfezion della ragione. Questa perfezione dunque non poteva
essere la sua felicità in questa vita, non essendo la perfezione dell'ente. Non
poteva dunque se non formare la sua felicità in un'altra vita, dove la natura
dell'ente in certo modo si cambiasse. La ragione (massime relativamente
all'altra vita) non può essere perfezionata se non dalla rivelazione. Fu dunque
necessario che Dio rivelasse all'uomo la sua origine, e i suoi destini; quei
destini che avrebbe conseguiti rimanendo nello stato naturale, e gli avrebbe
conseguiti insieme colla felicità terrena. Laddove il Cristianesimo chiama beato
chi piange, predica i patimenti, li rende utili e necessari; in una parola
suppone essenzialmente l'infelicità di questa vita, per conseguenza
406 naturale degli addotti principj. Ma da questi segue
ancora che la maggior felicità possibile dell'uomo in questa vita, ossia il
maggior conforto possibile, e il più vero ed intero, all'infelicità naturale, è
la religione. Perchè (riassumendo il discorso) la perfezione {primitiva o umana assolutamente,} e quindi la felicità naturale, e
quindi la felicità temporale, è impossibile all'uomo dopo la corruzione. La
ragione autrice di essa corruzione, avendo prevaluto per sempre, il miglior
grado dell'uomo corrotto è la
perfezione di essa ragione, che forma oggi la sua parte principale. La perfezion
della ragione non può condurre se non alla felicità di un'altra vita. Quindi, e
anche senza ciò, la perfezion della ragione e della cognizione, non può stare
senza la rivelazione. Dunque il migliore stato dell'uomo corrotto, è la
Religione, e siccome è il migliore, cioè quello che più gli conviene, perciò,
sebben suppone l'infelicità di questa vita, contiene però il maggior conforto, e
quindi la maggior felicità, e quindi la maggior perfezione possibile dell'uomo
in questa vita. Ecco come la Religione si accorda mirabilmente col mio sistema,
e quasi ne riceve una nuova prova.
[420,2]
Alla p. 416.
L'ignoranza parziale può sussistere, come ho detto, anche nell'uomo alterato
dalla ragione, anche nell'uomo ridotto in società. Può dunque servire di stabile fondamento a un maggiore o
minor numero di credenze naturali; dunque tener l'uomo più o meno vicino allo
stato primitivo, dunque conservarlo più o meno felice. Per
421 conseguenza quanto maggiore per estensione, e per profondità sarà
questa ignoranza parziale, tanto più l'uomo sarà felice. Questo è chiarissimo in
fatto, per l'esperienza de' fanciulli, de' giovani, degl'ignoranti, de'
selvaggi. S'intende però un'ignoranza la quale serva di fondamento alle
credenze, giudizi, errori, illusioni naturali, non a quegli errori che non sono
primitivi e derivano da corruzione dell'uomo, o delle nazioni. Altro è ignoranza
naturale, altro ignoranza fattizia. Altro gli errori ispirati dalla natura, e
perciò convenienti all'uomo, e conducenti alla felicità; altro quelli fabbricati
dall'uomo. Questi non conducono alla felicità, anzi all'opposto, com'essendo
un'alterazione del suo stato naturale, e come tutto quello che si oppone a esso
stato. Perciò le superstizioni, le barbarie ec. non conducono alla felicità, ma
all'infelicità. V. p. 314. Quindi è
che dopo lo stato precisamente naturale, il più felice possibile in questa vita,
è quello di una civiltà media, dove un certo equilibrio fra la ragione e la
natura, una certa mezzana ignoranza,
422 mantengano
quanto è possibile delle credenze ed errori naturali (e quindi costumi
consuetudini ed azioni che ne derivano); ed escludano e scaccino gli errori
artifiziali, almeno i più gravi, importanti, e barbarizzanti. Tale appunto era
lo stato degli antichi popoli colti, pieni perciò di vita, perchè tanto più
vicini alla natura, e alla felicità naturale. Le Religioni antiche pertanto
(eccetto negli errori non naturali e perciò {dannosi e}
barbari, i quali non erano in gran numero, nè gravissimi) conferivano senza
dubbio alla felicità temporale molto più di quello che possa fare il
Cristianesimo; perchè contenendo un maggior numero e più importante di credenze
naturali, fondate sopra una più estesa e più profonda ignoranza, tenevano l'uomo
più vicino allo stato naturale: erano insomma più conformi alla natura, e minor
parte davano alla ragione. (All'opposto la barbarie de' tempi bassi derivata da
ignoranza non naturale ma di corruzione, non da ignoranza negativa ma positiva. Questa non poteva
conferire alla felicità, ma all'infelicità, allontanando maggiormente l'uomo
dalla natura: se non in
423 quanto quell'ignoranza
qualunque richiamava parte delle credenze e abitudini naturali, perchè la natura
trionfa ordinariamente, facilmente, e naturalmente quando manca il suo maggiore
ostacolo ch'è la scienza. E però quella barbarie produceva una vita meno lontana
dalla natura, e meno infelice, più attiva ec. di quella {che
produce} l'incivilimento non
medio ma eccessivo del nostro secolo. Del resto v. in questo proposito
p. 162. capoverso 1[2]. Tra la barbarie e la civiltà eccessiva non è
dubbio che quella non sia più conforme alla natura, e meno infelice, quando non
per altro, per la minor conoscenza della sua infelicità. Del rimanente per lo
stesso motivo della barbarie de' bassi tempi, è opposta alla felicità e natura,
la barbarie e ignoranza degli Asiatici generalmente, barbareschi Affricani,
Maomettani, persiani antichi dopo Ciro,
sibariti, ec. ec. Così proporzionatamente quella della
Spagna e simili più moderne ed europee.).
[471,1] Venga un filosofo, e mi dica. Se ora si trovassero le
ossa o le ceneri di Omero o di Virgilio ec. il sepolcro ec. quelle
ceneri che merito avrebbero realmente, e secondo la secca ragione? Che cosa
parteciperebbero dei pregi, delle virtù, della gloria ec. di Omero ec.? Tolte le illusioni, e gl'inganni, a che
servirebbero? Che utile reale se ne trarrebbe? Se dunque, trovatele, qualcuno,
le dispergesse e perdesse, o profanasse disprezzasse ec. che torto avrebbe in
realtà? anzi non oprerebbe secondo la vera ed esatta ragione? Come dunque
meriterebbe il biasimo, l'esecrazione degli uomini civili? E pur quella si
chiamerebbe barbarie. Dunque la ragione non è barbara? Dunque la civiltà
dell'uomo sociale e delle nazioni, non si fonda, non si compone, non consiste
essenzialmente negli errori e nelle illusioni? Lo stesso
472 dite generalmente della cura de' cadaveri, dell'onore de' sepolcri
ec. (3. Gen. 1821.).
[646,1] Nessun secolo de' più barbari si è creduto mai
barbaro, anzi nessun secolo è stato mai, che non credesse di essere il fiore dei
secoli, e l'epoca più perfetta dello spirito umano e della società. Non ci
fidiamo dunque di noi stessi nel giudicare del tempo nostro, e non consideriamo
l'opinione presente, ma le cose, e quindi congetturiamo il giudizio della
posterità, se questa sarà tale da poter giudicarci rettamente. (12. Feb.
1821.).
[669,1]
L'orgueil nous sépare de la société: notre
amour-propre nous donne un rang à part qui nous est toujours
disputé: l'estime de soi-même qui se fait trop sentir est presque
toujours punie par le mépris universel.
*
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans
ses oeuvres complètes
citées ci-dessus, (p. 633), p.
99. fine. Così è naturalmente nella società, così porta la natura di
questa istituzione umana, la quale essendo diretta al comun bene e piacere, non
sussiste veramente, se l'individuo non accomuna
670 più
o meno cogli altri la sua stima, i suoi interessi, i suoi fini, pensieri,
opinioni, sentimenti ed affetti, inclinazioni, ed azioni; e se tutto questo non
è diretto se non a se stesso. Quanto più si trova nell'individuo il se stesso, tanto meno esiste veramente
la società. Così se l'egoismo è intero, la società non esiste se non di nome.
Perchè ciascuno individuo non avendo per fine se non se medesimo, non curando
affatto il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta al bene o
piacere altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società a parte, ed
intera, e perfettamente distinta, giacchè è perfettamente distinto il suo fine;
e così il mondo torna qual era da principio, e innanzi all'origine della
società, la quale resta sciolta quanto al fatto e alla sostanza, e quanto alla
ragione ed essenza sua. Perciò l'egoismo è sempre stata la peste della società,
e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata
671 la
condizione della società; e quindi tanto peggiori essenzialmente quelle
istituzioni che maggiormente lo favoriscono o direttamente o indirettamente,
come fa soprattutto il dispotismo. (Sotto il quale stato la
Francia, era divenuta la patria del più pestifero
egoismo, mitigato assai dalla rivoluzione, non ostante gl'immensi suoi danni,
come è stato osservato da tutti i filosofi.) L'egoismo è inseparabile dall'uomo,
cioè l'amor proprio, ma per egoismo, s'intende più propriamente un amor proprio
mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli
che derivano dall'eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall'onore, dall'amicizia
ec. Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità, e per
universalità; e quando a motivo e dell'intensità, e massime dell'universalità si
è levata la maschera (la quale non serve più a nasconderlo, perchè troppo vivo,
e perchè tutti sono animati dallo stesso sentimento), allora la natura del
commercio sociale (sia relativo alla conversazione,
672
sia generalmente alla vita) cangia quasi intieramente. Perchè ciascuno pensando
per se (tanto per sua propria inclinazione, quanto perchè nessun altro vi pensa
più, e perchè il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano tutti
i riguardi, l'uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell'altro;
gl'individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra più o meno
aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme; il più forte sotto qualunque
riguardo, la vince; il cedere agli altri qualsivoglia cosa, {o per creanza, o per virtù, onore ec.} è inutile, dannoso e pazzo,
perchè gli altri non ti son grati, non ti rendono nulla, e di quanto tu cedi
loro, o di quella minore resistenza che opponi loro, profittano in loro
vantaggio solamente, e quindi in danno tuo. E così, per togliere un esempio dal
passo cit. di Mad. di Lambert, si vede
nel fatto che oggidì, il disprezzo degli altri, e la stima aperta e ostentata di
se stesso, non solamente non è più così dannosa come
673
una volta, ma bene spesso è necessaria, e chi non sa farne uso non guadagna
nulla in questo mondo presente. Perchè gli altri non sono disposti ad accordarti
{spontaneamente, e in forza del vero, e del merito}
nulla, come di nessuna altra cosa, così neanche di stima, e bisogna quindi che
tu la conquisti come per forza, e con guerra aperta e ostilmente, mostrandoti
persuasissimo del tuo merito, ad onta di chicchessia, disprezzando e calpestando
gli altri, deridendoli, profittando d'ogni menomo loro difetto, rinfacciandolo
loro, non perdonando nulla agli altri, cercando in somma di abbassarli e di
renderteli inferiori, o nella conversazione o dovunque con tutti i mezzi più
forti. Che se oggidì ti vuoi procacciare la stima degli altri, col rispetto,
buona maniera verso loro, col lusingare il loro amor proprio, dissimulare i loro
difetti ec. e quanto a te, colla modestia, col silenzio ec. ti succede tutto
l'opposto. Essi profittano di te {e de' tuoi riguardi verso
loro,} per innalzarsi, e della tua poca resistenza {quanto a te,} per deprimerti. Quello che concedi
674 loro, l'adoprano in loro mero vantaggio, e danno tuo; quello che
non ti arroghi o non pretendi, o quel merito che tu dissimuli, te lo negano e
tolgono, per vederti inferiore ec. Così, nel modo che ho detto, ritornano
effettivamente nel mondo i costumi selvaggi, {e} di
quella prima età, quando la società non esistendo, ciascuno era amico di se
solo, e nemico di tutti gli altri esseri o dissimili o simili suoi, in quanto si
opponevano a qualunque suo menomo interesse o desiderio, o in quanto egli poteva
godere a spese loro. Costumi che nello stato di società son barbari, perchè
distruttivi della società, e contrari direttamente all'essenza ragione, e scopo
suo. Quindi si veda quanto sia vero, che lo stato presente del mondo, è
propriamente barbare[barbarie], o vicino alla
barbarie quanto mai fosse. Ogni così detta società dominata dall'egoismo
individuale, è barbara, e barbara della maggior barbarie. (17. Feb.
1821.).
[821,1] Da queste osservazioni particolari; facili, chiare, e
di cui tutti convengono, salite dunque ad una più generale, ma tanto vera quanto
le precedenti, e che non si può negare se queste si riconoscono, e concedono.
Che cosa è barbarie nell'uomo? Quello che si oppone all'uso corrente? Dunque
nessun popolo, nessun secolo barbaro. Barbarie è quel solo che si oppone alla
natura primitiva dell'uomo. Ora domando io se i nostri costumi, istituti,
opinioni ec. presenti sarebbero stati compatibili colla nostra prima natura.
Come potevano esserlo, quando anzi la natura ci ha posti evidentemente i
possibili ostacoli? Che non siano compatibili colla nostra primitiva natura, è
così manifesto, anche per la osservazione sì di ciascuno di noi, sì de'
fanciulli, selvaggi, ignoranti ec. ec. che non ha bisogno di dimostrazione.
Dunque se non sono compatibili, è quanto dire che le ripugnano e contrastano.
Dunque? dunque son barbari.
822 Che sieno conformi
all'uso e all'abitudine, non val più di quello che vaglia la stessa circostanza
a scusare un secolo depravato nella lingua. Che si stimino buoni assolutamente,
e più buoni de' naturali e primitivi, primieramente non val più di quello che
vaglia nella lingua, come ho detto; poi, siccome nella lingua, questa opinione è
erronea, e deriva dall'inganno parte dell'abitudine, parte della immaginaria
perfezione assoluta, là dove è sostanzialmente imperfezione e vizio tutto ciò
che si oppone all'indole e natura particolare e primitiva di una specie, quando
anche questo medesimo sia virtù e perfezione in altra specie. (20. Marzo
1821.).
[866,1] Che vuol dire che i così detti barbari, o popoli non
ancora arrivati se non ad una mezza o anche inferiore civiltà, hanno sempre
trionfato de' popoli civili, e del mondo? I Persiani degli Assiri inciviliti, i
greci de' Persiani già corrotti, i Romani de' greci giunti al colmo della
civiltà, i settentrionali de' Romani nello
867 stesso
caso? Anzi che vuol dire che i Romani non furono grandi se non fino a tanto che
furono quasi barbari? Vuol dire che tutte le forze dell'uomo sono nella natura e
illusioni; che la civiltà, la scienza ec. e l'impotenza sono compagne
inseparabili; {+vuol dire che il fare non è proprio nè
facoltà che della natura, e non della ragione; e siccome quegli che fa è
sempre signore di chi solamente pensa, così i popoli o naturali o
barbari che si vogliano chiamare, saranno sempre signori dei civili, per
qualunque motivo e scopo agiscano.} Non dubito di
pronosticarlo. L'europa, tutta civilizzata, sarà preda di
quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del Settentrione; e quando questi
di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma
finattanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e
piene {e
persuasive, e costanti, e non ragionate,} e grandi
illusioni, i popoli civili saranno lor preda. Dopo quel tempo, quando à son tour la civiltà divenuta oggi sì rapida vasta e
potente conquistatrice, non avrà più nulla da conquistare, allora o si tornerà
alla barbarie, e se sarà possibile, alla natura per una nuova strada, e tutta
opposta al naturale, cioè la strada dell'universale corruzione come ne' bassi
tempi; o io non so pronosticare più oltre quello che si dovrà aspettare. {{Il mondo allora comincerà un altro andamento, e quasi
un'altra essenza ed esistenza.}}
868
(24. Marzo 1821.)
[868,1] Quella sentenza che gli uomini sono sempre i medesimi
in tutti i tempi {e paesi,} non è vera se non in questo
senso. I periodi che l'uomo percorre, {e quelli di ciascuna nazione
paragonati insieme, come i periodi de' tempi fra loro,}
sono sempre appresso a poco uguali o somigliantissimi; ma le diverse epoche che
compongono questi periodi, sono fra loro diversissime, e quindi anche gli uomini
di quest'epoca, rispetto a quelli di quell'altra, {e questa nazione oggi
trovandosi in un'epoca, rispetto a quell'altra nazione che si trova in
altra epoca.} Come chi dicesse che l'orbita de' pianeti è
sempre la stessa, non però verrebbe a dire che il punto, l'apparenza in cui essi
si trovano, fosse sempre una. I periodi della società si rassomigliano in tutti
i tempi. Questo è un vero assioma. E l'eccessiva civiltà avendo sempre condotto
i popoli alla barbarie, anzi precedutala immediatamente, anzi partecipato di
essa; così accadrà anche ora, o il detto assioma riuscirà falso per la prima
volta. Del resto che gli uomini sieno gli stessi in tutti i tempi, a non volerlo
intendere, o emendare come io dico, è proposizione o falsa o ridicola. Falsa se
si vuole estendere agli effetti delle facoltà umane, che ora sviluppate, ora
869 no, ora più, ora meno, ora attivissime, ora così
sepolte nel fondo dell'animo da non lasciarsi scoprire nemmeno ai filosofi (come
p. e. la sensibilità odierna negli antichi, e peggio ne' primitivi, la ragione
ec. ec.); hanno diversificato la faccia del mondo in maniera infinita, e in
moltissime guise. Domando io se questi italiani d'oggi sono o paiono i medesimi
che gli antichi; se il secolo presente si rassomiglia a quello delle guerre
Persiane, o peggio, della Troiana. Domando se i selvaggi si rassomigliano ai
francesi, se Adamo ci riconoscerebbe
per uomini, e suoi discendenti ec. Ridicola se non vuole significare fuorchè
questo, che l'uomo fu sempre composto degli stessi elementi e fisici e morali in
tutti i tempi. (ma elementi diversamente sviluppati e combinati, come i fisici,
così i morali). Cosa che tutti sanno. Le qualità essenziali non sono mutate,
{nè mutabili,} dal principio della natura in poi,
in nessuna creatura, bensì le accidentali, e queste per la diversa disposizione
delle essenziali, che partorisce una diversità
870
rilevantissima, e quanto possa esser, notabile, in quelle cose, che sole
naturalmente, possono variare. Questa proposizione dunque in quest'ultimo senso,
sarebbe tanto importante quanto il dire che il mare, il sole, la luna sono le
stesse in tutti i tempi ec. (lasciando ora una fisica trascendente che potrebbe
negarlo, e ponendolo per vero, com'è conforme all'opinione universale).
(25. Marzo 1821.)
[870,2]
Alla p. 838.
principio. Osservate ancora
871 quanti di quei
mestieri che servono alla preparazione di cose anche usualissime, e stimate
necessarie alla vita oggidì, sieno per natura loro nocive[nocivi] alla salute e alla vita di coloro che gli
esercitano. Che ve ne pare? Che la natura abbia molte volte disposto alla
sussistenza o al comodo di una specie, la distruzione o il danno di un'altra
specie, o parte di lei, questo è vero, ed evidente nella storia naturale. Ma che
abbia disposta ed ordinata precisamente la distruzione di una parte della stessa
specie, al comodo, anzi alla perfezione essenziale dell'altra parte (certo
niente più nobile per natura, ma uguale in tutto e per tutto alla parte
sopraddetta), questo chi si potrà indurre a crederlo? E questi tali mestieri,
ancorchè usualissimi, e comunissimi, e riputati necessari alla vita, non saranno
barbari, essendo manifestamente contro natura? E quella vita che li richiede e
li suppone, ancorchè comoda, e stimata civilissima, non verrà dunque ella pure
ad essere evidentemente contro natura? Non sarà dunque barbara? (30.
Marzo. 1821.
[926,2] In qualunque nazione o antica o moderna s'incontrano
grandi errori contrari alla natura, come dovunque grandi cognizioni contrarie
alla natura; quivi non s'incontra niente o ben poco di grande di bello di buono.
E questo è l'uno de' principali motivi per cui le nazioni orientali, ancorchè
grandi, ancorchè la loro storia rimonti a tempi antichissimi, tempi
ordinariamente compagni del grande e del bello; ancorchè ignorantissime in
ultima analisi, e quindi prive dei grandi ostacoli della ragione e del vero, e
questo anche oggidì; tuttavia non offrano quasi niente di {vero} grande nè di {vero} bello, e ciò tanto
927 riguardo alle azioni, ai costumi, all'entusiasmo
e virtù della vita, quanto alle produzioni dell'ingegno e della immaginazione. E
la causa per la quale i Greci e i Romani soprastanno a tutti i popoli antichi, è
in gran parte questa, che i loro errori e illusioni furono nella massima parte
conformissime alla natura, sicchè si trovarono egualmente lontani dalla
corruzione dell'ignoranza, e dal difetto di questa. Al contrario de' popoli
orientali le cui superstizioni ed errori, che sebbene moderni e presenti, si
trovano per lo più di antichissima data, furono e sono in gran parte contrarie
alla natura, e quindi con verità si possono chiamar barbare. E si può dire che
nessun popolo antico, nell'ordine del grande e del bello, può venire in paragone
de' greci e de' Romani. Il che può derivare anche da questo, che forse i secoli
d'oro degli altri popoli, come degli Egiziani, degl'Indiani, de' Cinesi, de'
Persiani ec. ec. essendo venuti più per tempo, giacchè questi popoli sono molto
più antichi, la memoria loro non è passata fino a noi, ma rimasta nel buio
dell'antichità, col quale viene a coincidere la epoca dei detti secoli; e per lo
contrario ci è pervenuta la memoria sola della loro corruzione e barbarie,
succeduta naturalmente alla civiltà, e abbattutasi ad esser contemporanea della
grandezza e del fiore dei popoli greco e Romano, la qual grandezza occupa
928 e signoreggia le storie nostre, alle quali per la
maggior vicinanza de' tempi ha potuto pervenire, e perch'ella signoreggiò
effettivamente in tempi più vicini a noi. Anzi si può dire che quanto ci ha di
grande {e di bello} rispetto all'antichità nelle
storie, e generalmente in qualunque memoria nostra, tutto appartiene all'ultima
epoca dell'antichità, della quale i greci e i Romani furono effettivamente gli
ultimi popoli. Ὦ Ἕλληνες
ἀεὶ παῖδες ἐοτὲ
*
ec. Platone in persona di quel sacerdote Egiziano. (10.
Aprile. 1821). {{V. p. 2331.}}
[1077,1] Il tempo di Luigi decimoquarto e tutto il secolo passato, fu
veramente l'epoca della corruzione barbarica delle parti più civili
d'europa, di quella corruzione e barbarie, che
succede inevitabilmente alla civiltà, di quella che si vide ne' Persiani e ne'
Romani, ne' Sibariti, ne' Greci ec. E tuttavia la detta epoca si stimava allora,
e per esser freschissima, si stima anche oggi, civilissima, e tutt'altro che
barbara. Quantunque il tempo
1078 presente, che si
stima l'apice della civiltà, differisca non poco dal sopraddetto, e si possa
considerare come l'epoca di un risorgimento dalla barbarie. Risorgimento
incominciato in europa dalla rivoluzione francese,
risorgimento debole, imperfettissimo, perchè derivato non dalla natura, ma dalla
ragione, anzi dalla filosofia, ch'è debolissimo, tristo, falso, non durevole
principio di civiltà. Ma pure è una specie di risorgimento; ed osservate che
malgrado la insufficienza de' mezzi per l'una parte, e per l'altra la
contrarietà ch'essi hanno colla natura; tuttavia la rivoluzione francese (com'è
stato spesso notato), ed il tempo presente hanno ravvicinato gli uomini alla
natura, sola fonte di civiltà, hanno messo in moto le passioni grandi e forti,
hanno restituito alle nazioni già morte, non dico una vita, ma un certo palpito,
una certa lontana apparenza vitale. Quantunque ciò sia stato mediante la mezza
filosofia, strumento di civiltà incerta, insufficiente, debole, e passeggera per
natura sua, perchè la mezza filosofia, tende naturalmente a crescere, e divenire
perfetta filosofia, ch'è fonte di barbarie. {+Applicate a questa osservazione le barbare e
ridicolissime e mostruose mode (monarchiche e feudali), come guardinfanti,
pettinature d'uomini e donne ec. ec. che regnarono, almeno in
italia, fino agli ultimissimi anni del secolo
passato, e furono distrutte in un colpo dalla rivoluzione (v. la lettera di Giordani a Monti §.
4.) E vedrete che il secolo presente è l'epoca di un vero
risorgimento da una vera barbarie, anche nel gusto; e qui può anche notarsi
quel tale raddrizzamento della letteratura in italia
oggidì.}
(23. Maggio 1821.). {{V. p.
1084.}}
[1100,2] Chiamano moderne le massime liberali, e si
scandalezzano, e ridono che il mondo creda di essere oggi solo arrivato al vero.
Ma elle sono antiche quanto Adamo, e di
più hanno sempre durato e dominato, più o meno, e sotto differenti aspetti sino
a circa un secolo e mezzo fa, epoca vera e sola della perfezione del dispotismo,
consistente in gran parte in una certa moderazione che lo rende universale,
1101 intero, e durevole. Dunque tutta l'antichità delle
massime dispotiche, cioè del loro vero ed universale dominio nei popoli
(generalmente e non individualmente parlando), non rimonta più in là della metà
del seicento. Ed ecco come quel tempo che corse da quest'epoca sino alla
rivoluzione, fu veramente il tempo più barbaro
dell'europa civile, dalla restaurazione della civiltà
in poi. Barbarie dove inevitabilmente vanno a cadere i tempi civili: barbarie
che prende diversi aspetti, secondo la natura di quella civiltà da cui deriva, e
a cui sottentra, e secondo la natura de' tempi e delle nazioni. P. e. la
barbarie di Roma sottentrata alla sua civiltà e libertà,
fu più feroce e più viva: quella dei Persiani fu simile nella mollezza e nella
inazione e torpore, alla nostra. Ed ecco come il tempo presente si può
considerare come epoca di un nuovo (benchè debole) risorgimento della civiltà. E
così le massime liberali si potranno chiamare risorte (almeno la loro
universalità e dominio); ma non mica inventate nè moderne. {+Anzi elle sono essenzialmente e caratteristicamente
antiche, ed è forse l'unica parte in cui l'età presente somiglia
all'antichità. Puoi vedere in tal proposito la lettera di Giordani a Monti nella Proposta ec. vol. 1. part. 2. alla
voce Effemeride, dove Giordani discorre delle barbarie antiche
rinnovate oggi.}
(28. Maggio 1821.).
[1170,1] Si consideri per l'una parte che cosa sarebbe la
civiltà senza l'uso della moneta. Oltre ch'ella non potrebbe reggersi, non
sarebbe neppur giunta mai ad un punto di gran lunga inferiore al presente,
essendo la moneta, di prima necessità ad un commercio vivo ed esteso, e questo
commercio scambievole vivo ed esteso, tanto delle nazioni, quanto degl'individui
di ciascuna, essendo forse la principal fonte dei progressi della civiltà, o
della corruzione umana. E se bisognassero prove di una proposizione così
manifesta, si potrebbe addurre, fra gli altri infiniti de' popoli selvaggi ec.,
l'esempio di Sparta che, avendo poco uso della moneta per
le leggi di Licurgo, in mezzo al paese
più civile del mondo a quei tempi, cioè la Grecia, si
mantenne sì lungo spazio, e incorrotta, e quasi stazionaria, o certo la sua
civiltà, o corruzione, fu sempre di molti gradi minore di quella degli altri
popoli greci, e {le} andò sempre molti passi
indietro.
[2333,1] In questo catalogo delle nazioni dominanti ne'
diversi tempi, dove io ho detto l'Asia, tu devi dividere
e porre successivamente le diverse nazioni dell'Asia
ch'ebbero impero: gl'indiani forse, e prima di tutti; gli Assiri, i Medi, i
Persiani, forse
2334 anche i Fenici, e i loro coloni
Cartaginesi ec. E l'impero francese (nato, vissuto e
morto in vent'anni, il che serve di prova di fatto a ciò che dico sulla fine
della pagina precedente) merita anch'esso un posto fra questo genere d'imperi.
Perocchè sebbene la nazion francese è la più civile del mondo, pure ella non
conseguì questo impero, se non in forza di una rivoluzione, che mettendo sul
campo ogni sorta di passioni, e ravvivando ogni sorta d'illusioni, ravvicinò la
francia alla natura, spinse indietro l'incivilimento
(del che si lagnano infatti i bravi filosofi monarchici), ritornò la
francia allo stato di nazione e di patria (che aveva
perduto sotto i re), rese, benchè momentaneamente, più severi i loro
dissolutissimi costumi, aprì la strada al merito, sviluppò il desiderio,
l'onore, la forza della virtù e dei sentimenti naturali; accese gli odi e ogni
sorta di passioni vive, e in somma se non ricondusse la mezzana civiltà degli
antichi, certo fece poco meno (quanto comportavano i tempi), e non ad altro si
debbono attribuire quelle azioni dette barbare, di cui fu sì feconda
2335 allora la Francia. Nata
dalla corruttela, la rivoluzione la stagnò per un momento, siccome fa la
barbarie nata dall'eccessiva civiltà, che per vie stortissime, pure riconduce
gli uomini più da presso alla natura. (6. Gen. dì dell'Epifania.
1822.).
[3797,1]
{Io noto che generalmente parlando,} le dette crudeltà
ec. tanto sono {più} frequenti e maggiori, e le guerre
tanto più feroci e continue e micidiali ec. quanto i popoli sono più vicini a
natura. E astraendo dall'odio e dagli effetti suoi, non si troverà popolo alcuno
{così} selvaggio, cioè così vicino a natura, nel
quale se v'è società stretta, non regnino costumi, superstizioni ec. tanto più
lontani e contrarii a natura quanto lo stato della lor società ne è più vicino,
cioè più primitivo. Qual cosa più contraria a natura di quello che una specie
{di animali} serva al mantenimento e cibo di se
medesima? Altrettanto sarebbe aver destinato un animale a pascersi di se
medesimo, distruggendo effettivamente quelle proprie parti di ch'ei si nutrisse.
La natura ha destinato molte specie di animali a servir di cibo e sostentamento
l'une all'altre, ma che un animale si pasca del suo simile, e ciò non per
eccesso straordinario di fame, ma regolarmente, e che lo appetisca, e lo
preferisca agli altri cibi; questa incredibile assurdità non si trova in altra
specie che nell'umana. Nazioni intere, di costumi quasi primitive, se non che
sono strette in una informe società, usano ordinariamente o usarono per secoli e
secoli questo costume, e non pure verso i nemici, ma verso i compagni, i
maggiori, i genitori vecchi, le mogli, i figli. {#1. L'antropofagia era e fu per lunghissimi secoli
propria di forse tutti i popoli barbari e selvaggi d'America sì meridionale
che settentrionale (escludo il paese comandato dagl'incas, i quali tolsero questa barbarie, e
l'impero messicano e tutti i paesi un poco colti
ec.) e lo è ancora di molti, e lo fu ed è di moltissimi altri popoli
selvaggi affatto separati tra loro e dagli americani. L'antropofagia fu ben
conosciuta da Plinio e dagli altri
antichi ec. ec. E forse tutti i popoli ne' loro principii (cioè per
lunghissimo tempo) furono antropofagi. v. p. 3811.}
{{(Veggansi i luoghi
citati nella pagina antecedente
[p.
3795,2]).}}
3798 Le superstizioni, le vittime umane, anche di
nazionali e compagni, immolate non per odio, ma per timore, come altrove s'è
detto p. 2208
pp.
2388-89
pp.
2669-70
pp. 3641-43 , e poi per
usanza; i nemici ancora immolati crudelissimamente agli Dei senza passione
alcuna, ma per solo costume; il tormentare il mutilare ec. se stessi per vanità,
per superstizione, per uso; l'abbruciarsi vive le mogli spontaneamente dopo le
morti de' mariti; il seppellire uomini e donne vive insieme co' lor signori
morti, come s'usava in moltissime parti dell'America meridionale; ec. ec. son cose notissime. Non v'è uso, o azione,
o proprietà {o credenza} ec. tanto contraria alla
natura che non abbia avuto o non abbia ancor luogo negli uomini riuniti in
società. E sì i viaggi sì le storie tutte delle nazioni antiche dimostrano che
quanto la società fu o è più vicina a' suoi principii, tanto la vita
degl'individui e de' popoli fu o è più lontana e più contraria alla natura. Onde
con ragione si considerano tutte le società primitive e principianti, come
barbare, e così generalmente si chiamano, e tanto più barbare quanto più vicine
a' principii loro. Nè mai si trovò, nè si trova, nè troverassi società, come si
dice, di selvaggi, cioè primitiva, che non si chiami, e non sia veramente, o non
fosse, affatto barbara e snaturata. (o vogliansi considerar quelle che mai non
furon civili, o quelle che poscia il divennero, quelle che il sono al presente
ec. ec.). Dalle quali osservazioni si deduce per cosa certa e incontrastabile
che l'uomo non ha potuto arrivare a quello stato di società che or si considera
come a lui conveniente e naturale, e come perfetto o manco
3799 imperfetto, se non passando per degli stati evidentemente
contrarissimi alla natura. Sicchè se una nazione qualunque, si trova in quello
stato di società che oggi si chiama buono, s'ella è o fu mai, come si dice,
civile; si può con certezza affermare ch'ella fu, e per lunghissimo tempo,
veramente barbara, cioè in uno stato contrario affatto alla natura, alla
perfezione, alla felicità dell'uomo, ed anche all'ordine e all'analogia generale
della natura. I primi passi che l'uomo fece o fa verso una società stretta lo
conducono di salto in luogo così lontano dalla natura, e in uno stato così a lei
contrario, che non senza il corso di lunghissimo tempo, e l'aiuto di moltissime
circostanze e d'infinite casualità (e queste difficilissime ad accadere) ei si
può ricondurre in uno stato, che non sia affatto contrario alla natura ec.
[3882,1]
Alla p. 3801.
Sì nelle nazioni barbare o selvagge sì nelle civili, sì nelle corrotte ec. la
società ha prodotto infiniti o costumi o casi {fatti
ec.} particolari, {+volontari o
involontarii ec.} che o niuno può negare esser contro la natura sì
generale, sì nostra, contro il ben essere della specie, della società stessa ec.
contro il ben essere eziandio delle altre creature che da noi dipendono ec.;
ovvero se ciò si nega, ciò non viene che dall'assuefazione, e dall'esser quei
costumi ec. nostri propri: onde dando noi del barbaro ai costumi e fatti d'altre
nazioni e individui, ec. meno snaturati talora de' nostri, non lo diamo a questi
ec. E generalmente noi chiamiamo barbaro quel ch'è diverso
3883 dalle nostre assuefazioni ec. non quel ch'è contro natura, in
quanto e perciocch'egli è contro natura. Ma tornando al proposito, tali costumi
o fatti snaturatissimi che senza la società non avrebbero mai avuto luogo, nè
esempio alcuno in veruna delle specie dell'orbe terracqueo, hanno avuto {{ed hanno}} ed avranno sempre luogo in qualsivoglia
società, selvaggia, civile, civilissima, barbara, dove e quando gli uni, quando
gli altri, ma da per tutto cose snaturatissime. Il che vuol dire che la società
gli ha prodotti, e che non potea e non può non produrli, cioè non produr costumi
e fatti snaturati, e se non tali, tali, e se non questi, quelli, ma sempre ec.
P. e. il suicidio, disordine contrario a tutta la natura intera, alle leggi
fondamentali dell'esistenza, ai principii, alle basi dell'essere di tutte le
cose, anche possibili; contraddizione ec. da che cosa è nato se non dalla
società? ec. ec. {+V. p. 3894.} Ora in niuna specie d'animali,
neanche la più socievole, si potrà trovare che abbiano mai nè mai avessero luogo
non pur costumi, ma fatti particolari, non pur così snaturati come quelli
degl'individui e popoli umani in qualunque società, ma molto meno. Eccetto solo
qualche accidentalissimo disordine, o involontario, e quindi da non attribuirsi
alla specie, o volontario, ma di volontà determinata da qualche
straordinarissima circostanza e casualissima. E la somma di questi casi non sarà
neppure in una intera specie, {+contando
dal principio del mondo,} comparabile a quella de' casi di tal natura
in una sola popolazione di uomini dentro un secolo,
3884 anzi talora dentro un anno. Questo prova bene che la naturale società ch'è
tra gli animali non è causa di cose contrarie a natura per se medesima {e necessariamente,} ma per solo accidente, e il
contrario circa la società umana. E si conferma che l'uomo è per natura molto
men disposto a società {che} moltissimi altri animali
ec. (14. Nov. 1823.).
[4172,8]
Et qui rit de nos
moeurs ne fait que prévenir Ce qu'en doivent penser les siècles à
venir.
*
M. de Rulière, Discours en vers sur les Disputes,
rapporté par Voltaire
Dict. phil. au mot Dispute.
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