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[115,1]  La barbarie non consiste principalmente nel difetto della ragione ma della natura. (7. Giugno 1820.).

[163,1]  Io riguardo l'indebolimento corporale delle generazioni umane, come l'una delle principali cause del gran cangiamento del mondo e dell'animo e cuore umano dall'antico al moderno. Così anche della barbarie de' secoli di mezzo, stante la depravazione de' costumi sotto i primi imperatori e in seguito, la quale è certa cagione d'infiacchimento corporale, come  164 appresso i Persiani divenuti fiacchissimi (e perciò barbari e privi di libertà) per la depravazione degli antichi costumi e istituti che li rendevano vigorosissimi. V. la Ciroped. cap. ult. art. 5. e segg. sino al fine.

[205,1]  Ossian prevedeva il deterioramento degli uomini e della sua nazione. V. Cesarotti osservazione ultima al poemetto della guerra di Caroso. Ma certo quando egli diceva ec. (v. gli ultimi versi d'esso poemetto) non prevedeva che la generazione degl'imbelli si dovesse chiamar civile, e barbara la sua, e le altre che la somigliarono.

[353,1]  Quanto anche la religion cristiana sia contraria alla natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando questo solo serve di norma, si può vedere per questo esempio. Io ho conosciuto intimamente una donna {madre di famiglia} che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e sinceramente, perchè questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa  354 età, non pregava Dio che li facesse morire, perchè la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell'anima desiderava che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava nell'interrogare o consultare i medici, era di sentirne opinioni o ragguagli di miglioramento. Vedendo ne' malati qualche segno di morte vicina, sentiva una gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno allegro ed ameno, nè sapeva comprendere come il marito fosse sì poco savio da attristarsene. Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente alla vita nella loro prima gioventù: se resistevano, se cercavano il contrario, se vi riuscivano in qualche minima parte, n'era indispettita, scemava quanto poteva colle parole e coll'opinion sua i loro successi (tanto de' brutti quanto de' belli, perchè n'ebbe molti), e non lasciava  355 passare anzi cercava studiosamente l'occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce. {Sentiva i cattivi successi de' suoi figli in questo o simili particolari, con vera consolazione, e si tratteneva di preferenza con loro sopra ciò che aveva sentito in loro disfavore.} Tutto questo per liberarli dai pericoli dell'anima, e nello stesso modo si regolava in tutto quello che spetta all'educazione dei figli, al produrli nel mondo, al collocarli, ai mezzi tutti di felicità temporale. Sentiva infinita compassione per li peccatori, ma pochissima per le sventure corporali o temporali, eccetto se la natura talvolta la vinceva. Le malattie, le morti le più compassionevoli de' giovanetti estinti nel fior dell'età, fra le più belle speranze, col maggior danno delle famiglie o del pubblico ec. non la toccavano in verun modo. Perchè diceva che non importa l'età della morte, ma il modo: e perciò soleva sempre informarsi curiosamente se erano morti bene secondo la religione, o quando erano malati, se mostravano rassegnazione ec. E parlava di queste disgrazie con una freddezza marmorea. Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo, ed era stata così ridotta dalla sola religione. Ora questo che altro è se non barbarie? E tuttavia non è altro che un calcolo matematico, e una conseguenza immediata e necessaria dei  356 principii di religione esattamente considerati; di quella religione che a buon diritto si vanta per la più misericordiosa ec. Ma la ragione è così barbara che dovunque ella occupa il primo posto, e diventa regola assoluta, da qualunque principio ella parta, e sopra qualunque base ella sia fondata, tutto diventa barbaro. Così vediamo le tante barbarie delle religioni antiche, se ben queste fossero figlie dell'immaginazione. E anche senza i principii religiosi, è pur troppo evidente che la sola stretta ragione, ci porta alle conseguenze specificate di sopra. Non c'è che la pura natura la quale ci scampi dalla barbarie, con quegli errori ch'ella ispira, e dove la ragione non entra. S'ella ci fa piangere la morte dei figli, non è che per un'illusione, perchè perdendo la vita non hanno perduto nulla, anzi hanno guadagnato. Ma il non piangerne è barbaro, e molto più il rallegrarsene, benchè sia conforme all'esatta ragione. Tutto ciò conferma quello ch'io voglio dire che la ragione spesso è fonte di barbarie (anzi barbarie da se stessa), l'eccesso della ragione sempre; la natura non mai, perchè finalmente non è barbaro se non ciò che è contro natura, (25. Nov. 1820.) {{sicchè natura e barbarie son cose contraddittorie, e la natura non può esser barbara per essenza.}}

[403,1]  6o. Se la Religione ha poi divinizzato la ragione e il sapere; dato la preferenza allo spirito sopra i sensi; fatto consistere la perfezione dell'uomo nella ragione a differenza dei bruti; e in somma dato alla ragione il primato nell'uomo sopra la natura: tutto ciò non si oppone al mio sistema. L'uomo era corrotto, cioè, come ho dimostrato, la ragione aveva preso il disopra sulla natura: e quindi l'uomo era divenuto sociale: quindi l'uomo era divenuto infelice, perchè prevalendo la ragione, la sua natura primitiva era alterata e guasta, ed egli era, decaduto dalla sua perfezione primigenia, la quale non consisteva in altro che nella sua essenza o condizione propria e primordiale. Da questo stato di corruzione, l'esperienza prova che l'uomo non può tornare indietro senza un miracolo: lo prova anche la ragione, perchè quello che si è imparato non si dimentica. In fatti la storia dell'uomo non presenta altro che un passaggio continuo da un grado di civiltà ad un altro, poi all'eccesso di civiltà, e finalmente alla barbarie, e poi da capo. Barbarie, s'intende, di corruzione, non già stato primitivo  404 assolutamente e naturale, giacchè questo non sarebbe barbarie. Ma la storia non ci presenta mai l'uomo in questo stato preciso. Bensì ci dimostra che l'uomo tal quale è ridotto, non può godere maggior felicità che in uno stato di civiltà media, dove prevalga la natura, quanto è compatibile colla sua ragione già radicata in un posto più alto del primitivo. Questo stato non è il naturale assoluto, ma è quello stabilito appresso a poco dalla religione, come dirò poi. Lo stato naturale assoluto non poteva dunque tornare senza un miracolo. Il discorso de' miracoli, è sopraumano, e non entra in filosofia. Perchè dunque l'uomo corrotto com'è, non abbia mai ricuperato nè sia per ricuperare lo stato puramente naturale, e la felicità di cui godono tutti gli altri esseri, rimane, colla detta ragione, spiegato in filosofia. In religione anche meglio; perchè Dio in pena del peccato, avendo condannato l'uomo all'infelicità della corruzione derivata da esso peccato, non voleva nè doveva fare questo miracolo. Volendo mostrargli la sua misericordia, e dare al suo stato una perfezione compatibile colla sua condanna, cioè colla sua infelicità, non restava altro che perfezionare la sua ragione, cioè quella parte che aveva prevaluto {immutabilmente} nell'uomo  405 per la sua disubbidienza, e con ciò causata la sua corruzione. La perfezion della ragione non è la perfezione dell'uomo assolutamente, ma bensì dell'uomo tal qual è dopo la corruzione. Perchè la perfezione di un essere non è altro che l'intiera conformità colla sua essenza primigenia. Ora l'essenza primigenia dell'uomo supponeva e conteneva l'ubbidienza della ragione, in somma tutto l'opposto della perfezion della ragione. Questa perfezione dunque non poteva essere la sua felicità in questa vita, non essendo la perfezione dell'ente. Non poteva dunque se non formare la sua felicità in un'altra vita, dove la natura dell'ente in certo modo si cambiasse. La ragione (massime relativamente all'altra vita) non può essere perfezionata se non dalla rivelazione. Fu dunque necessario che Dio rivelasse all'uomo la sua origine, e i suoi destini; quei destini che avrebbe conseguiti rimanendo nello stato naturale, e gli avrebbe conseguiti insieme colla felicità terrena. Laddove il Cristianesimo chiama beato chi piange, predica i patimenti, li rende utili e necessari; in una parola suppone essenzialmente l'infelicità di questa vita, per conseguenza  406 naturale degli addotti principj. Ma da questi segue ancora che la maggior felicità possibile dell'uomo in questa vita, ossia il maggior conforto possibile, e il più vero ed intero, all'infelicità naturale, è la religione. Perchè (riassumendo il discorso) la perfezione {primitiva o umana assolutamente,} e quindi la felicità naturale, e quindi la felicità temporale, è impossibile all'uomo dopo la corruzione. La ragione autrice di essa corruzione, avendo prevaluto per sempre, il miglior grado dell'uomo corrotto è la perfezione di essa ragione, che forma oggi la sua parte principale. La perfezion della ragione non può condurre se non alla felicità di un'altra vita. Quindi, e anche senza ciò, la perfezion della ragione e della cognizione, non può stare senza la rivelazione. Dunque il migliore stato dell'uomo corrotto, è la Religione, e siccome è il migliore, cioè quello che più gli conviene, perciò, sebben suppone l'infelicità di questa vita, contiene però il maggior conforto, e quindi la maggior felicità, e quindi la maggior perfezione possibile dell'uomo in questa vita. Ecco come la Religione si accorda mirabilmente col mio sistema, e quasi ne riceve una nuova prova.

[420,2]  Alla p. 416. L'ignoranza parziale può sussistere, come ho detto, anche nell'uomo alterato dalla ragione, anche nell'uomo ridotto in società. Può dunque servire di stabile fondamento a un maggiore o minor numero di credenze naturali; dunque tener l'uomo più o meno vicino allo stato primitivo, dunque conservarlo più o meno felice. Per  421 conseguenza quanto maggiore per estensione, e per profondità sarà questa ignoranza parziale, tanto più l'uomo sarà felice. Questo è chiarissimo in fatto, per l'esperienza de' fanciulli, de' giovani, degl'ignoranti, de' selvaggi. S'intende però un'ignoranza la quale serva di fondamento alle credenze, giudizi, errori, illusioni naturali, non a quegli errori che non sono primitivi e derivano da corruzione dell'uomo, o delle nazioni. Altro è ignoranza naturale, altro ignoranza fattizia. Altro gli errori ispirati dalla natura, e perciò convenienti all'uomo, e conducenti alla felicità; altro quelli fabbricati dall'uomo. Questi non conducono alla felicità, anzi all'opposto, com'essendo un'alterazione del suo stato naturale, e come tutto quello che si oppone a esso stato. Perciò le superstizioni, le barbarie ec. non conducono alla felicità, ma all'infelicità. V. p. 314. Quindi è che dopo lo stato precisamente naturale, il più felice possibile in questa vita, è quello di una civiltà media, dove un certo equilibrio fra la ragione e la natura, una certa mezzana ignoranza,  422 mantengano quanto è possibile delle credenze ed errori naturali (e quindi costumi consuetudini ed azioni che ne derivano); ed escludano e scaccino gli errori artifiziali, almeno i più gravi, importanti, e barbarizzanti. Tale appunto era lo stato degli antichi popoli colti, pieni perciò di vita, perchè tanto più vicini alla natura, e alla felicità naturale. Le Religioni antiche pertanto (eccetto negli errori non naturali e perciò {dannosi e} barbari, i quali non erano in gran numero, nè gravissimi) conferivano senza dubbio alla felicità temporale molto più di quello che possa fare il Cristianesimo; perchè contenendo un maggior numero e più importante di credenze naturali, fondate sopra una più estesa e più profonda ignoranza, tenevano l'uomo più vicino allo stato naturale: erano insomma più conformi alla natura, e minor parte davano alla ragione. (All'opposto la barbarie de' tempi bassi derivata da ignoranza non naturale ma di corruzione, non da ignoranza negativa ma positiva. Questa non poteva conferire alla felicità, ma all'infelicità, allontanando maggiormente l'uomo dalla natura: se non in  423 quanto quell'ignoranza qualunque richiamava parte delle credenze e abitudini naturali, perchè la natura trionfa ordinariamente, facilmente, e naturalmente quando manca il suo maggiore ostacolo ch'è la scienza. E però quella barbarie produceva una vita meno lontana dalla natura, e meno infelice, più attiva ec. di quella {che produce} l'incivilimento non medio ma eccessivo del nostro secolo. Del resto v. in questo proposito p. 162. capoverso 1[2]. Tra la barbarie e la civiltà eccessiva non è dubbio che quella non sia più conforme alla natura, e meno infelice, quando non per altro, per la minor conoscenza della sua infelicità. Del rimanente per lo stesso motivo della barbarie de' bassi tempi, è opposta alla felicità e natura, la barbarie e ignoranza degli Asiatici generalmente, barbareschi Affricani, Maomettani, persiani antichi dopo Ciro, sibariti, ec. ec. Così proporzionatamente quella della Spagna e simili più moderne ed europee.).

[471,1]  Venga un filosofo, e mi dica. Se ora si trovassero le ossa o le ceneri di Omero o di Virgilio ec. il sepolcro ec. quelle ceneri che merito avrebbero realmente, e secondo la secca ragione? Che cosa parteciperebbero dei pregi, delle virtù, della gloria ec. di Omero ec.? Tolte le illusioni, e gl'inganni, a che servirebbero? Che utile reale se ne trarrebbe? Se dunque, trovatele, qualcuno, le dispergesse e perdesse, o profanasse disprezzasse ec. che torto avrebbe in realtà? anzi non oprerebbe secondo la vera ed esatta ragione? Come dunque meriterebbe il biasimo, l'esecrazione degli uomini civili? E pur quella si chiamerebbe barbarie. Dunque la ragione non è barbara? Dunque la civiltà dell'uomo sociale e delle nazioni, non si fonda, non si compone, non consiste essenzialmente negli errori e nelle illusioni? Lo stesso  472 dite generalmente della cura de' cadaveri, dell'onore de' sepolcri ec. (3. Gen. 1821.).

[646,1]  Nessun secolo de' più barbari si è creduto mai barbaro, anzi nessun secolo è stato mai, che non credesse di essere il fiore dei secoli, e l'epoca più perfetta dello spirito umano e della società. Non ci fidiamo dunque di noi stessi nel giudicare del tempo nostro, e non consideriamo l'opinione presente, ma le cose, e quindi congetturiamo il giudizio della posterità, se questa sarà tale da poter giudicarci rettamente. (12. Feb. 1821.).

[669,1]  L'orgueil nous sépare de la société: notre amour-propre nous donne un rang à part qui nous est toujours disputé: l'estime de soi-même qui se fait trop sentir est presque toujours punie par le mépris universel. * Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p. 633), p. 99. fine. Così è naturalmente nella società, così porta la natura di questa istituzione umana, la quale essendo diretta al comun bene e piacere, non sussiste veramente, se l'individuo non accomuna  670 più o meno cogli altri la sua stima, i suoi interessi, i suoi fini, pensieri, opinioni, sentimenti ed affetti, inclinazioni, ed azioni; e se tutto questo non è diretto se non a se stesso. Quanto più si trova nell'individuo il se stesso, tanto meno esiste veramente la società. Così se l'egoismo è intero, la società non esiste se non di nome. Perchè ciascuno individuo non avendo per fine se non se medesimo, non curando affatto il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta al bene o piacere altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società a parte, ed intera, e perfettamente distinta, giacchè è perfettamente distinto il suo fine; e così il mondo torna qual era da principio, e innanzi all'origine della società, la quale resta sciolta quanto al fatto e alla sostanza, e quanto alla ragione ed essenza sua. Perciò l'egoismo è sempre stata la peste della società, e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata  671 la condizione della società; e quindi tanto peggiori essenzialmente quelle istituzioni che maggiormente lo favoriscono o direttamente o indirettamente, come fa soprattutto il dispotismo. (Sotto il quale stato la Francia, era divenuta la patria del più pestifero egoismo, mitigato assai dalla rivoluzione, non ostante gl'immensi suoi danni, come è stato osservato da tutti i filosofi.) L'egoismo è inseparabile dall'uomo, cioè l'amor proprio, ma per egoismo, s'intende più propriamente un amor proprio mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli che derivano dall'eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall'onore, dall'amicizia ec. Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità, e per universalità; e quando a motivo e dell'intensità, e massime dell'universalità si è levata la maschera (la quale non serve più a nasconderlo, perchè troppo vivo, e perchè tutti sono animati dallo stesso sentimento), allora la natura del commercio sociale (sia relativo alla conversazione,  672 sia generalmente alla vita) cangia quasi intieramente. Perchè ciascuno pensando per se (tanto per sua propria inclinazione, quanto perchè nessun altro vi pensa più, e perchè il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano tutti i riguardi, l'uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell'altro; gl'individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra più o meno aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme; il più forte sotto qualunque riguardo, la vince; il cedere agli altri qualsivoglia cosa, {o per creanza, o per virtù, onore ec.} è inutile, dannoso e pazzo, perchè gli altri non ti son grati, non ti rendono nulla, e di quanto tu cedi loro, o di quella minore resistenza che opponi loro, profittano in loro vantaggio solamente, e quindi in danno tuo. E così, per togliere un esempio dal passo cit. di Mad. di Lambert, si vede nel fatto che oggidì, il disprezzo degli altri, e la stima aperta e ostentata di se stesso, non solamente non è più così dannosa come  673 una volta, ma bene spesso è necessaria, e chi non sa farne uso non guadagna nulla in questo mondo presente. Perchè gli altri non sono disposti ad accordarti {spontaneamente, e in forza del vero, e del merito} nulla, come di nessuna altra cosa, così neanche di stima, e bisogna quindi che tu la conquisti come per forza, e con guerra aperta e ostilmente, mostrandoti persuasissimo del tuo merito, ad onta di chicchessia, disprezzando e calpestando gli altri, deridendoli, profittando d'ogni menomo loro difetto, rinfacciandolo loro, non perdonando nulla agli altri, cercando in somma di abbassarli e di renderteli inferiori, o nella conversazione o dovunque con tutti i mezzi più forti. Che se oggidì ti vuoi procacciare la stima degli altri, col rispetto, buona maniera verso loro, col lusingare il loro amor proprio, dissimulare i loro difetti ec. e quanto a te, colla modestia, col silenzio ec. ti succede tutto l'opposto. Essi profittano di te {e de' tuoi riguardi verso loro,} per innalzarsi, e della tua poca resistenza {quanto a te,} per deprimerti. Quello che concedi  674 loro, l'adoprano in loro mero vantaggio, e danno tuo; quello che non ti arroghi o non pretendi, o quel merito che tu dissimuli, te lo negano e tolgono, per vederti inferiore ec. Così, nel modo che ho detto, ritornano effettivamente nel mondo i costumi selvaggi, {e} di quella prima età, quando la società non esistendo, ciascuno era amico di se solo, e nemico di tutti gli altri esseri o dissimili o simili suoi, in quanto si opponevano a qualunque suo menomo interesse o desiderio, o in quanto egli poteva godere a spese loro. Costumi che nello stato di società son barbari, perchè distruttivi della società, e contrari direttamente all'essenza ragione, e scopo suo. Quindi si veda quanto sia vero, che lo stato presente del mondo, è propriamente barbare[barbarie], o vicino alla barbarie quanto mai fosse. Ogni così detta società dominata dall'egoismo individuale, è barbara, e barbara della maggior barbarie. (17. Feb. 1821.).

[821,1]  Da queste osservazioni particolari; facili, chiare, e di cui tutti convengono, salite dunque ad una più generale, ma tanto vera quanto le precedenti, e che non si può negare se queste si riconoscono, e concedono. Che cosa è barbarie nell'uomo? Quello che si oppone all'uso corrente? Dunque nessun popolo, nessun secolo barbaro. Barbarie è quel solo che si oppone alla natura primitiva dell'uomo. Ora domando io se i nostri costumi, istituti, opinioni ec. presenti sarebbero stati compatibili colla nostra prima natura. Come potevano esserlo, quando anzi la natura ci ha posti evidentemente i possibili ostacoli? Che non siano compatibili colla nostra primitiva natura, è così manifesto, anche per la osservazione sì di ciascuno di noi, sì de' fanciulli, selvaggi, ignoranti ec. ec. che non ha bisogno di dimostrazione. Dunque se non sono compatibili, è quanto dire che le ripugnano e contrastano. Dunque? dunque son barbari.  822 Che sieno conformi all'uso e all'abitudine, non val più di quello che vaglia la stessa circostanza a scusare un secolo depravato nella lingua. Che si stimino buoni assolutamente, e più buoni de' naturali e primitivi, primieramente non val più di quello che vaglia nella lingua, come ho detto; poi, siccome nella lingua, questa opinione è erronea, e deriva dall'inganno parte dell'abitudine, parte della immaginaria perfezione assoluta, là dove è sostanzialmente imperfezione e vizio tutto ciò che si oppone all'indole e natura particolare e primitiva di una specie, quando anche questo medesimo sia virtù e perfezione in altra specie. (20. Marzo 1821.).

[866,1]  Che vuol dire che i così detti barbari, o popoli non ancora arrivati se non ad una mezza o anche inferiore civiltà, hanno sempre trionfato de' popoli civili, e del mondo? I Persiani degli Assiri inciviliti, i greci de' Persiani già corrotti, i Romani de' greci giunti al colmo della civiltà, i settentrionali de' Romani nello  867 stesso caso? Anzi che vuol dire che i Romani non furono grandi se non fino a tanto che furono quasi barbari? Vuol dire che tutte le forze dell'uomo sono nella natura e illusioni; che la civiltà, la scienza ec. e l'impotenza sono compagne inseparabili; {+vuol dire che il fare non è proprio nè facoltà che della natura, e non della ragione; e siccome quegli che fa è sempre signore di chi solamente pensa, così i popoli o naturali o barbari che si vogliano chiamare, saranno sempre signori dei civili, per qualunque motivo e scopo agiscano.} Non dubito di pronosticarlo. L'europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del Settentrione; e quando questi di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma finattanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene {e persuasive, e costanti, e non ragionate,} e grandi illusioni, i popoli civili saranno lor preda. Dopo quel tempo, quando à son tour la civiltà divenuta oggi sì rapida vasta e potente conquistatrice, non avrà più nulla da conquistare, allora o si tornerà alla barbarie, e se sarà possibile, alla natura per una nuova strada, e tutta opposta al naturale, cioè la strada dell'universale corruzione come ne' bassi tempi; o io non so pronosticare più oltre quello che si dovrà aspettare. {{Il mondo allora comincerà un altro andamento, e quasi un'altra essenza ed esistenza.}}  868 (24. Marzo 1821.)

[868,1]  Quella sentenza che gli uomini sono sempre i medesimi in tutti i tempi {e paesi,} non è vera se non in questo senso. I periodi che l'uomo percorre, {e quelli di ciascuna nazione paragonati insieme, come i periodi de' tempi fra loro,} sono sempre appresso a poco uguali o somigliantissimi; ma le diverse epoche che compongono questi periodi, sono fra loro diversissime, e quindi anche gli uomini di quest'epoca, rispetto a quelli di quell'altra, {e questa nazione oggi trovandosi in un'epoca, rispetto a quell'altra nazione che si trova in altra epoca.} Come chi dicesse che l'orbita de' pianeti è sempre la stessa, non però verrebbe a dire che il punto, l'apparenza in cui essi si trovano, fosse sempre una. I periodi della società si rassomigliano in tutti i tempi. Questo è un vero assioma. E l'eccessiva civiltà avendo sempre condotto i popoli alla barbarie, anzi precedutala immediatamente, anzi partecipato di essa; così accadrà anche ora, o il detto assioma riuscirà falso per la prima volta. Del resto che gli uomini sieno gli stessi in tutti i tempi, a non volerlo intendere, o emendare come io dico, è proposizione o falsa o ridicola. Falsa se si vuole estendere agli effetti delle facoltà umane, che ora sviluppate, ora  869 no, ora più, ora meno, ora attivissime, ora così sepolte nel fondo dell'animo da non lasciarsi scoprire nemmeno ai filosofi (come p. e. la sensibilità odierna negli antichi, e peggio ne' primitivi, la ragione ec. ec.); hanno diversificato la faccia del mondo in maniera infinita, e in moltissime guise. Domando io se questi italiani d'oggi sono o paiono i medesimi che gli antichi; se il secolo presente si rassomiglia a quello delle guerre Persiane, o peggio, della Troiana. Domando se i selvaggi si rassomigliano ai francesi, se Adamo ci riconoscerebbe per uomini, e suoi discendenti ec. Ridicola se non vuole significare fuorchè questo, che l'uomo fu sempre composto degli stessi elementi e fisici e morali in tutti i tempi. (ma elementi diversamente sviluppati e combinati, come i fisici, così i morali). Cosa che tutti sanno. Le qualità essenziali non sono mutate, {nè mutabili,} dal principio della natura in poi, in nessuna creatura, bensì le accidentali, e queste per la diversa disposizione delle essenziali, che partorisce una diversità  870 rilevantissima, e quanto possa esser, notabile, in quelle cose, che sole naturalmente, possono variare. Questa proposizione dunque in quest'ultimo senso, sarebbe tanto importante quanto il dire che il mare, il sole, la luna sono le stesse in tutti i tempi ec. (lasciando ora una fisica trascendente che potrebbe negarlo, e ponendolo per vero, com'è conforme all'opinione universale). (25. Marzo 1821.)

[870,2]  Alla p. 838. principio. Osservate ancora  871 quanti di quei mestieri che servono alla preparazione di cose anche usualissime, e stimate necessarie alla vita oggidì, sieno per natura loro nocive[nocivi] alla salute e alla vita di coloro che gli esercitano. Che ve ne pare? Che la natura abbia molte volte disposto alla sussistenza o al comodo di una specie, la distruzione o il danno di un'altra specie, o parte di lei, questo è vero, ed evidente nella storia naturale. Ma che abbia disposta ed ordinata precisamente la distruzione di una parte della stessa specie, al comodo, anzi alla perfezione essenziale dell'altra parte (certo niente più nobile per natura, ma uguale in tutto e per tutto alla parte sopraddetta), questo chi si potrà indurre a crederlo? E questi tali mestieri, ancorchè usualissimi, e comunissimi, e riputati necessari alla vita, non saranno barbari, essendo manifestamente contro natura? E quella vita che li richiede e li suppone, ancorchè comoda, e stimata civilissima, non verrà dunque ella pure ad essere evidentemente contro natura? Non sarà dunque barbara? (30. Marzo. 1821.

[926,2]  In qualunque nazione o antica o moderna s'incontrano grandi errori contrari alla natura, come dovunque grandi cognizioni contrarie alla natura; quivi non s'incontra niente o ben poco di grande di bello di buono. E questo è l'uno de' principali motivi per cui le nazioni orientali, ancorchè grandi, ancorchè la loro storia rimonti a tempi antichissimi, tempi ordinariamente compagni del grande e del bello; ancorchè ignorantissime in ultima analisi, e quindi prive dei grandi ostacoli della ragione e del vero, e questo anche oggidì; tuttavia non offrano quasi niente di {vero} grande nè di {vero} bello, e ciò tanto  927 riguardo alle azioni, ai costumi, all'entusiasmo e virtù della vita, quanto alle produzioni dell'ingegno e della immaginazione. E la causa per la quale i Greci e i Romani soprastanno a tutti i popoli antichi, è in gran parte questa, che i loro errori e illusioni furono nella massima parte conformissime alla natura, sicchè si trovarono egualmente lontani dalla corruzione dell'ignoranza, e dal difetto di questa. Al contrario de' popoli orientali le cui superstizioni ed errori, che sebbene moderni e presenti, si trovano per lo più di antichissima data, furono e sono in gran parte contrarie alla natura, e quindi con verità si possono chiamar barbare. E si può dire che nessun popolo antico, nell'ordine del grande e del bello, può venire in paragone de' greci e de' Romani. Il che può derivare anche da questo, che forse i secoli d'oro degli altri popoli, come degli Egiziani, degl'Indiani, de' Cinesi, de' Persiani ec. ec. essendo venuti più per tempo, giacchè questi popoli sono molto più antichi, la memoria loro non è passata fino a noi, ma rimasta nel buio dell'antichità, col quale viene a coincidere la epoca dei detti secoli; e per lo contrario ci è pervenuta la memoria sola della loro corruzione e barbarie, succeduta naturalmente alla civiltà, e abbattutasi ad esser contemporanea della grandezza e del fiore dei popoli greco e Romano, la qual grandezza occupa  928 e signoreggia le storie nostre, alle quali per la maggior vicinanza de' tempi ha potuto pervenire, e perch'ella signoreggiò effettivamente in tempi più vicini a noi. Anzi si può dire che quanto ci ha di grande {e di bello} rispetto all'antichità nelle storie, e generalmente in qualunque memoria nostra, tutto appartiene all'ultima epoca dell'antichità, della quale i greci e i Romani furono effettivamente gli ultimi popoli. Ὦ Ἕλληνες ἀεὶ παῖδες ἐοτὲ * ec. Platone in persona di quel sacerdote Egiziano. (10. Aprile. 1821). {{V. p. 2331.}}

[1077,1]  Il tempo di Luigi decimoquarto e tutto il secolo passato, fu veramente l'epoca della corruzione barbarica delle parti più civili d'europa, di quella corruzione e barbarie, che succede inevitabilmente alla civiltà, di quella che si vide ne' Persiani e ne' Romani, ne' Sibariti, ne' Greci ec. E tuttavia la detta epoca si stimava allora, e per esser freschissima, si stima anche oggi, civilissima, e tutt'altro che barbara. Quantunque il tempo  1078 presente, che si stima l'apice della civiltà, differisca non poco dal sopraddetto, e si possa considerare come l'epoca di un risorgimento dalla barbarie. Risorgimento incominciato in europa dalla rivoluzione francese, risorgimento debole, imperfettissimo, perchè derivato non dalla natura, ma dalla ragione, anzi dalla filosofia, ch'è debolissimo, tristo, falso, non durevole principio di civiltà. Ma pure è una specie di risorgimento; ed osservate che malgrado la insufficienza de' mezzi per l'una parte, e per l'altra la contrarietà ch'essi hanno colla natura; tuttavia la rivoluzione francese (com'è stato spesso notato), ed il tempo presente hanno ravvicinato gli uomini alla natura, sola fonte di civiltà, hanno messo in moto le passioni grandi e forti, hanno restituito alle nazioni già morte, non dico una vita, ma un certo palpito, una certa lontana apparenza vitale. Quantunque ciò sia stato mediante la mezza filosofia, strumento di civiltà incerta, insufficiente, debole, e passeggera per natura sua, perchè la mezza filosofia, tende naturalmente a crescere, e divenire perfetta filosofia, ch'è fonte di barbarie. {+Applicate a questa osservazione le barbare e ridicolissime e mostruose mode (monarchiche e feudali), come guardinfanti, pettinature d'uomini e donne ec. ec. che regnarono, almeno in italia, fino agli ultimissimi anni del secolo passato, e furono distrutte in un colpo dalla rivoluzione (v. la lettera di Giordani a Monti §. 4.) E vedrete che il secolo presente è l'epoca di un vero risorgimento da una vera barbarie, anche nel gusto; e qui può anche notarsi quel tale raddrizzamento della letteratura in italia oggidì.} (23. Maggio 1821.). {{V. p. 1084.}}

[1100,2]  Chiamano moderne le massime liberali, e si scandalezzano, e ridono che il mondo creda di essere oggi solo arrivato al vero. Ma elle sono antiche quanto Adamo, e di più hanno sempre durato e dominato, più o meno, e sotto differenti aspetti sino a circa un secolo e mezzo fa, epoca vera e sola della perfezione del dispotismo, consistente in gran parte in una certa moderazione che lo rende universale,  1101 intero, e durevole. Dunque tutta l'antichità delle massime dispotiche, cioè del loro vero ed universale dominio nei popoli (generalmente e non individualmente parlando), non rimonta più in là della metà del seicento. Ed ecco come quel tempo che corse da quest'epoca sino alla rivoluzione, fu veramente il tempo più barbaro dell'europa civile, dalla restaurazione della civiltà in poi. Barbarie dove inevitabilmente vanno a cadere i tempi civili: barbarie che prende diversi aspetti, secondo la natura di quella civiltà da cui deriva, e a cui sottentra, e secondo la natura de' tempi e delle nazioni. P. e. la barbarie di Roma sottentrata alla sua civiltà e libertà, fu più feroce e più viva: quella dei Persiani fu simile nella mollezza e nella inazione e torpore, alla nostra. Ed ecco come il tempo presente si può considerare come epoca di un nuovo (benchè debole) risorgimento della civiltà. E così le massime liberali si potranno chiamare risorte (almeno la loro universalità e dominio); ma non mica inventate nè moderne. {+Anzi elle sono essenzialmente e caratteristicamente antiche, ed è forse l'unica parte in cui l'età presente somiglia all'antichità. Puoi vedere in tal proposito la lettera di Giordani a Monti nella Proposta ec. vol. 1. part. 2. alla voce Effemeride, dove Giordani discorre delle barbarie antiche rinnovate oggi.} (28. Maggio 1821.).

[1170,1]  Si consideri per l'una parte che cosa sarebbe la civiltà senza l'uso della moneta. Oltre ch'ella non potrebbe reggersi, non sarebbe neppur giunta mai ad un punto di gran lunga inferiore al presente, essendo la moneta, di prima necessità ad un commercio vivo ed esteso, e questo commercio scambievole vivo ed esteso, tanto delle nazioni, quanto degl'individui di ciascuna, essendo forse la principal fonte dei progressi della civiltà, o della corruzione umana. E se bisognassero prove di una proposizione così manifesta, si potrebbe addurre, fra gli altri infiniti de' popoli selvaggi ec., l'esempio di Sparta che, avendo poco uso della moneta per le leggi di Licurgo, in mezzo al paese più civile del mondo a quei tempi, cioè la Grecia, si mantenne sì lungo spazio, e incorrotta, e quasi stazionaria, o certo la sua civiltà, o corruzione, fu sempre di molti gradi minore di quella degli altri popoli greci, e {le} andò sempre molti passi indietro.

[2333,1]  In questo catalogo delle nazioni dominanti ne' diversi tempi, dove io ho detto l'Asia, tu devi dividere e porre successivamente le diverse nazioni dell'Asia ch'ebbero impero: gl'indiani forse, e prima di tutti; gli Assiri, i Medi, i Persiani, forse  2334 anche i Fenici, e i loro coloni Cartaginesi ec. E l'impero francese (nato, vissuto e morto in vent'anni, il che serve di prova di fatto a ciò che dico sulla fine della pagina precedente) merita anch'esso un posto fra questo genere d'imperi. Perocchè sebbene la nazion francese è la più civile del mondo, pure ella non conseguì questo impero, se non in forza di una rivoluzione, che mettendo sul campo ogni sorta di passioni, e ravvivando ogni sorta d'illusioni, ravvicinò la francia alla natura, spinse indietro l'incivilimento (del che si lagnano infatti i bravi filosofi monarchici), ritornò la francia allo stato di nazione e di patria (che aveva perduto sotto i re), rese, benchè momentaneamente, più severi i loro dissolutissimi costumi, aprì la strada al merito, sviluppò il desiderio, l'onore, la forza della virtù e dei sentimenti naturali; accese gli odi e ogni sorta di passioni vive, e in somma se non ricondusse la mezzana civiltà degli antichi, certo fece poco meno (quanto comportavano i tempi), e non ad altro si debbono attribuire quelle azioni dette barbare, di cui fu sì feconda  2335 allora la Francia. Nata dalla corruttela, la rivoluzione la stagnò per un momento, siccome fa la barbarie nata dall'eccessiva civiltà, che per vie stortissime, pure riconduce gli uomini più da presso alla natura. (6. Gen. dì dell'Epifania. 1822.).

[3797,1]  {Io noto che generalmente parlando,} le dette crudeltà ec. tanto sono {più} frequenti e maggiori, e le guerre tanto più feroci e continue e micidiali ec. quanto i popoli sono più vicini a natura. E astraendo dall'odio e dagli effetti suoi, non si troverà popolo alcuno {così} selvaggio, cioè così vicino a natura, nel quale se v'è società stretta, non regnino costumi, superstizioni ec. tanto più lontani e contrarii a natura quanto lo stato della lor società ne è più vicino, cioè più primitivo. Qual cosa più contraria a natura di quello che una specie {di animali} serva al mantenimento e cibo di se medesima? Altrettanto sarebbe aver destinato un animale a pascersi di se medesimo, distruggendo effettivamente quelle proprie parti di ch'ei si nutrisse. La natura ha destinato molte specie di animali a servir di cibo e sostentamento l'une all'altre, ma che un animale si pasca del suo simile, e ciò non per eccesso straordinario di fame, ma regolarmente, e che lo appetisca, e lo preferisca agli altri cibi; questa incredibile assurdità non si trova in altra specie che nell'umana. Nazioni intere, di costumi quasi primitive, se non che sono strette in una informe società, usano ordinariamente o usarono per secoli e secoli questo costume, e non pure verso i nemici, ma verso i compagni, i maggiori, i genitori vecchi, le mogli, i figli. {#1. L'antropofagia era e fu per lunghissimi secoli propria di forse tutti i popoli barbari e selvaggi d'America sì meridionale che settentrionale (escludo il paese comandato dagl'incas, i quali tolsero questa barbarie, e l'impero messicano e tutti i paesi un poco colti ec.) e lo è ancora di molti, e lo fu ed è di moltissimi altri popoli selvaggi affatto separati tra loro e dagli americani. L'antropofagia fu ben conosciuta da Plinio e dagli altri antichi ec. ec. E forse tutti i popoli ne' loro principii (cioè per lunghissimo tempo) furono antropofagi. v. p. 3811.} {{(Veggansi i luoghi citati nella pagina antecedente [p. 3795,2]).}}  3798 Le superstizioni, le vittime umane, anche di nazionali e compagni, immolate non per odio, ma per timore, come altrove s'è detto p. 2208 pp. 2388-89 pp. 2669-70 pp. 3641-43 , e poi per usanza; i nemici ancora immolati crudelissimamente agli Dei senza passione alcuna, ma per solo costume; il tormentare il mutilare ec. se stessi per vanità, per superstizione, per uso; l'abbruciarsi vive le mogli spontaneamente dopo le morti de' mariti; il seppellire uomini e donne vive insieme co' lor signori morti, come s'usava in moltissime parti dell'America meridionale; ec. ec. son cose notissime. Non v'è uso, o azione, o proprietà {o credenza} ec. tanto contraria alla natura che non abbia avuto o non abbia ancor luogo negli uomini riuniti in società. E sì i viaggi sì le storie tutte delle nazioni antiche dimostrano che quanto la società fu o è più vicina a' suoi principii, tanto la vita degl'individui e de' popoli fu o è più lontana e più contraria alla natura. Onde con ragione si considerano tutte le società primitive e principianti, come barbare, e così generalmente si chiamano, e tanto più barbare quanto più vicine a' principii loro. Nè mai si trovò, nè si trova, nè troverassi società, come si dice, di selvaggi, cioè primitiva, che non si chiami, e non sia veramente, o non fosse, affatto barbara e snaturata. (o vogliansi considerar quelle che mai non furon civili, o quelle che poscia il divennero, quelle che il sono al presente ec. ec.). Dalle quali osservazioni si deduce per cosa certa e incontrastabile che l'uomo non ha potuto arrivare a quello stato di società che or si considera come a lui conveniente e naturale, e come perfetto o manco  3799 imperfetto, se non passando per degli stati evidentemente contrarissimi alla natura. Sicchè se una nazione qualunque, si trova in quello stato di società che oggi si chiama buono, s'ella è o fu mai, come si dice, civile; si può con certezza affermare ch'ella fu, e per lunghissimo tempo, veramente barbara, cioè in uno stato contrario affatto alla natura, alla perfezione, alla felicità dell'uomo, ed anche all'ordine e all'analogia generale della natura. I primi passi che l'uomo fece o fa verso una società stretta lo conducono di salto in luogo così lontano dalla natura, e in uno stato così a lei contrario, che non senza il corso di lunghissimo tempo, e l'aiuto di moltissime circostanze e d'infinite casualità (e queste difficilissime ad accadere) ei si può ricondurre in uno stato, che non sia affatto contrario alla natura ec.

[3882,1]  Alla p. 3801. Sì nelle nazioni barbare o selvagge sì nelle civili, sì nelle corrotte ec. la società ha prodotto infiniti o costumi o casi {fatti ec.} particolari, {+volontari o involontarii ec.} che o niuno può negare esser contro la natura sì generale, sì nostra, contro il ben essere della specie, della società stessa ec. contro il ben essere eziandio delle altre creature che da noi dipendono ec.; ovvero se ciò si nega, ciò non viene che dall'assuefazione, e dall'esser quei costumi ec. nostri propri: onde dando noi del barbaro ai costumi e fatti d'altre nazioni e individui, ec. meno snaturati talora de' nostri, non lo diamo a questi ec. E generalmente noi chiamiamo barbaro quel ch'è diverso  3883 dalle nostre assuefazioni ec. non quel ch'è contro natura, in quanto e perciocch'egli è contro natura. Ma tornando al proposito, tali costumi o fatti snaturatissimi che senza la società non avrebbero mai avuto luogo, nè esempio alcuno in veruna delle specie dell'orbe terracqueo, hanno avuto {{ed hanno}} ed avranno sempre luogo in qualsivoglia società, selvaggia, civile, civilissima, barbara, dove e quando gli uni, quando gli altri, ma da per tutto cose snaturatissime. Il che vuol dire che la società gli ha prodotti, e che non potea e non può non produrli, cioè non produr costumi e fatti snaturati, e se non tali, tali, e se non questi, quelli, ma sempre ec. P. e. il suicidio, disordine contrario a tutta la natura intera, alle leggi fondamentali dell'esistenza, ai principii, alle basi dell'essere di tutte le cose, anche possibili; contraddizione ec. da che cosa è nato se non dalla società? ec. ec. {+V. p. 3894.} Ora in niuna specie d'animali, neanche la più socievole, si potrà trovare che abbiano mai nè mai avessero luogo non pur costumi, ma fatti particolari, non pur così snaturati come quelli degl'individui e popoli umani in qualunque società, ma molto meno. Eccetto solo qualche accidentalissimo disordine, o involontario, e quindi da non attribuirsi alla specie, o volontario, ma di volontà determinata da qualche straordinarissima circostanza e casualissima. E la somma di questi casi non sarà neppure in una intera specie, {+contando dal principio del mondo,} comparabile a quella de' casi di tal natura in una sola popolazione di uomini dentro un secolo,  3884 anzi talora dentro un anno. Questo prova bene che la naturale società ch'è tra gli animali non è causa di cose contrarie a natura per se medesima {e necessariamente,} ma per solo accidente, e il contrario circa la società umana. E si conferma che l'uomo è per natura molto men disposto a società {che} moltissimi altri animali ec. (14. Nov. 1823.).

[4172,8]  Et qui rit de nos moeurs ne fait que prévenir Ce qu'en doivent penser les siècles à venir. * M. de Rulière, Discours en vers sur les Disputes, rapporté par Voltaire Dict. phil. au mot Dispute.

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