Parodie o correzioni o applicazioni di sentenze antiche.
Parodies or corrections or applications of ancient maxims.
162,1 205,1 231,1 249,1 303,1-304,1 2451,1 2602,1 2680,1 3761,1 593,2[162,1] Racconta Diogene
Laerzio di Chilone
Lacedemonio il quale interrogato in che differissero i dotti
dagl'indotti, rispose, nelle buone speranze. (ἐλπίσιν ἀγαϑαῖς
*
). Io non so dire se
avesse riguardo alle cose di questo mondo o di una vita avvenire. Certamente
rispetto a quelle, oggidì avviene appunto il contrario. In che differisce
l'ignorante dal savio? Nella speranza.
[205,1]
Ossian prevedeva il deterioramento
degli uomini e della sua nazione. V.
Cesarotti osservazione ultima
al poemetto della guerra di Caroso. Ma certo quando egli diceva ec.
(v. gli ultimi versi d'esso
poemetto) non prevedeva che la generazione degl'imbelli si dovesse
chiamar civile, e barbara la sua, e le altre che la somigliarono.
[231,1]
231
Ἔλεγε δὲ
*
(Socrate) καὶ ἓν μόνον ἀγαθὸν εἶναι, τὴν ἐπιστήμην· καὶ ἓν μόνον
κακὸν, τὴν ἀμαθίαν
*
dice il Laer. in Socr. l. 2. segm.
31. Oggidì possiamo dire tutto l'opposto, e questa considerazione può
servire a definire la differenza che passa tra l'antica e la moderna
sapienza.
[249,1]
249 Gli Egesiaci (ramo della setta Cirenaica) dicevano
secondo il Laerzio (in Aristippo l. 2.
segm. 95.) τόν τε σοϕὸν ἑαυτοῦ ἕνεκα πὰντα
πράξειν
*
. Questa potrebb'esser la divisa di tutti i
sapienti moderni, in quanto sapienti.
[2451,1] Beato colui che pone i suoi desiderii, e si pasce e
si contenta de' piccoli diletti, e spera sempre da vantaggio, senza mai far
conto della propria esperienza in contrario, nè quanto al generale, nè quanto ai
particolari. E per conseguenza beati gli spiriti piccoli, o distratti, e poco
esercitati a riflettere. (30. Maggio 1822.).
[2602,1]
Ἔργα νέων, βουλαὶ
δὲ μέσων, εὺχαὶ δὲ γερόντων.
*
Verso di non so qual poeta
antico, applicabile {e proporzionabile} alle diverse
età del genere umano, come lo è qualunque cosa si possa dire intorno alle
diverse età dell'individuo. E infatti del secol nostro non è proprio altro che
il desiderio (eternamente
inseparabile dall'uomo {+anche il più
inetto, e debole, e inattivo e non curante;} per cagione dell'amor
proprio che spinge alla felicità, la qual mai non s'ottiene) e il lasciar fare.
(7. Agosto. 1822.).
[2680,1]
Plutarco
{nel principio} degl'insegnamenti civili, volgarizzamento
cit. di sopra, opusc. 15. t. 1. p. 403. Molto meno arieno ancora gli
2681 Spartani patito l'insolenza, e
buffonerie di Stratocle,
il quale avendo persuaso il popolo
*
(credo Ateniese, o
Tebano) a sacrificare come
vincitore; che poi sentito il vero della rotta si sdegnava, disse:
Qual ingiuria riceveste da me, che seppi tenervi in festa, ed
in gioja per ispazio di tre giorni?
*
Agli
Spartani si possono paragonate i filosofi, anzi questo secolo, anzi quasi tutti
gli uomini, avidi del sapere o della filosofia, e di scoprir le cose più
nascoste dalla natura, e per conseguenza di conoscere la propria infelicità, e
per conseguenza di sentirla, quando non l'avrebbero sentita mai o di sentirla
più presto. E la risposta di Stratocle starebbe molto bene in bocca de' poeti, de' musici, degli
antichi filosofi, della natura, delle illusioni medesime, di tutti quelli che
sono accusati d'avere introdotti o fomentati, d'introdurre o fomentare o
promuovere de' begli errori nel genere umano, o in qualche nazione o in qualche
individuo. Che danno recano essi se ci fanno godere, o se c'impediscono di
soffrire, per tre giorni? Che ingiuria ci fanno se ci nascondono quanto e mentre
possono la nostra miseria, o se in qualunque modo contribuiscono a fare che
l'ignoriamo o dimentichiamo? (5. Marzo. 1823.).
[3761,1] Si può applicare all'uomo in generale {avendo riguardo} alle illusioni e al modo in che la
natura ha supplito coi felici errori ec. alla felicità reale, anzi può
applicarsi ad ogni genere di viventi quel verso del Tasso (Gerus. 1. 3.)
E da l'inganno suo vita riceve. (23. Ott.
1823.).
[593,2]
Quid autem est horum in
voluptate? melioremne efficit, aut laudabiliorem virum? an quisquam in potiundis voluptatibus
gloriando sese, et praedicatione effert?
*
(Cic., Paradox.
1. c. 3. fine) Oggi sibbene, o M.
Tullio, nè c'è maggior gloria per la gioventù, nè scopo alla carriera
loro più brillantemente, manifestamente e concordemente proposto, nè mezzo di
ottener lode e stima più sicuro e comune, che quello
594
di seguire e conseguire le voluttà, ed abbondarne, e ciò più degli altri.
L'oggetto delle gare ed emulazioni della più florida parte della gioventù, non è
altro che la voluttà, e il trionfo e la gloria è di colui che ne conseguisce
maggior porzione, e che sa {e può} godere e immergersi
nei vili piaceri più degli altri. Le voluttà sono lo stadio della gioventù
presente: tanto che {già} non si cercano principalmente
per se stesse, ma per la gloria che ridonda dall'averle cercate e conseguite. E
se non di tutte le voluttà si può gloriare colui che le ottiene, in quel momento
medesimo, in cui le gode, (sebbene di moltissimi generi di voluttà accade {tuttogiorno} ancor questo) certo desidererebbe di
poterlo fare, di aver testimoni del suo godimento: anzi questo godimento
consiste per la massima parte nella considerazione e aspettativa del vanto che
gliene risulterà: e subito dopo, non ha maggior cura, che di divulgare e
vantarsi della voluttà provata; e questo anche a rischio di chiudersi l'adito a
nuove voluttà; e colla certezza di nuocere, tradire, essere
595 ingiusto e ingrato verso coloro onde ha ottenuta la voluttà che
cercava. E sebbene certamente neanche oggi la voluttà rende l'uomo migliore, lo
rende {però} più lodevole agli occhi della presente
generazone, il che tu o M. Tullio,
stimavi che non potesse avvenire. (1 Feb. 1821.).
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