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Suicidio.

Suicide.

183,3 273,2 484,1 503,1 829,2 1547,1 2241,1 2492,1 2549,1 3883

Suicidio. Anticamente più comune tra vecchi che tra giovani, oggi al contrario; e perchè.

Suicide. In antiquity it was more common among the old than among the young, today the reverse; and why.

2987,3

[183,3]  La speranza non abbandona mai l'uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano stoltamente quelli che dicono (gli autori della Morale universelle t. 3.) che il suicidio non possa seguire senza una specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla speranza ec. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice {e naturale,} ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare, e a vivere, ed è contrarissimo alla ragione, la quale ci mostra troppo chiaro che non v'è speranza nessuna per noi. (23. Luglio 1820.).

[273,2]  La maggior parte degli uomini vive per abito, senza piaceri, nè speranze formali, senza ragion sufficiente di conservarsi in vita, e di fare il necessario per sostenerla. Che se riflettessero, astraendo dalla religione, non troverebbero motivo di vivere, e contro natura, ma secondo ragione, conchiuderebbero che la vita loro è un assurdo, perchè l'aver cominciato a vivere, secondo natura sibbene, ma secondo ragione non è motivo giusto di continuare.

[484,1]  Non si è mai letto di nessun antico che si sia ucciso per noia della vita, laddove si legge di molti moderni, e v. il Suicidio ragionato di Buonafede. Nè perchè questo accade oggidì massimamente in Inghilterra, si creda che questo fosse comune in quel paese anche anticamente, senza che ne rimanga memoria. Dai poemi di Ossian si vede quanto gli antichi abitatori di quel paese fossero lontani dal concepire la nullità e noia necessaria della vita assolutamente; e molto più dal disperarsi e uccidersi per questo. Gli antichi Celti e gli altri antichi si uccidevano per disperazioni  485 nate da passioni e sventure, non mai considerate come inevitabili e necessarie assolutamente all'uomo, ma come proprie dell'individuo, perciò disgraziato e infelice, e disperantesi. La disperazione e scoraggimento della vita in genere, l'odio della vita come vita umana (non come individualmente e accidentalmente infelice), la miseria destinata e inevitabile alla nostra specie, la nullità e noia inerente ed essenziale alla nostra vita, in somma l'idea che la vita nostra per se stessa non sia un bene, ma un peso e un male, non è mai entrata in intelletto antico, nè in intelletto umano avanti questi ultimi secoli. Anzi gli antichi si uccidevano o disperavano appunto per l'opinione e la persuasione di non potere, a causa di sventure individuali, conseguire e godere quei beni ch'essi stimavano ch'esistessero. (10. Gen. 1821.).

[503,1]  In luogo che un'anima grande ceda alla necessità, non è forse cosa che tanto la conduca all'odio atroce, dichiarato, e selvaggio contro se stessa, e la vita, quanto la considerazione della necessità e irreparabilità de' suoi mali, infelicità, disgrazie  504 ec. Soltanto l'uomo vile, o debole, o non costante, o senza forza di passioni, sia per natura, sia per abito, sia per lungo uso ed esercizio di sventure e patimenti, ed esperienza delle cose e della natura del mondo, che l'abbia domato e mansuefatto; soltanto costoro cedono alla necessità, e se ne fanno anzi un conforto nelle sventure, dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare e combatterla ec. Ma gli antichi, sempre più grandi, magnanimi, e forti di noi, nell'eccesso delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato, e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, nè ammansati, nè meno, anzi tanto più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore. Di ciò si hanno molti esempi nelle storie. Il fatto di Giuliano moribondo, non so se sia storia o favola. Di Niobe, dopo la sua sventura,  505 si racconta, se non fallo, come bestemmiava gli Dei, e si professava vinta, ma non cedente. Noi che non riconosciamo nè fortuna nè destino, nè forza alcuna di necessità personificata che ci costringa, non abbiamo altra persona da rivolger l'odio e il furore (se siamo magnanimi, e costanti, e incapaci di cedere) fuori di noi stessi; e quindi concepiamo contro la nostra persona un odio veramente micidiale, come del più feroce e capitale nemico, e ci compiaciamo nell'idea della morte volontaria, dello strazio di noi stessi, della medesima infelicità che ci opprime, e che arriviamo a desiderarci anche maggiore, come nell'idea della vendetta, contro un oggetto di odio e di rabbia somma. Io ogni volta che mi persuadeva della necessità e perpetuità del mio stato infelice, e che volgendomi disperatamente e freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio possibile, nè speranza nessuna; in luogo di cedere, o di consolarmi colla considerazione dell'impossibile, e della necessità indipendente da me,  506 concepiva un odio furioso di me stesso, giacchè l'infelicità ch'io odiava non risiedeva se non in me stesso; io dunque era il solo soggetto possibile dell'odio, non avendo nè riconoscendo esternamente altra persona colla quale potessi irritarmi de' miei mali, e quindi altro soggetto capace di essere odiato per questo motivo. Concepiva un desiderio ardente di vendicarmi sopra me stesso e colla mia vita della mia necessaria infelicità inseparabile dall'esistenza mia, e provava una gioia feroce ma somma nell'idea del suicidio. L'immobilità delle cose contrastando colla immobilità mia; nell'urto, non essendo io capace di cedere, ammollirmi e piegare; molto meno le cose; la vittima di questa battaglia non poteva essere se non io. Oggidì (eccetto nei mali derivati dagli uomini) non si riconosce persona colpevole delle nostre miserie, o tale che la Religione c'impedisce in tutti i modi di creder colpevole, e quindi degna di odio. Tuttavia anche nella Religione di oggidì, l'eccesso dell'infelicità indipendente  507 dagli uomini e dalle persone visibili, spinge talvolta all'odio e alle bestemmie degli enti invisibili e Superiori: e questo, tanto più quanto più l'uomo (per altra parte costante e magnanimo) è credente e religioso. Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita ec. (15. Gen. 1821.).

[829,2]  Desiderar la vita, in qualunque caso, e in tutta l'estensione di questo desiderio,  830 non è insomma altro che desiderare l'infelicità; desiderar di vivere è quanto desiderare di essere infelice. (20. Marzo 1821.)

[1547,1]  Osservate quell'uomo disperatissimo di tutta quanta la vita, disingannatissimo d'ogni illusione, e sul punto di uccidersi. Che cosa credete voi ch'egli pensi? pensa che la sua morte sarà o compianta, o ammirata, o desterà spavento, o farà conoscere il suo coraggio, a' parenti, agli amici, a' conoscenti, a' cittadini; che si discorrerà di lui, se non altro per qualche istante con un sentimento straordinario; che le menti si esalteranno almeno di un grado sul di lui  1548 conto; che la sua morte farà detestare i suoi nemici, l'amante infedele ec. o li deluderà ec. ec. Credete voi ch'egli non tema? egli teme, (sia pur leggerissimamente) che queste speranze non abbiano effetto. Io son certissimo che nessun uomo è morto in mezzo a qualche società senza queste speranze e questi timori, più o meno sensibili; e dico morto, non solo volontariamente, ma in qualche modo. {+E s'egli è mai vissuto nella società ec. morendo anche nel deserto, e quivi anche di sua mano, spera (sia pur lontanissimamente) che la sua morte quando che sia verrà conosciuta ec. V. p. 1551.} Tanto è lungi dal vero che la speranza o il desiderio possano mai abbandonare un essere che non esiste se non per amarsi, e proccurare il suo bene, e se non quanto si ama. (22. Agos. 1821.).

[2241,1]  Se la natura è oggi fatta impotente a felicitarci, perchè ha perduto il suo regno su di noi, perchè dev'ella essere ancora potente ad interdirci l'uscita da quella infelicità che non viene da lei, non dipende da lei, non ubbidisce a lei, non può rimediarsi se non colla morte? S'ella non è più l'arbitro nè la regola della nostra vita, perchè dev'esserlo della nostra morte? Se il suo fine è la felicità degli esseri, e questo è perduto per noi vivendo, non ubbidisce meglio alla natura, non  2242 proccura meglio il di lei scopo chi si libera {colla morte} dall'infelicità altrimenti inevitabile, di chi s'astiene di farlo, osservando il divieto naturale, che non vivendo noi più naturalmente, nè potendo più godere della felicità prescrittaci dalla natura, manca ora affatto del suo fondamento? (10. Dic. 1821.).

[2492,1]  Intorno al suicidio. È cosa assurda che secondo i filosofi e secondo i teologi, si possa e si debba viver contro natura (anzi non sia lecito viver secondo natura) e non si possa morir contro natura. E che sia lecito d'essere infelice contro natura (che non avea fatto l'uomo infelice), e non sia lecito di liberarsi dalla infelicità in un modo contro natura, essendo questo l'unico possibile, dopo che noi siamo ridotti così lontani da essa natura, e così irreparabilmente. (23. Giugno. 1822.).

[2549,1]  La quistione se il suicidio giovi o non giovi all'uomo (al che si riduce il sapere se sia o no ragionevole e preeleggibile), si ristringe in questi puri termini. Qual delle due cose è la migliore, il patire o il non patire? Quanto al piacere è cosa certa,  2550 immutabile e perpetua che l'uomo in qualunque condizione della vita, anche felicissima secondo il linguaggio comune, non lo può provare, giacchè, come ho dimostrato altrove pp. 532-35 pp. 646-50, il piacere è sempre futuro, e non mai presente. E come, per conseguenza, ciascun uomo dev'essere fisicamente certo di non provar mai piacere alcuno in sua vita, così anche ciascuno dev'esser certo di non passar giorno senza patimento, e la massima parte degli uomini è certa di non passar giorno senza patimenti molti e gravi, ed alcuni son certi di non passarne senza lunghissimi e gravissimi (che sono i così detti infelici; poveri, malati insanabili, ec. ec.). Ora io torno a dimandare qual cosa sia migliore, se il patire o il non patire. Certo il godere, fors'anche il godere e patire sarebbe meglio del semplice non patire, {+(giacchè la natura e l'amor proprio ci spinge e trasporta tanto verso il godere, che c'è più grato il godere e patire, del non essere e non patire, e non essendo non poter godere)} ma il godere essendo impossibile all'uomo, resta escluso necessariamente e per natura  2551 da tutta la quistione. E si conchiude ch'essendo all'uomo più giovevole il non patire che il patire, e non potendo vivere senza patire, è matematicamente vero e certo che l'assoluto non essere giova e conviene all'uomo più dell'essere. E che l'essere nuoce precisamente all'uomo. E però chiunque vive (tolta la religione), vive per puro e formale error di calcolo: intendo il calcolo delle utilità. Errore moltiplicato tante volte quanti sono gl'istanti della nostra vita, in ciascuno de' quali noi preferiamo il vivere al non vivere. E lo preferiamo col fatto non meno che coll'intenzione, col desiderio, e col discorso più o meno espresso, più o meno tacito ed implicito della nostra mente. Effetto dell'amor proprio ingannato come in tante altre cattive elezioni ch'egli fa considerandole sotto l'aspetto di bene, e del massimo bene che gli convenga in quelle tali circostanze.

[3882,1]  Alla p. 3801. Sì nelle nazioni barbare o selvagge sì nelle civili, sì nelle corrotte ec. la società ha prodotto infiniti o costumi o casi {fatti ec.} particolari, {+volontari o involontarii ec.} che o niuno può negare esser contro la natura sì generale, sì nostra, contro il ben essere della specie, della società stessa ec. contro il ben essere eziandio delle altre creature che da noi dipendono ec.; ovvero se ciò si nega, ciò non viene che dall'assuefazione, e dall'esser quei costumi ec. nostri propri: onde dando noi del barbaro ai costumi e fatti d'altre nazioni e individui, ec. meno snaturati talora de' nostri, non lo diamo a questi ec. E generalmente noi chiamiamo barbaro quel ch'è diverso  3883 dalle nostre assuefazioni ec. non quel ch'è contro natura, in quanto e perciocch'egli è contro natura. Ma tornando al proposito, tali costumi o fatti snaturatissimi che senza la società non avrebbero mai avuto luogo, nè esempio alcuno in veruna delle specie dell'orbe terracqueo, hanno avuto {{ed hanno}} ed avranno sempre luogo in qualsivoglia società, selvaggia, civile, civilissima, barbara, dove e quando gli uni, quando gli altri, ma da per tutto cose snaturatissime. Il che vuol dire che la società gli ha prodotti, e che non potea e non può non produrli, cioè non produr costumi e fatti snaturati, e se non tali, tali, e se non questi, quelli, ma sempre ec. P. e. il suicidio, disordine contrario a tutta la natura intera, alle leggi fondamentali dell'esistenza, ai principii, alle basi dell'essere di tutte le cose, anche possibili; contraddizione ec. da che cosa è nato se non dalla società? ec. ec. {+V. p. 3894.} Ora in niuna specie d'animali, neanche la più socievole, si potrà trovare che abbiano mai nè mai avessero luogo non pur costumi, ma fatti particolari, non pur così snaturati come quelli degl'individui e popoli umani in qualunque società, ma molto meno. Eccetto solo qualche accidentalissimo disordine, o involontario, e quindi da non attribuirsi alla specie, o volontario, ma di volontà determinata da qualche straordinarissima circostanza e casualissima. E la somma di questi casi non sarà neppure in una intera specie, {+contando dal principio del mondo,} comparabile a quella de' casi di tal natura in una sola popolazione di uomini dentro un secolo,  3884 anzi talora dentro un anno. Questo prova bene che la naturale società ch'è tra gli animali non è causa di cose contrarie a natura per se medesima {e necessariamente,} ma per solo accidente, e il contrario circa la società umana. E si conferma che l'uomo è per natura molto men disposto a società {che} moltissimi altri animali ec. (14. Nov. 1823.).

[2987,3]  La gioventù non era fra gli antichi un bene inutile, e un vantaggio di cui niun frutto si potesse cavare, nè la vecchiezza era uno incomodo e uno  2988 svantaggio che niun bene, {niun comodo,} niun godimento togliesse, e niuna privazione recasse seco. Quindi e molto meno frequente che a' tempi nostri era il numero di quelli che in gioventù si uccidevano, e molti più vecchi suicidi si trovano commemorati nell'antichità che non si veggono al presente. Come dire Pomponio Attico e molti filosofi greci e romani. Perocchè al presente le contrarie cagioni producono effetto contrario. Il giovane moltissimo desidera e nulla ha, neppure ha come distrarre, divertire, ingannare il suo desiderio, e occupare la sua forza vitale, adoperarla, sfogarla. Quindi più giovani suicidi oggidì che fra gli antichi non pur giovani solamente, ma giovani e vecchi insieme. Il vecchio nulla perde per la vecchiezza, e poco, o meno ferventemente e impetuosamente e smaniosamente, desidera. Quindi è così raro un vecchio suicida oggidì, che parrebbe quasi miracolo. E pure il giovane che si uccide, privasi della gioventù, e rinunzia a una vita, ch'ei si può ancora promettere,  2989 di molti anni. Il vecchio si priva della vecchiezza (qual privazione Dio buono) e rinunzia a pochi anni o mesi di vita. Nonpertanto per mille giovani suicidi appena e forse neanche si troverà oggi un solo vecchio suicida, e questo, se pur si troverà, sarà forse tale per qualche estrema disgrazia, in qualche caso ove la vita fosse già disperata, e per salvarsi da una morte più trista, e sicura. Ma neanche nell'estreme sventure è costume de nostri vecchi il ricorrere volontariamente alla morte. Applicate queste considerazioni a quello che ho detto altrove p. 294 p. 2643 circa l'amor della vita nei vecchi, l'amore e la cura della vita crescenti in proporzione che per l'aumento dell'età scema il valore d'essa vita. (18. Luglio 1823.).