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[814,1]  La nostra condizione oggidì è peggiore di quella de' bruti anche per questa parte. Nessun bruto desidera certamente la fine della sua vita, nessuno per infelice che possa essere, o pensa a torsi dalla infelicità colla morte, o avrebbe il coraggio di proccurarsela. La natura che in loro conserva tutta la sua primitiva forza, li tiene ben lontani da tutto ciò. Ma se {qualcuno di} essi potesse desiderar mai di morire, nessuna cosa gl'impedirebbe questo desiderio. Noi siamo del tutto alienati dalla natura, e quindi infelicissimi. Noi desideriamo bene spesso la morte, e ardentemente, e come unico evidente e calcolato rimedio delle nostre infelicità, in maniera che noi la desideriamo spesso; e con {piena} ragione, e siamo costretti a desiderarla  815 e considerarla come il sommo nostro bene. Ora stando così la cosa ed essendo noi ridotti a questo punto, e non per errore, ma per forza di verità, qual maggior miseria che il trovarsi impediti di morire, e di conseguire quel bene che siccome {è} sommo, così d'altra parte sarebbe intieramente in nostra mano; impediti, dico, o dalla Religione, o dall'inespugnabile, invincibile, inesorabile, inevitabile incertezza della nostra origine, destino, ultimo fine, e di quello che ci possa attendere dopo la morte? Io so bene che la natura ripugna con tutte le sue forze al suicidio, so che questo rompe tutte le di lei leggi più gravemente che qualunque altra colpa umana; ma da che la natura è del tutto alterata, da che la nostra vita ha cessato di esser naturale, da che la felicità che la natura ci avea destinata è fuggita per sempre, e noi siam fatti incurabilmente infelici, da che quel desiderio della morte, che non dovevamo mai, secondo natura, neppur concepire, in dispetto della natura, e per forza di ragione, s'è anzi impossessato di noi;  816 perchè questa stessa ragione c'impedisce di soddisfarlo, e di riparare nell'unico modo possibile ai danni ch'ella stessa e sola ci ha fatti? Se il nostro stato è cambiato, se le leggi stabilite dalla natura non hanno più forza su di noi, perchè non seguendole in nessuna di quelle cose dov'elle ci avrebbero giovato e felicitato, dobbiamo seguirle in quella dove oggidì ci nocciono, e sommamente? Perchè dopo che la ragione ha combattuta e sconfitta la natura per farci infelici, stringe poi seco alleanza, per porre il colmo all'infelicità nostra, coll'impedirci di condurla a quel fine che sarebbe in nostra mano? Perchè la ragione va d'accordo colla natura in questo solo, che forma l'estremo delle nostre disgrazie? La ripugnanza naturale alla morte è distrutta negli estremamente infelici, quasi del tutto. Perchè dunque debbono astenersi dal morire per ubbidienza alla natura? Il fatto è questo. Se la Religione non è vera, s'ella non è se non un'idea concepita dalla  817 nostra misera ragione, quest'idea è la più barbara cosa che possa esser nata nella mente dell'uomo: è il parto mostruoso della ragione il più spietato; è il massimo dei danni di questa nostra capitale nemica, dico la ragione, la quale avendo scancellate dalla mente dall'immaginativa e dal cuor nostro tutte le illusioni che ci avrebbero fatti e ci faceano beati; questa sola ne conserva, questa sola non potrà mai cancellare se non con un intiero dubbio (che è tutt'uno, e ragionevolmente deve produrre in tutta la vita umana gli stessi effetti nè più nè meno che la certezza), questa sola che mette il colmo alla disperata disperazione dell'infelice. La nostra sventura {il nostro fato} ci fa miseri, ma non ci toglie, anzi ci lascia nelle mani il finir la miseria nostra quando ci piaccia. L'idea della religione ce lo vieta, e ce lo vieta inesorabilmente, e irrimediabilmente, perchè nata una volta quest'idea nella mente nostra, come  818 accertarsi che sia falsa? e anche nel menomo dubbio come arrischiare l'infinito contro il finito? Non è mai paragonabile la sproporzione che è tra il dubbio e il certo con quella che è tra l'infinito e il finito, ancorchè questo certo, e quello quanto si voglia dubbio. Così che siccome l'infelicità per quanto sia grave, nondimeno si misura principalmente dalla durata, essendo sempre piccola cosa quella che può durare, volendo, un momento solo, e di più servendo infinitamente ad alleggerire qualunque male il saper di certo ch'è in nostra mano il sottrarcene ogni volta che ci piaccia; così possiamo dire che oggi in ultima analisi la cagione della infelicità dell'uomo misero, ma non istupido nè codardo, è l'idea della Religione, e che questa, se non è vera, è finalmente il più gran male dell'uomo, e il sommo danno che gli abbiano fatto le sue disgraziate ricerche {e ragionamenti e meditazioni;} o i suoi pregiudizi. (19. Marzo 1821.).

[1978,1]  Il suicidio è contro natura. Ma viviamo noi secondo natura? Non l'abbiamo al tutto abbandonata per seguir la ragione? Non siamo animali ragionevoli, cioè diversissimi dai naturali? La ragione non ci mostra ad  1979 evidenza l'utilità di morire? Desidereremmo noi di ucciderci, se non conoscessimo altro movente, altro maestro della vita che la natura, e se fossimo ancora, come già fummo, nello stato naturale? Perchè dunque dovendo vivere contro natura, non possiamo morire contro natura? perchè se quello è ragionevole, questo non lo è? perchè se la ragione ci ha da esser maestra della vita, l'ha da determinare, regolare, predominare, non l'ha da essere, non può far altrettanto della morte? Misuriamo noi il bene o il male delle nostre azioni dalla natura? no ma dalla ragione. Perchè tutte le altre dalla ragione, e questa dalla natura?

[2241,1]  Se la natura è oggi fatta impotente a felicitarci, perchè ha perduto il suo regno su di noi, perchè dev'ella essere ancora potente ad interdirci l'uscita da quella infelicità che non viene da lei, non dipende da lei, non ubbidisce a lei, non può rimediarsi se non colla morte? S'ella non è più l'arbitro nè la regola della nostra vita, perchè dev'esserlo della nostra morte? Se il suo fine è la felicità degli esseri, e questo è perduto per noi vivendo, non ubbidisce meglio alla natura, non  2242 proccura meglio il di lei scopo chi si libera {colla morte} dall'infelicità altrimenti inevitabile, di chi s'astiene di farlo, osservando il divieto naturale, che non vivendo noi più naturalmente, nè potendo più godere della felicità prescrittaci dalla natura, manca ora affatto del suo fondamento? (10. Dic. 1821.).

[2402,3]  La natura vieta il suicidio. Qual natura? Questa nostra presente? Noi siamo di tutt'altra natura da quella ch'eravamo. Paragoniamoci colle nazioni naturali, e vediamo se quegli uomini si possono stimare d'una stessa razza con noi. Paragoniamoci con noi medesimi fanciulli, e avremo lo stesso risultato. L'assuefazione è una seconda natura, massime l'assuefazione così radicata, così lunga, e cominciata in sì tenera età, com'è quell'assuefazione (composta d'assuefazioni infinite e diversissime) che ci fa esser tutt'altri che uomini naturali, o conformi alla prima natura dell'uomo, e alla natura generale degli esseri terrestri.  2403 Basti dire che volendo con ogni massimo sforzo rimetterci nello stato naturale, non potremmo, nè quanto al fisico, che non lo sopporterebbe in verun modo, nè posto che si potesse quanto al fisico ed esternamente, si potrebbe quanto al morale ed internamente; il che viene ad esser tutt'uno, non potendo noi esser più partecipi della felicità destinata all'uomo naturalmente, perchè l'interno nostro, che è la parte principale di noi, non può tornar qual era, per nessuna cagione o arte. Che ha dunque a fare in questa quistione del suicidio, e in ogni altra cosa che ci appartenga, la legge o l'inclinazione di una natura, che non solo non è nostra, ma anche volendo noi e proccurandolo per ogni verso, non potrebbe più essere? Il punto dunque sta qual sia l'inclinazione e il desiderio di questa seconda natura, ch'è veramente nostra e presente. E questa invece d'opporsi al suicidio, non può far che non lo consigli, e non lo brami intensamente: perchè anch'ella odia soprattutto l'infelicità, e sente che non la può fuggire se non colla morte, e non tollera che la tardanza di questa allunghi i suoi patimenti.  2404 Dunque la vera natura nostra, che non abbiamo da far niente cogli uomini del tempo di Adamo, permette, anzi richiede il suicidio. Se la nostra natura, fosse la prima natura umana, non saremmo infelici, e questo inevitabilmente, e irrimediabilmente; e non desidereremmo, anzi abborriremmo la morte. (29. Aprile, 1822.). {+La natura nostra presente è appresso a poco la ragione. La quale anch'essa odia l'infelicità. E non v'è ragionamento umano che non persuada il suicidio, cioè piuttosto di non essere, che di essere infelice. E noi seguiamo la ragione in tutt'altro, e crederemmo di mancare al dover di uomo facendo altrimenti.}

[2492,1]  Intorno al suicidio. È cosa assurda che secondo i filosofi e secondo i teologi, si possa e si debba viver contro natura (anzi non sia lecito viver secondo natura) e non si possa morir contro natura. E che sia lecito d'essere infelice contro natura (che non avea fatto l'uomo infelice), e non sia lecito di liberarsi dalla infelicità in un modo contro natura, essendo questo l'unico possibile, dopo che noi siamo ridotti così lontani da essa natura, e così irreparabilmente. (23. Giugno. 1822.).

[2549,1]  La quistione se il suicidio giovi o non giovi all'uomo (al che si riduce il sapere se sia o no ragionevole e preeleggibile), si ristringe in questi puri termini. Qual delle due cose è la migliore, il patire o il non patire? Quanto al piacere è cosa certa,  2550 immutabile e perpetua che l'uomo in qualunque condizione della vita, anche felicissima secondo il linguaggio comune, non lo può provare, giacchè, come ho dimostrato altrove pp. 532-35 pp. 646-50, il piacere è sempre futuro, e non mai presente. E come, per conseguenza, ciascun uomo dev'essere fisicamente certo di non provar mai piacere alcuno in sua vita, così anche ciascuno dev'esser certo di non passar giorno senza patimento, e la massima parte degli uomini è certa di non passar giorno senza patimenti molti e gravi, ed alcuni son certi di non passarne senza lunghissimi e gravissimi (che sono i così detti infelici; poveri, malati insanabili, ec. ec.). Ora io torno a dimandare qual cosa sia migliore, se il patire o il non patire. Certo il godere, fors'anche il godere e patire sarebbe meglio del semplice non patire, {+(giacchè la natura e l'amor proprio ci spinge e trasporta tanto verso il godere, che c'è più grato il godere e patire, del non essere e non patire, e non essendo non poter godere)} ma il godere essendo impossibile all'uomo, resta escluso necessariamente e per natura  2551 da tutta la quistione. E si conchiude ch'essendo all'uomo più giovevole il non patire che il patire, e non potendo vivere senza patire, è matematicamente vero e certo che l'assoluto non essere giova e conviene all'uomo più dell'essere. E che l'essere nuoce precisamente all'uomo. E però chiunque vive (tolta la religione), vive per puro e formale error di calcolo: intendo il calcolo delle utilità. Errore moltiplicato tante volte quanti sono gl'istanti della nostra vita, in ciascuno de' quali noi preferiamo il vivere al non vivere. E lo preferiamo col fatto non meno che coll'intenzione, col desiderio, e col discorso più o meno espresso, più o meno tacito ed implicito della nostra mente. Effetto dell'amor proprio ingannato come in tante altre cattive elezioni ch'egli fa considerandole sotto l'aspetto di bene, e del massimo bene che gli convenga in quelle tali circostanze.

[57,5]  Di alcuni principi che si sieno uccisi per evitare qualche grande sventura o per non saperne sopportare qualcuna già sopraggiunta loro, si legge, come di Cleopatra Mitridate ec. e più, anzi forse solamente fra gli antichi. Ma di quelli che si sieno uccisi per le altre cagioni che producono ora il suicidio, come la malinconia l'amore ec. non si legge ch'io sappia in nessuna storia. Eppure lo scontento della vita e la noia e la disperazione dovrebb'essere tanto maggiore in loro  58 che negli altri, in quanto questi possono supporre se non colla ragione (la quale è ben persuasa del contrario) almeno coll'immaginazione (che non si persuade mai) che ci sia uno stato miglior del loro, ma quelli già nell'apice dell'umana felicità, trovandola vana anzi miserabilissima, non possono più ricorrere neppur col pensiero in nessun luogo, arrivati per così dire al confine e al muro, e quindi dovrebbono guardar questa vita come abitazione veramente orribile per ogni parte e disperata, se già i loro desideri non si volgono ai gradi e condizioni inferiori, ovvero a quei miserabili accrescimenti di felicità che un principe si può sognare, come conquiste ec.

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