19. Marzo 1821.
[814,1] La nostra condizione oggidì è peggiore di quella de'
bruti anche per questa parte. Nessun bruto desidera certamente la fine della sua
vita, nessuno per infelice che possa essere, o pensa a torsi dalla infelicità
colla morte, o avrebbe il coraggio di proccurarsela. La natura che in loro
conserva tutta la sua primitiva forza, li tiene ben lontani da tutto ciò. Ma se
{qualcuno di} essi potesse desiderar mai di morire,
nessuna cosa gl'impedirebbe questo desiderio. Noi siamo del tutto alienati dalla
natura, e quindi infelicissimi. Noi desideriamo bene spesso la morte, e
ardentemente, e come unico evidente e calcolato rimedio delle nostre infelicità,
in maniera che noi la desideriamo spesso; e con {piena}
ragione, e siamo costretti a desiderarla
815 e
considerarla come il sommo nostro bene. Ora stando così la cosa ed essendo noi
ridotti a questo punto, e non per errore, ma per forza di verità, qual maggior
miseria che il trovarsi impediti di morire, e di conseguire quel bene che
siccome {è} sommo, così d'altra parte sarebbe
intieramente in nostra mano; impediti, dico, o dalla Religione, o
dall'inespugnabile, invincibile, inesorabile, inevitabile incertezza della
nostra origine, destino, ultimo fine, e di quello che ci possa attendere dopo la
morte? Io so bene che la natura ripugna con tutte le sue forze al suicidio, so
che questo rompe tutte le di lei leggi più gravemente che qualunque altra colpa
umana; ma da che la natura è del tutto alterata, da che la nostra vita ha
cessato di esser naturale, da che la felicità che la natura ci avea destinata è
fuggita per sempre, e noi siam fatti incurabilmente infelici, da che quel
desiderio della morte, che non dovevamo mai, secondo natura, neppur concepire,
in dispetto della natura, e per forza di ragione, s'è anzi impossessato di noi;
816 perchè questa stessa ragione c'impedisce di
soddisfarlo, e di riparare nell'unico modo possibile ai danni ch'ella stessa e
sola ci ha fatti? Se il nostro stato è cambiato, se le leggi stabilite dalla
natura non hanno più forza su di noi, perchè non seguendole in nessuna di quelle
cose dov'elle ci avrebbero giovato e felicitato, dobbiamo seguirle in quella
dove oggidì ci nocciono, e sommamente? Perchè dopo che la ragione ha combattuta
e sconfitta la natura per farci infelici, stringe poi seco alleanza, per porre
il colmo all'infelicità nostra, coll'impedirci di condurla a quel fine che
sarebbe in nostra mano? Perchè la ragione va d'accordo colla natura in questo
solo, che forma l'estremo delle nostre disgrazie? La ripugnanza naturale alla
morte è distrutta negli estremamente infelici, quasi del tutto. Perchè dunque
debbono astenersi dal morire per ubbidienza alla natura? Il fatto è questo. Se
la Religione non è vera, s'ella non è se non un'idea concepita dalla
817 nostra misera ragione, quest'idea è la più barbara
cosa che possa esser nata nella mente dell'uomo: è il parto mostruoso della
ragione il più spietato; è il massimo dei danni di questa nostra capitale
nemica, dico la ragione, la quale avendo scancellate dalla mente
dall'immaginativa e dal cuor nostro tutte le illusioni che ci avrebbero fatti e
ci faceano beati; questa sola ne conserva, questa sola non potrà mai cancellare
se non con un intiero dubbio (che è tutt'uno, e ragionevolmente deve produrre in
tutta la vita umana gli stessi effetti nè più nè meno che la certezza), questa
sola che mette il colmo alla disperata disperazione dell'infelice. La nostra
sventura {il nostro fato} ci fa miseri, ma non ci
toglie, anzi ci lascia nelle mani il finir la miseria nostra quando ci piaccia.
L'idea della religione ce lo vieta, e ce lo vieta inesorabilmente, e
irrimediabilmente, perchè nata una volta quest'idea nella mente nostra, come
818 accertarsi che sia falsa? e anche nel menomo dubbio
come arrischiare l'infinito contro il finito? Non è mai paragonabile la
sproporzione che è tra il dubbio e il certo con quella che è tra l'infinito e il
finito, ancorchè questo certo, e quello quanto si voglia dubbio. Così che
siccome l'infelicità per quanto sia grave, nondimeno si misura principalmente
dalla durata, essendo sempre piccola cosa quella che può durare, volendo, un
momento solo, e di più servendo infinitamente ad alleggerire qualunque male il
saper di certo ch'è in nostra mano il sottrarcene ogni volta che ci piaccia;
così possiamo dire che oggi in ultima analisi la cagione della infelicità
dell'uomo misero, ma non istupido nè codardo, è l'idea della Religione, e che
questa, se non è vera, è finalmente il più gran male dell'uomo, e il sommo danno
che gli abbiano fatto le sue disgraziate ricerche {e
ragionamenti e meditazioni;} o i suoi pregiudizi. (19. Marzo
1821.).