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20. Marzo 1821.

[826,1]  An censes (ut de me ipso aliquid more senum glorier) me tantos labores diurnos nocturnosque domi militiaeque suscepturum fuisse, si iisdem finibus gloriam meam, quibus vitam, essem terminaturus? nonne melius multo fuisset, otiosam aetatem, et quietam, sine ullo labore et contentione traducere? sed, nescio quomodo, animus erigens se, posteritatem semper {ita} prospiciebat, quasi, cum excessisset e vita, tum denique victurus esset; quod quidem ni ita se haberet, ut animi immortales essent, haud optimi cuiusque animus maxime ad immortalitem[immortalitatem] gloriae niteretur. * Catone maggiore appresso Cic. Cato maior seu de Senect. c. ult. 23. Tanto è vero che il piacere è sempre futuro, e non mai presente, come ho detto in altri pensieri pp. 532-35 p. 648. Con la quale osservazione io spiego questo che Cicerone dice, e quello che vediamo negli uomini di certa fruttuosa ambizione; dico quella speranza riposta  827 nella posterità, quel riguardare, quel proporsi per fine delle azioni dei desideri delle speranze nostre la lode ec. di coloro che verranno dopo di noi. L'uomo da principio desidera il piacer della gloria nella sua vita, cioè presso a' contemporanei. Ottenutala, anche interissima e somma, sperimentato che questo che si credeva piacere, non solo è inferiore alla speranza (quando anche la gloria in effetto fosse stata maggiore della speranza), ma non piacere, e trovatosi non solo non soddisfatto, ma come non avendo ottenuto nulla, e come se il suo fine restasse ancora da conseguire (cioè il piacere, infatti non ottenuto, perchè non è mai se non futuro, non mai presente); allora l'animo suo erigens se quasi fuori di questa vita, posteritatem respicit, come che dopo morte tum denique victurus sit, cioè debba conseguire il fine, il complemento essenziale della vita, che è la felicità, vale a dire il piacere, non conseguito ancora, e già troppo evidentemente non conseguibile da lui in questa vita; allora la speranza del piacere, non avendo  828 più luogo dove posarsi, nè oggetto al quale indirizzarsi dentro a' confini di questa vita, passa finalmente al di là, e si ferma ne' posteri, sperando {l'uomo} da loro e dopo morte quel piacere, che vede sempre fuggire, sempre ritrarsi, sempre impossibile e disperato di conseguire, di afferrare in questa vita. E si riduce l'uomo a questo estremo, perchè come il fine della vita è la felicità, e questa qui non si può conseguire, ma d'altra parte una cosa non può mancare di tendere al suo fine necessario, e mancherebbe se mancasse del tutto la speranza, così questa non trovando più dimora in questa vita arriva finalmente a collocarsi al di là di lei, colla illusione della posterità. Illusione appunto più comune negli uomini grandi, perchè laddove gli altri, conoscendo meno le cose, o ragionando meno, ed essendo meno conseguenti, dopo infiniti parziali disinganni e delusioni, continuano pure a sperare dentro i limiti della lor vita; essi al contrario ben persuasi, e ben presto, cioè con poche esperienze, disperati dell'attuale e vero piacere in questa vita, e d'altronde  829 bisognosi di scopo, e quindi della speranza di conseguirlo, e spronati pure dall'animo alle grandi azioni, ripongono il loro scopo, e speranza, al di là dell'esistenza, e si sostentano con questa ultima illusione. Quantunque non solo dopo morte o non saremo capaci di felicità nessuna, o di tutt'altra da quella che possa derivare dai posteri; ma quando anche fossimo {allora} tanto capaci di godere della fama nostra appo i futuri, quanto siamo ora di quella appo i contemporanei, quella fama (durando le stesse condizioni dell'animo nostro e del piacere) ci riuscirebbe, siccome questa presente, del tutto insipida, e vuota, e incapace di soddisfare, e proccurare un piacere altro che futuro, dico un piacere attuale e presente. (20. Marzo 1821.). {Applicate questi pensieri alla speranza di felicità futura in un altro mondo.}