Cristianesimo, ha peggiorato i costumi.
Christianity, has made customs worse.
80,32 132,1 898,segg 2481,3 2492,2Cristianesimo. Insegna la nullità della vita e delle cose umane, a differenza delle religioni antiche.
Christianity. Teaches the nullity of life and of human things, unlike ancient religions.
105,1 116,2 131,2 253,1 254,1 453,2 1364,1 4208,1Cristianesimo. Ha prodotto l'ateismo.
Christianity. Has produced atheism.
1059,2Cristianesimo. Come stabilito: suo carattere, suoi effetti ec. ec.
Christianity. How it was established: its nature, its effects, etc.
334,3 353,1 420,2 1426,1 1460,1 1469,1 1685,1 1824,2 2232,1 2252,1 2381,1 2456,1 2574,1 2739 3148-52 3494,1 3497,1 4103,6 4238,4 4290,1Cristianesimo. Conviene in molte cose col mio sistema sulla Natura.
Christianity. Agrees in many respects with my system on Nature.
393,2 436,1 1004,1 1626 1619,1 1627,1.2 1637,1 2114,1 2178,1 2263,2 2666-72574,1?[80,2] Si può osservare che il Cristianesimo, senza perciò
fargli nessun torto ha per un verso effettivamente peggiorato gli uomini. Basta
considerare l'effetto che produce sopra i lettori della storia il carattere dei
principi cristiani scellerati in comparazione degli scellerati pagani, e così
dei privati {dei Patriarchi, Vescovi, e monaci greci (V. Montesquieu, Grandeur ec. Amsterd.
1781. ch. 22) o latini.} Le scelleratezze dei secondi non
erano per nessun modo in tanta opposizione coi loro principii. Morto il
fanatismo della pietà, e il primo fervore di una religione che si considera come
un'opinione propria, e una setta e cosa propria, e di cui perciò si è più gelosi
(anche per li sacrifizi che costava il professarla) l'uomo {in società} ritorna naturalmente malvagio, colla differenza che
quando gli antichi scellerati operavano o secondo i loro principii, o in
opposizione di massime confuse poco note e controverse, i cristiani operavano
contro massime certe stabilite definite, e di cui erano intimamente persuasi, e
l'uomo è sempre tanto più
81 scellerato quanto più sforzo
costa l'esserlo, massimamente contro {se} stesso, come
per contrario accade della pietà. E infatti {da} quando
il cristianesimo fu corrotto nei cuori, cioè presso a poco {da} quando divenne religione imperiale e riconosciuta per nazionale,
e passò in uomini posti in circostanze da esser malvagi, è incontrastabile che
le scelleratezze mutaron faccia e il carattere di Costantino e degli altri scellerati imperatori
cristiani, vescovi ec. è evidentemente più odioso di quello dei Tiberi dei Caligola ec. e dei Marii e dei Cinna ec. e di
una tempra di scelleraggine tutta nuova e più terribile. E secondo me a questo
cioè al cristianesimo si deve in gran parte attribuire (giacchè il guasto
cristianesimo era una parte di guasto incivilimento) la nuova idea della
scelleratezza dell'età media molto differente e più orribile di quella dell'età
antiche anche più barbare: e questa nuova idea si è mantenuta più o meno sino a
questi ultimi tempi nei quali l'incredulità avendo fatti tanti progressi, il
carattere delle malvagità si è un poco ravvicinato all'antico, se non quanto i
gran progressi e il gran divulgamento dei lumi chiari e determinati della morale
universale molto più tenebrosa presso gli antichi anche più civili, non lascia
tanto campo alla scelleraggine di seguire più placidamente il suo corso. {{V. p. 710 capoverso 1.}}
[132,1] Relativamente a quello che ho detto p. 80. si può considerare che la
barbarie cupa ed oscura, e vilmente e stranamente crudele de' bassi tempi, non
proveniva solamente dall'ignoranza, ma da questa mescolata alla religion
cristiana. Se fosse stata una barbarie pagana, quella religione aperta, chiara,
materiale, senza misteri, avrebbe dato a quella ignoranza un colore più allegro,
e a quei costumi un carattere meno profondo. Ma le menti erano tutte piene di
quel sombre, di quel misterioso, di quel lugubre, di
quello spaventoso della religion cristiana massimamente guasta dalla
superstizione; lo spirito del tempo era modellato sopra queste forme metafisiche
e astratte; l'uomo era malvagio per natura della società, come sempre; aggiunta
alla malvagità l'ignoranza la superstizione, e lo spirito cupo del tempo, il
vizio prese il carattere di metafisica, cosa notabile, e ben diversa dagli
antichi vizi che generalmente erano più naturali, e quantunque gravi e dannosi,
tuttavia si soddisfacevano apertamente, o al più sotto un velo di politica
superficialissima. E quindi
133 la barbarie prese quel
carattere tenebroso, e la malvagità divenne scelleraggine profondissima.
(23. Giugno 1820.). {{Aggiungete che la
religion pagana come più naturale che ragionevole, avrebbe servito a
conservar qualche poco di natura in quella barbarie. E la natura è un gran
contravveleno e medicamento in ogni corruzione umana, e un gran faro in
mezzo alle tenebre {dell'ignoranza} quando non sia
spento da una ragione corrotta, come allora.}}
[896,2] 5. Le guerre moderne sono certo meno accanite delle
antiche, e la vittoria meno terribile e dannosa al vinto. Questo è
naturalissimo. Non esistendo più nazioni,
897 e quindi
nemicizie nazionali, nessun popolo è vinto, nessuno vincitore. Chi vince non
vince quel tal popolo, ma quel tal governo. I soli governi sono nemici fra loro.
Dunque la vittoria non si esercita sopra la nazione (la quale come l'asino di
Fedro cambia solamente la soma, o
l'asinaio); ma sopra il solo governo. Una nazione conquistata perde il suo
governo, e ne riceve un altro che presso a poco è il medesimo. Non essendo
nemica della conquistatrice, {non avendo avuto guerra con
essa, nè questa con lei,} partecipa ai di lei vantaggi, alle cariche
pubbliche ec. Non perde le proprietà, nè la libertà civile, nè i costumi ec.
(Alle volte non perderà neppure le sue leggi) Ma come tutto il suo, non era suo,
ma del suo padrone, così tutto questo, senza nuovo danno de' suoi individui,
come presso gli antichi, passa {di peso e senza
scomporsi} ad essere di un altro padrone. {+Anticamente il privato perdeva individualmente le sue
proprietà perchè individualmente ne aveva. Ora non egli che non le ha
individualmente, e non le può perdere, ma il suo principe vinto perde tutte
insieme le proprietà de' suoi sudditi, ch'erano generalmente ed unitamente
sue; e questo per conseguenza accade senza cangiamenti nello stato de'
particolari, e senza nuove violazioni de' diritti privati e
individuali.} S'ella diviene dipendente al di fuori, lo era già al di
dentro. La sua dipendenza non è nuova se non di nome, perchè la sua indipendenza
era pur tale. E se ora dipende dallo straniero, lo straniero è per lei tutt'uno
che il nazionale; perchè la nazione non esisteva neppur prima della conquista;
ed ella non amando se stessa, non avendo amor patrio, non odia dunque lo
straniero, se non come il nazionale, e come l'uomo odia l'altro uomo. Il diritto delle nazioni
898
è nato dopo che non vi sono state più
nazioni. Ella dunque gode gli stessi diritti, che godeva prima della
conquista, e gli gode ora come la conquistatrice. Quanto alle guerre, elle non
sono già nè meno frequenti, nè meno ingiuste delle antiche. Perchè la sorgente
delle guerre, che una volta era l'egoismo
nazionale, ora è l'egoismo
individuale di chi comanda alle nazioni, anzi costituisce le nazioni. E
questo egoismo, non è nè meno cupido, nè meno ingiusto di quello. Dunque, come
quello, misura i suoi desiderii dalle sue forze; (spesso anche oltre le forze) e
la forza è l'arbitra del mondo oggidì, come anticamente, non già la giustizia,
perchè la natura degli uomini non si cambia, ma solo gli accidenti. Questi che
esagerano l'ingiustizia e frequenza delle guerre antiche prima del
Cristianesimo, del diritto delle genti, e del preteso amore universale; mostra
che abbiano bensì letto la storia antica, ma non quella de' secoli Cristiani
fino a noi. Quella storia e questa presentano appuntino le stesse ingiustizie,
le stesse guerre, {lo stesso trionfo della forza ec. nè il
Cristianesimo ha migliorato in ciò il mondo di un punto;} colla
differenza che allora le esercitavano, allora combattevano le nazioni, ora
gl'individui, o vogliamo dire i governi; allora per conseguenza i combattenti o
gl'ingiusti, erano giusti e virtuosi verso qualcuno, cioè verso i proprii,
adesso verso nessuno; allora le nimicizie
899
partorivano le grandi virtù, e l'eroismo in ciascuna nazione, adesso i grandi
vizi e la viltà; allora una nazione opprimeva l'altra, adesso tutte sono
oppresse, la vinta come la vincitrice; allora serviva il vinto, adesso la
servitù è comune a lui col vincitore; {+allora i vinti erano miseri e schiavi, cosa
naturalissima in tutte le specie di viventi, oggi lo sono nè più nè meno
anche i vincitori e fortunati, cosa barbara e assurda;}
allora chi moveva la guerra, era spesso ingiusto colla nazione a cui la moveva,
adesso chi la muove è ingiusto, appresso a poco, tanto con quella a cui la move,
quanto con quella per cui mezzo e forza la muove: e ciò tanto nel muoverla,
quanto in tutto il resto delle sue azioni pubbliche. E i governi oggi tra loro,
sono in istato di guerra (o aperta o no) tanto continua, quanto le nazioni
anticamente.
[2481,3] Ho discorso altre volte p. 72
p. 2040 della ferocia cagionata nell'uomo virtuoso, nel giovane, ec.
dalla risoluzione di commettere a occhi aperti
2482 un
primo delitto. Ho anche ragionato pp. 80-81
pp.
710-11 del danno involontariamente recato dal Cristianesimo e dallo
stabilimento e perfezionamento della morale, stante che gli uomini (sempre
inevitabilmente cattivi) operando oggi più chiaramente e decisamente contro
coscienza, sono peggiori degli antichi, e calpestando il timore che hanno de'
gastighi dell'altra vita, ne divengono più feroci e più terribili nel malfare,
come persone condannate e disperate, ec. Aggiungo che l'uomo il quale per la
prima volta s'è risoluto a commettere un delitto, ha dovuto con gran fatica e
pena trionfare della propria coscienza, e delle proprie abitudini: e si trova
allora nell'atto di aver riportato questo trionfo. Il che è cagione di una gran
ferocia, simile a quella che dicono del leone, o d'altra tal bestia salvatica,
che va in furore, ed è più che mai terribile appena ch'ell'ha gustato, o veduto
il sangue d'altro animale. Perocchè l'uomo in quel punto è come sparso e
macchiato di sangue, cioè omicida
2483 della propria
coscienza. E generalmente l'esecuzione di qualunque proposito è tanto più
efficace ed energica {ed infiammata} ed avventata e
pronta, quanto la risoluzione è stata più faticosa e difficile, e quanta maggior
pena e contrasto è costato a formarla. Perocchè l'uomo teme di pentirsi, e
s'avventa nell'esecuzione, come fuggendo con grand'impeto e fretta e spavento
dal proprio pensiero, che dandogli luogo a discorrere ancora, potrebbe distorlo,
o precipitarlo di nuovo nell'irresoluzione, che l'uomo teme e odia naturalmente,
e ch'è uno de' principali travagli dell'animo. Massime quando l'effetto della
risoluzione (o sia il piacere, o sia l'utile, o sia la vendetta, o sia la
soddisfazione di qualsivoglia passione umana) lo tira e lo invita
gagliardamente, ed egli teme che il proprio pensiero gl'impedisca di cercarlo e
di conseguirlo{{, e d'altra parte desidera vivamente di non
perderlo, e non privarsene per proprio difetto. (17. Giugno.
1822.).}}
[2492,2] Il fatto sta così e non si può negare. La somma
della moralità pratica era {ed è} tanto maggiore presso
gli antichi, i pagani, i selvaggi, che presso i moderni, i Cristiani,
gl'inciviliti, quanto la somma della morale teorica, e la perfetta cognizione,
definizione, analisi e propagazione della medesima è maggiore presso questi che
presso quelli. E nella stessa
2493 proporzione si deve
discorrere anche oggidì de' Cristiani più rozzi, e meno (o più confusamente)
istruiti de' doveri sociali ed umani, per rispetto alla gente più colta e
addottrinata ne' medesimi doveri. (24. Giugno dì di S. Gio. Battista.
1822.).
[105,1]
105 E una delle gran cagioni del cangiamento nella
natura del dolore antico messo col moderno, è il Cristianesimo, che ha
solennemente dichiarata e stabilita e per così dire attivata la massima della
certa infelicità e nullità della vita umana, laddove gli antichi come non
doveano considerarla come cosa degna delle loro cure, se gli stessi Dei secondo
la loro mitologia s'interessavano sì grandemente alle cose umane per se stesse
(e non in relazione a un avvenire), erano animati dalle stesse passioni nostre,
esercitavano particolarmente le nostre stesse arti (la musica, la poesia ec.), e
in somma si occupavano intieramente delle stesse cose di cui noi ci occupiamo?
Non è però ch'io consideri intieramente il cristianesimo come cagion prima di
questo cangiamento, potendo anzi esserne stato in parte prodotto esso stesso
(come opina Beniamino
Constant in un articolo sui PP.
della Chiesa riferito nello Spettatore) ma solamente come propagatore {principale} di tale rivoluzione del cuore.
[116,2] Gli antichi supponevano che i morti non avessero altri
pensieri che de' negozi di questa vita, e la rimembranza de' loro fatti gli
occupasse continuamente, e s'attristassero o rallegrassero secondo che aveano
goduto o patito quassù, in maniera che secondo essi, questo mondo era la patria
degli uomini, e l'altra vita un esilio, al contrario de' cristiani. (8.
Giugno 1820.)
{{V. p. 253.}}
[131,2] Una conseguenza del materiale delle religioni antiche
e dell'importanza che davano a questa vita, era che il sacerdozio presso i
romani fosse come un grado secolare, e presso le altre nazioni, i sacerdoti,
come i Druidi presso i Galli, si mescolassero moltissimo negli affari civili, e
nelle guerre e nelle paci e combattessero ancora negli eserciti
132 per la loro patria, l'amor della quale tanto è lungi
che fosse sbandito dalla religion loro, che anzi n'era uno de' fondamenti. E
così a un di presso fra gli antichi Ebrei, dove anzi il governo civile e
militare era tutto fondato sopra la religione. E così dirò degli oracoli
consultati per le cose pubbliche, e di tutto l'apparato delle religioni antiche,
sempre ordinato ai negozi di questo mondo.
[253,1]
253
Dal 2. pensiero della p. 116.
inferite come, {anche} secondo questa sola
considerazione, il Cristianesimo debba aver reso l'uomo inattivo e ridottolo
invece ad esser contemplativo, e per conseguenza com'egli sia favorevole al
dispotismo, non per principio (perchè il cristianesimo nè loda la tirannia, nè
vieta di combatterla, o di fuggirla, o d'impedirla), ma per conseguenza
materiale, perchè se l'uomo considera questa terra come un esilio, e non ha cura
se non di una patria situata nell'altro mondo, che gl'importa della tirannia? Ed
i popoli abituati (massime il volgo) alla speranza di beni d'un'altra vita,
divengono inetti per questa, o se non altro, incapaci di quei grandi stimoli che
producono le grandi azioni. Laonde si può dire generalmente anche astraendo dal
dispotismo, che il cristianesimo ha contribuito non poco a distruggere il bello
il grande il vivo il vario di questo mondo, riducendo gli uomini dall'operare al
pensare e al pregare, o vero all'operar solamente cose dirette alla propria
santificazione ec. Sopra la quale specie di uomini è impossibile che non sorga
immediatamente un padrone. Non è veramente che la religion cristiana condanni o
non lodi l'attività. Esempio un {San}
Carlo Borromeo, un {San}
Vincenzo de Paolis. Ma in primo luogo
l'attività di questi santi
254 se bene li portava ad
azioni eroiche (e per questa parte grandi) ed utili, non dava gran vita al
mondo, perchè la grandezza delle loro azioni era piuttosto relativa ad essi
stessi che assoluta, e piuttosto intima e metafisica, che materiale. In secondo
luogo, parendo che il cristianesimo faccia consistere la perfezione piuttosto
nell'oscurità nel silenzio, e in somma nella totale dimenticanza di quanto
appartiene a questo esilio, egli ha prodotto e dovuto produrre cento Pacomi e Macari per un {San}
Carlo Borromeo, ed è certo che lo
spirito del Cristianesimo in genere portando gli uomini, come ho detto, alla
noncuranza di questa terra, se essi sono conseguenti, debbono tendere
necessariamente ad essere inattivi in tutto ciò che spetta a questa vita, e così
il mondo divenir monotono e morto. Paragonate ora queste conseguenze, a quelle
della religione antica, secondo cui questa era la patria, e l'altro mondo
l'esilio. (29. 7.bre 1820.).
[254,1] Il costume e la massima di macerare la carne, e
indebolire il corpo per ridurlo, come dice S. Paolo, in servitù, dovea
necessariamente illanguidire le passioni e l'entusiasmo, e render soggetti anche
gli animi di chi cercava di soggiogare il corpo, e così per una parte
contribuire infinitamente a spegner la vita del mondo, per l'altra ad appianar
la strada al dispotismo, perchè non ci son forse uomini così atti ad esser
tiranneggiati
255 come i deboli di corpo, da qualunque
cagione provenga questa debolezza, o da lascivia e mollezza, come presso i
Persiani, che dopo il tempo di Ciro
divennero l'esempio dell'avvilimento e della servitù; o da macerazione ec. Nel
corpo debole non alberga coraggio, non fervore, non altezza di sentimenti, non
forza d'illusioni ec. (30. 7.bre 1820.). {{Nel corpo servo anche l'anima è
serva.}}
[453,2] Quale idea avessero gli antichi della felicità (e
quindi dell'infelicità) dell'uomo in questa vita, della sua gloria, delle sue
imprese; e come tutto ciò paresse loro solido e reale,
454 si può arguire anche da questo, che delle grandi felicità ed imprese umane,
ne credevano invidiosi gli stessi Dei, e temevano perciò l'invidia loro, ed era
lor cura in tali casi deprecari la divina invidia, in
maniera che stimavano anche fortuna, e (se ben mi ricordo) si proccuravano
espressamente qualche leggero male, per dare soddisfazione agli Dei, e mitigare
l'invidia loro pp. 197-98. Deos immortales precatus est, ut, si
quis eorum invideret operibus ac fortunae suae, in ipsum potius
saevirent, quam in remp.
*
Velleio I. c. 10. di Paolo Emilio. E così avvenne
essendogli morti due figli, l'uno 4 giorni avanti il suo trionfo, e l'altro 3
giorni dopo esso trionfo. E v. quivi le note Variorum.
V. pure Dionigi Alicarnasseo l. 12. c. 20. e 23. edizione
di Milano, e la nota del Mai al c. 20. V. ancora questi pensieri
p. 197. fine. Così importanti
stimavano gli antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle
divine operazioni altri fini che i nostri, mettevano i dei in comunione della
nostra vita e de' nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre
felicità ed imprese, come i nostri simili,
455 non
dubitando ch'elle non fossero degne della invidia degl'immortali. (23.
Dic. 1820.). {{V. p. 494. capoverso
1.}}
[1364,1] Noi facilmente ci avvezziamo a giudicar piccole, o
compensabili ec. le disgrazie che ci accadono, le privazioni ec. perchè
conosciamo e sentiamo il nulla del mondo, la poca importanza delle cose, il poco
peso degli uomini che ci ricusano i loro favori ec. Viceversa gli antichi, i
quali giudicavano tanto importanti le cose del mondo, e gli uomini, da credere
che i morti e gl'immortali se ne interessassero sopra qualunque altro affare.
(21. Luglio 1821.).
[4208,1]
Ovidio
Metam. l. 4. parlando delle anime che sono
nell'Eliso: Pars alias artes, antiquae imitamina vitae,
Exercent
*
ec. Vedilo. {{V. p. 4210.
capoverso 4.}}
[1059,2] Non è egli un paradosso che la Religion Cristiana in
gran parte sia stata la fonte dell'ateismo, o generalmente, della incredulità
religiosa? Eppure io così la penso. L'uomo naturalmente non è incredulo, perchè
non ragiona molto, e non cura gran fatto delle
1060
cagioni delle cose. (v. p. 1055. ed
altro pensiero simile, in altro luogo [pp. 382-83]). L'uomo naturalmente {per lo più} immagina, concepisce e crede una religione, cosa
dimostrata dall'esperienza, nello stesso modo che immagina, concepisce e crede
tante illusioni, ed alcune di queste, uniformi in tutti; laddove la religione è
immaginata da' diversi uomini naturali
in diversissime forme. La metafisica che va dietro alle ragioni occulte delle
cose, che esamina la natura, le nostre immaginazioni, ed idee ec.; lo spirito
profondo e filosofico, e ragionatore, sono i fonti della incredulità. Ora queste
cose furono massimamente propagate dalla religione Giudaica e Cristiana, che
insegnarono ed avvezzarono gli uomini a guardar più alto del campanile, a mirar
più giù del pavimento, insomma alla riflessione, alla ricerca delle cause
occulte, all'esame e spesso alla condanna ed abbandono delle credenze naturali,
delle immaginazioni spontanee e malfondate ec. {v. p. 1065. capoverso 2.}
E sebben tutte le religioni sono una specie di metafisica, e quindi tutte le
religioni un poco formate si possono considerare come cause dell'irreligione,
ossia del loro contrario, (mirabile congegnazione del sistema dell'uomo, il
quale non sarebbe irreligioso se non fosse stato religioso); contuttociò questa
qualità principalmente, come ognun vede, appartiene alla Religione giudaica
1061 e Cristiana.
[334,3] Ripetono spesso gli apologisti della Religione che il
mondo era in uno stato di morte all'epoca della prima comparsa del
Cristianesimo; che questo lo ravvivò, cosa, dicon essi che pareva impossibile.
Quindi
335 conchiudono che questo non poteva essere
effetto se non dell'onnipotenza divina, che prova chiaramente la sua verità, che
l'errore perdeva il mondo, la verità lo salvò. Solito controsenso. Quello che
uccideva il mondo, era la mancanza delle illusioni; il Cristianesimo lo salvò
non come verità, ma come una nuova illusione. E gli effetti ch'egli produsse,
entusiasmo, fanatismo, sagrifizi magnanimi, eroismo, sono i soliti effetti di
una grande illusione. Non consideriamo adesso s'egli sia vero o falso, ma
solamente che questo non prova nulla in suo favore. Ma come si stabilì con tanti
ostacoli, ripugnando a tutte le passioni, contraddicendo ai governi ec.? Quasi
che quella fosse la prima volta che il fanatismo di una grande illusione trionfa
di tutto. Non ha considerato menomamente il cuore umano, chi non sa di quante
illusioni egli sia capace, quando anche contrastino ai suoi interessi, e come
egli ami spessissimo quello stesso che gli pregiudica visibilmente. Quante pene
corporali non soffrono per false opinioni i sacerdoti
dell'India ec. ec.! E la setta dei flagellanti nata
sui principii del Cristianesimo, che illusione era? {E i
sacrifizi infiniti che facevano gli antichi filosofi p. e. i Cinici alla
professione della loro setta, spogliandosi di tutto il loro nella ricchezza
ec.? E il sacrifizio de' 300. alle Termopili?}
Ma come
336 trionfò il Cristianesimo della filosofia,
dell'apatia che aveva spento tutti gli errori passati? I lumi di quel tempo non
erano 1. nè stabili, definiti e fissi, 2. nè estesi e divulgati, 3. nè profondi
come ora; conseguenza naturale della maggiore esperienza, della stampa, del
commercio universale, delle scoperte geografiche che non lasciano più luogo a
nessun errore d'immaginazione, dei progressi delle scienze i quali si danno la
mano in modo, che si può dire che ogni nuova verità scoperta in qualunque genere
influisca sopra lo spirito umano. Quei lumi erano bastati a spegnere l'error
grossolano delle antiche religioni, ma non solamente permettevano, anzi si
prestavano ad un error sottile. E quel tempo appunto per li suoi lumi inclinava
al metafisico, all'astratto, al mistico, e quindi Platone trionfava in quei tempi. V. Plotino, Porfirio, Giamblico, e i
seguaci di Pitagora, anch'esso astratto
e metafisico. L'oriente poi, non solo allora, ma
antichissimamente, aveva inclinato alla sottigliezza, ed anche alla profondità e
verità, nella morale e nel resto. Egiziani, Cinesi, Vecchio Testamento ec. ec. A
distrugger l'error più
337 sottile vi volevano lumi
molto più profondi, sottili e universali di quelli d'allora. Tali sono quelli
d'oggidì, così perfetti che sono interamente sterili d'errore, e da essi non può
derivare error più sottile, come dai lumi antichi, il quale pur dia qualche vita
al mondo. Ai mali della filosofia presente, non c'è altro rimedio che la
dimenticanza, e un pascolo materiale alle illusioni.
[353,1] Quanto anche la religion cristiana sia contraria alla
natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando
questo solo serve di norma, si può vedere per questo esempio. Io ho conosciuto
intimamente una donna {madre di famiglia} che non era
punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e
negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei
genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e
sinceramente, perchè questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean
liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in
pericolo di perdere i suoi figli nella stessa
354 età,
non pregava Dio che li facesse morire, perchè la religione non lo permette, ma
gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava
in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era esattissima negli
uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell'anima desiderava che
fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava
nell'interrogare o consultare i medici, era di sentirne opinioni o ragguagli di
miglioramento. Vedendo ne' malati qualche segno di morte vicina, sentiva una
gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che la
condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno
allegro ed ameno, nè sapeva comprendere come il marito fosse sì poco savio da
attristarsene. Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi
figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia.
Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi
pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente alla vita nella loro
prima gioventù: se resistevano, se cercavano il contrario, se vi riuscivano in
qualche minima parte, n'era indispettita, scemava quanto poteva colle parole e
coll'opinion sua i loro successi (tanto de' brutti quanto de' belli, perchè
n'ebbe molti), e non lasciava
355 passare anzi cercava
studiosamente l'occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro
difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro
inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce. {Sentiva i cattivi successi de' suoi figli in questo o simili particolari,
con vera consolazione, e si tratteneva di preferenza con loro sopra ciò che
aveva sentito in loro disfavore.} Tutto questo per liberarli dai
pericoli dell'anima, e nello stesso modo si regolava in tutto quello che spetta
all'educazione dei figli, al produrli nel mondo, al collocarli, ai mezzi tutti
di felicità temporale. Sentiva infinita compassione per li peccatori, ma
pochissima per le sventure corporali o temporali, eccetto se la natura talvolta
la vinceva. Le malattie, le morti le più compassionevoli de' giovanetti estinti
nel fior dell'età, fra le più belle speranze, col maggior danno delle famiglie o
del pubblico ec. non la toccavano in verun modo. Perchè diceva che non importa
l'età della morte, ma il modo: e perciò soleva sempre informarsi curiosamente se
erano morti bene secondo la religione, o quando erano malati, se mostravano
rassegnazione ec. E parlava di queste disgrazie con una freddezza marmorea.
Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo, ed era
stata così ridotta dalla sola religione. Ora questo che altro è se non barbarie?
E tuttavia non è altro che un calcolo matematico, e una conseguenza immediata e
necessaria dei
356 principii di religione esattamente
considerati; di quella religione che a buon diritto si vanta per la più
misericordiosa ec. Ma la ragione è così barbara che dovunque ella occupa il
primo posto, e diventa regola assoluta, da qualunque principio ella parta, e
sopra qualunque base ella sia fondata, tutto diventa barbaro. Così vediamo le
tante barbarie delle religioni antiche, se ben queste fossero figlie
dell'immaginazione. E anche senza i principii religiosi, è pur troppo evidente
che la sola stretta ragione, ci porta alle conseguenze specificate di sopra. Non
c'è che la pura natura la quale ci scampi dalla barbarie, con quegli errori
ch'ella ispira, e dove la ragione non entra. S'ella ci fa piangere la morte dei
figli, non è che per un'illusione, perchè perdendo la vita non hanno perduto
nulla, anzi hanno guadagnato. Ma il non piangerne è barbaro, e molto più il
rallegrarsene, benchè sia conforme all'esatta ragione. Tutto ciò conferma quello
ch'io voglio dire che la ragione spesso è fonte di barbarie (anzi barbarie da se
stessa), l'eccesso della ragione sempre; la natura non mai, perchè finalmente
non è barbaro se non ciò che è contro natura, (25. Nov. 1820.)
{{sicchè natura e barbarie son cose contraddittorie, e la
natura non può esser barbara per essenza.}}
[420,2]
Alla p. 416.
L'ignoranza parziale può sussistere, come ho detto, anche nell'uomo alterato
dalla ragione, anche nell'uomo ridotto in società. Può dunque servire di stabile fondamento a un maggiore o
minor numero di credenze naturali; dunque tener l'uomo più o meno vicino allo
stato primitivo, dunque conservarlo più o meno felice. Per
421 conseguenza quanto maggiore per estensione, e per profondità sarà
questa ignoranza parziale, tanto più l'uomo sarà felice. Questo è chiarissimo in
fatto, per l'esperienza de' fanciulli, de' giovani, degl'ignoranti, de'
selvaggi. S'intende però un'ignoranza la quale serva di fondamento alle
credenze, giudizi, errori, illusioni naturali, non a quegli errori che non sono
primitivi e derivano da corruzione dell'uomo, o delle nazioni. Altro è ignoranza
naturale, altro ignoranza fattizia. Altro gli errori ispirati dalla natura, e
perciò convenienti all'uomo, e conducenti alla felicità; altro quelli fabbricati
dall'uomo. Questi non conducono alla felicità, anzi all'opposto, com'essendo
un'alterazione del suo stato naturale, e come tutto quello che si oppone a esso
stato. Perciò le superstizioni, le barbarie ec. non conducono alla felicità, ma
all'infelicità. V. p. 314. Quindi è
che dopo lo stato precisamente naturale, il più felice possibile in questa vita,
è quello di una civiltà media, dove un certo equilibrio fra la ragione e la
natura, una certa mezzana ignoranza,
422 mantengano
quanto è possibile delle credenze ed errori naturali (e quindi costumi
consuetudini ed azioni che ne derivano); ed escludano e scaccino gli errori
artifiziali, almeno i più gravi, importanti, e barbarizzanti. Tale appunto era
lo stato degli antichi popoli colti, pieni perciò di vita, perchè tanto più
vicini alla natura, e alla felicità naturale. Le Religioni antiche pertanto
(eccetto negli errori non naturali e perciò {dannosi e}
barbari, i quali non erano in gran numero, nè gravissimi) conferivano senza
dubbio alla felicità temporale molto più di quello che possa fare il
Cristianesimo; perchè contenendo un maggior numero e più importante di credenze
naturali, fondate sopra una più estesa e più profonda ignoranza, tenevano l'uomo
più vicino allo stato naturale: erano insomma più conformi alla natura, e minor
parte davano alla ragione. (All'opposto la barbarie de' tempi bassi derivata da
ignoranza non naturale ma di corruzione, non da ignoranza negativa ma positiva. Questa non poteva
conferire alla felicità, ma all'infelicità, allontanando maggiormente l'uomo
dalla natura: se non in
423 quanto quell'ignoranza
qualunque richiamava parte delle credenze e abitudini naturali, perchè la natura
trionfa ordinariamente, facilmente, e naturalmente quando manca il suo maggiore
ostacolo ch'è la scienza. E però quella barbarie produceva una vita meno lontana
dalla natura, e meno infelice, più attiva ec. di quella {che
produce} l'incivilimento non
medio ma eccessivo del nostro secolo. Del resto v. in questo proposito
p. 162. capoverso 1[2]. Tra la barbarie e la civiltà eccessiva non è
dubbio che quella non sia più conforme alla natura, e meno infelice, quando non
per altro, per la minor conoscenza della sua infelicità. Del rimanente per lo
stesso motivo della barbarie de' bassi tempi, è opposta alla felicità e natura,
la barbarie e ignoranza degli Asiatici generalmente, barbareschi Affricani,
Maomettani, persiani antichi dopo Ciro,
sibariti, ec. ec. Così proporzionatamente quella della
Spagna e simili più moderne ed europee.).
[1426,1]
1426 Il Cristianesimo è un misto di favorevole e di
contrario alla civiltà, di civiltà e di barbarie; effetto dell'incivilimento, e
nemico de' suoi progressi 1. come lo sono tutte quelle opinioni ec. ec. che
fissano lo spirito umano, e gl'impediscono di progredire, conforme {hanno sempre fatto} i sistemi ec. ancorchè derivati da
somma dottrina, e coltura ec. 2. com'è naturale ad un ritrovato, a un frutto
della mezza
{anzi corrotta} civiltà. Il Cristianesimo nella sua
perfezione (e la natura, la proprietà, gli effetti delle cose, vanno considerati
nella perfezione di esse, e non in uno stato imperfetto, cioè quali non debbono
essere), è incompatibile non solo coi progressi della civiltà, ma colla
sussistenza del mondo e della vita umana. Com'è possibile che duri quello che
tien se stesso per un nulla ec. ec. e che anela al suo proprio discioglimento?
L'uomo non doveva intendere dalla ragione che le cose non valessero a nulla, e
fossero infelicissime. Egli era pur fatto per esse. Così dunque non doveva
impararlo dalla Religione. L'averlo imparato distruggerebbe la vita, se l'uomo
seguisse fedelmente e precisamente i dettami e lo spirito della Religione.
1427 Consideriamo il Cristianesimo nel suo primo
fervore, quando tutti anelavano alla verginità, quando 3 quarti dell'anno si
passavano in orazione, ne' tempj, in vigilie, {in macerazioni
eccessive,} ec. e domandiamo: se il Cristianesimo non si fosse
corrotto o illanguidito, quanto avrebbe fisicamente potuto durare? Ma quella era
pur la sua perfezione, e il suo puro e primitivo stato. Il mondo non può
sussistere s'egli non ha se stesso per fine. Tutte le cose sono così disposte,
che in quanto a se, non mirino ad altro che a se stesse. L'uomo solamente
dovrebbe mirare non solo a tutt'altri che a se in questo mondo, ma ad un
tutt'altro mondo, e considerarsi come fuori
di questo. Come dunque potrebbe durare la specie e la vita umana,
contro gl'insegnamenti e l'essenza della natura, e l'ordine generale e
particolare di tutti gli altri esseri? (31. Luglio 1821.).
[1460,1]
1460 L'impero che il Cristianesimo ha per tanti secoli
esercitato (e prima e dopo il risorgimento della civiltà) tanto sugli animi, le
opinioni, i costumi privati e pubblici, quanto sul temporale degli stati, e
sulla politica universale del mondo Cristiano, e generalmente insomma sulla vita
umana, è stato quasi un impero della filosofia, uno stabilimento di potenza
filosofica, un'influenza, una superiorità generale acquistata nel mondo dalla
ragione sulla natura, le naturali illusioni ec. e dallo spirito sopra il corpo.
Stabilimento originato da quell'epoca metafisica che produsse il Cristianesimo,
e durato per le circostanze dei lumi e degl'intelletti, e per la forza
dell'abito ec. Allora il mondo era quasi una repubblica filosofica, o piuttosto
uno stato soggetto ad un intollerante, universale, stretto, potente dispotismo
della filosofia, riconosciuto da tutti per giusto, o per invincibile, benchè
tutta la sua forza (al solito delle tirannie, e quasi d'ogni genere di governi)
stesse nell'opinione. Il Papa rispettato e temuto da tutti i privati e da tutti
i principi Cristiani, {+un inerme,
un povero, da armati e da ricchi,} era il vero capo di una
repubblica filosofica. Basta considerare quella cerimonia
1461 della sua coronazione, quando se gli abbrucia innanzi agli occhi
della stoppa, dicendo: Beatissime pater, sic transit gloria
mundi. Massima piena di serissime e profondissime riflessioni
filosofiche: gloria che veramente era grande, anzi somma, un secolo e mezzo
addietro: nè certo il Papa la disprezzava, nè soleva ricordarsi molto spesso di
quell'ammonizione. Oggi questo smisurato colosso d'impero filosofico, è stato
distrutto da quello di un'altra filosofia; nuovo impero conveniente al secolo
che l'ha stabilito e prodotto. E sarà più facile assai che {anche} questo cada, di quello che il primo risorga. (7. Agosto.
1821.).
[1469,1] Il formare il nostro Dio degli attributi che a noi
paiono buoni, benchè non lo sieno che relativamente, è un'opinione meno assurda,
ma della stessa natura, andamento origine, di quella che attribuiva agli Dei
figura e qualità e natura quasi del tutto umana; di quella che, come dice Senofane presso Clem. Alessandr., se il cavallo o il bue sapesse
dipingere, gli farebbe dipingere e immaginare i suoi Dei in forma e natura di
cavalli o di buoi. {+
V. il mio Discorso sui
romantici dove si cita questo passo con altre
osservazioni.} Anzi la nostra opinione è un raffinamento, un
perfezionamento, di questa quanto assurda, tanto naturale (v. il cit.
Discorso) opinione
1470 antica;
raffinamento prodotto da quello spirito metafisico che produsse il
Cristianesimo, o da quello che presso gli antichi Orientali (la cui storia
rimonta tanto più indietro delle nostre) produsse il sistema di un solo Dio,
seguito dagli Ebrei, e da questi comunicato ai Gentili d'{epoca e civiltà} più moderna, quando il secolo fu adattato a fare che
tal dottrina fosse ricevuta, e divenisse universalmente popolare. Ho detto che
questa è meno assurda, ma intendo, quanto al nostro modo di ragionare, e
all'ordinario sistema delle nostre concezioni, perchè assolutamente parlando,
ella è altrettanto assurda, {o piuttosto} falsa,
giacchè l'assurdo si misura dalla dissonanza col nostro modo di ragionare. (8. Agosto 1821.). Del resto la nostra
opinione intorno a un Dio composto degli attributi che l'uomo giudica buoni, è
una vera continuazione dell'antico sistema che lo componeva degli attributi
umani. ec. {+L'antica e la moderna
Divinità è parimente formata sulle idee puramente umane, benchè diverse
secondo i tempi. Il suo modello è sempre l'uomo. ec.}
(8. Agos. 1821.).
[1685,1] La perfezione del Cristianesimo mette in pregio la
solitudine e il tenersi lontano dagli affari del mondo per fuggire le
tentazioni. - Vale a dire per non far male a' suoi simili. - Bel mezzo di non
far male, quello di non fare alcun bene. Che utile può seguire da ciò? - Ma non
si tratta solo di evitare il danno de' suoi simili. Il Cristiano fugge il mondo
per non peccare in se stesso o contro se stesso, cioè contro Dio. - Ecco quello
ch'io dico, che il Cristianesimo surrogando un altro mondo al presente;
1686 ed ai nostri simili, ed a noi stessi un terzo
ente, cioè Dio, viene nella sua perfezione, cioè nel suo vero spirito a
distruggere il mondo, la vita stessa individuale, (giacchè neppur l'individuo è
lo scopo di se stesso) e soprattutto la società, di cui a prima vista egli
sembra il maggior legame e garante. Che vantaggio può venire alla società, e
come può ella sussistere, se l'individuo perfetto non deve far altro che fuggir
le cose per non peccare? impiegar la vita in preservarsi dalla vita? Altrettanto
varrebbe il non vivere. La vita viene ad essere come un male, come una colpa,
come una cosa dannosa, di cui bisogna usare il meno che si possa, compiangendo
la necessità di usarne, e desiderando esserne presto sgravato. Non è questa una
specie di egoismo? simile a quello di quei filosofi (e son molti) che disperando
di poter far bene al mondo, si contentano del ritiro, e di praticare la virtù
verso se stessi. Da che la perfezione del Cristiano è relativa a se stesso, (e
tale ella è nel vero ed intero spirito del Cristianesimo), da che l'esser
perfetto include la
1687 fuga delle tentazioni, vale a
dire del mondo, da che per conseguenza il ritiro è il più perfetto stato
dell'uomo, il Cristianesimo è distruttivo della società. Non può infatti essere
relativa al bene della società la perfezion di una religione, che loda il
celibato, il che dimostra ch'ella ripone la perfezion dell'uomo in una cosa
affatto indipendente dalla società (anche de' più cari), e fuori al tutto di
essa; in un tipo astratto che non ha niente affare col diriggere le mire
dell'individuo al vantaggio comune. Una tal religione doveva anche
necessariamente lodare la solitudine, e l'uomo secondo essa, doveva (com'è
infatti) esser tanto più perfetto quanto meno partecipasse delle cose umane e
colle opere e co' pensieri: giacchè il perfetto Cristiano non è perfetto che in
se stesso. Si vede da ciò, che il Cristianesimo non ha trovato altro mezzo di
corregger la vita che distruggerla, facendola riguardar come un nulla anzi un
male, e indirizzando la mira dell'uomo perfetto, fuori di essa, ad un tipo di
perfezione indipendente da lei, a cose
1688 di natura
affatto diversa da quella delle cose nostre e dell'uomo. (13. Sett.
1821.).
[1824,2] Dalle osservazioni fatte sul Cristianesimo in altri
pensieri pp. 253-54
pp.
1685-88, risulta ch'esso nella sua perfezione, ricade, include,
consiste in un vero e totale egoismo, sebbene esso gli professi massime
dirittamente contrarie, e ne sembri il più forte, intero, e irreconciliabil
nemico; sino a pretendere di spegnere affatto l'amor proprio, non solo
cogl'infiniti sacrifizi che ordina o consiglia, ma col volere e porre per
indispensabile condizione, che questi
1825 ed ogni
altra azione dell'uomo in ultima e perfetta analisi non abbiano per fine se
stesso, ma assolutamente e puramente Iddio. Il che allora sarà fisicamente
moralmente, matematicamente possibile, quando la natura del vivente e della vita
sarà cambiata ne' suoi principii costitutivi. (1. Ott. 1821.).
{{V. p.
1882.}}
[2232,1]
2232 La legge Cristiana essenzialmente e capitalmente e in modo che senza ciò
ella non sussiste, prescrive di amar Dio sopra tutte le cose, i prossimi come se
stesso per amor suo, e se stesso non per se stesso, ma per amor {di} Dio; ond'è ch'ella comanda ancora l'odio di se
stesso ec. Ora torcete la cosa quanto volete, siccome per una parte non potrete
mai negare che la legge Cristiana non obblighi assolutamente l'uomo a porre un
altro Essere al di sopra di se stesso nel suo amore {per ogni
verso;} così nell'ultima e più sicura ed infallibile analisi della
natura (non solo umana, ma vivente, anzi di quella natura che sente in qualunque
modo la sua propria esistenza), {troverete che} questo
è dirittamente e precisamente impossibile, e contraddittorio al modo reale di
essere delle cose. (7. Dic. 1821.).
[2252,1] Che il privato verso il privato straniero, e
massimamente nemico, sia tenuto nè più nè meno a quei medesimi doveri sociali,
morali, di commercio ec. a' quali è tenuto verso il compatriota o concittadino,
e verso quelli che sono sottoposti ad una legislazione comune con lui; che
esista insomma una legge, un corpo di diritto universale che abbracci tutte le
nazioni, ed obblighi l'individuo nè più nè meno verso lo straniero che verso il
nazionale; questa è un'opinione che non ha mai esistito prima del Cristianesimo;
ignota ai filosofi antichi i più filantropi, ignota non solo, ma evidentemente e
positivamente esclusa da tutti gli antichi legislatori i più severi, e pii, e
religiosi, da tutti i più puri moralisti (come Platone) da tutte le più sante religioni e legislazioni,
2253 compresa quella degli Ebrei. Se in qualche nazione
antica, o moderna selvaggia, la legge o l'uso vieta il rubare, ciò s'intende a'
proprii compatrioti, (secondo quanto si estende questo[questa] qualità; perciocchè ora si stringe a una sola città, ora ad
una nazione benchè divisa, come in grecia ec.) e non mica
al forestiere che capita, o se vi trovate in paese forestiere. {+V. il Feith,
Antiquitates homericae, nel Gronovio, sopra la pirateria ec.
λῃστεία, usata dagli antichissimi legalmente e onoratamente cogli
stranieri.} Così dico dell'ingannare, mentire ec. ec.
Infatti osservate che fra popoli selvaggi, ordinariamente virtuosissimi al loro
modo, e pieni de' principii di onore e di coscienza verso i loro paesani ec. i
viaggiatori hanno sempre o assai spesso trovato molta inclinazione a derubarli,
ingannarli ec. eppure i loro costumi non erano certamente corrotti. V. le storie della conquista
del Messico circa l'usanza menzognera di quei popoli
i meno civilizzati. Parimente trovandosi gli antichi o i selvaggi in
terra forestiera, non
2254 hanno mai creduto di mancare
alla legge, danneggiando gli abitatori in qualunque modo.
[2381,1]
2381 Giovanette di 15. o poco più anni che non hanno
ancora incominciato a vivere, nè sanno che sia vita, si chiudono in un
monastero, professano un metodo, una regola di esistenza, il cui unico scopo
diretto e immediato si è d'impedire la vita. E questo è ciò che si procaccia con
tutti i mezzi. Clausura strettissima, fenestre disposte in modo che non se ne
possa vedere persona, a costo della perdita dell'aria e della luce, che sono le
sostanze più vitali all'uomo, e che servono anche, e sono necessarie alla
comodità giornaliera delle sue azioni, e di cui gode liberamente tutta la
natura, tutti gli animali, le piante, e i sassi. Macerazioni, perdite di sonno,
digiuni, silenzio: tutte cose che unite insieme nocciono alla salute, cioè al
ben essere, cioè alla perfezione dell'esistenza, cioè sono contrarie alla vita.
Oltrechè escludendo assolutamente l'attività, escludono la vita, poichè il moto
e l'attività è ciò che distingue il vivo dal morto: e la vita consiste
nell'azione; laddove lo scopo diretto della vita monastica anacoretica ec. è
l'inazione, e il guardarsi dal fare, l'impedirsi di fare. Così che la monaca o
il monaco
2382 quando fanno professione, dicono
espressamente questo: io non ho ancora vissuto, l'infelicità non mi ha
stancato nè scoraggito della vita; la natura mi chiama a vivere, come fa a
tutti gli esseri creati o possibili: nè solo la natura mia, ma la natura
generale delle cose, l'assoluta idea e forma dell'esistenza. Io però
conoscendo che il vivere pone in grandi pericoli di peccare, ed è per
conseguenza pericolosissimo per se
stesso, e quindi per se stesso
cattivo (la conseguenza è in regola assolutamente), son risoluto di
non vivere, di fare che ciò che la natura ha fatto, non sia fatto, cioè che
l'esistenza ch'ella mi ha dato, sia fatta inutile, e resa (per quanto è
possibile) nonesistenza. S'io non
vivessi, o non fossi nato, sarebbe meglio in quanto a questa vita presente,
perchè non sarei in pericolo di peccare, e quindi libero da questo male assoluto: s'io mi potessi
ammazzare sarebbe parimente meglio, e condurrebbe allo stesso fine; ma
poichè non ho potuto a meno di nascere, e la mia legge mi comanda di fuggir
la vita, e nel tempo stesso mi vieta di terminarla, ponendo la morte volontaria fra gli altri
peccati per cui la vita
2383 è pericolosa, resta che (fra tante
contraddizioni) io scelga il partito ch'è in poter mio, e l'unico degno del
savio, cioè schivare quanto io posso la vita, contraddire e render vana
quanto posso la nascita mia, insomma esistendo annullare quanto è possibile
l'esistenza, privandola di tutto ciò che la distingue dal suo contrario e la
caratterizza, e soprattutto dell'azione che per una parte è il primo scopo e
carattere ed uffizio ed uso dell'esistenza, per l'altra è ciò che v'ha in
lei di più pericoloso in ordine al peccare. E se con ciò nuocerò al mio ben essere, e mi abbrevierò
l'esistenza, non importa; perchè lo scopo di essa non dev'esser altro che
fuggir se medesima, come pericolosa; e l'essere non è mai tanto bene, quanto allorchè in qualunque maggior modo possibile è
lontano dal pericolo di peccare, cioè lontano dall'essere e dall'operare ch'è l'impiego dell'esistenza.
[2456,1] La religion Cristiana fra tutte le antiche e le
moderne è la sola che o implicitamente o esplicitamente, ma certo per essenza,
{istituto,} carattere e spirito suo, faccia
considerare e consideri come male quello che naturalmente è, fu, e sarà sempre
bene (anche negli animali), e sempre male il suo contrario; come la bellezza,
{la giovanezza,} la ricchezza, ec. e fino la stessa
felicità e prosperità a cui sospirano e sospireranno eternamente e
necessariamente tutti gli esseri viventi. E li considera come male
effettivamente, perciocchè non si può negare che queste tali cose non sieno
molto pericolose all'anima, e che le loro contrarie (come la bruttezza ec.) non
liberino da infinite occasioni di peccare. E perciò quelli che fanno professione
di devoti chiamano fortunati i brutti ec. e considerano la bruttezza ec. come un
bene dell'uomo, {una fortuna della società,} e come una
condizione, una qualità, una
2457 sorte
desiderabilissima in questa vita. Similmente dico della prosperità, la quale
rende naturalmente superbi, confidenti in se stessi e nelle cose, e quindi
distratti e poco adattati all'abito di riflettere (ch'è necessarissimo alla cura
della salute eterna), e dà molto attaccamento alle cose di questa terra. E
quindi l'opinione che le disgrazie (o come le chiamano, le croci), sieno favori
di Dio, e segni della benevolenza divina: opinione stranissima e affatto nuova;
inaudita in tutta l'antichità e presso tutte le altre religioni moderne (tutte
le quali considerano {anzi} il fortunato {solo,} come favorito di Dio, onde fra gli antichi beato, μακάριος {ὄλβιος} ec.
era un titolo di rispetto e di lode, e tanto a dire come sanctus, o come vir iustus etc. {L'etimologia di εὐδαίμων è favorito dagli Dei, o che ha
buon Dio cioè favorevole. Al contrario
δυσδαίμων, infelice, che ha mali Dei. v. p. 2463.} V. i Lessici:
e nella stessa religion cristiana da principio si chiamavano beati, anche vivendo, gli uomini più distinti o per
virtù o per dignità, come oggi si chiama Beatitudine
il Papa); inaudita presso qualunque popolo non civile; e finalmente tale ch'io
non so se verun'altra opinione possa esser più dirittamente contraria alla
natura universale delle cose, e a tutto l'ordine dell'
2458 esistenza sensibile. (4. Giugno. 1822.).
[2574,1] Non c'è virtù in un popolo senz'amor patrio, come ho
dimostrato altrove pp. 892-93. Vogliono che basti la Religione. I tempi
barbari, bassi ec. erano religiosi fino alla superstizione, e la virtù dov'era?
Se per religione intendono la pratica della medesima, vengono a dire che non c'è
virtù senza virtù. Chi è religioso in pratica, è virtuoso. Se intendono la
teorica, {e} la speranza e il timore delle cose di là,
l'esperienza di tutti i tempi dimostra che questa non basta a fare un popolo
attualmente e praticamente virtuoso. L'uomo, e specialmente
2575 la moltitudine non è fisicamente capace di uno stato continuo di
riflessione. Or quello ch'è lontano, quello che non si vede, quello che dee
venir dopo la morte, dalla quale ciascuno naturalmente si figura d'esser
lontanissimo, non può fortemente {costantemente} ed
efficacemente influire sulle azioni e sulla vita, se non di chi tutto giorno
riflettesse. Appena l'uomo entra nel mondo, anzi appena egli esce del suo
interno (nel quale il più degli uomini non entra mai, e ciò per natura propria)
le cose che influiscono su di lui, sono le presenti, le sensibili, o quelle le
cui immagini sono suscitate e fomentate dalle cose in qualunque modo sensibili:
non già le cose, che oltre all'esser lontane, appartengono ad uno stato di
natura diversa dalla nostra presente, cioè al nostro stato dopo la morte, e
quindi, vivendo {noi} necessariamente fra
2576 la materia, e fra questa presente natura, appena
le sappiamo considerare come esistenti, giacchè non hanno che far punto con
niente di quello la cui esistenza sperimentiamo, e trattiamo, e sentiamo ec. La
conchiusione è che tolta alla virtù una ragione presente, o vicina, e sensibile,
e tuttogiorno posta dinanzi a noi; tolta dico questa ragione alla virtù (la qual
ragione, come ho provato, non può esser che l'amor patrio), è tolta anche la
virtù: e la ragione lontana, insensibile, e soprattutto, estrinseca affatto alla
natura della vita presente, e delle cose in cui la virtù si deve esercitare,
questa ragione, dico, non sarà mai sufficiente all'attuale e pratica virtù
dell'uomo, e molto meno della moltitudine, se non forse ne' primi anni, in cui
dura il fervore della nuova opinione, come nel primo secolo del Cristianesimo (corrotto già nel secondo.
2577
V. i SS. Padri.) (21. Luglio
1822.).
[2738,1] Il qual ristagno è micidiale alla felicità per le
ragioni sopraddette. Ora esso è l'effetto proprio del moderno modo di vivere, e
il carattere che lo distingue dall'antico, e quello che osservato da Chateaubriand, volendo fare un romanzo
di carattere essenzialmente moderno, e ignoto e impossibile da farsi o da
concepirsi agli
2739 antichi, gl'ispirò il
René, che si aggira tutto in descrivere e determinare questo
ristagno, e gli effetti suoi. Da ciò solo si conchiuda se la vita antica o la
moderna è più conducente alla felicità, ovvero qual delle due sia meno
conducente all'infelicità. E poichè lo Chateaubriand considera questo ristagno come effetto preciso e
proprio del Cristianesimo, vegga egli qual conseguenza se ne debba tirare
intorno a questa religione, per ciò che spetta al temporale. In verità si trova
ad ogni passo che le sue {+più fine,
profonde, {nuove}
{e vere}} osservazioni e i suoi argomenti
intorno al Cristianesimo, e agli effetti di lui, ed alla moderna civiltà, ed al
carattere e spirito dell'uomo Cristiano, o moderno e civile, provano
dirittamente il contrario di quello ch'egli si propone. {+E può
dirsi che ogni volta ch'egli reca in mezzo osservazioni nuove, travaglia
per la sentenza contraria alla sua, accresce gli argomenti che la
fortificano, e somministra {nuove} armi ai suoi
propri avversari, credendosi di combatterli.}
(1. Giugno. Domenica. 1823.). {{V. p.
2752.}}
[3147,1] Quello spirito dell'italia e
dell'europa Cristiana verso gl'infedeli (e, diciamolo
ancora, verso il Cristianesimo) che disopra ho descritto, che regnò al tempo del
Tasso e ne'
precedenti, che in lui ancora grandemente potè, che ispirò e produsse la
Gerusalemme, è totalmente sparito e perduto, e le nostre
condizioni a questo riguardo sono affatto cangiate in tutta
l'europa. Nullo è dunque oggidì l'interesse della
Gerusalemme. Dico che la Gerusalemme non ha
più realmente veruno interesse finale e principale, cioè non ispira più
quell'interesse ch'ella principalmente e per istituto si propone d'ispirare;
perocchè esso non ha più luogo negli animi de' lettori, affatto cangiati come
sono, nè può più nascere in alcuno quell'interesse, essendo mutate e quasi volte
in contrario le circostanze. Benchè certo la Gerusalemme al suo
tempo ispirò moltissimo interesse, e forse maggiore che l'Eneide al tempo suo, ed oltre di questo universale
nelle colte nazioni,
3148 dove quello dell'Eneide non potè esser che nazionale. Nè certo la
Gerusalemme mancò del suo fine. Ma ora non per tanto non può
più produrlo. Interessi però episodici e non finali ve n'hanno molti nella
Gerusalemme. V'ha quello di Olindo e Sofronia e nasce dalla
sventura. V'ha quello di Erminia, quello di Clorinda, e nascono dalla
sventura. V'ha quello del Danese, e
nasce dalla sventura, e, quel ch'è notabile, da sventura toccante alla stessa
parte che aveva a {riuscir} vittoriosa e fortunata,
cioè a dire alla Cristiana. Colla quale occasione è da considerare la bella e
straordinaria facoltà che {concedeva} al Tasso lo spirito del
suo tempo, cioè di congiungere la compassione alla felicità, di far nascere
questa da quella, di salvar l'{estrema} unità che si
esigeva ne' poemi epici pigliando un Eroe felice e facendolo non per tanto
compassionevole. Alleanza impossibile anticamente, difficile e di poco buono
effetto oggidì. Ma le opinioni Cristiane (che al suo tempo fiorivano) riponendo
3149 la felicità propria dell'uomo nell'altra vita,
facendola indipendente da quella di questo mondo, considerando le sventure {temporali} come vantaggi e reali fortune, insegnando
massimamente esser felicissimo chi soffre per la giustizia e per la fede e per
Dio, e più chi muore per loro amore e cagione, davano luogo al Tasso di rappresentare
come felice e come giunto al suo desiderio e scopo un personaggio, il quale,
facendolo temporalmente sventurato e nelle sventure magnanimo ec, poteva pur
fare sommamente compassionevole e tenero. Nè altrimenti egli si governò circa il
Danese, il
quale ei non diede {{già}} per infelice, ma per
felicissimo veramente, essendo morto, e generosamente morto per Dio, e nel tempo
stesso il volle fare e il fece oggetto di compassione e di tenerezza per la
temporale sventura e per questa morte fortemente incontrata e sostenuta. Ma ei
non si volle prevalere di tal facoltà nè di tali opinioni e disposizioni del suo
tempo, se non quanto a personaggi secondarii (come questo e Dudone)
3150 e in episodii; e l'eroe principale volle farlo felice non solo
eternamente ma temporalmente altresì, e la principale impresa volle che bene
uscisse non pure secondo il cielo, ma eziandio secondo la terra. Nel che non
m'ardisco però di riprendere il suo giudizio, nè so biasimarlo s'ei credette che
i dogmi metafisici (e poco conformi, anzi contrarii alla natura e che troppa
forza le fanno) non dovessero gran fatto influire sulla poesia, nè potessero
molto giovare a produr con essa un buono, bello e splendido effetto. Siccome
essi poco veramente influivano, anche al suo tempo, sopra le azioni e le quasi
secondarie opinioni degli uomini; nè valsero in alcun tempo a cangiare la natura
umana, alla quale dee mirare in ogni tempo il poeta. In verità due sorti di
opinioni e di dogmi, l'una dall'altra distinta, e che quasi nulla comunicavano
insieme, {tenevano} all'età del Tasso e ne' secoli a lei precedenti gl'intelletti
degli uomini. L'una Cristiana, l'altra naturale; quella quasi del tutto
inefficace
3151 e inattiva, la cui forza non si
stendeva fuori dell'intelletto e ne' termini di questo si restringeva la sua
esistenza; l'altra efficace attiva che dall'intelletto stendevasi a influire e
muovere la volontà, e governare le operazioni e la vita. Perocchè gli uomini
sono sempre mossi dalle opinioni, nè altro che le opinioni può cagionare le loro
azioni volontarie, nè v'ha opera umana volontaria che dalla opinione, ossia
giudizio dell'intelletto, non derivi. Ma l'intelletto umano è capace di
contenere al tempo stesso opinioni e dogmi dirittamente fra se contrarii, e di
contenerli conoscendone la scambievole, inconciliabile contrarietà, come
accadeva ai detti tempi. Ben diversi dalla primissima età del Cristianesimo,
quando un solo genere di opinioni regnava negli animi, cioè quelle della
religione, ed era efficace, e stendevasi alla volontà ed al reggimento delle
azioni interiori ed esteriori, e della vita. Ma questo durò assai meno di quel
che può credere
3152 chi non conosce la storia
ecclesiastica, o chi non ci ha riflettuto, o chi in essa si lascia imporre dai
nomi, e dal linguaggio tenuto in narrarla. Durò pochissimo, o, se non altro,
divenne in breve assai raro. Del resto egli è duopo distinguere in ciascuna età,
nazione, individuo le opinioni efficaci dalle inefficaci che nell'intelletto
puramente si restringono. Quelle talor possono servire alla poesia, talora non
possono (come le presenti, e vedi la pag. 2944-6. ), talor più, talora meno; queste sempre
pochissimo o nulla. {+Parlo delle
opinioni che in se hanno relazione alla pratica e al governo della vita, non
dell'altre, che son fuori del mio discorso. P. e. quelle opinioni, illusioni
ec. antiche o moderne che derivando dalla immaginazione {o dall'esperienza ec.} persuasero e occuparono, o persuadono ec.
l'intelletto, e nondimeno, non avendo nulla che far colla pratica della vita
per lor natura, non influiscono sulla volontà, e sono inefficaci, e queste
possono però, ed anche grandemente, servire alla poesia.}
[3494,1] Si suol dire che gli antichi attribuivano agli Dei
le qualità umane, perch'essi avevano troppo bassa idea della divinità. Che
questa idea non fosse appo loro così alta come
3495 tra
noi, non posso contrastarlo, ma ben dico che se essi attribuirono agli Dei le
qualità umane, ne fu causa eziandio grandemente l'aver essi degli uomini e delle
cose umane e di quaggiù troppo più alta idea che noi non abbiamo. E soggiungo
che umanizzando gli Dei, non tanto vollero abbassar questi, quanto onorare e
inalzar gli uomini; e ch'effettivamente non più fecero umana la divinità che
divina l'umanità, sì nella lor propria immaginazione e nella stima popolare, sì
nella espressione ec. dell'una e dell'altra, nelle favole, nelle invenzioni, ne'
poemi, nelle costumanze, ne' riti, nelle apoteosi, ne' dogmi e nelle discipline
religiose ec. (22. Sett. 1823.). Tanto grande idea ebbero gli
antichi dell'uomo e delle cose umane, tanto poco intervallo posero fra quello e
la divinità, fra queste e le cose divine (non per abbassar l'une ma per elevar
l'altre, nè per disistima dell'une ma per altissimo concetto dell'altre),
ch'essi stimarono la divinità e l'umanità potersi congiungere insieme in un solo
subbietto, formando una persona sola. Onde immaginarono un intiero genere
participante
3496 dell'umano e del divino,
participazione che lor sembrò naturalissima, e ciò furono i semidei. E
similmente i fauni, le ninfe, i pani ed altre tali divinità, anzi semidivinità
{#1. δαίμονες, genii, lares, penates, manes ec. V. Forcell. in tutte queste voci.} terrestri,
acquatiche, aeree, insomma sublunari, reputate mortali, si possono ridurre a
questo genere di partecipanti
(v. il Forcellini in Nympha): sebben
elle erano inferiori ai semidei, come Ercole (di cui vedi Luciano
Dial. d'Ercole e Diogene, che fa molto a proposito), cioè participanti forse
di minor parte di divinità e più d'umanità o mortalità; siccome gli eroi,
finch'essi sono mortali possono parere un grado inferiori a' Pani, ninfe ec.
cioè men divini. (V. Forcell. in Heros, Indigetes, Semideus; e Platone nel Convito
ed. Astii t. 3.
498. D- 500. E, che fa ottimamente al caso {#1.) V. p.
3544.} Gli antichi non trovarono maggior difficoltà a
comporre in {un} suggetto medesimo l'umanità e la
divinità, di quel che a comporre i due sessi umani, il maschio e la femmina,
negl'immaginari ermafroditi; quasi l'umano e il divino fossero, non altrimenti
che il virile e il donnesco, due {diverse} specie, per
dir così, d'un genere istesso, nè maggior differenza, o intervallo,
3497 o distinzion di natura fosse tra loro. (22.
Sett. 1823.).
[3497,1] Le speranze che dà all'uomo il Cristianesimo sono
pur troppo poco atte a consolare l'infelice e il travagliato in questo mondo, a
dar riposo all'animo di chi si trova impediti quaggiù i suoi desiderii,
ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l'adito ai
piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla
fortuna. La {promessa e l'aspettativa}
{di} una felicità grandissima e somma ed intiera bensì,
ma 1.o che l'uomo non può comprendere nè immaginare nè pur concepire o
congetturare in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione, 2.o
ch'egli sa bene di non poter mai nè concepire nè immaginare nè averne veruna
idea finchè gli durerà questa vita, 3.o ch'egli sa espressamente esser di natura
affatto diversa ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da quella
che quaggiù gli è negata, da quella il cui desiderio e la cui privazione forma
il soggetto e la causa della sua infelicità; una tal promessa, dico, e una tale
3498 espettativa è ben poco atta a consolare in
questa vita l'infelice e lo sfortunato, a placare {e
sospendere} i suoi desiderii, a compensare quaggiù le sue privazioni.
La felicità che l'uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una
felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo
tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di
questa vita e di questa esistenza, non di un'altra vita e di una esistenza che
noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo
concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la perfezione e il fine
dell'esistenza. Noi desideriamo di esser felici perocchè esistiamo. Così
chiunque vive. È chiaro adunque che noi desideriamo di esser felici, non
comunque si voglia, ma felici secondo il modo nel quale infatti esistiamo. {#1. L'uomo non desidera la felicità
assolutamente, ma la felicità umana (così gli altri animali), nè la felicità
qualch'ella sia, ma una tale, benchè non definibile, felicità. Ei la
desidera somma e infinita, ma nel suo genere, non infinita in questo senso
ch'ella comprenda la felicità del bue, della pianta, dell'Angelo e tutti i
generi di felicità ad uno ad uno. Infinita è realmente la sola felicità di
Dio. Quanto all'infinità, l'uomo desidera una felicità come la divina, ma
quanto all'altre qualità ed al genere di essa felicità, l'uomo non potrebbe
già veramente desiderare la felicità di Dio. L'uomo che invidia al suo
simile un vestito, una vivanda, un palagio, non è propriamente mai tocco nè
da invidia nè da desiderio dell'immensa e piena felicità di Dio, se non solo
in quanto immensa, e più in quanto piena e perfetta. Veggasi la p. 3509. massime in
margine.} È chiaro che la nostra esistenza desidera la
perfezione e il fin suo, non già di un'altra esistenza, e questa a lei
inconcepibile. La nostra esistenza desidera dunque la sua propria felicità; chè
desiderando quella di un'altra esistenza, ancorch'ella in questa s'avesse poi a
tramutare, desidererebbe, si può dire, una felicità non propria ma altrui,
3499 ed avrebbe per ultimo e vero fine non se stessa,
ma altrui, il che è essenzialmente impossibile a qualsivoglia Essere in
qualsivoglia operazione o inclinazione o pensiero ec. Laonde la felicità che
l'uomo desidera è necessariamente una felicità conveniente e propria al suo
presente modo di esistere, e della quale sia capace la sua presente esistenza.
Nè egli può mai lasciare di desiderar questa felicità per niuna ragione, nè per
niuna ragione può mai desiderare altra felicità che questa. E non è più
possibile che l'uomo mortale desideri veramente la felicità de' Beati, di quello
che il cavallo la felicità dell'uomo, o la pianta quella dell'animale; di quel
che l'animale erbivoro invidii al carnivoro o la sua natura, o la carne di cui
lo vegga cibarsi, all'uomo il piacere degli studi e delle cognizioni, piacere
che l'animale non può concepire nè che possa esser piacere, nè come, nè qual
piacere sia; e così discorrendo. E ben vero che nè l'uomo, nè forse l'animale nè
verun altro essere, può esattamente definire {+nè a se stesso nè agli altri,} qual sia
assolutamente e in generale la felicità ch'ei desidera; perocchè
3500 niuno forse l'ha mai provata, nè proveralla, e
perchè infiniti altri nostri concetti, ancorchè ordinarissimi e giornalieri,
sono per noi indefinibili. Massime quelli che tengono più della sensazione che
dell'idea; che nascono più dall'inclinazione e dall'appetito, che
dall'intelletto, dalla ragione, dalla scienza; che sono più materiali che
spirituali. Le idee sono per lo più definibili, ma i sentimenti quasi mai;
quelle si possono bene e chiaramente e distintamente comprendere ed abbracciare
e precisar col pensiero, questi assai di rado o non mai. Ma ciò non ostante, sì
l'animale che l'uomo sa bene e comprende, o certo sente, che la felicità ch'ei
desidera è cosa terrena. Quell'infinito medesimo a cui tende il nostro spirito
(e in qual modo e perchè, s'è dichiarato altrove pp. 165. sgg.
pp.
179-81
pp.
3027-29), quel medesimo è un infinito terreno, bench'ei non possa aver
luogo quaggiù, altro che confusamente nell'immaginazione e nel pensiero, o nel
semplice desiderio ed appetito de' viventi. Oltre di ciò niuno è che viva
senz'alcun desiderio determinato e chiaro e definibilissimo, negativo o
positivo, nel conseguimento
3501 del quale o di più
d'uno di loro, ei ripone sempre o espressamente o confusamente, benchè pur
sempre per errore, la sua felicità e 'l suo ben essere. Quel trovarsi senz'alcun
desiderio al mondo, se non quello di un non so che, {#1. quell'essere infelice senza mancare di niun bene nè
patire assolutamente niun male,} è impossibile; e se Augusto diceva d'essere in questo caso,
poteva parergli che così fosse, ma s'ingannava; e niuno mai si trovò veramente
in tal caso nè è per trovarvisi, perchè a niuno mai mancò nè è per mancar
materia di qualche desiderio determinato, più o men vivo, o ch'esso miri a cosa
che ci manchi, o a cosa che noi abbiamo e ci dispiaccia. {#2. Anzi a nessuno è per mancar mai materia di molti e
vivi desiderii determinati di questa specie.} Or tutti questi
desiderii determinati che noi abbiamo, ed avremo sempre, e che non soddisfatti,
ci fanno infelici, sono tutti di cose terrene. Promettere all'uomo, promettere
all'infelice una felicità celeste, benchè intera e infinita, {e superiore senza paragone alla terrena, e a' piccoli beni ch'egli
desidera,} si è come a un che si muor di fame e non può ottenere un
tozzo di pane, preparargli un letto morbidissimo, o promettergli degli
squisitissimi e beatissimi odori. Con questo divario che l'affamato concepirebbe
pure il piacer che fosse per provare il suo odorato da quella sensazione,
3502 e questo piacere sarebbe della medesima natura di
quello ch'ei desidera e non ottiene, cioè materiale e sensibile come l'altro.
Non così possiamo dire de' piaceri celesti promessi a chi desidera e non ottiene
i terreni, nel qual caso l'uomo si trova naturalmente e necessariamente sempre,
e l'infelice massimamente, benchè tutti a rigore sono infelici, e lo sono perchè
tutti e sempre si trovano nel detto caso. Ora i piaceri celesti, al contrario di
ciò che s'è detto qui sopra, son di natura affatto diversi da quelli che noi
desideriamo e non ottenghiamo, e non ottenendo siamo infelici; e questa lor
natura non può da noi per verun modo mai essere conceputa. Onde segue che la
consolazione che può derivare dallo sperarli, sia nulla in effetto; perchè a chi
desidera una cosa si promette un'altra ch'è diversissima da quella; a chi è
misero per un desiderio non soddisfatto, si promette di soddisfare un desiderio
ch'ei non ha e non può per sua natura avere nè formare; a chi brama un piacer
noto, e si duole di un male noto, si promette un piacere e un bene ch'ei non
conosce nè può conoscere, {e} ch'ei non vede nè può
vedere come sia per esser bene, {e} come possa
piacergli;
3503 a chi è misero in questa vita, e
desidera necessariamente la felicità di questa esistenza, ed altra esistenza non
può concepire nè desiderarne la felicità, si promette la beatitudine di una
tutt'altra esistenza e vita, di cui questo solo gli si dice, ch'ella è
sommamente e totalmente e più ch'ei non può immaginare diversa dalla sua
presente, e ch'ei non può figurarsi per niun conto qual ella sia. Come l'uomo
non può nè collo intelletto nè colla immaginazione nè con veruna facoltà nè
veruna sorta d'idee oltrepassare d'un sol punto la materia, e s'egli crede
oltrepassarla, e concepire o avere un'idea qualunque di cosa non materiale,
s'inganna del tutto; così egli non può col desiderio passare d'un sol punto i
limiti della materia, nè desiderar bene alcuno che non sia di questa vita e di
questa sorta di esistenza ch'ei prova; e s'ei crede desiderar cosa d'altra
natura, s'inganna, e non la desidera, ma gli pare di desiderarla. Come dunque ei
non può desiderar bene alcuno d'altra natura, così la promessa e la speranza di
tali beni, non può per modo alcuno
3504 consolarlo
realmente nè de' mali di questa vita nè della mancanza de' di lei beni, {+nè (quando e' non fosse infelice)
rallegrarlo e dilettarlo e compiacerlo colla dolcezza dell'aspettativa, e
intrattenerlo e contribuire quaggiù al suo contento.} Di più, l'uomo
si pasce per verità e si sostiene e vive grandissima parte della sua vita, anzi
pur tutta la vita sua, della speranza, ancorchè lontana, la qual è un piacere,
ma come e perchè? Perchè l'uomo va immaginando e contemplando seco stesso {a parte} a parte il godimento ch'egli attende o spera, e
prova diletto nel considerare e rappresentarsi il modo in che egli ne godrà,
{+e le sue qualità e condizioni e
circostanze,} anticipando ed {anzi}
assaporando {effettivamente} colla immaginazione mille
volte il piacer futuro. Ma questa contemplazione, questa rappresentazione,
quest'anticipazione, questo gusto o assaggio, questo deliro o sogno che ci fa
parere e ci rende infatti presente il piacer futuro, ancor più ch'ei nol sarà
quando si troverà presente in effetto (se egli si troverà mai presente), come
può aver luogo intorno a un piacere assolutamente inconcepibile, non solo nel
più e nel meno, o nella specie, ma nel genere, di modo che le nostre idee non
hanno alcun potere di abbracciarne o di avvicinarne nè pure una menoma parte?
Come ci può per verun deliro {o veruno sforzo}
dell'immaginazione {o dell'intelletto} parer presente
3505 quello a cui nè l'immaginazione nè
l'intelletto non si possono {neppure} a grandissimo
tratto avvicinare; quello che non è fatto nè per questa immaginazione nè per
questo intelletto; quello ch'è di natura affatto diversa da ciò che
l'immaginazione o l'intelletto può concepire o congetturare; quello che non
sarebbe ciò ch'egli è, s'a noi fosse possibile pure il congetturarlo; quello che
spetta a tutt'altra natura che la nostra presente? Come può per alcun modo o in
alcuna parte entrar nella mente nostra {una tutt'}altra
natura?
[4103,6]
Il est
aisé de voir la prodigieuse révolution que cette époque
*
(celle
du Christianisme) dut produire dans les mœurs. Les
femmes, presque toutes d'une imagination vive et d'une ame ardente, se
livrèrent à des vertus qui les flattoient d'autant plus, qu'elles
étoient pénibles. Il est presque égal pour le bonheur de satisfaire de
grandes passions, ou de les vaincre. L'ame est heureuse par ses efforts;
et pourvu qu'elle s'exerce, peu lui importe d'exercer son activité
contre elle - même.
*
Thomas
Essai sur les Femmes.
Oeuvres, Amsterdam 1774. tome 4.
p. 340. (24. Giugno. Festa di S. Giovanni Battista.
1824.).
[4238,4] Differenza tra le antiche e le più recenti, le prime
e le ultime, mitologie. Gl'inventori delle prime mitologie (individui o popoli)
non cercavano l'oscuro per
4239 tutto, eziandio nel
chiaro; anzi cercavano il chiaro nell'oscuro; volevano spiegare e non
mistificare e scoprire; tendevano a dichiarar colle cose sensibili quelle che
non cadono sotto i sensi, a render ragione a lor modo e meglio che potevano, di
quelle cose che l'uomo non può comprendere, o che essi non comprendevano ancora.
Gl'inventori delle ultime mitologie, i platonici, e massime gli uomini dei primi
secoli della nostra era, decisamente cercavano l'oscuro nel chiaro, volevano
spiegare le cose sensibili e intelligibili, colle non intelligibili e non
sensibili; si compiacevano delle tenebre; rendevano ragione delle cose chiare e
manifeste, con dei misteri e dei secreti. Le prime mitologie non avevano
misteri, anzi erano trovate per ispiegare, e far chiari a tutti, i misteri della
natura; le ultime sono state trovate per farci creder mistero e superiore alla
intelligenza nostra anche quello che noi tocchiamo con mano, quello dove,
altrimenti, non avremmo sospettato nessuno arcano. Quindi il diverso carattere
delle due sorti di mitologie, corrispondente al diverso carattere sì dei tempi
in cui nacquero, sì dello spirito e del fine o tendenza con cui furono create.
Le une gaie, le altre tetre ec. (Recanati 29. Dic.
1826.).
[4290,1]
C'est
en conséquence de ces cruelles opinions, que l'on a vu enseigner
publiquement, à la honte du Christianisme, que l'on
ne devoit pas garder la foi aux hérétiques; sentiment que Clément VIII, qui d'ailleurs
étoit assez honnête homme pour un Pape, approuvoit, ainsi que s'en
plaint amérement le Cardinal d'Ossat. L'inhumaine décision du
concile de Constance, sur le mépris des saufs - conduits, est aussi le
fruit de cette pernicieuse doctrine.
*
(Hist. du concile de
Constance, préface de Lenfant. P. 47.)
Examen
critique des Apologistes de la religion chrétienne, par M. Fréret, chap. 10. édit. de 1766.
p. 188-9.
(Firenze, 19. Sett. 1827.).
[393,2] Il mio sistema intorno alle cose ed agli uomini, e
l'attribuir ch'io fo tutto o quasi tutto alla natura, e pochissimo o nulla alla
ragione, ossia all'opera dell'uomo o della creatura, non si oppone al
Cristianesimo.
[436,1] Nella Genesi non si trova nulla in
favore della pretesa scienza infusa in Adamo, eccetto quello che appartiene ad un certo linguaggio, come ho
detto p. 394. fine. Dio, dice la Genesi,
adduxit ea
*
(gli
animali) ad Adam, ut videret
quid vocaret ea: omne enim quod vocavit Adam animae viventis,
*
(che
forse è quanto dire: omnis enim
anima vivens, quam vocavit Adam, cioè omne animal vivens) ipsum est nomen eius.
Appellavitque Adam
nominibus suis cuncta animantia, et universa volatilia caeli, et
omnes bestias terrae.
*
(Gen. 2. 19. et
20.) Questo non suppone mica una storia naturale infusa in Adamo, nè la scienza di quelle qualità
degli animali che non si conoscono senza studio, ma solamente di quelle che
appariscono a prima giunta agli occhi, all'orecchio ec: qualità dalle quali
ordinariamente son derivati i nomi di tutti gli oggetti sensibili
437 nei primordi di qualunque lingua; quei nomi dico e
quelle parole che formano le radici degl'idiomi.
[1004,1]
1004 Uno dei principali dogmi del Cristianesimo è la
degenerazione dell'uomo da uno stato primitivo più perfetto e felice: e con
questo dogma è legato quello della Redenzione, e si può dir, tutta quanta la
Religion Cristiana. Il principale
insegnamento del mio sistema, è appunto la detta degenerazione. Tutte, per
tanto, le infinite osservazioni e prove generali o particolari, ch'io adduco per
dimostrare come l'uomo fosse fatto primitivamente alla felicità, come il suo
stato perfettamente naturale (che non si trova mai nel fatto) fosse per lui il
solo perfetto, come quanto più ci allontaniamo dalla natura, tanto più diveniamo
infelici ec. ec: tutte queste, dico, sono altrettante prove dirette di uno dei
dogmi principali del Cristianesimo, e possiamo dire, della verità dello stesso
Cristianesimo. (1. Maggio 1821.).
[1625,1] Non attribuiamo a Dio se non un solo modo di
esistere, e una sola perfezione. Ma se niuna perfezione è assoluta, egli non
sarà dunque perfetto, avendo questa sola. L'unica perfezione assoluta, è di
esistere in tutti i possibili modi, ed in tutti esser perfetto, cioè
perfettamente conveniente, dentro la natura
1626 e la
proprietà di quel modo di essere. La perfezione assoluta abbraccia tutte le
possibili qualità, anche contrarie, perchè non v'è contrarietà assoluta, ma
relativa: e se è possibile un modo di essere contrario a quello che noi
concepiamo in Dio e nelle cose a noi note (che certo è possibile, non essendovi
ragione assoluta e indipendente che lo neghi), Iddio non sarebbe nè infinito nè
perfetto, anzi imperfettissimo, s'egli non esistesse anche in quel modo, e non
fosse in perfetta relazione e convenienza con quel modo di essere. Noi dunque
non conosciamo se non una sola parte {dell'essenza} di
Dio, fra le infinite, {+o vogliamo dire una sola delle
infinite sue essenze.} Egli ha precisamente le perfezioni
che noi gli diamo: egli esiste verso noi in quel modo che la religione insegna;
i suoi rapporti verso noi, sono perfettamente quali denno essere verso noi, e
quali richiede la natura del mondo a noi noto. Ma egli esiste in infiniti altri
modi, ed ha infinite altre parti, che non possiamo in veruna maniera concepire,
se non immaginandoci questo medesimo. La Religione Cristiana è dunque
interamente vera, e i miei non si oppongono, anzi favoriscono i suoi dogmi.
1627
(4. Sett. 1821.).
[1619,1] Io non credo che le mie osservazioni circa la
falsità d'ogni assoluto, debbano distruggere l'idea di Dio. Da che le cose sono,
par ch'elle debbano avere una ragion sufficiente di essere, e di essere in
questo lor modo; appunto perch'elle potevano non essere o esser tutt'altre, e
non sono punto necessarie. Ego sum qui sum
*
, cioè ho in
me la ragione di essere: grandi e notabili parole! Io concepisco l'idea di Dio
in questo modo. Può esservi una cagione universale di tutte le cose che sono o
ponno essere, e del loro modo di essere. - Ma la cagione di questa cagione qual
sarà? poich'egli non può esser necessario, come voi avete dimostrato. - È vero
che niente preesiste alle cose. {Non preesiste dunque la
necessità.} Ma pur preesiste la possibilità. Noi non possiamo concepir
nulla al di là della materia. Noi non possiamo {dunque}
negare l'aseità, benchè neghiamo la
necessità di essere. Dentro i limiti della materia, e nell'ordine di cose che ci
è noto,
1620 pare a noi che nulla possa accadere senza
ragion sufficiente; e che però quell'essere che non ha in se stesso veruna
ragione e quindi veruna necessità assoluta di essere, debba averla fuor di se
stesso. E quindi neghiamo che il mondo possa essere, ed esser qual è, senza una
cagione posta fuori di lui. Sin qui nella materia. Usciti della materia ogni
facoltà dell'intelletto si spegne. Noi vediamo solamente che nulla è {assoluto nè quindi} necessario. Ma appunto perchè nulla
è assoluto, chi ci ha detto che le cose fuor della materia non possano esser
senza ragion sufficiente? Che quindi un Essere onnipotente non possa sussister
da se ab eterno, ed aver fatto tutte le cose, bench'egli assolutamente parlando
non sia necessario? Appunto perchè nulla è vero nè falso assolutamente, non è
egli tutto possibile, come abbiamo provato altrove? pp. 1339-42
pp. 1461-64
pp. 1616-18
[1637,1]
1637 Dal detto in altri pensieri pp. 1619-23 risulta che Dio poteva
manifestarsi a noi in quel modo e sotto quell'aspetto che giudicava più
conveniente. Non manifestarsi, come ai Gentili; manifestarsi meno, e in forma
alquanto diversa, come agli Ebrei; più, come a' Cristiani: dal che non bisogna
concludere ch'egli ci si è manifestato tutto intero, come noi crediamo. Errore
non insegnato dalla Religione, ma da' pregiudizi che ci fanno credere assoluto
ogni vero relativo. La rivelazione poteva esserci e non esserci. Ella non è
necessaria primordialmente, ma stante le convenienze relative, originate dal
semplice voler di Dio. Egli si nascose a' Gentili, rivelossi alquanto agli
Ebrei, manifestò al mondo una maggior parte di se, nella pienezza de' tempi,
cioè quando gli uomini furono in istato di meglio comprenderlo. Egli si è
rivelato perchè ha voluto e l'ha stimato conveniente, e quanto e come e sotto la
forma che ha stimato conveniente, secondo le diverse circostanze delle sue
creature: forma sempre vera, perch'egli esiste in tutti i modi possibili.
[2114,1] Gli antichi pensatori Cristiani, S. Paolo,
2115 i padri, e
prima anche del Cristianesimo, i filosofi gentili, s'erano ben accorti di una
contraddizione fra le qualità dell'animo umano, di una lotta e nemicizia
evidente fra la ragione e la natura, di un impedimento essenziale ed ingenito
nell'uomo (qual era divenuto) alla felicità, e per conseguenza di una
degenerazione e corruzione dell'uomo, conosciuta e predicata anche nelle
antichissime mitologie.
[2178,1] A quello che ho detto dell'essenza di Dio pp. 2073-74. Lasciando in
piedi tutto ciò che la fede insegna su questo punto, io non fo che spaziarmi in
ciò ch'è permesso al filosofo, cioè nelle speculazioni sull'arcana essenza di
Dio, speculazioni non men lecite al filosofo che al teologo, giacchè anche
questi dopo che ha lasciato intatta la rivelazione, e che scorre col pensiero a
quelle cose a cui la rivelazione non giunge, senza però escluderle nè
contraddirle, allora, dico, il teologo si confonde col filosofo. Di più le mie
osservazioni combinano cogli insegnamenti cristiani, non solo affermando, ma
rendendo quasi palpabile, e sminuzzando, e quasi materializzando quella verità,
che l'essenza di Dio non può esser concepita dall'uomo. Anzi dimostrando ancora
che l'uomo s'inganna
2179 in quelle medesime confuse
immagini ch'egli se ne forma, e rintuzzando in ciò le pretensioni dell'umano
intelletto. Del resto la religione affermando dell'essenza di Dio quel ch'ella
sa, e insegnando ch'ella non può esser conosciuta, lascia {con ciò stesso} libero il campo a quelle speculazioni razionali e
metafisiche su questo punto, che possono arrivare più o meno avanti
nell'infinito spazio di questo arcano, spazio ch'essendo infinito, nessun
avanzamento di speculazione correrà mai pericolo di toccarne il termine. Ed è
per ciò, e consentaneamente a ciò, che molti padri, e Dottori, si sono ingegnati
di spiegare o dilucidare quale in un modo, quale in un altro, il mistero della
trinità, dell'incarnazione ec. non già coi lumi rivelati, e già noti a tutti, ma
col discorso umano e ragionato; ed hanno pertanto (senza biasimo) applicato il
discorso umano alla speculazione dell'essenza di Dio, al di là
2180 o fuori de' termini della rivelazione senza
lederli, e perciò senza essere ripresi. (27. Nov. 1821.).
[2263,2] Soglion dire i teologi, {i
Padri,} e gl'interpreti in proposito di molte parti dell'antica divina
legislazione ebraica, che il legislatore
2264 si
adattava alla rozzezza, materialità, incapacità, e spesso (così pur dicono) alla
durezza, indocilità, sensualità, tendenza, ostinazione, caparbietà ec. del
popolo ebraico. Or questo medesimo non dimostra dunque evidentemente la non
esistenza di una morale eterna, assoluta, antecedente
(il cui dettato non avrebbe il divino legislatore potuto mai preterire d'un
apice); e che essa, come ha bisogno di adattarsi alle diverse circostanze e
delle nazioni e de' tempi (e delle specie, se diverse specie di esseri avessero
morale, e legislazione), così per conseguenza da esse dipende, e da esse sole
deriva? (20. Dic. 1821.).
[2574,1] Non c'è virtù in un popolo senz'amor patrio, come ho
dimostrato altrove pp. 892-93. Vogliono che basti la Religione. I tempi
barbari, bassi ec. erano religiosi fino alla superstizione, e la virtù dov'era?
Se per religione intendono la pratica della medesima, vengono a dire che non c'è
virtù senza virtù. Chi è religioso in pratica, è virtuoso. Se intendono la
teorica, {e} la speranza e il timore delle cose di là,
l'esperienza di tutti i tempi dimostra che questa non basta a fare un popolo
attualmente e praticamente virtuoso. L'uomo, e specialmente
2575 la moltitudine non è fisicamente capace di uno stato continuo di
riflessione. Or quello ch'è lontano, quello che non si vede, quello che dee
venir dopo la morte, dalla quale ciascuno naturalmente si figura d'esser
lontanissimo, non può fortemente {costantemente} ed
efficacemente influire sulle azioni e sulla vita, se non di chi tutto giorno
riflettesse. Appena l'uomo entra nel mondo, anzi appena egli esce del suo
interno (nel quale il più degli uomini non entra mai, e ciò per natura propria)
le cose che influiscono su di lui, sono le presenti, le sensibili, o quelle le
cui immagini sono suscitate e fomentate dalle cose in qualunque modo sensibili:
non già le cose, che oltre all'esser lontane, appartengono ad uno stato di
natura diversa dalla nostra presente, cioè al nostro stato dopo la morte, e
quindi, vivendo {noi} necessariamente fra
2576 la materia, e fra questa presente natura, appena
le sappiamo considerare come esistenti, giacchè non hanno che far punto con
niente di quello la cui esistenza sperimentiamo, e trattiamo, e sentiamo ec. La
conchiusione è che tolta alla virtù una ragione presente, o vicina, e sensibile,
e tuttogiorno posta dinanzi a noi; tolta dico questa ragione alla virtù (la qual
ragione, come ho provato, non può esser che l'amor patrio), è tolta anche la
virtù: e la ragione lontana, insensibile, e soprattutto, estrinseca affatto alla
natura della vita presente, e delle cose in cui la virtù si deve esercitare,
questa ragione, dico, non sarà mai sufficiente all'attuale e pratica virtù
dell'uomo, e molto meno della moltitudine, se non forse ne' primi anni, in cui
dura il fervore della nuova opinione, come nel primo secolo del Cristianesimo (corrotto già nel secondo.
2577
V. i SS. Padri.) (21. Luglio
1822.).
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