Cristianesimo. Insegna la nullità della vita e delle cose umane, a differenza delle religioni antiche.
Christianity. Teaches the nullity of life and of human things, unlike ancient religions.
105,1 116,2 131,2 253,1 254,1 453,2 1364,1 4208,1[105,1]
105 E una delle gran cagioni del cangiamento nella
natura del dolore antico messo col moderno, è il Cristianesimo, che ha
solennemente dichiarata e stabilita e per così dire attivata la massima della
certa infelicità e nullità della vita umana, laddove gli antichi come non
doveano considerarla come cosa degna delle loro cure, se gli stessi Dei secondo
la loro mitologia s'interessavano sì grandemente alle cose umane per se stesse
(e non in relazione a un avvenire), erano animati dalle stesse passioni nostre,
esercitavano particolarmente le nostre stesse arti (la musica, la poesia ec.), e
in somma si occupavano intieramente delle stesse cose di cui noi ci occupiamo?
Non è però ch'io consideri intieramente il cristianesimo come cagion prima di
questo cangiamento, potendo anzi esserne stato in parte prodotto esso stesso
(come opina Beniamino
Constant in un articolo sui PP.
della Chiesa riferito nello Spettatore) ma solamente come propagatore {principale} di tale rivoluzione del cuore.
[116,2] Gli antichi supponevano che i morti non avessero altri
pensieri che de' negozi di questa vita, e la rimembranza de' loro fatti gli
occupasse continuamente, e s'attristassero o rallegrassero secondo che aveano
goduto o patito quassù, in maniera che secondo essi, questo mondo era la patria
degli uomini, e l'altra vita un esilio, al contrario de' cristiani. (8.
Giugno 1820.)
{{V. p. 253.}}
[131,2] Una conseguenza del materiale delle religioni antiche
e dell'importanza che davano a questa vita, era che il sacerdozio presso i
romani fosse come un grado secolare, e presso le altre nazioni, i sacerdoti,
come i Druidi presso i Galli, si mescolassero moltissimo negli affari civili, e
nelle guerre e nelle paci e combattessero ancora negli eserciti
132 per la loro patria, l'amor della quale tanto è lungi
che fosse sbandito dalla religion loro, che anzi n'era uno de' fondamenti. E
così a un di presso fra gli antichi Ebrei, dove anzi il governo civile e
militare era tutto fondato sopra la religione. E così dirò degli oracoli
consultati per le cose pubbliche, e di tutto l'apparato delle religioni antiche,
sempre ordinato ai negozi di questo mondo.
[253,1]
253
Dal 2. pensiero della p. 116.
inferite come, {anche} secondo questa sola
considerazione, il Cristianesimo debba aver reso l'uomo inattivo e ridottolo
invece ad esser contemplativo, e per conseguenza com'egli sia favorevole al
dispotismo, non per principio (perchè il cristianesimo nè loda la tirannia, nè
vieta di combatterla, o di fuggirla, o d'impedirla), ma per conseguenza
materiale, perchè se l'uomo considera questa terra come un esilio, e non ha cura
se non di una patria situata nell'altro mondo, che gl'importa della tirannia? Ed
i popoli abituati (massime il volgo) alla speranza di beni d'un'altra vita,
divengono inetti per questa, o se non altro, incapaci di quei grandi stimoli che
producono le grandi azioni. Laonde si può dire generalmente anche astraendo dal
dispotismo, che il cristianesimo ha contribuito non poco a distruggere il bello
il grande il vivo il vario di questo mondo, riducendo gli uomini dall'operare al
pensare e al pregare, o vero all'operar solamente cose dirette alla propria
santificazione ec. Sopra la quale specie di uomini è impossibile che non sorga
immediatamente un padrone. Non è veramente che la religion cristiana condanni o
non lodi l'attività. Esempio un {San}
Carlo Borromeo, un {San}
Vincenzo de Paolis. Ma in primo luogo
l'attività di questi santi
254 se bene li portava ad
azioni eroiche (e per questa parte grandi) ed utili, non dava gran vita al
mondo, perchè la grandezza delle loro azioni era piuttosto relativa ad essi
stessi che assoluta, e piuttosto intima e metafisica, che materiale. In secondo
luogo, parendo che il cristianesimo faccia consistere la perfezione piuttosto
nell'oscurità nel silenzio, e in somma nella totale dimenticanza di quanto
appartiene a questo esilio, egli ha prodotto e dovuto produrre cento Pacomi e Macari per un {San}
Carlo Borromeo, ed è certo che lo
spirito del Cristianesimo in genere portando gli uomini, come ho detto, alla
noncuranza di questa terra, se essi sono conseguenti, debbono tendere
necessariamente ad essere inattivi in tutto ciò che spetta a questa vita, e così
il mondo divenir monotono e morto. Paragonate ora queste conseguenze, a quelle
della religione antica, secondo cui questa era la patria, e l'altro mondo
l'esilio. (29. 7.bre 1820.).
[254,1] Il costume e la massima di macerare la carne, e
indebolire il corpo per ridurlo, come dice S. Paolo, in servitù, dovea
necessariamente illanguidire le passioni e l'entusiasmo, e render soggetti anche
gli animi di chi cercava di soggiogare il corpo, e così per una parte
contribuire infinitamente a spegner la vita del mondo, per l'altra ad appianar
la strada al dispotismo, perchè non ci son forse uomini così atti ad esser
tiranneggiati
255 come i deboli di corpo, da qualunque
cagione provenga questa debolezza, o da lascivia e mollezza, come presso i
Persiani, che dopo il tempo di Ciro
divennero l'esempio dell'avvilimento e della servitù; o da macerazione ec. Nel
corpo debole non alberga coraggio, non fervore, non altezza di sentimenti, non
forza d'illusioni ec. (30. 7.bre 1820.). {{Nel corpo servo anche l'anima è
serva.}}
[453,2] Quale idea avessero gli antichi della felicità (e
quindi dell'infelicità) dell'uomo in questa vita, della sua gloria, delle sue
imprese; e come tutto ciò paresse loro solido e reale,
454 si può arguire anche da questo, che delle grandi felicità ed imprese umane,
ne credevano invidiosi gli stessi Dei, e temevano perciò l'invidia loro, ed era
lor cura in tali casi deprecari la divina invidia, in
maniera che stimavano anche fortuna, e (se ben mi ricordo) si proccuravano
espressamente qualche leggero male, per dare soddisfazione agli Dei, e mitigare
l'invidia loro pp. 197-98. Deos immortales precatus est, ut, si
quis eorum invideret operibus ac fortunae suae, in ipsum potius
saevirent, quam in remp.
*
Velleio I. c. 10. di Paolo Emilio. E così avvenne
essendogli morti due figli, l'uno 4 giorni avanti il suo trionfo, e l'altro 3
giorni dopo esso trionfo. E v. quivi le note Variorum.
V. pure Dionigi Alicarnasseo l. 12. c. 20. e 23. edizione
di Milano, e la nota del Mai al c. 20. V. ancora questi pensieri
p. 197. fine. Così importanti
stimavano gli antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle
divine operazioni altri fini che i nostri, mettevano i dei in comunione della
nostra vita e de' nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre
felicità ed imprese, come i nostri simili,
455 non
dubitando ch'elle non fossero degne della invidia degl'immortali. (23.
Dic. 1820.). {{V. p. 494. capoverso
1.}}
[1364,1] Noi facilmente ci avvezziamo a giudicar piccole, o
compensabili ec. le disgrazie che ci accadono, le privazioni ec. perchè
conosciamo e sentiamo il nulla del mondo, la poca importanza delle cose, il poco
peso degli uomini che ci ricusano i loro favori ec. Viceversa gli antichi, i
quali giudicavano tanto importanti le cose del mondo, e gli uomini, da credere
che i morti e gl'immortali se ne interessassero sopra qualunque altro affare.
(21. Luglio 1821.).
[4208,1]
Ovidio
Metam. l. 4. parlando delle anime che sono
nell'Eliso: Pars alias artes, antiquae imitamina vitae,
Exercent
*
ec. Vedilo. {{V. p. 4210.
capoverso 4.}}
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