Compassione.
Compassion.
108,1 164,1 196,1 211,1 220,3 221,12 233,4 281,1 516,2 722,1 940,2 1589,1 1594,2 1605,1 1673,1 1691,2 2107,1 2401,3 2628,2 2759,2 3107,1 3117,1 3152,1 3553,12 3604,1 3612-3 3836,1 4118,2 4255,6 4287,1[108,1]
108 Vedi come la debolezza sia cosa amabilissima a
questo mondo. Se tu vedi un fanciullo che ti viene incontro con un passo
traballante e con una cert'aria d'impotenza, tu ti senti intenerire da questa
vista, e innamorare di quel fanciullo. Se tu vedi una bella donna inferma e
fievole, o se ti abbatti ad esser testimonio a qualche sforzo inutile di
qualunque donna, per la debolezza fisica del suo sesso, tu ti sentirai
commuovere, e sarai capace di prostrarti innanzi a quella debolezza e
riconoscerla per signora di te e della tua forza, e sottomettere e sacrificare
tutto te stesso all'amore e alla difesa sua. Cagione di questo effetto è la
compassione, la quale io dico che è l'unica qualità e passione umana che non
abbia nessunissima mescolanza di amor proprio. L'unica, perchè lo stesso
sacrifizio di se all'eroismo alla patria alla virtù alla persona amata, e così
qualunque altra azione la più eroica e più disinteressata (e qualunque altro
affetto il più puro) si fa sempre perchè la mente nostra trova più soddisfacente
quel sacrifizio che qualunque guadagno in quella occasione. Ed ogni qualunque
operazione dell'animo nostro ha sempre la sua certa e inevitabile origine
nell'egoismo, per quanto questo sia purificato, e quella ne sembri lontana. Ma
la compassione che nasce nell'animo nostro alla vista di uno che soffre è un
miracolo della natura che in quel punto ci fa provare un sentimento affatto
indipendente dal nostro vantaggio o piacere, e tutto relativo agli altri, senza
nessuna mescolanza di noi medesimi. E perciò appunto gli uomini compassionevoli
sono sì rari, e la pietà è posta, massimamente in questi tempi, fra le qualità
le più riguardevoli e distintive dell'uomo sensibile e virtuoso.
109 Se già la compassione non avesse qualche fondamento
nel timore di provar noi medesimi un male simile a quello che vediamo. (Perchè
l'amor proprio è sottilissimo, e s'insinua da per tutto, e si trova nascosto ne'
luoghi i più reconditi del nostro cuore, e che paiono più impenetrabili a questa
passione) Ma tu vedrai, considerando bene, che c'è una compassione spontanea,
del tutto indipendente da questo timore, e intieramente rivolta al misero.
[164,1] In proposito di quello che ho detto p. 108. notate come ci muova a compassione e
c'intenerisca il veder qualunque persona che nell'atto di provare un dispiacere,
una sventura, un dolore ec. dà segno della propria debolezza, e impotenza di
liberarsene. Come anche il veder maltrattare anche leggermente una persona che
non possa resistere. (11. Luglio 1820.).
[196,1]
Alla p. 164.
pensiero primo, aggiungi. Se tu vedi un fanciullo, una donna, un
vecchio affaticarsi impotentemente per qualche operazione in cui la loro
debolezza impedisca loro di riuscire, è impossibile che tu non ti muova a
compassione, e non proccuri, potendo, d'aiutarli. E se tu vedi che tu dai
incomodo {o dispiacere} ec. ad uno il quale soffre
senza poterlo impedire, sei di marmo, o di una irriflessione bestiale, se ti dà
il cuore di continuare.
[211,1]
Alla p. 196
capoverso primo, aggiungi. Ci commuove molto più una rondinella che
vede strapparsi i suoi figli, e si travaglia impotentemente a difenderli, di
quello che una tigre, o altra tal fiera nello stesso caso. {+V. Virg.
Georg. 4. Qualis populea moerens
philomela sub umbra
*
ec.}
[220,3] La compassione spesso è fonte di amore, ma quando cade
sopra oggetti amabili o per se stessi, o in modo che aggiunta la compassione lo
possano divenire. E questa è la compassione che interessa e dura e si riaffaccia
più volte all'anima. Maggiori calamità in un oggetto anche innocentissimo ma non
amabile, come in persona vecchia e brutta, non destano che una compassione
passeggera, la quale
221 finisce ordinariamente colla
presenza dell'oggetto, o dell'immagine che ce ne fanno i racconti ec. {(E l'anima non se ne compiace, e non la richiama.)} I
quali ancora bisogna che sieno ben vivi ed efficaci per commuoverci
momentaneamente, laddove poche parole bastano per farci compatire una giovane e
bella, ancorchè non conosciuta, al semplice racconto della sua disgrazia. Perciò
Socrate sarà
sempre più ammirato che compianto, ed è un pessimo soggetto per tragedia. E
peccherebbe grandemente quel romanziere che fingesse dei brutti sventurati. Così
il poeta ec. Il quale ancora in qualsivoglia caso o genere di poesia, si deve
ben guardare dal dar sospetto ch'egli sia brutto, perchè nel leggere una bella
poesia noi subito ci figuriamo un bel poeta. E quel contrasto ci sarebbe
disgustosissimo. Molto più s'egli parla di se, delle sue sventure, de' suoi
amori sfortunati, come il Petrarca
ec.
[221,2] Quella tal compassione che ho detto per oggetti non
amabili, si rassomiglia molto e partecipa del ribrezzo, come se noi vediamo
tormentare una bestia ec. E perciò a destarla ci vogliono grandi calamità,
altrimenti la compassione per li piccoli mali di quei tali oggetti, appena, o
forse neppur si desta negli stessi animi ben fatti. (21. Agosto
1820.).
[233,4] La compassione come è determinata in gran parte dalla
bellezza rispetto ai nostri simili, così anche rispetto agli altri animali,
quando noi li vediamo soffrire. Che poi oltre la bellezza, una grande e somma
origine di compassione sia la differenza
234 del sesso,
è cosa troppo evidente, quando anche l'amore non ci prenda nessuna parte. P. e.
ci sono molte sventure reali e tuttavia ridicole, delle quali vedrete sempre
ridere molto più quella parte degli spettatori che è dello stesso sesso col
paziente, di quello che faccia o sia disposta o inclinata a fare l'altra parte,
massimamente se questa è composta di donne, perchè l'uomo com'è più profondo nei
suoi sentimenti, così è molto più duro e brutale nelle sue insensibilità e
irriflessioni. E questo, tanto nel caso della bellezza, quanto della bruttezza o
mediocrità del paziente. Del resto è così vero che le piccole sventure dei non
belli non ci commuovono quasi affatto, che bene spesso siamo inclinati a
riderne.
[281,1] Quell'usignuolo di cui dice Virgilio
nell'episodio d'Orfeo, che
accovacciato su d'un ramo, va piangendo tutta notte i suoi figli rapiti, e colla
miserabile sua canzone, esprime un dolor profondo, continuo, ed
acerbissimo, senza moti di vendetta, senza cercare riparo al suo male, senza
proccurar di ritrovare il perduto ec. è compassionevolissimo, a cagione di
quell'impotenza ch'esprime, secondo quello che ho detto in altri pensieri. p.
108
p.
164
p. 196
p.
211.
[516,2] Oltre la compassione, si può notare come indipendente
affatto dall'amor proprio, un altro moto naturale, che sebbene somiglia alla
compassione, non per ciò è la stessa cosa. Ed è quella certa sensibilissima pena
che noi proviamo nel vedere p. e. un fanciullo fare una cosa la quale noi
sappiamo che gli farà male: un uomo che si esponga a un manifesto pericolo; una
persona vicina a cadere in qualche precipizio, senz'avvedersene.
517 E simili. Questo dei mali non ancora accaduti.
Allora proviamo ancora un'assoluta necessità d'impedirlo, se possiamo, e se no
una pena assai maggiore. Certo è che il veder uno che si fa male o sta per
soffrire, o volontariamente, o non sapendo ec. il vederlo, e non impedirlo, o
non sentirsi accorare non potendo, è contro natura. Nell'atto dei mali
parimente, vedendo qualcuno cadere ec. ancorchè quel male non sia degli orribili
e stomachevoli all'apparenza, contuttociò ne proviamo naturalmente e indeliberatamente gran pena. E chi
osserverà bene, questi moti sono distinti dalla compassione, la quale vien
dietro al male, e non lo precede, o accompagna. Anche nelle cose inanimate, o
negli esseri d'altra specie dalla nostra, vedendo a perire, o in pericolo di
perire o guastarsi, un oggetto bello, prezioso, raro, {utile,
e} che so io, un animale ec. proviamo lo stesso sentimento doloroso,
la stessa necessità di esclamare,
d'impedirlo potendo. ec. E ciò, quantunque quella cosa
518 non appartenga a veruno in particolare, e la sua perdita o guasto non
danneggi nessuno in particolare. Così che quel sentimento dispiacevole che noi
proviamo allora, si riferisce immediatamente all'oggetto paziente, forse ancora
quand'esso abbia un possessore, e che questo c'interessi. Dicono che la donna è
ben forte, quando può vedere a rompere la sua porcellana senza turbarsi. Ma non
solamente le donne; anche gli uomini; e non solamente nelle cose proprie, anche
nelle altrui, o comuni, o di nessuno, purch'elle sieno di un certo conto,
provano nei detti casi la detta sensazione, indipendentemente dalla volontà. La
radice di questo sentimento non par che si possa trovare nell'amor proprio. Par
che la natura nostra abbia una certa cura di ciò ch'è degno di considerazione, e
una certa ripugnanza a vederlo perire, sebbene affatto alieno da noi pp.
108-109. {v. la p. seguente
[p. 519,1].} L'orrore della distruzione
(il quale si potrebbe in ultima analisi riportare all'amor proprio) non par che
519 abbia parte in questo, almeno principalmente.
Noi vediamo perire {tuttogiorno} senza ripugnanza, o
cura d'impedirlo, mille cose di cui non facciamo conto. (17. Gen.
1821.)
[722,1] Lo sventurato non bello, e maggiormente se vecchio,
potrà esser compatito, ma difficilmente pianto. Così nelle tragedie, ne' poemi,
ne' romanzi ec. come nella vita. (6. Marzo 1821.)
[940,2] Quello che ho detto in parecchi pensieri della
compassione che eccita la debolezza p. 108
p. 164
p. 196
p. 211
p.
234
p. 281, si deve considerare massimamente in quelli che sono forti, e
che sentono in quel momento la loro forza, e ne' quali questo sentimento
contrasta coll'aspetto della debolezza o impotenza di quel tale oggetto amabile
o compassionevole: amabilità che in
941 questo caso
deriva dalla sorgente della compassione, quantunque quel tale oggetto in quel
punto non soffra, o non abbia mai sofferto, nè provato il danno della sua
debolezza. Al qual proposito si ha una sentenza {o
documento} de' Bardi Britanni rinchiusa in certi versi che suonano
così: Il soffrire con pazienza e magnanimità, è
indizio sicuro di coraggio e d'anima sublime; e l'abusare della
propria forza è segno di codarda ferocia
*
. (Annali di
Scienze e Lettere l. cit. di sopra (p. 932.) p. 378.) L'uomo forte ma nel tempo
stesso magnanimo, deriva senza sforzo e naturalmente dal sentimento della sua
forza un sentimento di compassione per l'altrui debolezza, e quindi anche una certa inclinazione ad amare, e {una
certa facoltà di sentire l'amabilità,} trovare amabile un oggetto,
maggiore che gli altri. Ed egli suol sempre soffrire con pazienza dai
deboli, piuttosto che soverchiarli, ancorchè giustamente. (13. Aprile
1821).
[1589,1] Chi ha perduto la speranza d'esser felice, non può
pensare alla felicità degli altri, perchè l'uomo non può cercarla che per
rispetto alla propria. Non può dunque neppure interessarsi dell'altrui
infelicità. (30. Agos. 1821.).
[1594,2] La bellezza è naturalmente compagna della virtù.
L'uomo senza una lunga esperienza non si avvezza a credere che un bel viso possa
coprire un'anima malvagia. Ed ha ragione, perchè la natura ha posto un'effettiva
corrispondenza tra le forme esteriori e le interiori, e se queste non
corrispondono, sono per lo più alterate da quelle ch'erano naturalmente. Pure è
certo che i belli sono per lo più cattivi. Lo stesso dico degli altri vantaggi
naturali o acquisiti. Chi li possiede, non è buono. Un brutto, un uomo
sprovvisto di pregi e di vantaggi, più facilmente s'incammina alla virtù. Gli
uomini senza talento sono più ordinariamente buoni, che quelli che ne son
ricchi. E tutto ciò è ben naturale nella società. L'uomo insuperbisce del
vantaggio che si accorge
1595 di avere sugli altri, e
cerca di tirarne per se tutto quel partito che può. S'egli è più forte, fa uso
della sua forza. Il più debole si raccomanda, e segue la strada che più giova e
piace agli altri, per cattivarseli. Il forte non abbisogna di questo. Ecco
l'abuso de' vantaggi. Abuso inevitabile e certo, posta la società. Così dico de'
potenti ec. i quali non ponno essere virtuosi. Ne' privati a me pare che non si
trovi vera affabilità, vera {e costante} amabilità e
facilità di costumi, interesse per gli altri ec. se non che nei brutti, in chi
ha qualche svantaggio, è nato in bassa condizione ed assuefattoci da piccolo,
ancorchè poi ne sia uscito, è povero o lo fu, ovvero negli sventurati.
[1605,1] È vero che l'uomo felice non suol esser molto
compassionevole, ma l'uomo notabilmente infelice, ancorchè nato sensibilissimo
non è quasi affatto capace di compassione spontanea e sensibile. Sviluppa questa
verità nelle sue parti, e nelle sue cagioni. (1. Sett. 1821.).
[1673,1] L'uomo inesperto del mondo, come il giovane ec.
sopravvenuto da qualche disgrazia o corporale o qualunque, {dov'egli non abbia alcuna colpa,} non pensa neppure che ciò debba
essere agli altri, oggetto di riso sul suo conto, di fuggirlo, di spregiarlo,
1674 di odiarlo, di schernirlo. Anzi se egli
concepisce verun pensiero intorno agli altri, relativamente alla sua disgrazia,
non se ne promette altro che compassione, ed anche premura, o almen desiderio di
giovarlo; insomma non li considera se non come oggetti di consolazione e di
speranza per lui; tanto che talvolta arriva per questa parte a godere in certo
modo della sua sventura. Tale è il dettame della natura. Quanto è diverso il
fatto! Anche le persone le più sperimentate, ne' primi momenti di una disgrazia,
sono soggette a cadere in questo errore, e in questa speranza, almeno confusa e
lontana. Non par possibile all'uomo che una sventura non meritata gli debba
nuocere presso i suoi simili, nell'opinione, nell'affetto, ec. ma egli tien per
fermissimo tutto l'opposto; e s'egli è inesperto non si guarda di nascondere
agli altri (potendo) la sua disgrazia; anzi talvolta cerca di manifestarla:
laddove la principale arte di vivere consiste ordinariamente nel non confessar
mai di esser
1675 disgraziato, o di avere alcuno
svantaggio rispetto agli altri ec.
[1691,2] Voi altri riformatori dello spirito umano, e
dell'opera della natura, voi altri predicatori della ragione, provatevi un poco
a
1692 fare un romanzo, un poema ec. il cui
protagonista si finga perfettissimo e straordinario in tutte le parti morali, e
dipendenti dall'uomo, e imperfetto {o men che perfetto}
nelle parti fisiche, dove l'uomo non ha per se verun merito. Di che si parla in
questo secolo sì spirituale massime in letteratura che oramai par che sdegni
tutto ciò che sa di corporeo, di che si parla, dico, ne' poemi, ne' romanzi,
nelle opere tutte d'immaginazione e sentimento, fuorchè di bellezza del corpo?
Questa è la prima condizione in un personaggio che si vuol fare interessante.
{+La perfettibilità
dell'uomo, come altrove ha[ho] detto
p. 830, non ha che fare col corpo. E
contuttociò la perfezione del corpo, che non dipende dagli uomini nè è
opera della ragione, si è la principal condizione che si ricerca in un
eroe di poema ec. (o si dee supporre, perchè ogni menoma imperfezione
corporale suppostagli guasterebbe ogni effetto) e la più efficace,
supponendolo ancora perfetto nello spirito.} Questa
circostanza non si può tacere; quando anche si taccia, la supplirà il lettore;
ma fare espressamente un protagonista brutto, è lo stesso che rinunziare a
qualsivoglia effetto. (V. ciò che dico in tal proposito dove parlo della
compassione pp. 220-21). Mad.
di Staël non era bella: in un'anima come la sua, questa circostanza
avrà prodotto mille pensieri e sentimenti sublimi, nuovissimi a scriverli,
profondissimi, sentimentalissimi: (così di Virgilio pretende Chateaubriand) ella amava
sopra tutto l'originalità, e poco teneva il buon
1693
gusto (v. Allemagne tome 1. ch. dernier.): ella, come tutti i
grandi, dipingeva ne' suoi romanzi il suo cuore, i suoi casi, e però si serve di
donne per li principali effetti; nondimeno si guarda bene di far brutti o men
che belli i suoi eroi o le sue eroine. Tutto lo spregiudizio, tutto l'ardire,
tutta l'originalità di un autore in qualsivoglia tempo non può giunger fin qua.
Che cosa è la bellezza? lo stesso in fondo, che la nobiltà e la ricchezza: dono
del caso? È egli punto meno pregevole un uomo sensibile e grande, perchè non è
bello? {+Quale inferiorità di vero merito
si trova nel più brutto degli uomini verso il più bello?} Eppure non
solamente lo scrittore o il poeta si deve guardare dal fingerlo brutto, ma deve
anche guardarsi da entrare in comparazioni sulla {sua}
bellezza. Ogni effetto svanirebbe se parlando o di se stesso (come fa il Petrarca) o del suo eroe, l'autore
dicesse ch'egli era sfortunato nel tale amore perchè le sue forme, o anche il
suo tratto e maniere esteriori (cosa al tutto corporea) non piacevano all'amata,
o perch'egli era men bello di un suo rivale ec. ec. Che cosa è dunque il mondo
fuorchè
1694 NATURA? Ho detto [pp. 601-603]
p. 1026
p. 1262
p. 1657 che l'intelletto umano è materiale in tutte le sue operazioni
e concezioni. La teoria stessa dell'intelletto si deve applicare al cuore e alla
fantasia. La virtù, il sentimento, i più grandi pregi morali, le qualità
dell'uomo le più pure, le più sublimi, infinite, le più immensamente lontane in
apparenza dalla materia, non si amano, non fanno effetto veruno se non come
materia, e in quanto materiali. Divideteli dalla bellezza, o dalle maniere
esteriori, non si sente più nulla in essi. Il cuore può bene immaginarsi di
amare lo spirito, o di sentir qualche cosa d'immateriale: ma assolutamente
s'inganna.
[2107,1] Ho detto pp. 1648-49
pp. 2039-41 che l'uomo di gran sentimento è soggetto a divenire
insensibile più presto e più fortemente degli altri, e soprattutto di quegli di
mediocre sensibilità. Questa verità si deve estendere ed applicare a tutte
quelle parti, generi ec. ne' quali il sentimento
2108
si divide e si esercita, come la compassione ec. ec. Sebbene è verissimo che
l'uomo di sentimento è destinato all'infelicità nondimeno assai spesso accade
ch'egli nella sua giovanezza, divenga insensibile al dolore e alla sventura, e
che tanto meno egli sia suscettibile di dolor vivo dopo passata una certa epoca,
e un certo giro di esperienza, quanto più violento e terribile fu il suo dolore
e la sua disperazione ne' primi anni, e ne' primi saggi ch'egli fece della vita.
Egli arriva sovente assai presto ad un punto, dove qualunque massima infelicità
non è più capace di agitarlo fortemente, e dall'eccessiva suscettibilità di
essere eccessivamente turbato, passa rapidamente alla qualità contraria, cioè ad
un abito di quiete e di rassegnazione sì costante, e di disperazione così poco
sensibile, che qualunque nuovo male gli riesce indifferente (e questa si può
2109 dire l'ultima epoca del sentimento, e quella in
cui la più gran disposizione naturale all'immaginazione alla sensibilità,
divengono quasi al tutto inutili, e il più gran poeta, o il più dotato di
eloquenza che si possa immaginare, perde quasi affatto e irrecuperabilmente
queste qualità, e si rende incapace a poterle più sperimentare o mettere in
opera per qualunque circostanza. Il sentimento è sempre vivo fino a questo
tempo, anche in mezzo alla maggior disperazione, e al più forte senso della
nullità delle cose. Ma dopo quest'epoca, le cose divengono tanto nulle all'uomo
sensibile, ch'egli non ne sente più nemmeno la nullità: ed allora il sentimento
e l'immaginazione son veramente morte, e senza risorsa.) Nessuna cosa violenta è
durevole. Laddove gli uomini di mediocre sensibilità, restano più o meno
suscettibili d'
2110 infelicità viva per tutta la vita,
e sempre capaci di nuovo affanno, da vecchi poco meno che da giovani, come si
vede negli uomini ordinarii tuttogiorno. (17. Nov. 1821.).
[2401,3] Non è da far mai pompa della propria infelicità. La
sola fortuna fa fortuna tra gli uomini, e la sventura non fu mai fortunata; nè
si può far traffico, e ritrarre utilità dalla miseria, quando ella sia vera.
Nessuno fu mai più stimato o più gradito per esser più infelice degli altri. E
però allo sventurato, volendo esser bene accolto ed accetto, o
2402 farsi tenere in pregio, non solamente conviene
dissimulare le proprie disgrazie, ma fingersi del numero de' fortunati,
pretendere a questo titolo, combatter la fama o chiunque glie lo neghi, e
mettere ogni studio per ingannar gli altri in questo punto. (23. Aprile.
1822.). {{V. p. 2415.}}
{{2485.}}
[2628,2]
Isocrate nel Panegirico p. 150,
cioè poco dopo il mezzo, raccontando i mali fatti da' fautori de' Lacedemoni
(Λακωνίζοντες) alle loro città, dice dei medesimi: εἰς
τοῦτο δ᾽ ὠμότητος ἅπαντας ἡμᾶς κατέστησαν, ὥστε πρὸ τοῦ μὲν διὰ τὴν
παροῦσαν εὐδαμονίαν, κᾄν ταῖς μικραῖς ἀτυχίαις, πολλοὺς ἕκαστος
ἡμῶν
*
(parla dei privati cioè di ciascun cittadino) εἶχε τοὺς συμπαϑήσοντας∙ ἐπὶ δὲ τῆς τούτων ἀρχῆς, διὰ τὸ
πλῆϑος τῶν οἰκείων κακῶν, ἐπαυσάμεϑα ἀλλήλους ἐλεοῦντες. Oὐδενὶ γὰρ
τοσαύτην
2629 σχολὴν παρέλιπον, ὥσϑ' ἑτέρῳ
συναχϑεσϑῆναι
*
. E veramente {l'abito
della} propria sventura rende l'uomo crudele ὠμὸν[ὠμόν], come dice costui. (30. Sett. 1822.).
{{Vedi la p. seg. pensiero primo
[p. 2630,1].}}
[2759,2] Chi vuol manifestamente vedere la differenza de'
tempi d'Omero da quelli di Virgilio, quanto ai costumi, e alla
civilizzazione, e alle opinioni che
2760 s'avevano
intorno alla virtù e all'eroismo, {+siccome anche quanto ai rapporti scambievoli delle nazioni, ai diritti e al
modo della guerra, alle relazioni del nimico col nimico;} e chi vuol
notare la totale diversità che passa tra il carattere e l'idea della virtù
eroica che si formarono questi due poeti, e che l'uno espresse in Achille e l'altro in Enea, consideri quel luogo dell'Eneide (X. 521-36.) dov'Enea fattosi sopra Magone che gittandosi in terra e abbracciandogli le
ginocchia, lo supplica miserabilmente di lasciarlo in vita e di farlo cattivo,
risponde, che morto Pallante, non ha
più luogo co' Rutuli alcuna misericordia nè alcun commercio di guerra, e spietatamente pigliandolo per la
celata, gl'immerge la spada dietro al collo per insino all'elsa. Questa scena e
questo pensiero è tolto di peso da Omero, il quale introduce Menelao sul punto di lasciarsi commuovere da simili prieghi, ripreso
da Agamennone, che senza alcuna pietà
uccide il troiano già vinto e supplichevole.
[3107,1] Altra proprietà dell'uomo si è che laddove la
superiorità, laddove la virtù congiunta colla fortuna non produce se non un
interesse debole, cioè l'ammirazione; per lo contrario la sventura in qualunque
{caso}, ma molto più la sventura congiunta colla
virtù, produce un interesse vivissimo, durevole e dolcissimo. Perocchè l'uomo si
compiace nel sentimento della compassione, perchè nulla sacrificando, ottiene
con essa quel sentimento che in ogni cosa e in ogni occasione gli è gratissimo,
cioè una quasi coscienza di proprio eroismo e nobiltà d'animo. La sventura è
naturalmente cagione di dispregio e anche d'odio verso lo sventurato, perchè
l'uomo per natura odia, come il dolore, così le idee dolorose. Mirando dunque,
malgrado la sciagura, alla virtù dello sciagurato, e non {abbominandolo nè} disdegnandolo quãtunque[quantunque] tale, e finalmente giungendo a compassionarlo, cioè a
voler coll'animo entrare a parte de' suoi
3108 mali,
pare all'uomo di fare uno sforzo sopra se stesso, di vincere la propria natura,
di ottenere una prova della propria magnanimità, di avere un argomento con cui
possa persuadere a se medesimo di esser dotato di un animo superiore
all'ordinario; tanto più ch'essendo proprio dell'uomo l'egoismo, e il
compassionevole interessandosi per altrui, stima con questo interesse che niun
sacrifizio gli costa, mostrarsi a se stesso straordinariamente magnanimo,
singolare, eroico, più che uomo, poichè può non essere egoista, e impegnarsi
seco medesimo per altri che per se stesso. L'uomo nel compatire s'insuperbisce e
si compiace di se medesimo: quindi è ch'egli goda nel compatire, e ch'ei si
compiaccia della compassione. {Veggansi le pagg. 3291-97. e
3480-2.}
L'atto della compassione è un atto d'orgoglio che l'uomo fa tra se stesso. Così
anche la compassione che sembra l'affetto il più lontano, anzi il più contrario,
all'amor proprio, e che sembra non potersi in nessun modo e per niuna parte
ridurre o riferire a questo amore, non
3109 deriva in
sostanza (come tutti gli altri affetti) se non da esso, anzi non è che amor
proprio, ed atto di egoismo. {+Il quale arriva a prodursi e fabbricarsi un piacere
col persuadersi di morire, o d'interrompere le sue funzioni, applicando
l'interesse dell'individuo ad altrui. Sicchè l'egoismo si compiace
perchè crede di aver cessato o sospeso il suo proprio essere di egoismo.
V. p.
3167.}
[3117,1] Come la stima, così la compassione verso il nimico,
ancorchè vinto e virtuoso era impropria di quei tempi. (Vedi quello che altrove
ho detto p. 2760
pp.
3108-109 in proposito d'un'azione d'Enea appo Virgilio, dopo
morto Pallante). Gli animi naturali
non provano nella vittoria altro piacere che quello della vendetta. La
compassione, anche generalmente parlando (cioè quella ancora che cade sulle
persone non inimiche) nasce bensì, come di sopra ho detto,
3118 dall'egoismo, ed è un piacere, ma non è già propria nè degli
animali nè degli uomini in natura, nè anche, se non di rado e scarsamente, degli
animi ancora quasi incolti (quali erano i più a' tempi eroici). Questo piacere
ha bisogno di una delicatezza e mobilità di sentimento o facoltà sensitiva, di
una raffinatezza e pieghevolezza di egoismo, per cui egli possa come un serpente
ripiegarsi fino ad applicarsi ad altri oggetti e persuadersi che tutta la sua
azione sia rivolta sopra di loro, benchè realmente essa riverberi tutta ed operi
in se stesso e a fine di se stesso, cioè nell'individuo che compatisce. Quindi è
che anche nei tempi moderni e civili la compassione non è propria se non degli
animi colti e dei naturalmente delicati e sensibili, cioè fini e vivi. Nelle
campagne dove gli uomini sono pur meno corrotti che nelle città, rara, e poco
intima e viva, e di poca efficacia e durata è la compassione. Ma lo spirito di
Omero era certamente
3119 vivissimo e mobilissimo, e il sentimento
delicatissimo e pieghevolissimo. Quindi egli provò il piacere della compassione,
lo trovò, qual egli è, sommamente poetico, perocch'egli, oltre alla dolcezza,
induce nell'animo un sentimento di propria nobiltà e singolarità che l'innalza e
l'aggrandisce a' suoi occhi, vero e proprio effetto della poesia. {Veggasi la p. 3167-8. e pagg. 3291-7.
} Volle dunque introdurlo nel suo poema, anzi farne l'uno de'
principali fini del medesimo, l'uno de' principali piaceri prodotti dalla sua
poesia. Volle accompagnar questo piacere e questo affetto con quello della
maraviglia, affetto appartenente all'immaginazione e non al cuore, che fino a
quel tempo era forse stato l'unico {+o il
principal} effetto della poesia. Volle che il suo poema operasse
continuamente del pari e sulla immaginazione e sul cuore, e dall'una e
dall'altra sua facoltà volle trarlo, cioè da quella d'immaginare e da quella di
sentire. Questo suo intento è manifestissimo
3120 nel
suo poema, più manifesto che appo gli altri poeti greci venuti a tempi più
colti, più eziandio che ne' tragici appo i quali il terrore e la maraviglia
prevalgono ordinariamente alla pietà, e spesso son soli, sempre tengono il primo
luogo. Vedesi apertamente che Omero si
compiace nelle scene compassionevoli, che se il soggetto e l'occasione gliene
offrono, egli immediatamente le accetta, che altre ne introduce a bella posta e
cercatamente (come l'abboccamento d'Ettore e Andromaca
{a introdurre} il quale, e non ad altro, è destinata e
ordinata quella improvvisa venuta d'Ettore in troia, nel maggior
fuoco della battaglia, e in tempo che può veramente parere inopportuno {intempestivo} e imprudente), e che nell'une e nell'altre
ei non trascorre, ma ci si ferma e ci si diletta, e raccoglie tutte le
circostanze che possono {eccitare e} accrescere la
compassione, e le sminuzza, e le rappresenta con grandissima arte e intelligenza
del cuore umano. E il soggetto di tutte
3121 queste
scene dove l'animo de' lettori è sommamente interessato non sono altri che
quegli stessi che Omero ha tolto a
deprimere, i nemici de' greci ch'egli ha preso ha[ad] esaltare. Nè pertanto egli s'astiene dal volere a ogni modo far
piangere sopra i troiani, e deplorare ai medesimi greci quelle sventure ch'essi
avevano cagionate, del che egli nel tempo stesso sommamente li celebra.
[3152,1] Da questa digressione, non aliena, cred'io, dal
proposito, tornando in via, ci resta a considerare come sia strano e quasi
assurdo che Omero in tempi feroci abbia
tanto fatto giuocare la compassione nel suo poema, n'abbia fatto un interesse
principale e finale, abbia seguito e ottenuto il suo intento in modo che anche
oggidì, mancato l'altro interesse all'iliade, non si può forse
tuttavia legger cosa che
3153 tanto interessi, non
avesse riguardo di far cadere ed esaggerare la compassione {quasi unicamente}
sopra i nemici de' greci suoi compatriotti, a' quali scriveva, i quali non
istimavano gran fatto la gerosità[generosità]
verso il nemico, anzi apprezzavano la qualità opposta; e che i poeti moderni
abbiano fatto ed espressamente esclusa la compassione dal grado d'interesse
finale, abbiano per lo più evitato di farne cader più che tanta sopra i nemici
della parte e dell'Eroe da lor presi a lodare (la compassione per Clorinda nella
Gerusalemme non dava scrupolo al Tasso perch'ei la fa morir convertita, {e nel med. canto la scuopre per cristiana di genitori e di
nazione;} sì ch'ella cade in ultimo, secondo l'intenzione finale del
poeta, sopra una Cristiana), ec. ec. In verità egli sarebbe stato credibile, e
certo {egli avrebbe dovuto} accadere, tutto
l'opposto.
[3553,2] Ho notato altrove p. 108 che la
debolezza per se stessa è cosa amabile, quando non ripugni alla natura del
subbietto in ch'ella si trova, o piuttosto al modo in che noi siamo soliti di
vedere e considerare la rispettiva specie di subbietti; o ripugnando, non
distrugga però la sostanza d'essa natura, e non ripugni più che tanto:
3554 insomma quando o convenga al subbietto, secondo
l'idea che noi della perfezione di questo ci formiamo, e concordi colle {altre} qualità d'esso subbietto, secondo la stessa idea
{+(come ne' fanciulli e nelle
donne);} o non convenendo, nè concordando, non distrugga però
l'aspetto della convenienza nella nostra idea, ma resti dentro i termini di
quella sconvenienza che si chiama grazia (secondo la mia teoria della grazia), come può esser negli
uomini, o nelle donne in caso ch'ecceda la proporzione ordinaria, ec. Ora
l'esser la debolezza per se stessa, e s'altro fuor di lei non si oppone,
naturalmente amabile, è una squisita provvidenza della natura, la quale avendo
posto in ciascuna creatura l'amor proprio in cima d'ogni altra disposizione, ed
essendo, come altrove ho mostrato pp. 872. sgg. , una necessaria e propria conseguenza
dell'amor proprio in ciascuna creatura l'odio dell'altre, ne seguirebbe che le
creature deboli fossero troppo sovente la vittima delle forti. Ma la debolezza
essendo naturalmente amabile e dilettevole altrui per se stessa, fa che altri
ami il subbietto in ch'ella si trova, e l'ami per amor proprio, cioè perchè da
esso riceve diletto. {La debolezza
ordinariamente piace ed è amabile e bella nel bello. Nondimeno può piacere
ed esser bella ed amabile anche nel brutto, non in quanto nel brutto, ma in
quanto debolezza, (e talor lo è) purch'essa medesima non sia {la} cagione della bruttezza nè in tutto nè in
parte.} Senza ciò i fanciulli,
3555 massime
dove non vi fossero leggi sociali che tenessero a freno il naturale egoismo
degl'individui, sarebbero tuttogiorno écrasés dagli
adulti, le donne dagli uomini, e così discorrendo. Laddove anche il selvaggio
mirando un fanciullo prova un certo piacere, e {quindi}
un certo amore; e così l'uomo civile non ha bisogno delle leggi per contenersi
di por le mani addosso a un fanciullo, benchè i fanciulli sieno per natura
esigenti ed incomodi, ed in quanto sono (altresì per natura) apertissimamente
egoisti, offendano l'egoismo degli altri più che non fanno gli adulti, e quindi
siano per questa parte naturalmente odiosissimi (sì a coetanei, sì agli altri).
Ma il fanciullo è difeso {per se stesso} dall'aspetto
della sua debolezza, che reca un certo piacere a mirarla, e quindi ispira
naturalmente (parlando in genere) un certo amore verso di lui, perchè l'amor
proprio degli altri trova in lui del piacere. E ciò, non ostante che la stessa
sua debolezza, rendendolo assai bisognoso degli altri, sia cagione essa medesima
di noia e di pena agli altri, che debbono provvedere in qualche modo a' suoi
bisogni, e lo renda per natura molto esigente ec. Similmente discorrasi
3556 delle donne, nelle quali indipendentemente
dall'altre qualità, la stessa debolezza è amabile perchè reca piacere ec. Così
di certi animaletti o animali (come la pecora, {i cagnuolini,
gli agnelli,} gli uccellini ec. ec.) in cui l'aspetto della lor
debolezza rispettivamente a noi, in luogo d'invitarci ad opprimerli, ci porta a
risparmiarli, a curarli, ad amarli, perchè ci riesce piacevole. {ec.} E si può osservare che tale ella riesce anche ad
altri animali di specie diversa, che perciò gli risparmiano e mostrano talora di
compiacersene e di amarli ec. Così i piccoli degli animali non deboli quando son
maturi, sono risparmiati ec. dagli animali maturi della stessa specie (ancorchè
non sieno lor genitori), ed eziandio d'altre specie (eccetto se non ci hanno
qualche nimicizia naturale, o se per natura non sono portati a farsene cibo
ec.); ed apparisce in essi animali una certa o amorevolezza o compiacenza verso
questi piccoli. Similmente negli uomini verso i piccoli degli animali che
cresciuti non son deboli. E di questa compiacenza non n'è solamente cagione la
piccolezza per se (ch'è sorgente di grazia, come ho detto altrove), p.
200
pp.
1880-81
{#1. nè la sola sveltezza che in questi
piccoli suole apparire (siccome ancora nelle specie piccole di animali) e
che è cagion di piacere per la vitalità che manifesta e la vivacità ec.
secondo il detto altrove p. 221
pp. 1716-17
p. 1999
pp. 2336-37 da me
sull'amor della vita, onde segue quello del vivo ec.} ma v'ha la
3557 sua parte eziandio la debolezza. (29-30.
Sett. 1823.). {{V. p. 3765.}}
[3604,1] Richiedendosi necessariamente, come s'è mostrato, al
poeta epico (e similmente al drammatico, al romanziere ec. ed anche allo
storico) ch'egli renda in alcun modo, qualunque siasi, amabile colui ch'e'
voglia rendere interessante, e grandemente amabile, colui ch'abbia ad essere
sommamente interessante; è da considerare che a tal effetto giova
grandissimamente la sventura, la quale accresce a più doppi l'amabilità ove la
trova, e rende spesse volte amabile chi non lo è, ancorchè sia meritevole delle
disgrazie; molto più quando e' ne sia immeritevole. L'uomo poi amabilissimo, che
sia indegnamente sventuratissimo, è la più amabil cosa che possa concepirsi.
3605 L'uomo amabile e sventurato meritatamente, è
sempre molto più caro e compatito e interessante, che il non amabile e
immeritatamente sventurato, il quale può non esser nulla compatito e nulla
interessare (e così spessisimo accade), quando eziandio le sue sventure sieno
estreme, e quelle dell'altro menome, nel qual caso ancora, colui non può mancare
d'esser compatito e riuscir più amabile dell'ordinario. Ma non entriamo in tante
sottigliezze e distinzioni. La infelicità nel principal Eroe dell'impresa ch'è
il {proprio} soggetto del poema, non può aver luogo, se
non come accidentale, e risolvendosi all'ultimo in felicità, secondo che a suo
luogo ho spiegato e mostrato pp. 3097. sgg. Per tanto queste osservazioni confermano grandemente
il mio discorso sulla necessità di raddoppiar l'interesse nel poema epico, a
voler ch'esso poema riesca sommamente interessante e produca grandissimo
effetto; e giustificano ed esaltano il fatto di Omero nell'iliade. Perocchè non dandosi
sommo interesse senza somma amabilità, e la sventura essendo principalissima
3606 fonte di amabilità, e quasi perfezione e sommità
di essa, e non potendo una grandissima e piena e finale infelicità aver luogo
nell'eroe dell'impresa, resta che sia bisogno, a far che il poema sia sommamente
interessante, duplicarne formalmente l'interesse, e diversificar l'uno interesse
dall'altro, introducendo un altro eroe sommamente amabile, e sommamente
sventurato, dalla cui finale sventura sia prodotto {#1. e intorno ad essa si aggiri, e ad essa sempre tenda e
sia spinto, e in vista di essa per tutto il poema sia proccurato,}
questo secondo interesse di cui parliamo, il quale renda il poema sommamente
interessante e capace di lasciar l'interesse nell'animo de' lettori per buono
spazio dopo la lettura ec. Questo è ciò che fece Omero nell'iliade, nella quale Ettore è per le sue
proprie qualità ed azioni, e per la sua somma, piena e finale sventura,
sommamente amabile, e quindi sommamente interessante. Quanto ad Achille, ch'è l'altro protagonista, e
l'Eroe dell'impresa (così lo chiameremo per esser brevi), Omero non potea farlo sfortunato e infelice, massime
considerando la natura e le opinioni di quei tempi, che riponeano il sommo
pregio degli uomini nella fortuna, ed anche ragionando (nel modo che altrove ho
3607 detto pp. 3097. sgg.
pp.
3342-43), dalla fortuna o buona o ria argomentavano o la malvagità o
la bontà, o il merito o il demerito di ciascuno, non istimando che nè la
sventura nè la buona sorte potesse toccare agl'immeritevoli. Pur quanto gli fu
possibile, Omero non mancò di cercar di
conciliare ad Achille, cogli altri
affetti i più favorevoli, anche l'affetto dolcissimo della pietà, madre o
mantice dell'amore. Ciò non solo coll'accidentale sventura della morte del suo
amico Patroclo e con altre tali, ma
col mostrare eziandio, come in lontananza, la finale sventura e l'infelice
destino del bravo Achille, che per
immutabile decreto del fato aveva a morire nel più bel fiore degli anni, {{e questo in}} prezzo della sua gloria, ch'egli
scientemente {e liberamente aveva scelta e preposta,}
insieme con una morte immatura, a una vita lunga e senza onore. Tratto sublime
che perfeziona il poetico e l'epico del carattere di Achille, e della sua virtù, coraggio, grandezza
d'animo, ec. e che finisce di renderlo un personaggio sommamente amabile e
interessante.
[3607,1] Il carattere di Enea partecipa molto de' difetti di quel di Goffredo. Egli ha più fuoco, ma e'
3608 non lascia però di essere alquanto freddo (e un carattere freddo
sì nella vita sì ne' poemi lascia freddo e senza interesse il lettore, o chi ha
qualunque relazione reale con esso lui, o di lui ode o pensa); egli ha o mostra
più coraggio personale e valor di mano, ma queste qualità ci appariscono in lui
come secondarie, e poco spiccano, e tale si è l'intenzion di Virgilio, il quale volle che ad esse nel suo Eroe
prevalessero altre qualità, che non molto conducono, o piuttosto nuocono
all'essere amabile. La pazienza in lui è simile a quella di Ulisse. La prudenza e il senno soverchiano ed
offuscano le altre sue doti, non quanto in Goffredo, ma tuttavia troppo risaltano, e troppo sono superiori
all'altre sue qualità, e troppo è maggiore la parte ch'esse hanno. Troppa virtù
morale, poca forza di passione, troppa ragionevolezza, troppa rettitudine,
troppo equilibrio e tranquillità d'animo, troppa placidezza, troppa benignità,
troppa bontà. Virgilio descrive
divinamente l'amor di Didone per lui:
da questo, e quasi da questo solo, ci accorgiamo ch'egli è ancor giovane e
bello; e sebben questo in lui non ripugna alla
3609
natura e al verisimile naturale, come in Ulisse, pur tanta è la serietà dell'idea che Virgilio ci fa concepir del suo Eroe, che la gioventù e
la bellezza ci paiono in lui fuor di luogo, e quasi ci giungono nuove e ci fanno
meraviglia (la meraviglia poetica non dev'esser certo di questo genere), e quasi
non ce ne persuadiamo, benchè sieno naturalissime; o per lo meno vi passiamo
sopra, senza valutarle, senza fermarci il pensiero, senza formarne l'immagine,
senza considerarli come pregi notabili di Enea, perchè Virgilio avrebbe
creduto quasi far torto al suo eroe ed a se stesso, s'egli ce gli avesse
rappresentati come pregi veramente importanti e degni di considerazione, e
notabili in lui fra le altre doti. E così mentre Virgilio si ferma e si compiace in descrivere la
passion di Didone e i suoi vari
accidenti, progressi, andamenti, ed effetti; dà bene ad intendere ch'ella non
era senza corrispondenza, e nella grotta, come ognun sa quel che Didone patisse, così niun si può
nascondere quello ch'Enea facesse; ma
Virgilio a riguardo d'Enea e della sua passione
3610 parla così coperto, anzi dissimulato, (dico della
passione, e non di ciò che ne segue d'inonesto a descrivere, nel che giustamente
egli è copertissimo anche rispetto a Didone), anzi serba quasi un così alto silenzio, che e' non mostra
essa passione se non indirettamente e per accidente, e in quanto ella si
congettura e si lascia supporre per necessità da quel ch'ei narra di Didone, e sempre volgendosi alla sola
Didone. E par che volentieri, se
si fosse potuto, egli avrebbe fatto che il lettore non istimasse Enea per niun modo tocco dalla passion
dell'amore (di donna pur sì alta e sì degna e sì magnanima e sì bella e sì
amante e tenera), e giudicasse che Didone avesse ottenuto il piacer suo, senza che quegli avesse
conceduto. E chi potesse così stimare seconderebbe il desiderio di Virgilio. Tanto egli ebbe a schivo di far
comparire nel suo Eroe {un errore,} una debolezza,
laddove non v'è cosa più amabile che la debolezza nella forza, nè cosa meno
amabile che un carattere e una persona senza debolezza veruna. E tanto egli
giudicò che dovesse nuocere
3611 appo i lettori alla
stima non solo, ma all'interesse pel suo Eroe (che mal ei confuse colla stima),
il concepirlo e il vederlo capace di passione, capace di amore, tenero,
sensibile, di cuore. Come se potesse interessare il cuore chi non mostra, o
dissimula a tutto potere, di averlo, o di averlo capace della più dolce, più
cara, più umana, più potente, più universale delle passioni, che si fa pur luogo
in chiunque ha cuore, e maggiormente in chi l'ha più magnanimo, e similmente
ancora ne' più gagliardi ed esercitati di corpo, e ne' più guerrieri (v. Aristot.
Polit. l. 2. ed Flor. 1576. p. 142.); e che {sovente} rende ancora amabili chi la prova, eziandio
agl'indifferenti, al contrario di quel che fanno molte altre passioni per se
stesse. Il giudizio del Tasso,
rispetto a Rinaldo, fu in questa
parte migliore assai di quel di Virgilio. Egli non si fece coscienza di mostrare Rinaldo soggetto alle passioni, alle debolezze e
agli errori umani e giovanili. Egli non dissimula i suoi amori descrivendo
quelli di Armida per lui, ma si ferma
e si compiace in descrivergli anch'essi direttamente. Egli non ha neppure
riguardo di farlo
3612 assolutamente reo di un grave,
benchè perdonabile misfatto cagionato da una passione propria e degna dell'uomo,
e quasi richiesta al giovane, e più al giovane d'animo nobile, e pronto di cuore
e di mano, dico dall'ira mossa dalle contumelie. Passione, che, massime colle
dette circostanze, suol essere amabilissima, malgrado i tristi effetti ch'ella
può produrre, e malgrado ch'ella soglia altresì essere biasimata (perocchè altro
è il biasimare altro l'odiare), e che i filosofi o gli educatori prescrivano di
svellerla dall'animo o di frenarla. E certo in un giovane, {e
quasi anche generalmente,} ella è molto più amabile che la pazienza. E
ciò si vede tuttodì nella vita. Però il carattere di Rinaldo è molto più simile ad Achille, e molto più poetico, amabile e interessante
che quello di Enea. O si può, se non
altro, dire con verità che Rinaldo è
tanto più amabile di Enea, quanto Enea di Goffredo. Del resto Enea ha passato e passa molte sciagure prima di giungere a stato
felice. Ma la compassione ch'elle cagionano non è grande, perch'ella cade sopra
un soggetto che il poeta ha creduto di dover fare più
3613 stimabile che amabile; e perchè in oltre non si compatisce molto
colui che nella sciagura e nel male mostra quasi di non soffrire.
[3836,1] Similmente, come {+in generale} i più forti per l'ordinario, così
gl'individui in quel punto, sogliono essere (proporzionatamente alle loro
rispettive abitudini e caratteri {+età,
circostanze morali, fisiche, esteriori, {+di fortuna, di condizione e grado sociale, di
avvenimenti ec.} costanti, temporarie, momentanee ec.}) più
del lor solito disposti alle grandi e generose azioni, agli atti eroici, al
sacrifizio di se stessi, alla beneficenza, alla compassione (dico più disposti,
e voglio dire la potenza, non l'atto, che ha bisogno dell'occasione e di
circostanze, che mancando, come per lo più, fanno che l'uomo neppur si avveda in
quel punto di tal sua disposizione e potenza, ed anche in tutta la sua vita non
si accorga che in quei tali punti egli ebbe ed ha questa disposizione ec.);
perocchè la sua vita in quel punto è maggiore, e quindi più potente l'amor
proprio, e quindi questo è meno egoista, secondo le teorie altrove esposte pp. 3291-97. Lasciando le
illusioni proprie e naturali di quello stato, proporzionatamente all'abitual
condizione morale dell'individuo ec.
[4118,2] Compassione nata dalla bellezza anche verso chi per
molti capi non la merita, perpetuata anche nella posterità che si stima esser
sempre un giudice giusto. Vedi Thomas
loc. cit. qui dietro, chapitre
26. p. 46-7.
(26. Agos. 1824.).
[4255,6] Dei nostri sommi poeti, due sono stati
sfortunatissimi, Dante e il Tasso. Di ambedue abbiamo e visitiamo i
sepolcri: fuori delle patrie loro ambedue. Ma io, che ho pianto sopra quello del
Tasso, non ho sentito alcun moto
di tenerezza a quello di Dante: e così
credo che avvenga generalmente. E nondimeno non mancava in me, nè manca negli
altri, un'altissima stima, anzi ammirazione, verso Dante; maggiore forse (e ragionevolmente) che verso
l'altro. Di più, le sventure di quello furono senza dubbio reali e grandi; di
questo appena siamo certi che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie:
tanta è la scarsezza e l'oscurità delle notizie che abbiamo in questo
particolare: tanto confuso, e pieno continuamente di contraddizioni, il modo di
scriverne del medesimo Tasso. Ma noi
veggiamo in Dante un uomo d'animo forte,
d'animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; oltracciò un uomo che
contrasta e combatte con essa, colla necessità col fato. Tanto più ammirabile
certo, ma tanto meno amabile e commiserabile. Nel Tasso veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria,
soccombente, atterrato, che ha ceduto all'avversità, che soffre continuamente e
patisce oltre modo. Sieno ancora immaginarie
4256 e
vane del tutto le sue calamità; la infelicità sua certamente è reale. Anzi senza
fallo, se ben sia meno sfortunato di Dante, egli è molto più infelice.
(Recanati. 14. Marzo. 1827.). {{(Si può applicare all'epopea, drammatica ec.)}}.
[4287,1] Veramente e perfettamente compassionevoli, non si
possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero più atti che gli altri,
quando sono nel fior dell'età, quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono
nulla, perchè se anche hanno materia di sofferire, non la sentono. Ma i giovani
non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le
considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d'un altro mondo,
perchè essi non hanno negli occhi che felicità. Chi patisce non è atto a
compatire. Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse
patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e
delle facoltà estrinseche. Ma non v'ha che il giovane (il quale non ha patito)
che sia così pieno di facoltà, e che non patisca nulla. Se altro non fosse, lo
stesso declinar della gioventù, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto
più si sente, quanto uno è d'altronde meno sventurato. Passati i venticinque
anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della
decadenza del suo corpo, dell'appassimento del fiore de' giorni suoi, della fuga
e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù.
(Firenze. 23. Lugl. 1827.).
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