Navigation Settings

Manuscript Annotations:
interlinear {...}
inline {{...}}
attached +{...}
footnote #{...}
unattached {...}
Editorial Annotations:

Correction Normalization

Dolore antico.

Pain of the ancients.

76,4 88,1 105,1.2 2434,2 2753-5 4156,8

[76,4]  L'espressione del dolore antico, p. e. nel Laocoonte, nel gruppo di Niobe, nelle descrizioni di Omero ec. doveva essere per necessità differente da quella del dolor moderno. Quello era un dolore senza medicina com' ne ha il nostro, non sopravvenivano le sventure agli antichi come necessariamente dovute alla nostra natura, ed anche come un nulla in questa misera vita, ma  77 come impedimenti e contrasti a quella felicità che agli antichi non pareva un sogno, come a noi pare, (ed effettivamente non era tale per essi {certamente speravano, mentre noi disperiamo, di poterla conseguire}) come mali evitabili e non evitati. Perciò la vendetta del cielo, le ingiustizie degli uomini, i danni, le calamità, le malattie, le ingiurie della fortuna, pareano mali tutti propri di quello a cui sopravvenivano. (infatti il disgraziato al contrario di adesso solea per la superstizione che si mescolava ai sentimenti e alle opinioni naturali, esser creduto uno scellerato e in odio agli Dei, e destar più l'odio che la compassione) Quindi il dolor loro era disperato, come suol essere in natura, e come ora nei barbari e nelle genti di campagna, senza il conforto della sensibilità, senza la rassegnazion dolce alle sventure da noi, non da loro, conosciute inevitabili, non poteano conoscere il piacer del dolore, nè l'affanno di una madre, perduti i suoi figli, come Niobe, era mescolato di nessuna amara e dolce tenerezza di se stesso ec. ma intieramente disperato. Somma differenza tra il dolore antico e il moderno per cui con ragione si raccomanda al poeta artista ec. moderno di trattar soggetti moderni, non potendo a meno trattando soggetti antichi di cadere in una di queste due, o violare il vero, dipingendo i fatti antichi con prestare ai suoi personaggi sentimenti e affetti moderni, o non interessare nè farsi  78 intendere dai moderni col far sentire e parlare quei personaggi all'antica. Se non che l'offendere il vero, nel primo caso non mi par così da schivare, purchè si salvi il verosimile, divenendo cosa da puro erudito, quando l'effetto di quella mescolanza è buono, il rilevare che gli antichi non avrebbero potuto provare quei sentimenti, come io soglio anche dire dei vestimenti e delle attitudini nella pittura, ec. dove purchè l'offesa del vero non salti agli occhi, vale a dire si salvi il verisimile, sarà sempre meglio farsi intendere e colpire i moderni, che assoggettarsi ad una miserabile esattezza erudita che non farebbe nessuno effetto. Quindi non condanno punto anzi lodo p. e. Racine che avendo scelto soggetti antichi (che colla loro natura non erano incompatibili coi sentimenti moderni, e d'altronde erano per la loro bellezza, tragicità, forza ec. preferibili ad altri soggetti de' giorni più bassi) gli ha trattati alla moderna. La sensibilità era negli antichi in potenza, ma non in atto come in noi, e però una facoltà naturalissima (v. il mio discorso sui romantici), ma è cosa provata che le diverse circostanze sviluppano le diverse facoltà naturali dell'anima, che restano nascose e inoperose mancando quelle tali circostanze, fisiche, politiche, morali, e soprattutto, nel nostro caso, intellettuali, giacchè lo sviluppo del sentimento e della melanconia, è venuto soprattutto dal progresso della filosofia, e della cognizione dell'uomo, e del mondo, e della vanità delle cose, e della infelicità umana,  79 cognizione che produce appunto questa infelicità, che in natura non dovevamo mai conoscere. Gli antichi in cambio di quel sentimento che ora è tutt'uno col malinconico, avevano altri sentimenti entusiasmi ec. più lieti e felici, ed è una pazzia l'accusare i loro poeti di non esser sentimentali, e anche il preferire {a} quei sentimenti e piaceri loro che erano spiritualissimi anch'essi, e destinati dalla natura all'uomo non fatto per essere infelice, i sentimenti e le dolcezze nostre, benchè naturali anch'esse, cioè l'ultima risorsa della natura per contrastare (com'è suo continuo scopo) alla infelicità prodotta dalla innaturale cognizione della nostra miseria. La consolazione degli antichi non era nella sventura, per es. un morto si consolava cogli emblemi della vita, coi giuochi i più energici, colla lode di avere incontrata una sventura minore o nulla morendo per la patria, per la gloria, per passioni vive, morendo dirò quasi per la vita. La consolazione loro {anche della morte} non era nella morte ma nella vita. {{V. p. 105. di questi pensieri.}}

[88,1]   88 Je vous l'ai dit souvent, la douleur me tuerait; il y a trop de lutte en moi contre elle; il faut lui céder pour n'en pas mourir * , dice Corinna presso la Staël liv. 14. ch. 3. t. 2. p. 361. dell'edizione citata qui dietro. E da questo venia che gli antichi al carattere dei quali l'autrice ha voluto ravvicinare quello di Corinna quanto era compatibile coi costumi e la filosofia moderna di cui l'arricchisce a piena mano, erano vinti dall'infelicità in modo che esprimevano la loro disperazione cogli atti e le azioni più terribili, e la sventura li mandava fuori di se stessi, e gli uccideva. Quel se réposer sur sa douleur * , quel piacere perfino provato dai moderni per la stessa sventura e {per} la considerazione di essere sventurato, era cosa ignota a quelli che secondo l'istinto della natura non ancora del tutto alterata, correvano sempre dritto alla felicità, non come a un fantasma, ma cosa reale, e trovavano il loro diletto dove la natura primitivamente l'ha posto, cioè nella buona e non nella cattiva fortuna, la quale quando loro sopravvenniva, la riguardavano come propria, non come universale e inevitabile. Nè il desiderio della felicità era in essi temperato e rintuzzato e illanguidito da nessuna considerazione e da nessuna filosofia. Perciò tanto più formidabile era l'effetto di quanto impediva loro l'adempimento di questo desiderio.

[2434,2]  Che le passioni antiche fossero senza comparazione più gagliarde delle moderne, e gli effetti loro più strepitosi, più risaltati, più materiali,  2435 più furiosi, e che però nell'espression loro convenga impiegare colori e tratti molto più risentiti che in quella delle passioni moderne, è cosa già nota e ripetuta pp. 76. sgg. Ma io credo che una differenza notabile bisogni fare tra le varie passioni, appunto in riguardo alla maggiore o minor veemenza loro fra gli antichi e i moderni comparativamente; e per comprenderle tutte sotto due capi generali, io tengo per fermo (come fanno tutti) che il dolore antico fosse di gran lunga più veemente, più attivo, più versato al di fuori, più smanioso e terribile (quantunque forse per le stesse ragioni più breve) del moderno. Ma in quanto alla gioia, ne dubiterei, e crederei che, se non altro in molti casi, ella potesse esser più furiosa e violenta presso i moderni che presso gli antichi, e ciò non per altro se non perch'ella oggidì è appunto più rara e breve che fosse mai, come lo era nè più nè meno il dolore anticamente. Questa osservazione potrebbe forse servire al tragico, al pittore, ed altri imitatori delle passioni. Vero è che nel fanciullo e la gioia e il dolore sono del pari  2436 più violenti, ed altresì per la stessa ragione più brevi che nell'adulto. Ed è vero ancora che l'abitudine dell'animo de' moderni li porta a contenere dentro di se, ed a riflettere sullo spirito, senza punto o quasi punto lasciarla spargere ed operare al di fuori, qualunque più gagliarda impressione e affezione. Contuttociò credo che la detta osservazione possa essere di qualche rilievo, massime intorno alle persone non molto o non interamente colte e disciplinate, sia nella vita civile, sia nelle dottrine e nella scienza delle cose e dell'uomo; e intorno a quelle che dall'esperienza e dall'uso della vita, della società, e de' casi umani non sono {stati} bastantemente ammaestrati ad uniformarsi col generale, nè accostumati a quell'apatia e noncuranza di se stesso e di tutto il resto, che caratterizza il nostro secolo. (9. Maggio. 1822.).

[2752,1]  Alla p. 2739. fine. In primavera non è dubbio che la vita nella natura è maggiore, o, se non altro, è maggiore il sentimento della vita, a causa della diminuzione {e torpore} di esso sentimento cagionato dal freddo, e del contrasto fra il nuovo sentimento, o fra il ritorno di esso, e l'abitudine contratta nell'inverno. Questo accrescimento di vita  2753 (chiamiamolo così) è comune in quella stagione, come alle piante e agli animali, così agli uomini, e massime agli individui giovani, sì delle predette specie, come dell'umana. Ora indubitatamente non è alcuno, se non altro de' giovani, che in quella stagione non sia più malcontento del suo stato {e di se,} che negli altri tempi dell'anno (parlando astrattamente e generalmente, senza relazione alle circostanze particolari, o vogliamo dire, in parità di circostanze). Tanto è vero che il sentimento dell'infelicità si accresce o si scema in proporzione diretta del sentimento della vita, e che l'aumento di questo è inseparabile dall'aumento di quello. (4. Giugno 1823.). {+V. p. 2926. fine.} Così una sventura particolare opera maggior effetto e più dolorosa impressione in un temperamento forte e vivo, e lo abbatte di più che non un temperamento debole, contro quello che parrebbe dovesse essere, {+e che il volgo crede e dice.} E la causa di ciò, non è, come si suol dire, la maggior resistenza che un temperamento  2754 forte oppone alla sventura e al dolore, ma il maggior grado di vita, e quindi la maggiore intensità di amor proprio e {il maggior} desiderio di felicità, che nasce dal maggior vigore; nè qui ha che far la rassegnazione, o piuttosto essa non è altro che un sentir meno il dolore. Se il dolore faceva quasi una strage nell'uomo antico, siccome fa nel selvaggio; se gli antichi, come ora i selvaggi, erano portati dalla sventura fino alle smanie e al furore, a incrudelire contro il proprio corpo, al deliquio, al totale spossamento di forze, al deperimento della salute, all'infermità, alla morte o volontaria o naturale, ciò non proveniva, come si dice, dal non essere assuefatti al dolore. Qual è l'uomo vivo che non sia accostumato a soffrire? Ma proveniva dal maggior vigore di corpo ch'era negli antichi ed è ne' selvaggi, a paragone de' moderni e civili. E forse questa, più che la minore assuefazione, è la causa che i giovani siano più sensibili  2755 alle sventure e più suscettibili di dolore che i vecchi; o certo questa n'è in grandissima parte la causa. Massimamente osservando che questa differenza si trova anche fra giovani assuefatissimi[assuefattissimi] alle calamità, ed informatissimi, per dottrina, di quanto convenga patire in questa vita, e vecchi assuefatti ad aver sempre avuto ogni cosa a lor modo, ignorantissimi, e persuasissimi che questa terra sia la più felice abitazione del mondo, e la vita il sommo bene degli uomini (4. Giugno 1823.).

[4156,8]  Dolore antico. Era frase usitata per esprimere le sventure ec. il dire che il tale giaceva in terra, cioè si voltolava tra la polvere, e Archiloco (ap. Stob. serm. 20. περὶ ὀργῆς, fragm. 32. p. 103. loc. sup. cit.) dice: καὶ μήτε νικῶν ἀμϕάδην * (ϕανερῶς) ἀγάλλεο, Mηδὲ νικηϑεὶς ἐν οἴκῳ καταπεσὼν ὀδύρεο * . Aristofane, Nub. v. 126. ᾽Aλλ᾽ οὐδ᾽ ἐγὼ μέντοι πεσών γε κείσομαι * i.e. ἀϑυμήσω (Liebel, loc. sup. cit. p. 106. ad fragm. 32.) Archiloco medesimo (fragm. 33. p. 107. ap. Stob. serm. 103.) volendo dire uomini sventurati e calamitosi, dice: ῎Ανδρας μελαίνῃ κειμένους ἐπὶ χθονί * . Presso Omero (Iliade σ. 26.) Achille udita la morte di Patroclo si gitta in terra, e così Priamo per quella di Ettore; ed Ecuba (nell'Ecuba di Sofocle o di Eurip. v. 486. 496.) sta prostesa in terra piangendo le sventure sue e dei suoi, e Sisigambe madre di Dario, udita la morte di Alessandro, si gittò in terra. Curt. X. 5. {{V. p. 4243.}}