Continuazioni o Imitazioni di opere classiche.
Continuations or Imitations of classical works.
101,1 143,1 2978,marg. 2976,1 3461,1 3941,3[101,1]
101 La cagione per cui gli uomini di gusto e di
sentimento provano una sensazione dolorosa nel leggere p. e. le continuazioni o
le imitazioni dove si contraffanno le bellezze gli stili ec. delle opere
classiche, (v. quello che dice il Foscolo della continuazione
del Viaggio
di Sterne) è che queste in
certo modo avviliscono presso noi stessi l'idea di quelle opere, per cui ci
eravamo sentiti così affettuosi, e verso cui proviamo una specie di tenerezza.
Il vederle così imitate e spesso con poca diversità, e tuttavia in modo
ridicolo, ci fa quasi dubitare della ragionevolezza della nostra ammirazione per
quei grandi originali, ce la fa quasi parere un'illusioni[un'illusione], ci dipinge come facili triviali e comuni quelle doti
che ci aveano destato tanto entusiasmo, cosa acerbissima di vedersi quasi in
procinto di dover rinunziare all'idolo della nostra fantasia, e rapire in certo
modo, e denudare, e avvilire agli occhi nostri l'oggetto del nostro amore e
della nostra venerazione ed ammirazione. Perchè in ogni sentimento dolce e
sublime entra sempre l'illusione, ch'è il più acerbo dolore il vedersi togliere
e svelare. Perciò quelle tali imitazioni ci sarebbero gravi quando anche
gareggiassero cogli originali, togliendoci l'inganno di quell'unico e
impareggiabile che forma il {caro} prestigio dell'amore
e della maraviglia. Nella stessa guisa che ci riesce dolorosissimo il vedere o
porre in ridicolo, o travisare, o imitare gli oggetti de' nostri sentimenti del
cuore; (v. Staël
Corinne liv. penult. ch. edizione quinta
di Parigi) cosa che ci fa o dubitare o
certificare della loro vanità reale, e della nostra illusione, e ci strappa a
quei soavi inganni che costituiscono la nostra vita: nè c'è cosa che abbia
questa forza più della precisa imitazione o somiglianza di un altro oggetto che
non possiamo pregiare nè amare (sia per qualche grado di inferiorità reale, di
ridicolo, di travisamento ec. sia anche quando la somiglianza non abbia niente
102 o poco d'inferiore) con quello che pregiamo ed
amiamo, e che occupa il cuore e l'immaginazione nostra in modo che ne siamo
gelosissimi e paurosi, e cerchiamo in tutti i modi di custodirlo. (8. Gen.
1820.)
[143,1]
143 Che vuol dire che fra tanti imitatori che si sono
trovati di opere e di scrittori classici, nessuno è pervenuto ad occupare un
grado {di fama} non dico uguale, ma neppur vicino a
quello dell'imitato? Non è già verisimile che essendo più facile l'inventis
addere, e il perfezionare una cosa inventata, che l'inventarla già perfetta, ed
essendoci stati molti imitatori di sommo ingegno, massimamente in
italia in un tempo dove l'imitare era cosa di moda, e
perciò diveniva occupazione anche dei migliori (come Sanazzaro imitator di Virgilio, il Tasso del Petrarca ec.), non
si sia mai data nessun'imitazione che almeno agguagli l'opera imitata, e per
conseguenza meritasse un posto compagno a quello dell'originale. Ma il fatto sta
che in materia di letteratura o di arti, basta accorgersi dell'imitazione, per
metter quell'opera infinitamente al di sotto del modello, e che in questo caso,
come in molti altri, la fama non ha tanto riguardo al merito assoluto ed
intrinseco dell'opera, quanto alla circostanza dello scrittore o dell'artefice.
Laonde, o imitatori qualunque vi siate, disperate affatto di arrivare
all'immortalità, quando bene le vostre copie valessero effettivamente molto più
dell'originale.
[2977,1] Ora ella è pur cosa mirabile ad osservare che lo
spirito e la vena di Omero, l'uno tanto
vivido {gagliardo} e fervido e l'altra così ricca e
feconda {in ciascheduna parte,} abbiano potuto reggere,
lascio stare in due poemi, ma in un poema medesimo, per così lungo tratto.
Perciocchè tutti gli altri poeti epici, avendo tolto qual più qual meno, quale
direttamente e quale indirettamente, qual più visibilmente e qual più
copertamente da lui, e successivamente gli uni dagli altri di mano in mano, si
vede tuttavia che non hanno
2978 potuto reggere a un
corso così lungo, per vigorosi e vivaci che fossero, e sonosi contentati d'una
carriera assai più breve, e bene spesso prima di giungere al termine di questa
medesima, hanno pur lasciato chiaramente vedere che si trovavano affaticati, e
che la lena e l'alacrità veniva lor manco, tanto più quanto più s'avvicinavano
alla meta. {Da queste osservazioni si
deduce quanto la natura e l'ingegno son più ricchi dell'arte e come
l'imitatore è sempre più povero dell'imitato. V. Algarotti
Pensieri. Opp. Cremona, t. 8. p.
79.} E Virgilio, il
quale che cosa non ha tolto ad Omero?,
nella seconda metà della sua Eneide riesce
evidentemente languido e stanco, e diverso da se medesimo, se non nella
invenzione, certo però nell'esecuzione {cioè nelle immagini,
nella espansione e vivacità degli affetti} e nello stile, il che non
può esser negato da veruno che ben conosca la maniera, la poesia, la lingua, la
versificazione di Virgilio, anzi a
questi tali la differenza si fa immediatamente sentire: {V. Chateaubriand, Génie.
Paris 1802. Par. 2. l. 2. ch. 10 fin. t. 2.
p. 105-6.} e vedesi che l'immaginazione di Virgilio era per la lunga fatica
illanguidita, raffreddata, e sfruttata; non rispondeva all'intenzione del poeta;
non
2979 gli ubbidiva; egli poetava già {per instituto e quasi debito,} per arte e per abitudine,
arte e abitudine che in lui erano eccellentissime, e possono ai meno esperti
sembrare impeto ed ὁρμή poetica, ma non sono, e non paiono tali ai più accorti,
i quali in quegli ultimi libri desiderano la vena, la προϑυμία, l'alacrità di
Virgilio. L'invenzione doveva essere
stata da lui tutta concepita e disposta fin dal principio, com'è naturale in
ogni buon poeta, e massime in un poeta di tant'arte e maestria. Quindi s'ella
nel fine non è inferiore al principio, niuna maraviglia. L'immaginazione era
così fresca quando inventava il fine del poema, come quando inventava il
principio. Ma non minor forza, vivezza, attività, prontezza, fecondità
d'immaginativa si richiede allo stile, ossia all'esecuzione che all'invenzione.
Anzi si può dire che lo stile poetico, e nominatamente quello di Virgilio, sia un composto di continue,
innumerabili e successive invenzioni. Ogni metafora, ogni aggiunto che abbia
quella mirabile
2980 e novità ed efficacia ch'e'
sogliono avere in Virgilio, sono tante
particolari e distinte invenzioni poetiche, come sono invenzioni le
similitudini, e richiedono una continua energia, freschezza, mobilità, ricchezza
d'immaginazione, e un concepir sempre vivamente e {quasi} sentire e vedere qualsivoglia menoma cosa che occorra di
nominare o di esprimere eziandio di passaggio e per accidente. {+Anche in ogni altra parte
dell'esecuzione, cioè nelle immagini ec. e nella vena degli affetti anche in
situazioni che per la invenzione sono patetichissime ec. Virgilio ne' sei ultimi libri è inferiore a se
stesso, che che ne dica Chateaubriand.}
{{V. p.
3717.}}
[2976,1] Benchè materiale, non sarà perciò vana
l'osservazione che i poemi d'Omero,
massime l'Iliade, avuto rispetto alla qualità della lingua greca,
la quale in un dato numero di parole o di versi dice molto più che le lingue
moderne naturalmente e ordinariamente non dicono, i poemi d'Omero, ripeto, sono i più lunghi di tutti i poemi Epici
conosciuti nelle letterature Europee. Paragonati all'Eneide, ch'è poema scritto nella lingua più di tutte vicina alla
detta facoltà della lingua greca, oltre ch'essi sono composti di 24 libri
ciascuno, laddove l'Eneide di soli dodici, si
trova che avendo l'Eneide 9896 versi, l'Odissea n'ha 12096, e l'Iliade 15703, il qual computo l'ho fatto io medesimo. Notisi che i
versi di Virgilio sono della stessa
misura che quelli di Omero. Questo
parallelo così esatto non si potrebbe fare coi poemi scritti nelle lingue
moderne, sì per la differente misura
2977 de' versi e
quantità delle sillabe che questi contengono, sì molto maggiormente perchè le
lingue moderne hanno bisogno d'assai più parole che non la lingua greca e latina
per significare una stessa cosa. Onde quando anche v'avesse qualche poema epico
moderno che di parole eccedesse quelli d'Omero, credo però che tutti debbano consentire che nel numero, per
così dire, o nella quantità delle cose niuno ve n'ha che non sia notabilmente
minore di questi, o certo dell'uno d'essi, cioè dell'iliade.
[3461,1]
3461 I poeti latini (e proporzionatamente gli altri
scrittori secondo che lor conveniva) usarono la mitologia greca, non per lo aver
preso da' greci la loro letteratura e poesia, ma perchè, o da' greci o
d'altronde ch'e' ricevessero la loro religione, essa mitologia alla religion
latina apparteneva niente meno che alla greca, e nel
Lazio non meno che in grecia
era cosa popolare e creduta dal popolo. Laonde se questa o quella favola
adoperata, accennata ec. dagli scrittori o poeti latini, fu tolta da' greci, o
ch'ella fosse stata primieramente e di netto inventata da qualche greco poeta, o
che in grecia e non nel Lazio ella
fosse sparsa {ec.,} non perciò segue che la mitologia
dagli scrittori latini usata, non fosse, com'ella fu, altrettanto latina che
greca. Perocchè il fabbricare, per dir così, sul fondamento delle opinioni
popolari, fu sempre lecito ai poeti, anzi fu loro sempre prescritto. Laonde se i
poeti latini fabbricarono su tali opinioni popolari nazionali, o dell'altrui
fabbriche sì servirono, o rami stranieri innestarono sul tronco domestico, niuno
di ciò li dee riprendere. Nè perciò
3462 essi vollero
introdurre un nuovo genere di opinioni popolari nella nazione e farne materia di
lor poesia; nè supposero falsamente un genere {un
sistema} di opinioni popolari che nella nazione non esisteva, ma su di
quel ch'esisteva in effetto, innestarono, fabbricarono, lavorarono. Similmente i
greci, da qualunque luogo pigliassero la loro mitologia, certo è che di là
presero eziandio la {loro} religion popolare, e che
{tra' greci} il sistema greco religioso e
mitologico, quanto alla sostanza, alla natura, alla principal parte ed al
generale, non fu prima de' poeti che del popolo. E se i letterati greci si
giovarono, come si dice, delle letterature o dottrine ec. egizie, indiane o
d'altre genti, non adottarono perciò nelle loro finzioni ch'avessero ad esser
popolari, e nazionali ec. le mitologie d'esse nazioni. L'aver noi dunque
ereditato la letteratura greca e latina, l'esser la nostra letteratura modellata
su di quella, anzi pure una continuazione, per così dire, di quella, non vale
perch'ella possa ragionevolmente usare la mitologia greca nè latina al modo che
quegli antichi l'adoperavano. Giacchè non abbiamo già noi colla
3463 letteratura ereditato eziandio la religione greca
e latina, nè i latini, come ho detto, usarono la mitologia greca perciò ch'essi
avevano adottato la greca letteratura; nè se la letteratura ebbero i greci dalla
Fenicia o donde si voglia, perciò fu che i greci
poeti e scrittori si valsero della mitologia di quella tal gente; ma fu per le
ragioni dette di sopra, e che nel nostro caso non hanno alcun luogo. Tutt'altre
sono le nostre opinioni popolari nazionali e moderne da quelle de' greci e de'
latini. E gli scrittori italiani o moderni che usano le favole antiche alla
maniera degli antichi, eccedono tutte le qualità della giusta imitazione.
L'imitare non è copiare, nè ragionevolmente s'imita se non quando l'imitazione è
adattata e conformata alle circostanze del luogo, del tempo, delle persone ec.
in cui e fra cui si trova l'imitatore, e per li quali imita, e a' quali è
destinata e indirizzata l'imitazione. Questa può essere imitazione nobile, degna
di un uomo, e di un alto spirito e ingegno,
3464 degna
di una letteratura, degna di esser presentata a una nazione. E una letteratura
fondata comunque su tale imitazione può esser nazionale e contemporanea e
meritare il nome di letteratura. Altrimenti l'imitazione è da scimmie, e una
letteratura fondata su di essa è indegna di questo nome, sì per la troppa viltà,
essendo letteratura da scimmie, sì perchè una letteratura che tra' suoi è
forestiera, e a' suoi tempi antica, non può esser letteratura per se, ma al più
solo una parte d'altra letteratura o una copia da potersi guardare, se fosse
però perfetta (ch'è sempre l'opposto) collo stesso interesse con cui si guarda
una copia d'un quadro antico ec. e niente più. Veramente pare che i nostri poeti
usando le antiche favole (come già i più antichi italiani e forestieri scrivendo
in latino) affettino di non essere italiani ma forestieri, non moderni ma
antichi, e se ne pregino, e che questo sia il debito della nostra poesia e
letteratura, non esser nè moderna nè nostra ma antica ed altrui. Affettazione e
finzione barbara,
3465 ripugnante alla ragione, e colla
qual macchia una poesia non è vera poesia, una letteratura non è vera
letteratura. Come non è nè letteratura nè lingua nostra quella letteratura e
quella lingua che oggidì usano i nostri pedanti affettando e simulando di esser
antichi italiani, e dissimulando al possibile di essere italiani moderni, di
aver qualche idea che gl'italiani antichi non avessero perchè non poterono,
(così forse fece Cic. verso Catone antico ec. o Virgilio verso Ennio ec.?) ec. ec. Onde segue che noi oggi non abbiamo letteratura
nè lingua, perchè questa non essendo moderna, benchè italiana, non è nostra, ma
d'altri italiani, e perchè non si dà nè si diede mai {nè può
darsi} letteratura che a' suoi tempi non sia moderna; e dandosi, non è
letteratura.
[3941,3] La facoltà d'imitazione non è che facoltà di
assuefazione; perocchè chi facilmente si avvezza, vedendo o sentendo o con
qualunque senso apprendendo, o finalmente leggendo, facilmente, ed anche in poco
tempo, riducesi ad abito quelle tali sensazioni
3942 o
apprensioni, di modo che presto, e ancor dopo una volta sola, e più o manco
perfettamente, gli divengono come proprie; il che fa ch'egli possa benissimo e
facilmente rappresentarle ed al naturale, esprimendole piuttosto che imitandole,
poichè il buono imitatore deve aver come raccolto e immedesimato in se stesso
quello che imita, sicchè la vera imitazione non sia propriamente imitazione,
facendosi d'appresso se medesimo, ma espressione. {#1. Giacchè l'espressione de' propri affetti o pensieri
{o} sentimenti o immaginazioni ec. comunque
fatta, io non la chiamo imitazione ma espressione.} Or come la facoltà
d'imitare sia qualità e parte principalissima e forse il tutto de' grandi
ingegni, e così degli altri talenti in proporzione, è cosa da molti osservata
è[e] spiegata. Dunque riconfermasi che
l'ingegno è facoltà di assuefazione. (6. Dec. 1823.). {{V. p. 3950.}}
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