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[848,1]  Questa declinazione della lingua greca dal suo primo sentiero, e costume ed indole, si può far manifesto ancora considerando la lingua d'Isocrate. Il quale è tanto famoso per la delicatissima cura che poneva nella scelta e collocazione delle parole, nella struttura ed armonia de' periodi, che si potrebbe credere ch'egli, quantunque pel tempo appartenga a quegli  849 antichi scrittori ch'io ho distinto da' più moderni, pel carattere però della sua lingua appartenesse piuttosto a quegli ultimi. E pure la sua cura, qualunque fosse, è così nascosta, la sua lingua, la collocazione {e l'ordine} delle sue parole, la struttura de' periodi, e dell'orazione, così facile, piana, semplice, naturale, spontanea, che non solo non si allontana dalla primitiva indole della sua lingua, ma riesce anche più chiaro e facile e stralciato di parecchi altri degli ottimi; e certo non meno di veruno di essi. Tanto che a paragonare Isocrate stimato l'elegantissimo e l'accuratissimo degli ottimi scrittori greci, col meno elegante e lavorato de' buoni, si troverà questo, molto più difficile, e men piano e svolto di lui. Sicchè, come da Senofonte {ed Erodoto} conosciamo qual fosse la semplicità e la soavità, da Tucidide e Demostene la forza e il nervo di quella antica lingua greca, così da Isocrate conosciamo qual ne fosse la eleganza, e la galanteria; e quanto diversa da quella che sotto questo nome fu introdotta  850 ne' secoli e dagli scrittori ancor buoni e notabilissimi, ma non ottimi, della greca letteratura.

[1495,1]  Ora tornando al proposito, qual lingua, malgrado tutte le dette qualità, era più scarsa di {vera} sinonimia che la latina, non pur nelle voci, ma, se così posso dire, nelle locuzioni? E pur ella era così varia ec. Anzi la mancanza appunto di sinonimia produceva quella ricchezza individuale di ciascheduno scrittore, ch'era obbligato a mutare espressione ad ogni piccola varietà del discorso. La sinonimia è maggiore assai negli antichi e ottimi greci,  1496 cioè finchè la lingua greca non fu pienamente posseduta per arte e studio. Quando lo fu, la sinonimia fu minore assai, e la varietà e la proprietà molto maggiore. E Luciano è assai più proprio d'Isocrate tanto studioso della sua lingua. Così che la squisita proprietà è realmente aliena dall'ottima lingua greca, e muta il di lei carattere negli scrittori più recenti, e gli accosta al carattere del latino. I latini venuti a tempi signoreggiati dall'arte, possederono sempre pienamente e interamente la loro lingua.

[2112,1]  Come anche le costruzioni, l'andamento, la struttura ch'io chiamo naturale in una lingua, distinguendola dalla ragionevole, logica, geometrica, abbia una proprietà universale, e sia da tutti più o meno facilmente appresa (almeno dentro una stessa categoria di nazioni e di tempi), e come per conseguenza la semplicissima e naturalissima (sebbene perciò appunto figuratissima) struttura della lingua greca, dovesse facilitare la di lei universalità; si può vedere in questo, che le scritture le più facili in qualunque lingua per noi nuova o poco nota, sono quasi sempre e generalmente  2113 le più antiche e primitive, e quelle al cui tempo, la lingua o si veniva formando, e non era ancor pienamente formata, o non peranche era incominciata a formare. Così accade nello spagnuolo, così ne' trecentisti italiani (i più facili scrittori nostri), così nella stessa oscurissima lingua tedesca, i cui antichi romanzi (come di un certo Romanzo del 13.zo sec. intitolato Nibelung, dice espressamente la Staël) sono anche oggi assai più facili e chiari ad intendersi, che i libri moderni. Accade insomma il contrario di quello che a prima vista parrebbe, cioè che una lingua non formata, o non ben formata e regolata, {e poco logica,} sia più facile della perfettamente formata {, e logica.} (Eccetto le minuzie degli arcaismi, che abbisognano di Dizionario per intenderli ec. difficoltà che per lo straniero apprentif è nulla, e non è sensibile se non al nazionale ec. ec. {+Eccetto ancora certi ardiri propri della natura, e diversi secondo l'indole delle nazioni delle lingue, e degl'individui in que' tempi, i quali ardiri piuttosto affaticano, di quello che impediscano di capire. v. p. 2153.}) Parimente infatti  2114 i più antichi scrittori greci sono i più facili e chiari, perchè i più semplici, e di costrutti e frasi le più naturali, e lo studioso che intende benissimo Senofonte, Demostene, Isocrate ec. si maraviglia di non intendere i sofisti, e Luciano, e Dion Cassio, e i padri greci, e altri tali; e molto sbaglierebbe quel maestro che facesse incominciare i suoi scolari dagli scrittori greci più moderni, credendo, come può parere a prima giunta, che i più antichi, e più perfettamente greci, debbano esser più difficili. Così pure accade nel latino, che i più antichi sono i più facili, e di dizione più somigliante di gran lunga alla greca, che tale fu infatti la letteratura latina ne' suoi principii, e la lingua latina, anche prima della letteratura, e l'una e l'altra indipendentemente ancora dall'imitazione e dallo studio degli esemplari e letteratura greca. Son più facili gli antichi poeti latini, che i prosatori del secol d'oro. (18. Nov. 1821.).

[2150,1]   2150 Lo stile, e la lingua di Cic. non è mai tanto semplice quanto nel Timeo, perocch'egli è tradotto dal greco di Platone. E pure Platone fra i greci del secol d'oro è (se non vogliamo escludere Isocrate) senza controversia il più elegante e lavorato di stile e di lingua, e il Timeo è delle sue opere più astruse, e forse anche più lavorate, perch'esso principalmente contiene il suo sistema filosofico. Platone il principe della raffinatezza nella lingua e stile greco {prosaico,} riesce maravigliosamente semplice in latino, e nelle mani di Cicerone, a fronte della lingua e stile originale degli altri latini, e di esso Cicerone principe della raffinatezza nella prosa latina. {+La maggiore raffinatezza ed eleganza dell'aureo tempo della letteratura greca, riesce semplicità trasportata non già ne' tempi corrotti ma nell'aureo della letteratura latina, e per opera del suo maggiore scrittore.} (23. Nov. 1821.).

[2451,3]  Quanto sia più naturale e semplice l'andamento della lingua greca (tuttochè poeticissima), che non è quello della latina; e quindi quanto men proprio suo, e quanto la lingua greca dovesse esser meglio disposta all'universalità che non era la lingua latina, si può vedere anche da questo.  2452 Sebben l'italiana e la spagnuola son figlie vere e immediate della latina, pure è molto ma molto più facile di tradurre naturalmente e spontaneamente in italiano o in ispagnuolo gli ottimi autori greci, che gli ottimi latini. E tanto è più facile quanto i detti autori greci son più buoni, cioè più veramente e puramente greci. Siccome per lo contrario, quanto ai latini, è tanto meno difficile, quanto meno son buoni, cioè meno latini, come p. e. Boezio tradotto con molta naturalezza dal Varchi, e le Vite de' SS. Padri (che non hanno quasi più nulla del latino) tradotte egregiamente dal Cavalca, e gli Ammaestram. degli antichi da F. Bartolomeo da S. Concordio ec. ec. Cicerone, Sallustio, Tito Livio, difficilissimamente pigliano un sapore italiano, se non lasciano affatto l'indole e l'andamento proprio. Al contrario di Erodoto, Senofonte, Demostene, Isocrate ec. Ora essendo l'andamento delle lingue moderne generalmente assai più piano e meno figurato ec. delle antiche, questo è un segno che la lingua greca, adattandosi alle moderne molto più della latina, doveva esser molto più semplice e naturale nella sua costruzione e forma. (30. Maggio 1822.).

[2625,1]  Ho detto altrove p. 1037 che le antiche nazioni si stimavano {ciascuna} di natura diversa dalle altre,  2626 non consideravano queste come loro simili, e quindi non attribuivano loro nessun diritto, nè si stimavano obbligate ad esercitar cogli esteri la giustizia distributiva ec. se non in certi casi, convenuti generalmente per necessità, come dire l'osservazion de' trattati, l'inviolabilità degli araldi ec. cose tutte, la ragion delle quali appoggiavano favolosamente alla religione, come quelle che da una parte erano necessarie volendo vivere in società, dall'altra non avevano alcun fondamento nella pretesa legge naturale. Quindi gli araldi amici e diletti di Giove presso Omero ec. quindi il violare i trattati era farsi nemici gli Dei (v. Senof. in Agesilao) ec. Ho citato p. 1037 l'Epitafios attribuito a Demostene per provare che questa falsa, ma naturale idea della superiorità loro ec. ec. sulle altre nazioni, le confermavano  2627 le nazioni antiche, e poi le fondavano sulle favole, e sulle storie da loro inventate, tradizioni ec. dando così a questo inganno una ragione, e una forza di massima e di principio. Anche più notabile in questo proposito è quel che si legge nel Panegirico d'Isocrate verso il principio, dove fa gli Ateniesi superiori per natura ed origine a tutti gli uomini. V. anche l'orazione della Pace, dove paragona gli Ateniesi coi Τριβαλλοί, e coi Λευκανοί. Similmente il popolo Ebreo chiamavasi il popolo eletto, e quindi si poneva senza paragone alcuno al di sopra di tutti gli altri popoli sì per nobiltà, sì per merito, sì per diritti ec. ec. e spogliava gli altri del loro ec. ec. (25. Settembre 1822.).

[2631,1]  Tutto ciò si dee specialmente intendere  2632 delle radici, nelle quali gli antichi greci sono ristrettissimi, ciascuno quanto a se, e notabilmente diversi gli uni dagli altri, nella totalità del vocabolario delle medesime. Laddove i moderni ne sono incomparabilmente più ricchi (come Luciano, Longino, ed anche più i più sofistici e di peggior gusto, e i più pedanti; rispetto p. e. ad Isocrate Senofonte ec.), ed hanno in esse radici molto più di comune fra loro. Ma quanto ai composti o derivati fatti da quelle radici che sono familiari a ciascuno di loro, niuno scrittor greco è povero, nè scarso, nè troppo uniforme. Ma quando mai, sarebbero più poveri {in questa parte} i più moderni, che i più antichi. Certo sono più timidi e servili, ed attaccati all'esempio de' precedenti, e parchi e ritenuti e guardinghi e cauti nella novità. La qual novità quanto alle voci, non può consistere in greco se non se in nuovi composti o derivati. (5. Ott. 1822.).

[3125,1]  Quindi è che ne' poemi epici posteriori ad Omero, l'Eroe e l'impresa felice nulla avrebbero interessato i lettori, se desso eroe, dessa impresa, dessa felicità non fossero in qualche modo appartenuti ai lettori medesimi, come Achille ec. ai greci. In verità un  3126 poema epico di lieto fine richiede necessariamente la qualità di poema nazionale; e per ciò che spetta e mira a esso fine, un poema epico non nazionale non può interessar niuno; nazionale, non può mai produrre un interesse universale nè perpetuo, ma solo nella nazione e per certe circostanze. L'Eneide fu dunque poema nazionale, e lasciando star tutti gli episodi e tutte le parti e allusioni che spettano alla storia ed alla gloria de' Romani, l'Eneide anche pel suo proprio soggetto potè produr ne' Romani il primo di quegl'interessi che abbiamo distinto in Omero, perocchè i Romani si credevano troiani di origine, sicchè la vittoria d'Enea consideravasi {+o poteva considerarsi} da essi come un successo e una gloria avita, e ad essi appartenente, e da essi ereditata. Il soggetto della Lusiade fu nazionale, e di più moderno. Egli non poteva esser più felice quanto al produrre quel primo interesse di cui ragioniamo. {+Il soggetto dell'Enriade è affatto nazionale e la memoria di quell'Eroe era particolarmente cara ai francesi, onde la scelta dell'argomento in genere fu molto giudiziosa, massime ch'e' non era nè troppo antico nè troppo moderno, anzi quasi forse a quella stessa o poco diversa distanza a cui fu la guerra troiana da' tempi d'Omero.} Il soggetto e l'  3127 eroe della Gerusalemme furono anche più che nazionali, e quindi anche più degni; e furono attissimi ad interessare. Dico più che nazionali, perchè non appartennero a una nazione sola, ma a molte ridotte in una da una medesima opinione, da un medesimo spirito, da una medesima professione, da un medesimo interesse circa quello che fu il soggetto del Goffredo. Dico tanto più degni, perchè essendo d'interesse più generale, rendevano il poema più che nazionale, senza però renderlo d'interesse universale, il che, trattandosi di quello interesse di cui ora discorriamo, tanto sarebbe a dire quanto di niuno interesse. Dico attissimi a interessare perchè quantunque fosse spento in quel secolo il fervore delle Crociate, durava però ancora generalmente ne' Cristiani uno spirito di sensibile odio contro i Turchi, quasi contro nemici della propria lor professione, perchè in quel tempo i Cristiani, ancorchè corrottissimi ne' costumi e divisi tra loro nella fede, consideravano per anche la fede Cristiana  3128 come cosa propria, e i nemici di lei come propri nemici ciascuno; e quindi non solo con odio spirituale e per amor di Dio, ma con odio umano, con passione per così dir, carnale e sensibile, per proprio rispetto, e per inclinazione odiavano i maomettani non che il maomettanesimo. E la liberazione del sepolcro di Cristo era cosa di che allora tutti s'interessavano, siccome in questi ultimi tempi, della distruzione della pirateria Tunisina e Algerina, benchè questa e quella fossero più nel desiderio che nella speranza, o certo più desiderate che probabili: aggiunta però di più la differenza de' tempi, perocchè nel cinquecento le inclinazioni e le opinioni e i desiderii pubblici erano molto più manifesti, decisi, vivi, forti e costanti ch'e' non possono essere in questo secolo. Siccome nel 300 il Petrarca (Canz. O aspettata), così nel 500 tutti gli uomini dotti esercitavano il loro ingegno nell'esortare o con orazioni o con lettere o con poesie pubblicate per le stampe, le nazioni e i principi d'europa  3129 a deporre le differenze scambievoli e collegarsi insieme per liberar da' cani {#2. Petr. Tr. della Fama cap. 2. terzina 48.} il Sepolcro, e distruggere il nemico de' Cristiani, e vendicar le ingiurie e i danni ricevutine. Questo era in quel secolo il voto generale così delle persone colte ancorchè non dotte, come ancora, se non de' gabinetti, certo di tutti i privati politici, che in quel secolo di molta libertà della voce e della stampa, massimamente in italia, non eran pochi; {#1. Erano allora i politici privati più di numero in italia che altrove, l'opposto appunto di oggidì, perchè pure al contrario di oggidì, era in quel secolo maggiore in italia che altrove e più comune e divulgata nelle diverse classi, la coltura, e l'amor delle lettere e scienze ed erudizione per una parte (le quali cose tra noi si trattavano in lingua volgare, e tra gli altri per lo più in latino, fuorchè in ispagna), e per l'altra una turbolenta libertà fomentata dalla molteplicità e piccolezza degli Stati, che dava luogo a poter facilmente trovar sicurezza e impunità, col passare i confini e mutar soggiorno, chi aveva o violate le leggi, o troppo liberamente parlato o scritto, o offeso alcun principe o repubblica nello Stato italiano in ch'ei dapprima si trovava.} e di questo voto si faceva continuamente materia alle scritture e allusioni {digressioni} ec. e di quel progetto o sogno che vogliam dire si riscaldava l'immaginazione de' poeti e de' prosatori, e se ne traeva l'ispirazione dello scrivere. Niente meno che fosse nell'ultimo secolo della libertà della grecia fino ad Alessandro, il desiderio, il voto, il progetto di tutti i savi greci la concordia di quelle repubbliche, l'alleanza loro e la guerra contro il gran re, e contro il {barbaro} impero persiano perpetuo nemico del nome greco. E come Isocrate  3130 per conseguir questo fine s'indirizzava colle sue studiatissime ed epidittiche, {+scritte e non recitate} orazioni ora agli Ateniesi (nel Panegirico, e v. l'oraz. a Filippo, edizione sopra cit. p. 260-1.) ora a Filippo, secondo ch'ei giudicava questo o quelli più capaci di volerlo ascoltare, e più atti a concordare e pacificar la grecia e capitanarla contro i Barbari, così nel 500. lo Speroni s'indirizzava pel detto effetto con una {lavoratissima} orazione stampata {+e non recitata nè da recitarsi,} a Filippo II. di Spagna, ed altri ad altri, secondo i tempi e le occasioni. Ma tutto indarno, non come accadde ai greci, il cui voto fu adempiuto da Alessandro, mosso fra l'altre cose, come è fama (v. Eliano Var. l. 13. e ὑπόϑεσ. τοῦ πρὸς Φίλιπ. λόγου), dall'orazione appunto che Isocrate n' avea scritto a Filippo suo padre, l'uno e l'altro già morti.

[3173,1]  Alla p. 3132. marg. principio. Da quello che si legge nell'epistola di Antonio Eparco a Filippo Melantone (ch'era pur non cattolico, ma famoso eretico e poco si doveva curare de' luoghi santi) la qual epistola è riportata dal Fabricio nel citato luogo; e dalle varie scritture ed anche storie di quei tempi, si raccoglie che in verità il gabinetto ottomanno mirasse a soggettarsi l'europa, non tanto per diffondere la religione di Maometto (sebbene anche questo, s'io non m'inganno, è precetto o consiglio dell'Alcorano, che si proccuri di diffonderla coll'armi il più che si possa, promettendo premi nell'altra vita a chi sostenga di morire combattendo per questa causa ec.) quanto per propagare il proprio imperio, e non tanto odiando gli altri principi e regni europei come Cristiani, quanto appetendoli come materia di conquista. O certo pare che gli altri gabinetti europei riguardassero tutti la potenza ottomana con maggior sospetto ch'ei non si guardavano l'un l'altro, temendone, non {per la} religion Cristiana, ma {per} se  3174 stessi. E senza fallo la potenza ottomana si manteneva ancora a quel tempo nell'opinione di conquistatrice appresso gli altri, e il gabinetto ottomano conservava ancora le intenzioni e i progetti di conquistatori. Nè poteva essere spenta la memoria e il terrore di quando, non più che un secolo addietro, quella nazione tartara, {dopo le tante imprese e conquiste e progressi fatti per sì lungo tempo nell'Asia,} presa Costantinopoli, antichissima sede del greco impero, e distrutto l'ultimo avanzo della potenza romana, aveva finalmente piantato nell'europa risorgente alla civiltà, un trono barbaro, una lingua e un popolo Asiatico (cosa fino allora, per quanto si stende la ricordanza delle storie, non più veduta), {+{oltre} una religione diversa dalla Cristiana (cosa pur non veduta in europa da' tempi pagani in poi, eccetto i mori di Spagna, i quali si debbono eccettuare anche sotto i rispetti detti di sopra);} ed aveva imposto il giogo della schiavitù orientale alla più colta nazione che fosse in quei tempi, come apparve dai tanti esuli, secondo quel tempo, dottissimi, che fuggendo la turca tirannide, si erano sparsi per le altre parti d'europa, portando i greci codici, e la greca letteratura, e rendendo comune e proprio di quel secolo più che d'ogni altro, lo studio ed anche l'uso della greca lingua nelle scuole e fra' letterati d'italia, di Francia e di Germania, {+ed aiutando universalmente il progresso delle rinate lettere.} Spettacolo veramente terribile, la cui impressione non poteva nel seguente secolo essere spenta, nè si poteva ancora  3175 aver cessato di temere e di odiare generalmente il Turco sì nelle corti e sì nel popolo, non solo come conquistatore, ma di più come conquistatore barbaro e crudele, minacciante le nazioni civili; (quasi come i Goti e gli altri popoli settentrionali ne' bassi secoli), anche astraendo affatto dalla religione. Quindi il voto de' politici e degli scrittori di quel secolo {per la lega universale contro i turchi,} prende un aspetto anche più grave, e non è solamente da riguardarsi com'effetto di antiche opinioni e rimembranze religiose, e di fanatismo e d'immaginazione, ma come dirittamente spettante alla politica, e derivante dalla considerazione delle reali circostanze d'europa in quel secolo. E tanto più importante n'apparisce il soggetto, e più degno, {saggio} e nobile il pensiero, la scelta e l'intenzione del Tasso, che nel suo poema fece servire la religione, e le opinioni e lo spirito popolare del suo tempo, e le altre cose che si prestano alla poesia (perocchè le speculazioni politiche non possono esser materia da ciò) a promuovere quello scopo ch'era allora de' più importanti per la conservazione della civiltà, della libertà, dello stato, del ben essere di tutta europa, cioè la concordia de' principi europei per essere in grado e di respingere e di distruggere il  3176 {Barbaro} che minacciava o era creduto minacciare di schiavitù tutte le nazioni civili, il comune nemico che macchinava o era creduto macchinare la conquista di tutta europa dopo quella di gran parte dell'Asia, e insidiare perpetuamente ai regni europei, come anticamente i persiani alle greche repubbliche. Nè certo minor gravità ed importanza dovranno sotto tale aspetto essere riputati avere il poema del Tasso, la Canzone del Petrarca e l'altre poesie e prose italiane o forestiere appartenenti a tal materia, di quella che avessero le orazioni d'Isocrate contro il Persiano, o di Demostene contro il Macedone; anzi, per ciò che spetta alla materia, tanto maggiore di queste, quanto queste toccavano l'interesse della grecia sola, piccola parte d'europa, e quelle miravano alla salvezza dell'europa intera e di tutte le sue nazioni e lingue. (15. Agosto. Assunzione di Maria Vergine Santissima. 1823.). Nè la nimicizia degli europei verso i maomettani, e di questi verso quelli si restringeva alle sole opinioni e discorsi, ma consisteva anche ne' fatti, {#1. V. Tasso, Gerus. 17. 93.-4, dove parla d'Alfonso II. di Mod.a e confrontalo coi luoghi dello Speroni da me notati p. 3132. marg. princip. V. p. 4017.} come apparisce dalle imprese de' Cavalieri Ospitalieri di S. Giovanni di Gerusalemme  3177 che in quel medesimo secolo, dopo 212 anni di possedimento (1310.) perdettero Rodi (1522.) ed ebbero prima Viterbo dal Papa, e poi Malta (1530.) da Carlo V, e con prodigioso valore la difesero (1566.) quattro mesi con morte di 15 mila soldati barbari e ottomila marinai; dalle imprese di Carlo V contra i Maomettani d'Europa e d'Affrica; da quelle de' Veneziani nel detto secolo; dalla famosa vittoria di Lepanto riportata dalle flotte spagnuola, veneziana e del Papa sopra i turchi dieci anni avanti (1571.) che fosse pubblicata la Gerusalemme (1581.), e certo in tempo che il Tasso la stava componendo e meditando, poichè fin dieci anni avanti (1561.), egli n'aveva già scritto o abbozzato 6. canti. (V. Tirabos. t. 7. par. 3. p. 118.). (16. Agosto. 1823.). {{V. p. 4236. e l'Oraz. del Giacomini in lode del Tasso nelle Prose fior. la qual finisce con un'esortazione alla guerra contro i turchi.}}

[3472,1]  Del rimanente, egli è tanto certo che l'arte dello stile e del dire è propria esclusivamente degli antichi, quanto che l'arte del pensare è propria esclusivamente de' moderni. Gli antichi non solo facevano di quell'arte uno studio infinitamente maggiore che noi non facciamo; non solo ne possedevano e conoscevano mille parti, mille mezzi, mille secreti che noi neppur sospettiamo, e che appena e a gran fatica possiamo intendere quando e' gli spiegano e ne parlano exprofesso (come Cic. Quintil. ec.), non solo in somma la detta arte era senza paragone più ampia, stesa, ricca, varia, distinta, accurata, specificata, particolarizzata appo gli antichi che fra i moderni, ma essa era quasi l'unico, e senza quasi il principale studio degli antichi che pretendevano e aspiravano particolarmente al nome di scrittori, e massime di letterati. Si osservino sottilmente le opere d'Isocrate, di Senofonte e di tali altri cento. Tutte parole in sostanza  3473 senza più. Gli antichi letterati, se ben guardiamo, non si proponevano in conchiusione altro, che di dir bene, correttamente, cultamente e artifiziosamente, quello che tutti già sapevano e pensavano o facilissimamente avrebbero potuto e saputo pensare da se, ma pochi sapevano in quel modo significare. E non per altro in verità divenivano famosi che per questo (ancorchè forse nè gli altri nè essi se ne avvedessero, o avessero avuta questa intenzione espressa e distinta e a se medesimi manifesta), quando ottenevano il detto effetto. E non parlo già qui de' sofisti, i quali a differenza degli altri, avevano e professavano apertamente la detta intenzione e la facevano vedere; e questa si era l'unica diversità reale che passasse tra' più antichi sofisti e i classici, e il genere di scrittura di questi e di quelli. Gli uni affettavano di dir bene, e mostravano di affettarlo, gli altri dicevano bene per arte, ma non mostravano di {proccurarlo e} ricercarlo, {come però facevano.} Quanto allo stile, questi e quelli differivano notabilmente. Quanto a'  3474 concetti, alle sentenze, all'invenzione, alla condotta, all'ordine ec. non v'è divario alcuno. Si considerino attentamente i due predetti (nemici ambedue de' Sofisti), e tutti quelli che fra gli antichi cercarono e ottennero fama di bene scrivere; {#1. Aristotele p. e. non la cercò, ne Teofrasto ec.} e si vedrà che ne' loro concetti ec. tutto è sofistico. Nè anche bisognerà molta attenzione ad avvedersene. In Senofonte, particolare odiator de' sofisti, tanto perseguitati dal suo maestro, (v. la fine del Cinegetico) e a lui per se stesso abbominevoli; in Senofonte così candido e semplice e naturale che par tutto l'opposto possibile del sofistico, in Senofonte il sofistico de' concetti dà subito nell'occhio, tanto ch'io lo sentii notare con maraviglia a persona niente intendente nè di greco nè di letteratura antica, che avea non più che gittato l'occhio su certa traduzione di quell'autore. E Socrate stesso, l'amico del vero, il bello e casto parlatore, l'odiator de' calamistri e de' fuchi e d'ogni ornamento ascitizio e d'ogni affettazione, che altro era ne' suoi concetti se non un sofista  3475 niente meno di quelli da lui derisi? E per quanto poco gli antichi generalmente pensassero, non è possibile a credere che i pensieri {e le osservazioni} di Socrate, di Senofonte, di Isocrate, di Plutarco (tanto più recente) e simili, non fossero al tempo di costoro medesimi, comuni e triviali e volgari (sieno politici, filosofici, morali o qualunque) o eccedessero la comune capacità di pensare, di trovare, di concepire, di osservare. Ma pochi sapevano esprimerli a quel modo, come ho detto di sopra.

[4026,7]  Dico altrove {+p. 2827.} che la mutata pronunzia della lingua greca, dovette di necessità ne' secoli inferiori, alterandone l'armonia, alterarne la costruzione l'ordine e l'indole ec. perchè da un medesimo periodo o costrutto diversamente  4027 pronunziato, non risultava più o niuna, o certo non la stessa armonia di prima. Aggiungi che anche indipendentemente {da} questo, gli scrittori, ed anche i poeti greci de' secoli inferiori (come pure i latini, gl'italiani, e tutti gli altri ne' tempi di corrotto gusto e letteratura) amavano e volevano un'armonia diversa per se ed assolutamente e in quanto armonia da quella degli antichi, cioè sonante, alta, sfacciata, uniforme, cadenziosa ec. Questa dagli esperti si ravvisa a prima vista in tutti o quasi tutti i prosatori e poeti greci di detti secoli, anche de' migliori, ed anch'essi atticisti, formati sugli antichi, imitatori, ec. Tanto che questo numero, diverso dall'antico e della qualità predetta, che quasi in tutti, più o meno, e più o men frequente, vi si ravvisa, e[è] un certo e de' principali e più appariscenti segni, almeno a un vero intendente, per discernere gl'imitatori e più recenti, che spesso sono del resto curiosissimamente conformi agli antichi, da' classici originali e de' buoni tempi della greca letteratura. Ora il diverso gusto nell'armonia e numero di prosa e verso (nel quale aggiungi i nuovi metri, occasionati da tal gusto e dalla mutata pronunzia della lingua) contribuì non poco ad alterare, anche negli scrittori diligenti ed archeomani i costrutti e l'ordine della lingua, come era necessario, e come si vede, guardandovi sottilmente, per es. in Longino, perchè vi trovi non di rado in parole antiche un costrutto non antico, e si conosce ch'è fatto per il numero che ne risulta, e altrimenti non sarebbe risultato, e il quale altresì non è antico. (Così dicasi dell'alterazione cagionata ne' costrutti ec. dalla mutata pronunzia). Questa causa di corruzione è da porsi fra quelle che produssero e producono universalmente l'alterazione e corruttela di tutte le lingue, nelle quali tutte (o quasi tutte) i secoli di gusto falso e declinato pigliarono un numero conforme al descritto di sopra e diverso da quello de' loro antichi. Si  4028 conosce a prima vista, {e indubbiamente, (almen da un intendente ed esercitato)} per la differenza e per la detta qualità del numero, un secentista da un cinquecentista, ancorchè quello sia de' migliori, ed anche conforme in tutto il resto agli antichi. Il Pallavicini, ottimo per se in quasi tutto il restante, pecca moltissimo nella sfacciataggine e uniformità (vera o apparente, come dico altrove pp. 4026-28) del numero, alla quale subito si riconosce il suo stile, diverso principalmente per questo (quanto all'estrinseco, cioè astraendo dalle antitesi e concettuzzi che spettano piuttosto alle sentenze e ai concetti, come appunto si chiamano) da' nostri antichi, da lui tanto studiati, e tanto e così bene espressi e seguiti. Che dirò del numero di Apuleio, Petronio ec. rispetto a quello di Cic. e di Livio? non che di Cesare, e de' più antichi e semplici, che Cic. nell'Oratore dice mancar tutti del numero {+s'intende del colto, perchè senza un numero non possono essere. V. p. seg. [p. 4029,1]..} Che dirò di Lucano, dell'autore del Moretum, Stazio ec. rispetto a Virgilio? Marziale a Catullo ec.? Or questa mutazione e depravazione del numero dovette necessariamente essere una delle maggiori cagioni dell'alterazione della lingua sì greca, sì latina e italiana, sì ec., massime quanto ai costrutti e l'ordine, e quindi alla frase e frasi, e quindi all'indole, insomma al principale. Anche si dovettero depravar le {semplici} parole per servire al numero, {+e grattar l'orecchio avido di nuovi e spiccati suoni,} o sformando le vecchie, o inducendone delle nuove e strane, o componendone, come in greco, o troncandole come tra noi (l'uso de' troncamenti è singolarmente proprio del Pallavicini, e de' secentisti e de' più moderni da loro in poi), avendo riguardo sì al suono della parola in se, sì al suo effetto nella composizione e nel periodo. (9. Feb. 1824.). Veggasi il detto altrove pp. 848-49 {su d'alcuni} sforzati costrutti d'Isocrate per evitare il concorso {(conflitto)} delle vocali ec. ec. (9. Feb. 1824.). (Riferiscasi ancora a questo proposito per quanto gli può toccare, il detto altrove pp. 1157-60 sul vario gusto de' greci, lat. e ital. in diversi tempi, circa il concorso, l'abbondanza ec. delle vocali.) Ora se questo accadeva a Isocrate ottimo giudice, ed esposto  4029 migliaia d'altri tali, e scrivente per piacere a essi, nel centro della lingua pel tempo e pel luogo, fiorente la lingua e la letteratura, nel suo gran colmo ec. ec. che cosa doveva accadere ne' secoli bassi ne' quali ec. fra gl'imitatori ec. la più parte, com'era allora non greci di patria, ma dell'Asia, e questa anche alta, non la minore ec. ec. molti ancora non greci neppur di genitori, come Gioseffo, Porfirio e tanti altri ec. ec.? (10. Feb. 1824.).

[4250,3]  Parrebbe che tutta quella infinita cura che pose Isocrate circa la collocazione delle parole e la struttura della dizione, non ad altro l'avesse egli posta,  4251 fuorchè a proccurare la più perfetta, la più squisita, la maggior possibile, la più singolare chiarezza. Questa dote non si osserva negli altri autori che l'hanno, se non in quanto nel leggerli non si patisce, vale a dir non si sentono impedimenti e difficoltà. In Isocrate ella si osserva, perchè non solo non si patisce leggendolo, ma per essa si prova un certo piacere. Negli altri ella è qualità negativa, in questo è positiva; ha un certo senso, un sapore proprio. Quel piacere che dà in molti autori una temperata difficoltà che si prova leggendoli, e superando facilmente quella difficoltà ad ogni passo, quel medesimo dà nel leggere Isocrate la somma e straordinaria facilità. Par di sentirvi quel gusto che si prova quando in buona disposizione di corpo, e volontà di far moto, si cammina speditamente per una strada, non pur piana, ma lastricata. Io non credo che si trovi autor così chiaro e facile in alcuna altra lingua, come è Isocrate (e certo senza compagni) nella greca. Esso è facilissimo anche ai principianti in quella lingua, che è pur la più difficile (se non prevale in ciò la tedesca) di tutte le lingue del mondo. Tanto più mirabile in questo, quanto che si sa bene con quanto studio Isocrate cercasse gli altri pregi della dicitura, e soprattutto fuggisse il concorso delle vocali; + [p. 4251,3] difficoltà certo {grandissima,} ed inceppamento; {come ognun vedrebbe provandovisi;} il quale però non ha punto impedito quella maravigliosa facilità. (7. Marzo. Mercordì di quattro tempora. 1827.).

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