Armonia, grazia ec. delle parole, delle pronunzie, de' versi ec.
Harmony, grace, etc. of words, pronunciation, verse, etc.
Vedi Numero. See Rhythm. 1207,1 1875, seguente 1878,1 1961,12 1965,2 2415,3 3247,1 4026,7[1207,1]
1207 Quante cose si potrebbero dire circa l'infinita
varietà delle opinioni e del senso degli uomini, rispetto all'armonia delle
parole. Lascio i diversissimi e contrarissimi giudizi dell'orecchio sulla
bellezza esterna delle parole, secondo le diversissime lingue, climi, nazioni,
assuefazioni; {+ed intorno alla dolcezza,
alla grazia, sì delle parole, che delle lettere e delle pronunzie ec. In un
luogo parrà graziosa una pronunzia forestiera, in un altro sgraziata quella,
e graziosa un'altra pur forestiera; secondo i differenti contrasti colle
abitudini di ciascun paese o tempo, contrasti che ora producono il senso
della grazia, ora l'opposto ec. ec. V. p. 1263.} Lascio le differentissime armonie de' periodi
della prosa parlata o scritta, secondo, non solamente le diverse lingue e
nazioni e climi, ma anche i diversi tempi, e i diversi scrittori o parlatori
d'una stessa lingua e nazione, e d'un medesimo tempo. Osserverò solo alcune cose
relative all'armonia de' versi. Un forestiero o un fanciullo balbettante,
sentendo versi italiani, non solo non vi sente alcun diletto all'orecchio, ma
non si accorge di verun'armonia, nè li distingue dalla prosa; se pure non si
accorge e non prova qualche piccolo, anzi menomo diletto nella conformità
regolare della loro cadenza, cioè nella rima. La quale sarebbe sembrata
spiacevolissima e barbara agli antichi greci e latini, ec. alle cui lingue si
poteva adattare niente meno che alle nostre, ed a quelle stesse forme di versi
che usavano, che bene spesso o somigliano, o sono a un dipresso le medesime che
parecchie delle nostre, massimamente italiane. E di più sarebbe stata loro più
facile, stante il maggior numero di consonanze che avevano, ed anche
1208 il maggior numero di parole, considerando se non
altro (per non entrare adesso nel paragone della ricchezza) l'infinita copia e
varietà delle inflessioni di ciascun loro verbo o nome ec. Così che avrebbero
potuto usar la rima meglio di noi, e più gradevolmente, cioè più naturalmente,
forzando meno il senso, il verso, l'armonia della sua struttura, il ritmo, ec. E
nondimeno la fuggivano tanto quanto noi la cerchiamo, ed a noi stessi, avvezzi
all'armonia de' loro versi, parrebbero barbari e disgustosi ponendovi la
rima.
[1878,1] Ond'è che le arti quanto più son suscettive di
novità e varietà in ciascuna nazione, e per se stesse, tanto meno ponno variare
da nazione a nazione, e viceversa. E la varietà nazionale di cui
un[un'] arte bella è capace sta in ragione
inversa della varietà universale e costitutiva e specifica. (9. Ott.
1821.).
[1961,2] Intorno al differentissimo ritmo ec. della poesia
delle diverse nazioni, v.
quello della poesia Scalda nell'Andrès, Storia ec. Par. 2. l. 1. dove parla del Gusto della poesia degli Scaldi, t. 4. p. 147. segg.
(20. Ott. 1821.).
[1965,2]
Alla p. 1938.
En apprenant la
prosodie d'une langue, on entre plus intimément dans l'esprit de la
nation qui la parle que par quelque gente d'étude que ce puisse être.
De là vient qu'il est amusant de
prononcer des mots étrangers: on s'écoute comme si c'étoit un
autre qui parlât: mais il
1966 n'y a rien de si
délicat, de si difficile à saisir que l'accent: on apprend mille fois
plus aisément les airs de musique le plus compliqués, que la
prononciation d'une seule syllabe. Une longue suite d'années, ou les
premières impressions de l'enfance, peuvent seules rendre capable
d'imiter cette prononciation, qui appartient à ce qu'il y a de plus
subtil et de plus indéfinissable dans l'imagination et dans le caractère
national.
*
(Vedete qui 1. la gran varietà di tutto ciò ch'è
opera ed effetto della natura, e non ha che far colla ragione. 2. l'immensa e
inevitabile e naturale varietà che deve a ogni patto nascere ec. nella favella
degli uomini, varietà ch'essendo così difficile a saisir, pone un grandissimo ostacolo a farsi scambievolmente
intendere. E quante menome, ma egualmente indefinibili e inimitabili
particolarità ha la pronunzia e l'accento di ciascun paese, o terra, o
individuo! ec.)
1967 De l'Allemagne, t.
1. 2.de part. ch. 9. principio.
[2415,3] Una lingua non è bella se non è ardita, e in ultima
analisi troverete che in fatto di lingue, bellezza è lo stesso che ardire. E che altro sarebb'ella? L'armonia ec. del suono delle parole?
Quest'è una bellezza affatto esterna, e della quale poco o nulla si può
convenire, essendo diversissime in questo genere le opinioni e i gusti, secondo
le nazioni e i secoli. Per noi è bruttissimo il suono delle parole orientali, e
per gli orientali altrettanto sarà delle nostre. E parlando esattamente che cosa
intendiamo noi dell'armonia della lingua greca che pur chiamiamo bellissima? Che
sentimento, che gusto
2416 ne proviamo noi, se non, per
dir poco, incertissimo, confusissimo, e superficialissimo? Certo è che l'armonia
della lingua nostra, qualunque ella sia, ed ancorchè asprissima, ci diletta, ed
è sentita da noi molto più che quella della lingua greca, e quindi non avremmo
alcuna ragione di preferir questa lingua per la bellezza, neppure alla tedesca,
o alla russa. Forse la bellezza consisterà nella ricchezza? Ricchezza di frasi e
di modi non si dà se non in una lingua ardita, perchè di forme esatte e
matematiche, tutte le lingue ne sono o ne possono essere egualmente ricche nè
più nè meno: e questa ricchezza non può molto stendersi, essendo limitatissima
per natura sua: giacchè la dialettica poco può variare, anzi derivando da
principii uniformi e semplicissimi, tende e produce naturalmente somma
uniformità e semplicità di dicitura. La ricchezza poi di parole puramente, giova
alla bellezza, ma non basta di gran lunga; ed anch'essa è una qualità quasi
estrinseca, e senza quasi accidentale alla lingua, la quale senza punto punto
alterarsi, o scomporsi in niun
2417 modo può essere ed
è, oggi più abbondante di parole, domani meno, secondo le circostanze nazionali,
commerciali, politiche, scientifiche ec. Infatti la lingua francese è in verità
ricchissima di parole, massime in filosofia, scienze, conversazione,
manifatture, e in ogni uso e materia di società, di commercio ec. ec. e non per
questo è bella, nè più bella dell'italiana, e neanche della spagnuola. La vera e
non accidentale, ma essenziale bellezza di una lingua, quella che non si può
perdere, se la lingua non si corrompe formalmente, è una bellezza intrinseca, e
spetta all'indole della lingua; e questa non può consistere in altro che
nell'ardire. Or questo ardire che cos'è, fuorchè la libertà di non essere esatta
e matematica? Giacchè quanto all'esattezza, torno a dire, tutte le lingue ne
sono egualmente capaci, e tutte per mezzo suo posson divenire, e diverrebbero
uniformi affatto nell'indole, essendo la ragione, una; e non trovandosi varietà
se non se nella natura. Quindi se lingua
bella è lingua ardita e libera, ella è parimente lingua
non esatta, e non obbligata
2418 alle regole
dialettiche delle frasi, delle forme, e generalmente del discorso.
Osservate tutte le lingue chiamate belle, antiche e moderne, greca, latina,
italiana, spagnuola: in tutte troverete non altra bellezza propriamente che
ardire, e questo ardire non posto in altro che nelle cose sopraddette. Osservate
anche gli scrittori chiamati belli ed eleganti in ciascuna di tali lingue, e
paragonateli con quelli che non lo sono. Osservate per se, ciascuna frase, forma
ec. chiamata bella ed elegante, e paragonatela ec. Non v'è lingua bella che non
sia lingua poetica, cioè non solo capace, anzi posseditrice d'una lingua
distintamente poetica (come l'hanno tutte le suddette, e come non l'ha la
francese), ma poetiche, generalmente parlando, eziandio nella prosa, benchè
senza affettazione; vale a dir poetiche in quanto lingue, e non quanto allo
stile, come sono sconciamente, e discordantissimamente poetiche tutte le prose
francesi. Or lingua poetica, è lingua non matematica,
2419 anzi contraria per indole allo spirito matematico. (La sascrita,
riputata bellissima fra le orientali, è notatamente arditissima e
poeticissima.)
[3247,1]
3247 È cosa nota che le favelle degli uomini variano
secondo i climi. Cosa osservata dev'essere altresì che le differenze de'
caratteri delle favelle corrispondono alle differenze de' caratteri delle
pronunzie ossia del suono di ciascuna favella generalmente considerato: onde una
lingua di suono aspro ha un carattere e un genio austero, una lingua di suono
dolce ha un carattere e un genio molle e delicato; una lingua ancora rozza ha e
pronunzia ed andamento rozzo, e civilizzandosi, raddolcendosi e ripulendosi il
carattere della lingua e della dicitura, raffinandosi, divenendo regolare, e
perfezionandosi essa lingua, se ne dirozza e raddolcisce e mitigasi e si
ammollisce eziandio la generale pronunzia ed il suono. Dev'esser parimente
osservato, che siccome il carattere della lingua al carattere della pronunzia,
così i caratteri delle pronunzie corrispondono alle nature dei climi, e quindi
alle qualità fisiche degli uomini che vivono in essi climi, e alle lor qualità
morali che dalle fisiche procedono e lor corrispondono. Onde ne' climi
settentrionali, dove gli uomini indurati dal freddo, da' patimenti, e dalle
fatiche di provvedere a' propri bisogni in terre
3248
naturalmente sterili e sotto un cielo iniquo, e fortificati ancora dalla fredda
temperatura dell'aria, sono più che altrove robusti di corpo, e coraggiosi
d'animo, e pronti di mano, le pronunzie sono più che altrove forti ed energiche,
e richiedono un grande spirito, siccome è quella della lingua tedesca piena
d'aspirazioni, e che a pronunziarla par che richiegga tanto fiato quant'altri
può avere in petto, onde a noi italiani, udendola da' nazionali, par ch'e'
facciano grande fatica a parlarla, o gran forza di petto ci adoprino. Per lo
contrario accade nelle lingue de' climi meridionali, dove gli uomini sono per
natura molli e inchinati alla pigrizia e all'oziosità, e d'animo dolce, e vago
de' piaceri, e di corpo men vigoroso che mobile e vivido. Ond'egli è proprio
carattere della pronunzia non meno che della lingua p. e. tedesca, la forza, e
dell'italiana la dolcezza e delicatezza. E poste nelle lingue queste proprietà
rispettive dell'una lingua all'altra, ne segue che anche assolutamente, e
considerando ciascuna lingua da {se} nella lingua p. e.
italiana, sia pregio la delicatezza e dolcezza,
3249
onde lo scrittore {o il parlatore} italiano appo cui la
lingua {+(sia nello stile, sia nella
combinazione delle voci, sia nella pronunzia)} è più delicata e più
dolce che appo gli altri italiani (salvo che queste qualità non passino i
confini che in tutte le cose dividono il giusto dal troppo, sia per rispetto
alla stessa lingua in genere, sia in ordine alla materia trattata), più si loda
che gli altri {italiani}, appunto perocchè la lingua
italiana nella dolcezza e delicatezza avanza l'altre lingue. Ma per lo contrario
fra' tedeschi dovrà maggiormente lodarsi lo scrittore o il parlatore appo cui la
lingua riesca più forte che appo gli altri tedeschi, perocchè la lingua tedesca
supera l'altre nella forza, e suo carattere è la forza, non la dolcezza: nè la
dolcezza è pregio per se, neppur nella lingua italiana, ma in essa,
considerandola rispetto alle {altre} lingue, è qualità
non pregio, e nello scrittore o parlatore italiano è pregio, non in quanto
dolcezza, ma in quanto propria e caratteristica della lingua italiana. Così
civilizzandosi le nazioni, e divenendo, rispetto alle primitive, delicate di
corpo, divenne altresì pregio negl'individui umani la maggior
3250 delicatezza delle forme, non perchè la delicatezza sia pregio per
se; che anzi la rispettiva delicatezza delle forme era certamente biasimo, e
tenuto per difetto, o per {causa di} minor pregio {d'esse forme,} appo gli uomini primitivi; ma solo perchè
la delicatezza fisica oggidì, contro le leggi della natura, e contro il vero ben
essere e il destino dell'umana vita, è fatta propria e caratteristica delle
nazioni e persone civili. {#1. Puoi vedere le pagg. 3084-90.}
Laonde ben s'ingannarono quei tedeschi (ripresi da Mad. di Staël
nell'Alemagna) che cercarono di
raddolcire la loro lingua, credendo farsi {tanto più}
pregevoli degli altri {tedeschi} quanto più dolcemente
di loro la parlassero e scrivessero, e che la dolcezza, proccurandola alla
lingua tedesca, le avesse ad esser pregio, contro la natura, e contro il
carattere della lingua, il quale è la forza, e tanta forza richiede nello
scrittore e nel parlatore, quanta possa non varcare i confini prescritti dalla
qualità d'essa lingua, e da quella delle particolari materie in essa trattate;
ed esclude, colle medesime condizioni, la dolcezza, come vizio nella lingua
tedesca e non pregio, perchè opposta alla sua natura.
[4026,7] Dico altrove {+p.
2827.} che la mutata pronunzia della lingua greca, dovette di
necessità ne' secoli inferiori, alterandone l'armonia, alterarne la costruzione
l'ordine e l'indole ec. perchè da un medesimo periodo o costrutto diversamente
4027 pronunziato, non risultava più o niuna, o
certo non la stessa armonia di prima. Aggiungi che anche indipendentemente {da} questo, gli scrittori, ed anche i poeti greci de'
secoli inferiori (come pure i latini, gl'italiani, e tutti gli altri ne' tempi
di corrotto gusto e letteratura) amavano e volevano un'armonia diversa per se ed
assolutamente e in quanto armonia da quella degli antichi, cioè sonante, alta,
sfacciata, uniforme, cadenziosa ec. Questa dagli esperti si ravvisa a prima
vista in tutti o quasi tutti i prosatori e poeti greci di detti secoli, anche
de' migliori, ed anch'essi atticisti, formati sugli antichi, imitatori, ec.
Tanto che questo numero, diverso dall'antico e della qualità predetta, che quasi
in tutti, più o meno, e più o men frequente, vi si ravvisa, e[è] un certo e de' principali e più appariscenti segni,
almeno a un vero intendente, per discernere gl'imitatori e più recenti, che
spesso sono del resto curiosissimamente conformi agli antichi, da' classici
originali e de' buoni tempi della greca letteratura. Ora il diverso gusto
nell'armonia e numero di prosa e verso (nel quale aggiungi i nuovi metri,
occasionati da tal gusto e dalla mutata pronunzia della lingua) contribuì non
poco ad alterare, anche negli scrittori diligenti ed archeomani i costrutti e
l'ordine della lingua, come era necessario, e come si vede, guardandovi
sottilmente, per es. in Longino,
perchè vi trovi non di rado in parole antiche un costrutto non antico, e si
conosce ch'è fatto per il numero che ne risulta, e altrimenti non sarebbe
risultato, e il quale altresì non è antico. (Così dicasi dell'alterazione
cagionata ne' costrutti ec. dalla mutata pronunzia). Questa causa di corruzione
è da porsi fra quelle che produssero e producono universalmente l'alterazione e
corruttela di tutte le lingue, nelle quali tutte (o quasi tutte) i secoli di
gusto falso e declinato pigliarono un numero conforme al descritto di sopra e
diverso da quello de' loro antichi. Si
4028 conosce a
prima vista, {e indubbiamente, (almen da un intendente ed
esercitato)} per la differenza e per la detta qualità del numero, un
secentista da un cinquecentista, ancorchè quello sia de' migliori, ed anche
conforme in tutto il resto agli antichi. Il Pallavicini, ottimo per se in quasi tutto il restante, pecca
moltissimo nella sfacciataggine e uniformità (vera o apparente, come dico
altrove pp. 4026-28) del numero, alla quale subito si riconosce
il suo stile, diverso principalmente per questo (quanto all'estrinseco, cioè
astraendo dalle antitesi e concettuzzi che spettano piuttosto alle sentenze e ai
concetti, come appunto si chiamano) da' nostri antichi, da lui tanto studiati, e
tanto e così bene espressi e seguiti. Che dirò del numero di Apuleio, Petronio ec. rispetto a quello di Cic. e di Livio? non che di
Cesare, e de' più antichi e
semplici, che Cic. nell'Oratore dice mancar tutti del numero {+s'intende del colto, perchè senza un numero non possono
essere. V. p. seg. [p. 4029,1]..} Che dirò di Lucano, dell'autore del Moretum, Stazio ec. rispetto a Virgilio? Marziale a Catullo ec.? Or
questa mutazione e depravazione del numero dovette necessariamente essere una
delle maggiori cagioni dell'alterazione della lingua sì greca, sì latina e
italiana, sì ec., massime quanto ai costrutti e l'ordine, e quindi alla frase e
frasi, e quindi all'indole, insomma al principale. Anche si dovettero depravar
le {semplici} parole per servire al numero, {+e grattar l'orecchio avido di nuovi e
spiccati suoni,} o sformando le vecchie, o inducendone delle nuove e
strane, o componendone, come in greco, o troncandole come tra noi (l'uso de'
troncamenti è singolarmente proprio del Pallavicini, e de' secentisti e de' più moderni da loro in poi),
avendo riguardo sì al suono della parola in se, sì al suo effetto nella
composizione e nel periodo. (9. Feb. 1824.). Veggasi il detto
altrove pp. 848-49
{su d'alcuni} sforzati costrutti d'Isocrate per evitare il concorso {(conflitto)} delle vocali ec. ec. (9. Feb. 1824.).
(Riferiscasi ancora a questo proposito per quanto gli può toccare, il detto
altrove pp. 1157-60 sul
vario gusto de' greci, lat. e ital. in diversi tempi, circa il concorso,
l'abbondanza ec. delle vocali.) Ora se questo accadeva a Isocrate ottimo giudice, ed esposto
4029 migliaia d'altri tali, e scrivente per piacere a
essi, nel centro della lingua pel tempo e pel luogo, fiorente la lingua e la
letteratura, nel suo gran colmo ec. ec. che cosa doveva accadere ne' secoli
bassi ne' quali ec. fra gl'imitatori ec. la più parte, com'era allora non greci
di patria, ma dell'Asia, e questa anche alta, non la
minore ec. ec. molti ancora non greci neppur di genitori, come Gioseffo, Porfirio e tanti altri ec. ec.? (10. Feb.
1824.).
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