Cicerone.
Cicero.
Vedi Filippiche. See The Philippics. 743,1 1932,2 2014,1 2150,1 2240 2410 2475,2 2663,2 3440 3475,1 4067 4088,5 4281,3[743,1] La lingua greca nel tempo in cui ella pigliava forma,
consistenza, ordine, e stabilità (giacchè prima o dopo questo tempo la cosa non
avrebbe avuto lo stesso effetto) non ebbe uno scrittore nel quale per la copia,
varietà, importanza, pregio e fama singolarissima degli scritti, si riputasse
che la lingua tutta fosse contenuta. L'ebbe la lingua latina, l'ebbe appunto nel
tempo che ho detto, e l'ebbe in Cicerone. Questi per tutte le dette condizioni, per l'eminenza del suo
ingegno, e lo splendore
744 delle sue gesta, del suo
grado, della sua vita, e di tutta la sua fama, per aver non solo introdotta ma
formata {e perfezionata} non solo la lingua, ma la
letteratura, l'eloquenza, la filosofia latina, trasportando il tutto dalla
grecia, per essere in somma senza contrasto il primo
il sommo letterato e scrittore latino in quasi tutti i generi, soprastava tanto
agli altri, che la lingua latina scritta, si riputò tutta chiusa nelle sue
opere, queste tennero luogo di Accademia e di Vocabolario, l'autorità e
l'esempio suo presso i successori, non si limitò ad insegnare, e servir di norma
e di modello, ma, come accade, a circoscrivere; la lingua si riputò giunta al
suo termine; gl'incrementi di essa si stimarono già finiti; si credè giunto il
colmo del suo accrescimento; si temè la novità; si ebbe dubbio e scrupolo di
guastare e far degenerare in luogo di arricchire; le fonti della ricchezza della
lingua si stimarono chiuse. ec. E così Cic. fra gl'infiniti benefizi fatti alla sua
745 lingua, gli fece anche indirettamente per la troppa superiorità e
misura della sua fama e merito, troppo soverchiante e
primeggiãte[primeggiante], {questo danno} di
arrestarla, come arrivata già alla perfezione, e come in pericolo di degenerare
se fosse passata oltre: e quindi togliergli l'ardire, la forza generativa, e
produttrice, la fertilità, e inaridirla. Nello stesso modo che avvenne alla
eloquenza e letteratura latina, per lo stesso motivo, e per la stessa persona
(v. Velleio nel fine del 1.mo libro). Che siccome per {la letteratura} si stimò quasi giunta l'ora del riposo,
tanto egli l'aveva perfezionata {+(v. p. 801. fine.} (cosa che
non accadde mai nella grecia, giacchè a nessuno scrittore
in particolare competeva questa qualità, e la perfezione di un secolo il quale
s'intreccia e addentella col seguente, non ispaventa tanto quanto quella di un
solo, che in se stesso racchiude e definisce e circoscrive la perfezione) così
appunto intervenne anche alla lingua, la quale similmente,
746 come già matura e perfetta, cessò di crescere è[e] isterilì. Questa può essere una ragione. Quest'altra mi
sembra la principale.
[1932,2] La lode di se stesso la quale ho detto pp. 1740-41 non esser
altro che naturalissima all'uomo, e in tanto solo condannata nella società, e
divenuta oggetto di una certa ripugnanza all'individuo (che par naturale e non
è) in quanto l'uomo odia l'altro uomo; è sempre tanto più o meno in uso ec.
quanto la società è più o meno stretta, e la civiltà più
1933 o meno avanzata. Presso gli antichi ella non fu mai così deforme,
nè soggetta al ridicolo come oggi. Esempio di
Cicerone. Oggi la modestia
è tanto più minuziosa e scrupolosa nelle sue leggi quanto la nazione è più
civile e socievole. Quindi in Francia queste leggi sono
nell'apice del rigore, e in francia riescono
intollerabili gli antichi quando si lodano da se come Cic. e Orazio
(v. l'apologia che fa Thomas di Cic. in tal proposito; nell'Essai sur les
Éloges), ed è proibito sotto pena del più gran
ridicolo, a chi scrive e a chi parla il mostrare di far conto di se o delle cose
sue, il parlar di se senza grand'arte, il non affettar disprezzo di se e delle
proprie cose. ec. Questi effetti nelle altre nazioni sono proporzionati al più o
meno di francese che si trova ne' loro costumi, o in quelli de' loro individui.
(La Francia non ha differenza d'individui, essendo tutta
un individuo). I tedeschi
1934 che certo non sono
incivili, pur si vede ne' loro scrittori, che parlano volentieri di se, e danno
a se stessi, alle loro azioni, famiglie, casi, scritti ec. un certo peso, e in
un certo modo che riuscirebbe ridicolo in Francia ec.
(17. Ott. 1821.). {{Similmente possiamo
discorrere degl'italiani.}}
[2014,1] La mancanza di libertà alla lingua latina, venne
certo o dall'esser ella stata perfettamente applicata ne' suoi buoni tempi a
pochi generi di scrittura, ad altri imperfettamente e poco e da pochi, ad altri
punto;
2015 o dall'esser ella, come lingua formata, la
più moderna delle antiche, ed essere stata la sua formazione contemporanea ai
maggiori incrementi dell'arte che si vedessero tra gli antichi ec. ec.; o
dall'aver ella avuto in Cicerone uno
scrittore e un formatore troppo vasto
per se, troppo poco per lei, troppo eminente sopra gli altri, alla cui lingua
chi si restrinse, perdette la libertà della lingua, chi ricusollo, perdette la
purità, ed avendo riconquistata la libertà colla violenza, degenerolla in
anarchia. Perocchè la libertà e ne' popoli e nelle lingue è buona quando ella è
goduta pacificamente e senza contrasto relativo ad essa, e come legittimamente e
per diritto, ma quando ella è conquistata colla violenza, è piuttosto mancanza
di leggi, che libertà. Essendo proprio delle
cose umane dapoi che son giunte
2016
ad una estremità, saltare alla contraria,
poi risaltare alla prima, e non sapersi mai più fermare nel mezzo, dove la
natura sola nel primitivo loro andamento le aveva condotte, e sola potrebbe
ricondurle. Un simile pericolo corse la lingua italiana nel 500. quando
alcuni volevano restringerla, non al 300. come oggi i pedanti, ma alla sola
lingua e stile di Dante, Petr. e Bocc. per la eminenza di questi scrittori, anzi la prosa alla sola
lingua e stile del Boccaccio, la lirica
a quello del solo Petrarca ec. contro i
quali combatte il Caro nell'Apologia.
[2150,1]
2150 Lo stile, e la lingua di Cic. non è mai tanto semplice quanto nel Timeo,
perocch'egli è tradotto dal greco di Platone. E pure Platone fra i
greci del secol d'oro è (se non vogliamo escludere Isocrate) senza controversia il più elegante e
lavorato di stile e di lingua, e il Timeo è delle sue opere più astruse, e forse anche più lavorate,
perch'esso principalmente contiene il suo sistema filosofico. Platone il principe della raffinatezza nella lingua e
stile greco {prosaico,} riesce maravigliosamente
semplice in latino, e nelle mani di Cicerone, a fronte della lingua e stile originale degli altri latini,
e di esso Cicerone principe della
raffinatezza nella prosa latina. {+La
maggiore raffinatezza ed eleganza dell'aureo tempo della letteratura greca,
riesce semplicità trasportata non già ne' tempi corrotti ma nell'aureo della
letteratura latina, e per opera del suo maggiore scrittore.}
(23. Nov. 1821.).
[2239,2] Osservando bene, potrete vedere che la prosa (ed
anche la poesia) latina, nelle metafore,
2240 eleganze,
ardimenti abituali e solenni, giro della frase, costruzione ec. è molto più
poetica della greca, la quale (parlo della classica ed antica) ha un andamento
assai più rimesso, posato, piano, semplice, meno ardito, anzi non soffrirebbe in
nessun caso quelle metafore ardite e poetiche che a' prosatori latini sono
familiari, e poco meno che volgari. E se non le soffrirebbe, ciò non è
perch'ella ne abbia ed usi delle altre equivalenti, ma intendo dire ch'ella non
soffrirebbe un'egual misura e grado di ardimento ne' traslati e in tutta
l'elocuzione della prosa la più alta, come è quella di Demostene, a petto a cui Cicerone è un poeta per lo stile è[e] la lingua, laddove egli è quasi un prosatore ne'
concetti, passioni ec. rispetto a Demostene poeta, o certo più poeta di Cicerone. Quindi una frase prosaica latina sarebbe
poetica in greco, una frase epica
2241 o elegiaca in
latino sarebbe lirica in greco ec. Quasi gl'istessi rispetti ha la lingua latina
coll'italiana, similissima in queste parti alla greca, e però non è maraviglia
se il latinismo dello stile diede qualche durezza ai cinquecentisti, e sforzò e
snaturò alquanto il loro scrivere. (10. Dic. dì della Venuta della S.
Casa. 1821.).
[2408,1] Che la lingua greca si conservasse incorrotta, o
quasi incorrotta, tanto più tempo della latina, e anche dopo scaduta già la
latina ch'era venuta in fiore tanto più tardi, si potrà spiegare anche
osservando, che la letteratura (consorte indivisibile della lingua) sebbene era
scaduta appresso i greci, pur aveva ancor tanto di buono, ed era eziandio capace
di tal perfezione, che talvolta non aveva che invidiare all'antica. Esempio ne
può essere la Spedizione di Alessandro, e l'Indica d'Arriano, opere di stile e di lingua così purgate, così
uguali in ogni parte e continuamente a se stesse, senza sbalzi, risalti, slanci,
voli o cadute di sorte alcuna (che sono le proprietà dello scriver sofistico e
guasto, in qualsivoglia genere, lingua, e secolo corrotto), di semplicità e
naturalezza e facilità {chiarezza, nettezza ec.} così
spontanea ed inaffettata, così ricche, così
2409
proprie, così greche insomma nella lingua, e nella maniera, e nel gusto, che
quantunque Arriano fosse imitatore,
cioè quello stile e quella lingua non fossero cose naturali in lui ma
procacciate collo studio de' Classici (come è necessario in ogni secolo dove la
letteratura non sia primitiva) e principalmente di Senofonte, non per questo si può dire ch'egli non le
avesse acquistate in modo che paiano e si debbano anzi chiamar sue, nè se gli
può negare un posto se non uguale, certo vicinissimo a quello degl'imitati da
lui. Ora il tempo d'Arriano fu quello
d'Adriano e degli Antonini, nel qual tempo la
letteratura latina, con tutto che fosse tanto meno lontana della greca dal suo
secol d'oro, non ha opera nessuna che si possa di gran lunga paragonare a queste
d'Arriano ne' suddetti pregi, come
anche in quelli d'una ordinata e ben architettata narrazione, e altre tali virtù
dello scriver di storie. Tacito fu alquanto anteriore, e nella perfezion della lingua non si
potrebbe ragguagliar troppo bene ad Arriano: forse neanche nelle doti di storico appartenenti
2410 al bello letterario, sebben egli l'avanza di molto
in quelle che spettano alla filosofia, politica ec. Ma quel che mantiene la
lingua, è la bella letteratura, non la filosofia nè le altre scienze, che
piuttosto contribuiscono a corromperla, come fece lo stile di Seneca. E però Plutarco contemporaneo di Tacito, e com'esso, alquanto più vecchio d'Arriano, non si può recar per modello nè
di lingua nè di stile, essendo però stato forse più filosofo di tutti i filosofi
greci, molti de' quali sono esempi di perfettissimo scrivere. Ma non erano così
sottili come Plutarco, siccome Cicerone non lo era quanto Seneca, questi corrottissimo nello
scrivere, e {{quegli}} perfettissimo. (1. Maggio
1822.).
[2475,2] Chi negherà che l'arte del comporre non sia oggi e
infinitamente meglio e più chiaramente e distintamente considerata, svolta,
esposta, conosciuta, dichiarata {in tutti i} suoi
principii, eziandio più intimi, e infinitamente più divulgata fra gli uomini, e
più nelle mani degli studiosi, e aiutata oltracciò di molto maggior quantità di
esempi e modelli, che non era presso gli antichi? e massime presso quegli
antichi e in quei secoli ne' quali meglio e più perfettamente e immortalmente si
scrisse? Eppure
2476 dov'è oggi in qualsivoglia nazione
o lingua, non dico un Cicerone
(quell'eterno e supremo modello d'ogni possibile perfezione in ogni genere di
prosa), non dico un Tito Livio, ma uno
scrittore che nella lingua e nel gener suo abbia tanto valore quanto n'ha
qualunque non degli ottimi, ma pur de' buoni scrittori greci o latini? E dov'è
poi un numero di scrittori, non dico ottimi, ma buoni, uguale a quello che
n'hanno i greci e i latini? Trovatemelo, se potete, ponendo insieme {tutti} i migliori scrittori di tutte le nazioni
letterate, dal risorgimento delle lettere sino a oggidì. E dico buoni
precisamente in quel che spetta all'arte del comporre, e del saper dire {una cosa,} e
trattare un argomento con tutta la perfezione di quest'arte. Dico buoni
quanto alla lingua loro, qualunqu'ella sia, e perfetti in essa e padroni, come
fu Cicerone della latina, o come lo
furono gli altri scrittori latini e greci, men grandi di Cicerone in questo e nel rimanente, ma pur buonissimi e
classici.
2477 Dico buoni in questo senso, giacchè non
entro nell'arte del pensare, ec. E quel che dico de' prosatori, dico anche de'
poeti, colle stesse restrizioni, e quanto al modo di trattare e significare le
cose immaginate: chè l'invenzione e l'immaginazione {in se
stesse e {{assolutamente}} considerate,}
appartengono a un altro discorso.
[2663,2]
Nemo enim orator tam
multa, ne in graeco quidem otio, scripsit, quam multa sunt
nostra.
*
Cic.
Orator, num. 108, parlando delle sue
orazioni.
(9. Gen. 1823.).
[3439,1] Si possono applicare queste considerazioni anche
alla letteratura. Non s'usavano anticamente le brochures, nè gli opuscoli e foglietti volanti, nè scritture destinate
a morire il dì dopo nate. E quello ancora che si scriveva per sola circostanza e
per servire al momento, scrivevasi in modo ch'e' potesse e dovesse durare
immortalmente.
3440
Cicerone dopo dato un consiglio al
senato {o} al popolo, da mettersi in opera anche il dì
medesimo, dopo perorata e conchiusa una causa, ancor di una piccola eredità si
poneva a tavolino, e dagl'informi commẽtari[commentari] che gli avevano servito a recitare, cavava, componeva,
limava, perfezionava un'orazione formata sulle regole e i modelli eterni
dell'arte più squisita, e come tale, consegnavala all'eternità. Così gli oratori
attici, così Demostene di cui s'ha e
si legge dopo 2000 anni un'orazione per una causa di 3 pecore: mentre le
orazioni fatte oggi a' parlamenti o da niuno si leggono, o si dimenticano di là
a due dì, e ne son degne, nè chi le disse, pretese {nè bramò
nè curò} ch'elle avessero maggior durata. (15. Sett.
1823.). {#1. Quel che si è detto
della durevolezza, dicasi ancora della grandezza e magnificenza
ec.}
[3475,1] È cosa osservata che le antiche opere classiche, non
solo perdono moltissimo, tradotte che sieno, ma non vaglion nulla, non paiono
avere sostanza alcuna, non vi si trova pregio che l'abbia potute fare pur
mediocremente stimabili, restano come stoppa e cenere. Il che non solo non
accade alle opere classiche moderne, ma molte di esse nulla perdono per la
traduzione, e in qualunque lingua si voglia, sono sempre le medesime, e tanto
vagliono quanto nella originale. I pensieri di Cicerone non sono certo così comuni, come quelli de' sopraddetti ec.,
nè furono de' più
3476 comuni al suo tempo, massime
tra' romani. Nondimanco io peno a credere ch'altri possa tollerar di leggere
sino al fine (o far ciò senza noia) qualunque è più concettosa opera di Cicerone, tradotta in qual si sia lingua.
Che vuol dir ciò, {+che vuol dir questa
differenza di condizione tra l'antiche e le moderne opere, tradotte ch'elle
sieno,} se non che negli antichi, anche sommi, scrittori, o tutto o il
più son parole e stile, tolte o cangiate le quali cose, non resta quasi nulla, e
le loro sentenze scompagnate dal loro modo di significarle paiono le più
ordinarie, le più trite, le più popolari cose del mondo. Veramente i pensieri
degli antichi, più o meno, son persone del volgo: detratta la veste, se le loro
forme non appaiono rozze, certo paiono ordinarie, e di quelle che per tutto
occorrono, senza nulla di peregrino, nulla che inviti l'occhio a contemplarle,
anzi neppure a guardarle, nulla insomma nè di singolare nè di pregevole. Nelle
opere moderne all'opposto tutto è pensieri e persona; stile nulla; vesti così
dozzinali che più non potrebbero essere. {+E perciò appunto è necessario che le opere classiche
antiche tradotte perdano tutto o quasi tutto il loro pregio cioè quello
dello stile, perchè i moderni non hanno di gran lunga l'arte dello stile che
gli antichi ebbero nè possono nelle loro tradizioni conservare ad esse opere
il detto pregio ec. Ma non conservando lor questo, niuno altro gliene posson
lasciare che vaglia la pena della lettura, e che distingua gran fatto esse
opere dalle più volgari e mediocri, massime le morali, filosofiche
ec.} So che la volgarità de' pensieri negli antichi, da molti è
considerata come relativa a noi, che sappiam tanto di più; ma
3477 io dico che si fa torto all'antichità, allo spirito e alla
ragione umana universale, se non si crede che questa volgarità, almen quanto a
grandissima parte d'essi pensieri, non sia assoluta, o non fosse volgarità anche
al tempo degli scrittori che gli esposero. (19. Sett. 1823.).
[4066,1]
4066 La maniera familiare che come più volte ho detto
pp. 1808-10
pp. 2639-40
pp. 2836-41
pp. 3009. sgg.
pp. 3014-17
p. 3415, fu necessariamente scelta da' nostri classici antichi, o
necessariamente v'incorsero senz'avvedersene ed anche fuggendola, può ora in
parte o in tutto sfuggire massimamente alle persone di naso poco acuto, e a
quelle non molto esercitate e profonde nella cognizione, nel sentimento e nel
gusto dell'antica e buona lingua e stile italiano, che è quanto dire a quasi
tutti i presenti italiani. Ciò viene, fra l'altre cose, perchè quello che allora
fu familiare nella lingua, or non lo è più, anzi è antico ed elegante, ovvero è
arcaismo. Non per tanto è men vero quel che io altrove ho detto. Anzi è tanto
vero, che anche dopo che la lingua aveva acquistato la materia e i mezzi e la
capacità della eleganza e del parlar distinto da quello del volgo e dall'usuale,
si è pur seguitato sì nel 500 e 600 sì nel presente secolo da molti cultori e
amatori dello scriver classico, a usare una maniera familiare, sovente non
avvedendosene o non intendendo bene la proprietà e qualità della maniera che
sceglievano e usavano, e sovente anche {intendendo,}
credendo di usare una maniera elegante. E ciò si è fatto in due modi. O
adoperando le stesse forme antiche, le quali oggi non sono più familiari, anzi
eleganti, onde n'è risultata opinione di eleganza a tali stili ed opere
modellate sull'antico, ma veramente esse hanno del familiare, perchè il totale
dello stile antico da essi imitato, necessariamente ne aveva anche
indipendentemente dalle forme, bensì per cagion loro e per conformarsi e
corrispondere ad esse {forme} che allora erano
necessariamente familiari. Ovvero adoperando le forme familiari moderne a
esempio e imitazione degli antichi, e della familiarità che nelle forme e nello
stile loro si scorgeva, benchè non bene intendendola, e sovente confondendo sì
la familiarità imitata sì quella
4067 che adoperavano
ad imitarla, colla eleganza, dignità e nobiltà e col dir separato dall'usuale,
perciò appunto che la familiarità in genere non era {e non
è} più usuale, e l'uso della medesima è proprio degli antichi. Il
terzo modo, che sarebbe quello di usar l'antico e il moderno e tutte le risorse
della lingua, in vista e con intenzione di fare uno stile e una maniera nè
familiare nè antica, ma elegante in generale, nobile, maestosa, distinta affatto
dal dir comune, e proprio di una lingua che è già atta allo stile perfetto,
quale è appunto quello di Cicerone nella
prosa e di Virgilio nella poesia (stile
usato quando la lingua latina era appunto in {quelle
circostanze e} quello stato di capacità in cui è ora la lingua
nostra); questo terzo modo non è stato non che usato, ma concepito nè inteso da
quasi niuno, comechè egli è forse il solo conveniente, il solo perfetto, e
convenevole a una lingua {e letteratura già} perfetta.
(8. Aprile. 1824.).
[4088,5]
Nei frammenti delle poesie di Cic. massime in quelli delle sue
traduzioni di Arato, che si
trovano principalmente citati da lui, come
nei libri de Divinat. ec., sono
abbondantissimi i composti, e in particolari[particolare] quelli fatti di più nomi, alla greca (come mollipes), gran parte de' quali, se non la massima,
non debbono avere esempio anteriore, e mostrano essere coniati da lui ad esempio
del greco, e forse per corrispondere a quelli appunto che traduceva. (15.
Maggio. 1824.).
[4281,3]
Alla p. 4255.
principio. Vir gente et fama nobilis,
*
dice il
Reimar,
Praefat. ad Dion. §. 6, di Giovanni Leunclavio, famoso erudito
tedesco del secolo 16.o, quem
merito admiratur Marquardus Freherus in epistola
dedicatoria ad Leunclavii Jus Graeco - Romanum quod inter varias
peregrinationes, in multis principum aulis, legationibus et negotiis
occupatus, tot ac tanta opera summa accuratione ediderit, quot et
quanta quis otiosus et huic uni rei operatus vix proferret in
lucem.
*
Le soprascritte pp. 4254-55
osservazioni del Chesterfield spiegano
questo fenomeno, ripetuto del resto assai spesso; e notato colla stessa
ammirazione da molti, in molti e molti altri; e certamente non raro. Esse
spiegano il simile e maggior fenomeno di Cicerone tra gli antichi, di Federico di Prussia tra i moderni, e di tanti altri tali. A segno che
sarà forse più difficile il trovare un letterato, altronde ozioso e disoccupato,
che abbia molto scritto e con accuratezza grande, di quello che un letterato
che, occupato d'altronde, abbia prodotto molte e studiate opere. Certo di questi
non è difficile a trovarne, e ciò conferma le osservazioni del Chesterfield; secondo le quali, le
stesse occupazioni di siffatti uomini, debbono servire a render ragione della
moltitudine e dell'accuratezza dei loro lavori, e a scemarne la meraviglia,
mostrandole occasionate da un abito di attività prodotto o sostenuto da esse
occupazioni; attività tanto maggiore {e più viva ed
acuta,} quanto la copia e la folla {e
l'assiduità} di esse occupazioni era più grande.
(Recanati. 17. Aprile. Martedì di Pasqua.
1827.). Esempio mio,
4282 per lo più ozioso,
ed inclinato all'inerzia, o per natura o per abito; pure in mezzo a questa
inazione profonda, un giorno che io abbia occasione di adoperarmi, e molte cose
da fare, non solo trovo tempo da sbrigar tutto, ma me ne avanza, e in
quell'avanzo, io provo (e m'è avvenuto più volte) un vero bisogno, una smania,
di far qualche cosa, un orrore del non far nulla, che mi pare incomportabile,
come se io non fossi avvezzo a passar le ore, e per così dire i mesi, nella mia
stanza colle braccia in croce. (Recanati. 17. Apr.
Martedì di Pasqua. 1827.).
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