Costumi antichi conformi a costumi moderni. Antichità di costumi ec. creduti moderni.
Ancient customs similar to modern ones. The antiquity of customs that are believed to be modern.
4144,4 4158,8 4182,9 4183,2 4199,1 4203,1 4224,marg. 4125,1 4206,1.3 4218,3 4219,1 4255,2 4280,3[4144,4] Somiglianza di costumi antichi e moderni, ovvero
antichità di costumi che si credono moderni. - La lucerna di terra cotta
(fittile)
4145 di cui si {era}
servito Epitteto, fu venduta per 3000
dramme. {V. p. 4166.
fin.} I ricchi Ateniesi per lusso usavano di tener
servi negri. Teofrasto
Caratteri cap. 21.
{+
Terenz.
Eunuch. I. 2. 85. Auctor ad Herenn. IV. 50.
Visconti
Museo Pio Clem. t. 3. fig. 35. rappresentante la
statua di un Negro servente al bagno. Negli spettacoli antichi si gridava
da capo (αὖϑις) come da noi. V. le mie noterelle
latine sul Simposio di Senofonte.} Similmente di tenere in
casa una scimmia o più d'una ancora. Ib. c. 5.
{{V. p. 4170. p. 4298.}}
[4158,8] Notasi che gli antichi greci diedero spesso il nome
di πóλις a regioni e paesi. Πάρος, νῆσος, ἣν
καὶ πóλιν ᾽Aρχίλοχος
αὐτὴν καλεῖ ἐν ἐπῳδοῖς.
*
Steph. Byz. voc.
Πάρος. Insulas et regiones etiam πóλεις ab auctoribus dictas
esse, observat Strabo l. 8. p. 546. Στησίχορος δὲ καλεῖ πóλιν τὴν χώραν Πίσαν λεγομένην,
ὡς ὁ ποιητὴς τὴν Λέσβον Mάκαρος πóλιν. Eυριπίδης ἐν ῎Iωνι∙
Eὔβοι᾽ ᾽Aϑήναις ἐστί τις γείτων πóλις.
*
κτλ. quae
vid. Cf. ibid. Casaub. not. 2. Sic et insula
Cos Il. β, 676. et
Lemnus Od.
4159 θ. 284. ab Homero nominatur. Ipse Archilochus fragm. 92. (Θάσον δὲ τὴν
τρισοϊζυρὴν πóλιν
*
, ap. Eustath.
Od. ε. t. 3. p. 1542. ed.
Rom.) insulam Τhasum πóλιν dicit. Lysias
contra Andocid.
ἔπειτα δὲ καὶ διώχληκε πóλεις πολλὰς ἐν τῇ
ἀποδημίᾳ, Σικελίαν, ᾽Iταλίαν, Πελοπóννησον
*
κ. τ.
λ. Aristides
de Neptuno t. 1. p. 20. ed. Jebbii
Oxon. 1722. καὶ πóλεις
δὲ ἐπολίσατο τοῖς ἀνϑρώποις, ἃς καὶ νήσους νυνὶ
καλοῦμεν
*
Aeschyl.
Eὐμεν. 75. insulas
περιῥῤύτους πóλεις
*
vocat. Sic
Propert.
l. 3. el. 9. 16. observante Huschke
Miscell. philol. P.
1. p. 24. Praxitelem Paria vindicat urbe
lapis.
*
*
- Liebel loc. sup. cit. fragm.
76. p. 179-80. Simili cause, simili effetti: tempi simili,
costumi simili, e lingua e parole sempre analoghe ai costumi. Questo chiamar
città i paesi, probabilmente derivò dal modo in cui vivevano gli uomini prima
delle prime città; già bastantemente civili, bastantemente riuniti insieme, ma
non però tanto da far città in corpo, bensì borghi, e villette in gran numero,
occupanti gran tratto di paese. Tutto questo tratto si dovette da principio
chiamar πóλις, onde poi fu trasferita la significazione a città (quando cioè le città vi furono), e non già viceversa. Questi
erano i tempi in cui Atene non era altro che quattro (Plutar. in Τhes.
Euripid.
Heraclid. 81.), o 11. (Steph.
Byz.
᾽Aϑῆναι) o 12. (Τheophr.
Charact. c. 26. fin. {in} addition. ex ms. Vat.) borgate sparse per
l'Attica, poi riunite da Teseo, {(v. Meurs. in Τheseo)} e chiamate con un solo nome
Atene; e Mantinea similmente
in Arcadia ec. Ora sappiamo dalla storia che lo stesso
modo di abitare a borgate si usò nei bassi tempi; allo stesso modo poi,
crescendo la nuova civiltà, le città si formarono (v. Robertson, introduzione alla
4160
Stor. di Carlo V), ed appunto
allo stesso modo, troviamo negli antichi fino al 500, ec. le città chiamate
generalmente con nome di terre, voce significativa
propriamente di paesi, nel qual modo si chiamano anche
oggi nello scrivere con eleganza, eziandio le città grandi, in volgar comune e
favellato, i castelli, e i così detti paesi. Così in francese anche oggi pays per città, benchè proprio nome di regione. (V.
del resto i Diz. franc. e spagn. e ingl. ec. in Terra
ec. e nei nomi di città, e così Forcell.
Gloss. ec. Da terra
per città, terrazzano per cittadino. ec.) Cosa che
anche conferma la mia opinione sopra il vero primitivo significato di πóλις.
(Bologna. 1825. 9. Dec. Vigilia della
Venuta della S. Casa.).
[4182,9]
Burchiellesco. Genere burchiellesco,
{Frottole,} in uso anche tra i greci. Demetr.
de elocut. sect. 153. Ἔστι δέ τις καὶ ἡ παρὰ τὴν προσδοκίαν χάρις∙ ὡς ἡ τοῦ
Κύκλωπος, ὅτι ὕστατον ἕδομαι Oὖτιν. οὐ γὰρ προσεδóκα τοιοῦτο ξένιον oὔτε
᾽Oδυσσεὺς oὔτε ὁ ἀναγινώσκων. καὶ ὁ ᾽Aριστοϕάνης ἐπὶ τοῦ Σωκράτους,
Κάμψας ὀβελίσκον, ϕησίν, εἶτα διαβήτην λαβών, ἐκ τῆς παλαίστρας
ϑoιμάτιον ὑϕείλετο.
*
sect. 154. Ἤδη μέν
τοι ἐκ δύο τóπων ἐνταῦϑα ἐγένετο ἡ χάρις. οὐ γὰρ παρὰ προσδοκίaν μóνον
ἐπηνέχϑη, ἄλλ᾽ οὐδ᾽ ἠκoλoύϑει τοῖς προτέροις. ἡ δὲ τοιαύτη ἀνακoλouϑία
καλεῖται γρῖϕος∙ ὥσπερ ὁ παρὰ Σώϕρονι ῥητορεύων Βουλίας∙ (οὐδὲν γὰρ
ἀκóλουϑoν αὑτῷ λέγει). καὶ παρὰ Mενάνδρῳ δὲ ὁ πρóλογος τῆς
Mεσσηνίας.
*
I versi di Aristofane sono i 53. 54.
della scena 2. atto 1. delle Nubi, edit. Aureliae Allobrogum 1608. Gli Scoli antichi però, dánno loro un
senso, e gli spiegano come il resto. {+Simili
ai commentatori della frottola del Petrarca.}
(Bologna. 5. Luglio. 1826.). {{Dei grifi
v. Casaub.
ad Athenae. indice delle materie.}}
[4183,2] Il mangiar soli, τὸ μονοϕαγεῖν, era infame presso i
greci e i latini, e stimato inhumanum, e il titolo di
μονοϕάγος si dava ad alcuno per vituperio, come quello di τοιχωρύχoς, cioè di
ladro. V. Casaub. ad Athenae. l. 2. c. 8. {+e gli Addenda a quel
luogo.} Io avrei meritata quest'infamia presso gli antichi.
(Bologna. 6. Luglio. 1826.). Gli
antichi però avevano ragione, perchè essi non conversavano insieme a tavola, se
non dopo mangiato, e nel tempo del simposio propriamente detto, cioè della
comessazione, ossia di una compotazione, usata da loro dopo il mangiare, come
oggi dagl'inglesi, e accompagnata al più da uno spilluzzicare di qualche poco di
cibo per destar la voglia del bere. Quello è il tempo in cui si avrebbe più
allegria, più brio, più spirito, {più buon umore,} e
più voglia di conversare {e di ciarlare.}
{#(1.) Così appunto la pensavano gli antichi. V. Casaub.
ib. l. 8. c. 14. init.} Ma nel tempo delle
vivande tacevano, o parlavano assai poco. Noi abbiamo dismesso l'uso
naturalissimo e allegrissimo della compotazione, e parliamo mangiando. Ora io
non posso mettermi nella testa che quell'unica ora
4184
del giorno in cui si ha la bocca impedita, in cui gli organi esteriori della
favella hanno un'altra occupazione (occupazione interessantissima, e la quale
importa moltissimo che sia fatta bene, perchè dalla buona digestione dipende in
massima parte il ben essere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e
morale dell'uomo, e la digestione non può esser buona se non è ben cominciata
nella bocca, secondo il noto proverbio o aforismo medico), abbia da esser
quell'ora appunto in cui più che mai si debba favellare; giacchè molti si
trovano, che dando allo studio o al ritiro per qualunque causa tutto il resto
del giorno, non conversano che a tavola, e sarebbero bien
fachés[fâchés] di
trovarsi soli e di tacere in quell'ora. Ma io che ho a cuore la buona
digestione, non credo di essere inumano se in
quell'ora voglio parlare meno che mai, e se però pranzo solo. Tanto più che
voglio potere smaltire il mio cibo in bocca secondo il mio bisogno, e non
secondo quello degli altri, che spesso divorano e non fanno altro che imboccare
e ingoiare. Del che se il loro stomaco si contenta, non segue che il mio se ne
debba contentare, come pur bisognerebbe, mangiando in compagnia, per non fare
aspettare, e per osservar le bienséances che gli
antichi non credo curassero troppo in questo caso; altra ragione per cui essi
facevano molto bene a mangiare in compagnia, come io credo fare ottimamente a
mangiar da me. (Bologna. 6. Luglio. 1826.).
{{V. p. 4245. 4248. 4275.}}
[4199,1] Paragrandini, parafulmini ec. Fozio, Biblioteca, cod. 72. analizzando Κτησίoυ
τὰ ᾽Iνδικά, e parlando di una fonte che Ctesia diceva esser
nell'india, senz'altra indicazione di luogo, dice
fra l'altre cose: καὶ
*
(λέγει Κτησίας) περὶ τοῦ ἐν τῷ
πυϑμένι τῆς κρήνης σιδήρου, ἐξ oὗ καὶ δύo ξίϕη Κτησίας ϕησὶν ἐσχηκέναι,
ἕν παρὰ βασιλέως
*
(᾽Aρτξέρξoυ
τοῦ Mνήμονος ἐπικληϑέντος), καὶ ἕν παρὰ τῆς
τοῦ βασιλέως μητρὸς Παρυσάτιδος
*
(ἧς ἰατρòς γέγονεν ὁ Κτησίας). ϕησὶ δὲ περὶ αὐτοῦ, ὅτι πηγνύμενος ἐν τῇ γῇ, νέϕους καὶ
χαλάζης καὶ πρηστήρων
4200 ἐστὶν ἀποτρóπαιος.
καὶ ἰδεῖν αὐτὸν ταῦτα ϕησί, βασιλέως δὶς ποιήσαντος.
*
De ferro, quod in huius fontis fundo reperitur; ex quo
duo[duos] se habuisse aliquando
gladios ipse Ctesias
commemorat; unum a rege, (in marg. Artaxerxe, τῷ
Mnemone), alterum a Parysatide regis ipsius matre sibi donatum. Ferri autem huius
eam esse vim, ut in terram depactum nebulas, et grandines, turbinesque
avertat. hoc semel se iterumque vidisse, cum rex ipse eius rei periculum
faceret.
*
Versio Andreae Schotti. (Bologna. 1826. 12.
Settembre.).
[4203,1]
4203 Ebbero i Greci, come i moderni, anche delle {voluminose} storie teatrali e drammatiche (come ne
ebbero delle filosofiche, geometriche, pittoriche, statuarie, e d'ogni genere di
discipline). Fozio nella Bibliot. cod. 161. dando conto dei 12. libri di
Ecloghe o Estratti di Sopatro sofista, dice che il quarto suo libro
contiene degli estratti, fra gli altri, ἐκ τοῦ ὀγδóoυ
λóγου τῆς τοῦ ῾Ρoύϕου
δραματικῆς ἱστορίας, oἷς παράδοξά τε καὶ ἀπίθανα ἐστὶν
εὑρεῖν, καὶ τραγωδῶν[τραγῳδῶν]
καὶ κωμωδῶν[κωμῳδῶν] πράξεις τε καὶ
λόγους καὶ ἐπιτηδεύματα, καὶ τοιαῦϑ᾽ ἕτερα.
*
E che il quinto
libro σύγκειται αὐτῷ ἔκ τε τῆς ῾Ρoύϕου
μουσικῆς ἱστορίας πρώτου καὶ δευτέρου καὶ τρίτου βιβλίoυ.
ἐν ᾧ τραγικῶν τε καὶ κωμικῶν ποικίλην ἱστορίαν εὑρήσεις.
*
(Tragicor. ac Comicor.
Schott.) οὐ
μὴν δὲ ἀλλὰ καὶ διϑυραμβοποιῶν τε καὶ αὐλητῶν καὶ
κιθαρωδῶν·[κιθαρῳδῶν] ἐπιθαλαμίων τε
ᾠδῶν καὶ ὑμεναίων καὶ ὑπορχημάτων ἀϕήγησιν
*
, (epithalamiorumq.
carminum et hymenaeorum atq. cantilenarum in chorea enumerationem. Schottus) περί τε ὀρχηστῶν καὶ τῶν ἄλλων τῶν ἐν τoῖς ῾Eλληνικoῖς ϑεάτροις
ἀγωνιζομένων∙ ὅϑέν τε καὶ ὅπως oἱ τoύτων ἐπὶ μέγα κλέoς {{παρ᾽ αὐτoῖς}} ἀναδραμóντες γεγóνασιν, εἴ τε
ἄῤῥενες εἴ τε καὶ τὴν ϑήλειαν ϕύσιν διεκληρώσαντο∙ τίνες τε τίνων
ἐπιτηδευμάτων ἀρχὴ διεγνώσϑησαν
*
(quinam etiam singulorum
auctores ac principes studiorum exstiterint. Schott.), καὶ τoύτων δὲ
τίνες τυράννων ἢ βασιλέων ἐρασταὶ καὶ ϕίλοι γεγóνασιν. οὐ μὴν {ἀλλὰ} καὶ τίνες {τε} oἱ
ὰγῶνες, καὶ ὅϑεν, ἐν oἷς ἕκαστος τὰ τῆς τέχνης ἐπεδείκνυτο. καὶ περὶ
ἑορτῶν δὲ ὅσαι πάνδημοι τoῖς ᾽Aϑηναίοις. ταῦτα δὴ πάντα καὶ εἴ τι ὅμοιον,
ὁ πέμπτoς
*
(τοῦ Σωπάτρου) ἀναγινώσκοντί σοι
παραστήσει λóγoς. ῾O δὲ ἕκτoς αὐτῷ συνελέγη λόγος ἔκ τε τῆς αὐτῆς
῾Ρoύϕoυ μουσικῆς
*
(ἱστορίας) βίβλου πέμπτης
καὶ τετάρτης. αὐλητῶν δὴ καὶ αὐλημάτων ἀϕήγησιν ἔχει, ἄνδρές τε ὅσα
ηὔλησαν καὶ δὴ καὶ γυναῖκες. καὶ ῞Oμηρος δὲ αὐτῷ καὶ ῾Hσίoδoς καὶ ᾽Aντίμαχoς
oἱ ποιηταὶ τῆς διηγήσεως μέρος
*
, (huius narrationis partem
4204 efficiunt. Schott.) καὶ τῶν ἄλλων
πλεῖστοι τῶν εἰς τοῦτο τὸ γένος τῶν ποιητῶν ἀναγoμένων
*
. E segue
dicendo di altri libri di altri scrittori dai quali era estratto il sesto
libro di Sopatro. E l'undecimo
dice essere estratto, fra gli altri, ἐκ τῆς τοῦ
Ἰώβα[Ἰόβα]
*
(Iubae) τοῦ βασιλέως ϑεατρικῆς ἱστορίας ἑπτακαιδεκάτoυ
λóγoυ
*
, della quale
opera fa menzione anche Ateneo, lib. 4.
(Bologna. 1826. 24. Sett. Domenica.). {{V. p.
4238.}}
[4224,5]
Alla p. 4210. lin.
1. Questa inclinazione e quest'uso di applicare a luoghi e persone ben
note e prossime i racconti {(veri o finti)}
appartenenti a persone e luoghi lontani, ed anche di rimodernarli, cioè applicar
de' racconti vecchi, e talora vecchissimi, a tempi e persone moderne, ha mille
esempi, che si possono notare anche giornalmente: ed io ho udito in città
d'italia, molto tra se distanti, raccontare varie
novellette, varie pretese origini di proverbi, varie goffaggini {insigni} ec. come accadute nominatamente ad una tal
persona di quella tal città; e così in ciascuna città; e per tutto la stessa
novelletta con nome diverso; e molte di tali novellette io le aveva già sin
dalla puerizia sentite raccontare nella mia patria e da' miei, sotto i nomi di
persone della mia città stessa o della provincia: ed alcune ne ho anche trovate
negli antichi novellieri italiani, sotto altri nomi, le quali ora si raccontano
come di poco tempo addietro, e di persone conosciute dagli stessi che le
raccontano, o da quelli da cui essi le hanno udite.
(Bolog. 23. Ottob. 1826.). {+Altra conformità degli antichi coi
moderni, poichè anche gli antichi ebbero lo stesso vezzo, come si è
veduto.}
[4125,1] Trovasi nella storia commentizia d'Apollonio Discolo cap. 24. un
tratto il quale fa credere che anche gli antichi conoscessero quella razza
d'uomini detti mori bianchi, della quale v. Voltaire opere scelte, Londra
(Venezia) 1760. in 3. tomi, tom. 1, p. 113.
e Robertson
Stor. d'Amer.
Ven. 1794. tom. 2. p. 125. seg. e che questa
razza si trovasse anche in europa. Vi si cita Eudosso {rodio}. V. anche Plin.
Buffon ec. se hanno cosa in proposito.
(18. Feb. 1825.).
{V. Hist. de l'Acad. des
Sciences, an. 1734. p. 20-23. t. 1. ed.
d'Amsterdam in 12.°}

[4218,3]
Sperno - aspernor, aris.
[4219,1]
{Alla p.
4208.}
Damascio nel luogo citato nel pensiero
antecedente, colonna 1033. dice del suo maestro ed eroe Isidoro filosofo: ῾Pητορικῆς
καὶ ποιητικῆς πολυμαϑίας μικρὰ ἥψατο, εἰς δὲ τὴν ϑειοτέραν ϕιλοσοϕίαν
ἐξώρμησε τὴν ᾽Aριστοτέλους. ὁρῶν
δὲ ταύτην τῷ ἀναγκαίῳ μᾶλλον ἢ τῷ oἰκείῳ
*
(proprio, privato,
individuale) νῷ πιστεύoυσαν, καὶ τεχνικὴν μὲν ἱκανῶς
εἶναι σπουδάζουσαν, τὸ δὲ ἔνϑεον ἢ νοερὸν oὐ πάνυ προβαλλομένην, ὀλίγου
καὶ τaύτης ὁ ᾽Iσίδωρος ἐποιήσατο λόγον. ὡς δὲ τῶν Πλάτωνoς ἐγεύσατο νοημάτων, οὐκέτι παπταίνειν ἠξίoυ πόρσιον, ὡς ἔϕη Πίνδαρος
*
(Olymp., od. 1. et od. 3. fin.
Phyth. od. 3.)
ἀλλὰ τέλος ἔχειν ἤλπιζεν εἰ τῆς Πλάτωνoς διανοίας εἴσω τῶν ἀδύτων δυνηϑείη
διαβαλεῖν
*
(sic), καὶ πρὸς τoύτῳ
*
(in
margine corrigitur τoῦτο) ὁ πᾶς αὐτῷ δρóμος ἐτέτατo τῆς
σπουδῆς.
*
Rhetoricas, poeticasque artes parum attigit: sed ad
sanctiorem Aristotelis
philosophiam se convertit, vidensque illam necessariis ratiocinationibus
magis quam proprio sensui credere, et ut via ac ratione procedat,
divinis autem imaginationibus non adeo uti, parum etiam de hac
sollicitus fuit: ubi autem Platonis sententias gustavit, non iam aspicere, ut ait Pindarus, dignatus est
ulterius. Sed finem consecuturum speravit
*
(dic, perfectionem,
vel quid simile) si {in}
Platonis sententiarum adyta
penetrare potuisset. et eo omne suum studium impetumque
convertit.
*
Versio Andreae
Schotti. Tῶν μὲν παλαίτατα
4220
ϕιλοσοϕησάντων
*
, soggiunge Fozio, Πυϑαγóραν καὶ Πλάτωνa
ϑειάζει
*
(cioè Damascio) ... τῶν νεοστὶ δὲ Πορϕύριον καὶ ᾽Iάμβλιχoν καὶ Συριανὸν καὶ Πρόκλον, καὶ ἄλλους δὲ ἐν μέσῳ τοῦ χρóνoυ
πολὺν ϑησαυρòν συλλέξαι λέγει ἐπιστήμης ϑεοπρεποῦς. τoὺς μέν τοι ϑνητὰ
καὶ ανϑρώπινα ϕιλοπονουμένους,
*
{+colonna 1036.}
ἢ συνιέντας ὀξέως ἢ ϕιλομαϑεῖς εἶναι βουλομένους, οὐδὲν
μέγα ἀνύττειν[ἀνύτειν] εἰς τὴν ϑεοπρεπῆ
καὶ μεγάλην σοϕίαν. τῶν γὰρ παλαιῶν ᾽Aριστοτέλη καὶ Χρύσιππoν, εὐϕυεστάτouς γενομένους, ἀλλὰ καὶ ϕιλομαϑεστάτoυς
γεγονότας, ἔτι δὲ καὶ ϕιλοπόνους, οὐκ ἀναβῆναι ὅμως τὴν ὅλην ἀνάβασιν.
τῶν νεωτέρων ῾Iεροκλέα τε καὶ
εἴ τις ὅμοιος, οὐδὲν μὲν ἐλλείποντας εἰς ἀνϑρωπίνην παρασκευήν, τῶν δὲ
μακαρίων νοημάτων πολλαχῆ πολλῶν ὲνδεεῖς γενομένους ϕησίν.
*
Θειάζει vuol dire esalta, divinizza, loda a cielo, voce e senso
usitato a Fozio. Antiquissimos etc. De recentioribus etc., et alios mediae
aetatis, magnum thesaurum collegisse divinae scientiae dicit. Eos autem
qui in caducis, et humanis studiis libenter occupantur, vel qui
intelligere acute
*
(cito), ac scire multa
volunt, non magnopere conferre ad sublimem ac divinam sapientiam.
Antiquorum enim Aristotelem et
Chrysippum
ingeniosissimos, et discendi cupidissimos, quin etiam laboriosos, nec
tamen omnino ad summum ascendisse. Recentium vero Hieroclem, et similes, scientiis humanis
nulli quidem fuisse inferiores, sed in divinis notionibus non admodum
fuisse versatos
*
tradit. Schott. Più sotto nella stessa colonna 1036. dice Damascio d'Isidoro: ἐξαίρετον δ᾽ ἦν
αὐτῷ παρὰ τοὺς ἄλλους καὶ τοῦτο ϕιλοσόϕους οὐκ ἠβούλετο συλλογισμοῖς
ἀναγκάζειν μóνον, οὔτε ἑαυτòν οὔτε τoὺς συνóντας, ἐπακολουϑεῖν τῇ
ἀληϑείᾳ μὴ ὁρωμένην κατὰ μίαν ὁδòν πορεύεσϑαι συνελαυνομένους ὑπò τοῦ
λóγου, oἷoν τυϕλοῦ τινòς ὀρϑὴν ἀγομένου
*
(in margine ἀγομένους)
πορείαν∙ ἀλλὰ πείϑειν ἐσπoύδαζεν ἀεί, καὶ ὄψιν
ἐντιϑέναι τῇ ψυχῇ, μᾶλλον δὲ ἐνοῦσαν διακαϑαίρειν.
*
Luogo
corrotto, di cui però s'intende appresso a poco il senso. Hoc etiam a ceteris philosophis distabat Isidorus, quod non sola
Syllogismorum vi se at suos vellet adhaerere veritati: cumque veritas
non una videatur via, nolebat eos ratione, veluti caeca in rectam viam
ductrice, impelli. Sed persuadere semper adnisus est, et oculos ad
animam referre
*
(dic, visum, speciem intromittere): aut si inessent,
4221
repurgare.
*
- Ridete? Or traducete queste che vi paiono
stoltizie, dalla lingua antica filosofica nella moderna, e voi vedrete accadere
quello che dice il Dutens, cioè quante verità
(qui però si tratterà di errori) si troverebbero negli antichi, credute moderne,
se si sapessero tradurre i loro detti nella lingua modernamente adottata per la
filosofia. Queste scempiaggini del filosofo mistico Isidoro, comuni in gran parte agli altri mistici di
quello e dei vicini secoli, e dominanti in quei tempi di sogni e di creuseries, che altro sono se non, con solo diverse
parole, le misticherie di quei moderni, che quando non ci possono provare con
ragioni quello che vogliono, quando sono obbligati a confessare che argomenti
per provarlo non vi sono, che anzi abbondano gli argomenti in contrario,
ricorrono alla gran prova del sentimento, e pretendono che questo debba esser l'unica guida, canone,
maestro della verità nelle cose che più importano? E noi che ridiamo di questi
passi di Damascio, non ridiamo di
queste sentenze moderne, anzi le ripetiamo e magnifichiamo. Questo è proprio il
caso del mutato nomine (propriamente il nome e non
altro) de te fabula. Che altro è questo sentimento,
questa sensibilità, {questo entusiasmo, queste
ispirazioni,} che non tutti hanno da natura, o chi più chi meno, ma
che ci si dà per il principal mezzo di conoscere il vero, {ed
a cui si debba subordinare ogni altro mezzo, compresa la ragione;} che
altro è, dico, se non quello che Isidoro chiamava εὐμοιρία in
quest'altro luogo (che ci fa ridere) di Damascio ap. lo stesso Fozio, colonna 1034{?}
ἀγχίνοιαν καὶ ὀξύτητα ὁ ᾽Iσίδωρος, ϕησίν
*
(Δαμάσκιος), ἔλεγεν οὐ τὴν εὐκίνητον ϕαντασίαν, οὐδὲ τὴν δοξαστικὴν εὐϕυΐαν, οὐδὲ
μόνην (ὡς ἄν τις oἰηϑείη) διάνοιαν εὔτροχον καὶ γóνιμον ἀληϑείας: οὐ γὰρ
εἶναι ταύτας αἰτίας, ἀλλὰ τῇ αἰτίᾳ δουλεύειν εἰς νόησιν. Tὴν δὲ εἶναι
ϑείαν κaτὰ κωχήν
*
(in margine corrig. κατοχήv), ἠρέμα διανοίγουσαν καὶ ὑποκαϑαίρουσαν τὰ τῆς ψυχῆς ὄμματα,
καὶ τῷ νοερῷ ϕωτὶ καταλάμπουσαν, εἰς ϑέαν καὶ γνώρισιν τοῦ ἀληϑοῦς καὶ
τοῦ ψευδοῦς. εὐμοιρίαν ταύτην ἐκεῖνος ὠνóμαζε. καὶ ὡς οὐδὲν γένοιτ' ἂν
ὄϕελος ἄνευ εὐμοιρίας, ὡς οὐδὲ ὀϕϑαλμῶν ὑγιαινóντων ὄϕελος ἄνευ τοῦ
οὐρανίου ϕωτός, διετείνετο.
4222 Sollertiam et
acrimoniam Isidorus dixit esse
imaginationem non facile mobilem, neque ingenium facile opiniones
comminiscens, neque solam, ut aliquis putarit, intelligentiam volubilem
et gignentem veritatem. Neque enim has esse caussas, sed ad
intelligendum caussae servire: divinum vero esse instinctum, sedate
aperientem et repurgantem animae oculos, et intelligibili lumine
illustrantem, ad verum falsumque et videndum et cognoscendum. Bonam
constitutionem ipse appellavit, nullumque sine ea esse emolumentum,
neque oculorum sanorum commodum sine coelesti lumine
asseveravit.
*
- Del resto, ho detto che questi principii
erano comuni e dominanti in quei secoli; ma Damascio ha ragion di dire, ἐξαίρετον δ᾽ ἦν
αὐτῷ
*
ec. e di fare Isidoro singolare dagli altri, perchè pochi filosofi anteriori o
contemporanei (e così posteriori) avevano osato così sfacciatamente ripudiar la
ragione, o sottometterla al sentimento, all'entusiasmo, all'ispirazione;
disprezzare il senso universale per esaltar l'individuale; deprimere e
condannare Aristotele, appunto perchè
seguace τοῦ ἀναγκαίου cioè dei metodi esatti di conoscere il vero, di ragionare,
di convincere, per principii incontrastabili, conseguenze necessariamente
dedotte; ed anteporgli Platone
{Pitagora ec. perchè
non ragionatori,} perchè πιστεύοντας al libero sentimento e
all'immaginario, che Isidoro chiama
divino. ec. (Bologna. 17. Ottobre.
1826.).
[4255,2] Brevetti d'invenzione non ignoti alle antiche
repubbliche. V. Casaubon.
ad Athenae. l. 12. cap. 4.
[4280,3] Presso gli Spagnuoli, i quali si dicono essere
quelli che {nelle colonie} meglio trattano gli schiavi,
i Neri {nell'isola di Cuba}
hanno diritto di forzar per giudizio i loro padroni a venderli ad altri, in caso
di mali trattamenti. V. il N. Ricoglitore,
loc. cit. qui sopra, p. 175. Così appunto gli schiavi aveano il
diritto τοῦ πρᾶσιν αἰτεῖν presso gli Ateniesi, dov'erano meglio trattati che in
alcun'altra parte di Grecia. V. Casaubon.
ad Athenae. l. 6. c. 19. init.
(Recanati. 15. Apr. dì di Pasqua.
1827.).
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