Metodo, amato dai fanciulli e dagli uomini d'immaginazione.
Method, loved by children and men of imagination.
211,3 212,2 1588,1 4259,5Metodo, amato dai disperati rassegnati.
Method, loved by the hopeless who are resigned.
620Metodo, amato da tutti.
Method, loved by everyone.
298-99Metodo, amato dai solitari, e tanto più quanto l'uomo è meno occupato o divagato.
Method, loved by the solitary, and all the more the less one is occupied or distracted.
3410,1Metodo, nocivo alla tranquillità della vita ec.
Method, harmful to the tranquility of life, etc.
4259,5[211,3] A proposito di quello che ho detto p. 152. pens. ult. notate che
l'immaginazione dei fanciulli ha ordinariamente tutte due queste qualità, ma
l'una, cioè la fecondità, in maggior grado. E perciò come sono facili a fissarsi
in un'idea, così anche a distrarsi, nel mezzo di un discorso, dello studio, di
qualsivoglia occupazione onde si suol dire che i fanciulli non sono buoni allo
studio {non solo pel poco intelletto, ma} perchè son
pieni di distrazioni.
212 Giacchè la loro fantasia ha
gran facilità di staccarsi subito da un oggetto per attaccarsi a un altro.
Eccetto alcuni fanciulli d'immaginazione destinata a grandi cose, e a fargli
infelici quando saranno maturi, la profondità della quale li fissa fortemente in
questa o in quella idea, ordinariamente paurosa o dolorosa, e li tormenta nella
stessa fanciullezza, com'è accaduto a me. Ed è notabile come questa profondità
della immaginazione li renda gelosissimi del metodo e del consueto, fuor del
quale non trovano pace, spaventandosi dello straordinario, e contando per
disgrazia insopportabile l'aver tralasciato di fare una cosa loro solita ec. Es.
di Pietrino, e
mio. Del resto l'effetto della immaginazione dei fanciulli qual sia, v. p. 172. fine.
[212,2] La soprabbondanza della immaginazione è quella che
tormenta i fanciulli detti qui sopra, e perciò in luogo di cercarla nello
straordinario, cercano di spegnerla o addormentarla col metodo. Cosa che accade
anche agli uomini. V. il carattere di Lord Nelvil nella Corinna.
(16. Agosto 1820.).
[1588,1]
La manière de vivre des
Chartreux suppose, dans les hommes qui son[sont] capables de la mener, ou un esprit extrêmement borné,
ou la plus noble et la plus continuelle exaltation des sentiments
religieux.
*
(Corinne. lieu cité
ci-dessus. p. 113.). Così è: l'inattività e la monotonia non conviene
che agli spiriti menomi
1589 o sommi. Gli uni e gli
altri per diversissima ragione cercano il metodo e il riposo. Gli uni per sopire
i desiderii che li tormentano, gli altri perchè non ne hanno. Gli uni perchè la
vita non basta loro, si rifuggono alla morte, gli altri perchè il loro animo non
vive. Gli uni ancora perchè non hanno bisogno di vita esterna, vivendo assai
internamente, gli altri perchè non abbisognano d'alcuna vita. Gli spiriti
mediocri, cioè la massima parte degli uomini, sono incompatibili con questo
stato, e infelicissimi in esso, o in altro che lo somigli. V. la p. 1584. fine. (30. Agos.
1821.).
[4259,5] Pel manuale di
filosofia pratica. A voler vivere tranquillo, bisogna essere occupato
esteriormente. Error mio nel voler fare una vita, tutta e solamente interna, a
fine e con isperanza di esser quieto. Quanto più io era libero da fatiche e da
occupazioni estrinseche, da ogni cura di fuori, fino dalla necessità di parlare
per chiedere il mio bisognevole (tanto che io passava i giorni senza profferire
una sillaba) tanto meno io era quieto nell'animo. Ogni menomo accidente che
turbasse il mio modo e metodo ordinario (e n'accadevano ogni giorno, perchè tali
minuzie sono inevitabili) mi toglieva la quiete. Continui timori e
sollecitudini, per queste ed altre simili baie. Continuo poi il travaglio della
immaginazione, le previdenze spiacevoli, le fantasticherie disgustose, i mali
immaginarii, i timori panici. Gran differenza è dalla fatica e dalla
occupazione, e dalle cure e sollecitudini stesse, alla inquietudine. Gran
differenza dalla tranquillità all'ozio. Le persone massimamente di una certa
immaginazione, le quali essendo per essa molto travagliati negli affari, nella
vita attiva o semplicemente sociale, e molto irresoluti (come nota la Staël nella Corinna a proposito
Lord Nelvil); e le
quali perciò appunto tendono all'amor del metodo, e alla fuga dell'azione e
della società, e alla solitudine;
4260 s'ingannano in
ciò grandemente. Esse hanno più che gli altri, per viver quiete, necessità di
fuggir se stesse, e quindi bisogno sommo di distrazione e di occupazione
esterna. Sia pur con noia. Si annoieranno per esser tranquille. Sia ancora con
afflizioni e con angustie. Maggiori sarebbero quelle che senza alcun fondamento
reale, fabbricherebbe loro inevitabilmente la propria immaginazione nella vita
solitaria, interiore, metodica. Chi tende per natura all'amor del metodo, della
solitudine, della quiete, fugga queste cose più che gli altri, o attenda più a
temperarle co' lor contrarii; se vuol potere veramente esser quieto. Al che lo
aiuterà poi il giudicare e pensar filosoficamente delle cose e dei casi umani.
Ma certo un uom d'affari {{(senz'ombra di filosofia)}}
ha l'animo più tranquillo nella continua folla e nell'affanno delle cure e delle
faccende; e un uom di mondo nel vortice e nel mar tempestoso della società; di
quello che l'abbia un filosofo nella solitudine, nella vita uniforme, e
nell'ozio estrinseco. (Recanati. 24. Marzo.
1827.)
[618,2] La disperazione della natura è sempre feroce,
frenetica, sanguinaria, non cede alla necessità, alla fortuna, ma la vuol
vincere in se stesso, cioè coi propri danni, colla propria morte ec. Quella
disperazione placida, tranquilla, rassegnata, colla quale l'uomo, perduta ogni
speranza di felicità, o in genere per la condizione umana, o in particolare per
le circostanze sue; tuttavolta si piega, e si adatta a vivere e a tollerare il
tempo e gli anni; cedendo alla necessità riconosciuta; questa disperazione,
sebbene deriva dalla prima, in quel modo che ho spiegato di sopra p. 616. fine, 617. principio,
tuttavia non è {quasi} propria se non della ragione e
della filosofia, e quindi specialmente e singolarmente propria de' tempi
moderni. Ed ora infatti, si può dir che qualunque ha
619
un certo grado d'ingegno e di sentimento, fatta che ha l'esperienza del mondo, e
in particolare poi tutti quelli ch'essendo tali, e giunti a un'età matura, sono
sventurati; cadono e rimangono sino alla morte in questo stato di tranquilla
disperazione. Stato quasi del tutto sconosciuto agli antichi, ed anche oggi alla
gioventù sensibile, magnanima, e sventurata. Conseguenza della prima
disperazione è l'odio di se stesso, {(perchè resta ancora
all'uomo tanta forza di amor proprio, da potersi odiare)} ma cura e
stima delle cose. Della seconda, la noncuranza e il disprezzo e l'indifferenza
verso le cose; verso se stesso un certo languido amore {(perchè l'uomo non ha più tanto amor proprio da aver forza di
odiarsi)} che somiglia alla noncuranza, ma pure amore, tale però che
non porta l'uomo ad angustiarsi, addolorarsi, sentir compassione delle proprie
sventure, e molto meno a sforzarsi, ed intraprender nulla per se, considerando
le cose come indifferenti, ed avendo quasi perduto il tatto e il senso
dell'animo, e coperta di un callo tutta la facoltà sensitiva, desiderativa ec.
insomma le passioni e gli affetti d'ogni sorta; e quasi perduta per lungo uso, e
forte e lunga pressione, quasi tutta l'elasticità delle
620 molle e forze dell'anima. Ordinariamente la maggior cura di questi
tali è di conservare lo stato presente, {di tenere una vita metodica.} e di nulla mutare o
innovare, non già per indole pusillanime o inerte, che anzi ella sarà stata
tutto l'opposto, ma per una timidità derivata dall'esperienza delle sciagure, la
quale porta l'uomo a temere di perdere a causa delle novità, quel tal quale
riposo o quiete o sonno, in cui dopo lunghi combattimenti e resistenze, l'animo
suo finalmente s'è addormentato e raccolto, e quasi accovacciato. Il mondo è
pieno oggidì di disperati di questa seconda sorta (come fra gli antichi erano
frequentissimi quelli della prima specie). Quindi si può facilmente vedere
quanto debba guadagnare l'attività, la varietà, la mobilità, la vita di questo
mondo; quando tutti, {si può dire,} i migliori animi,
giunti a una certa maturità, divengono incapaci di azione, ed inutili a se
medesimi, e agli altri. (6. Feb. 1821.).
[294,1] Le cagioni dell'amore dei vecchi alla vita e del timor
della morte, i quali par che crescano in proporzione che la vita è meno amabile,
e che la morte può
295 privarci di minore spazio di
tempo, e di minori godimenti, anzi di maggiori mali (fenomeno discusso
ultimamente dai filosofi tedeschi che ne hanno recato mille ragioni fuorchè le
vere: v. lo Spettatore di
Milano), sono, oltre quella che ho recata,
mi pare, negli abbozzi della Vita di Lorenzo Sarno, queste altre.
1. Che coll'ardore e la forza della vitalità e dell'esistenza, si estingue o
scema il coraggio, e quindi a proporzione che l'esistenza è meno gagliarda,
l'uomo è meno forte per poterla disprezzare, e incontrarne o considerarne la
perdita. Anche i giovani più facili a disprezzar la vita, coraggiosissimi nelle
battaglie e in ogni rischio, sono bene spesso paurosissimi nelle malattie, tanto
per la detta cagione della minor forza del corpo, e quindi dell'animo, quanto
perchè non possono opporre alla morte quell'irriflessione, quel movimento,
quell'energia, che gl'impedisce di fissarla nel viso, in mezzo ai rischi attivi.
2. Che molte cose vedute da lungi paiono facilissime ad incontrare, e niente
spaventose, e in vicinanza riescono terribili, e poi ci si trovano mille
difficoltà, mille crepacuori; affezioni, progetti ec. che da lontano pareano
facili ad abbandonare
296 per forza di ardore di
entusiasmo, o di passione, disperazione ec. e da vicino rincrescono
infinitamente quando la passione è sparita, e le cose si considerano
quietamente. 3. Che la natura ha posto negli esseri viventi sommo amor della
vita, e quindi odio della morte, e queste passioni ha voluto e fatto che fossero
cieche, e non dipendessero dal calcolo delle utilità, della maggiore o minor
perdita ec. Quindi è naturale che gli effetti di questo amore e di quest'odio
crescano in proporzione che la cosa amata è più in pericolo, e più bisognosa di
cure per conservarla, e la cosa odiata più vicina. 4. Che i beni si disprezzano
quando si possiedono sicuramente, e si apprezzano quando sono perduti, o si
corre pericolo o si è in procinto di perderli. E come quel disprezzo era
maggiore del giusto, così anche questa stima suol eccedere i limiti in
qualsivoglia cosa. Ora il giovane, per quanto è concesso all'uomo, è il vero
possessor della vita; il vecchio la possiede come precariamente. 5. Che la
felicità o infelicità non si misura dall'esterno ma dall'interno. Il vecchio per
l'assuefazione è meno suscettibile
297 di mali, e meno
sensibile a quelli che gli avvengono; per l'estinzione dell'impeto e
dell'inquietudine giovanile, meno bisognoso dei beni che gli mancano, meno vivo
nei desideri, più facile a soffrir la privazione di ciò che desidera, e a
desiderar cose dove possa agevolmente esser soddisfatto. Laonde la vita del
vecchio non è più infelice di quella del giovane, anzi forse più felice secondo
la sesta considerazione. 6. Che la vita metodica, tranquilla e inattiva non è
penosa ma piacevole, quando s'accordi col metodo, calma, e inattività
dell'individuo. Certo il giovane muore in una tal condizione, ma la condizione
ch'egli desidera, specialmente nello stato presente del mondo, è difficilissima
o impossibile a conseguire. Egli non trova altro che il nulla da cui fugge; il
vecchio lo desidera, lo cerca, lo trova come tutti gli altri di qualunque età, e
a differenza delle altre età, se ne compiace, o almeno non se ne duole, o certo
lo soffre con pazienza, e quando l'uomo è perfettamente paziente, allora non può
non amar la vita, perchè questa è amabile per natura. Aggiungete la tempesta
delle passioni, dalla
298 dalla quale il vecchio è
libero, la tempesta del mondo, della società, degli affari, delle azioni, degli
stessi diletti, quella tempesta nella quale il giovane, anche dopo averla
sospirata in mezzo alla noia, sospira il riposo e la calma. Anzi è certo che lo stato naturale è il riposo e la quiete, e
che l'uomo anche più ardente, più bisognoso di energia, tende alla calma
{e all'inazione}
continuamente in quasi tutte le sue operazioni. Osservate ancora che la
vita metodica era quella dell'uomo primitivo, e la più felice vita, non sociale,
ma naturale. Osservate anche oggidì l'impressione che fa l'aspetto di essa vita
rurale o domestica, nelle persone più dissipate, o più occupate, e com'ella par
loro la più felice che si possa menare. È vero che ella ordinariamente è tale
quando consiste in un metodo di occupazioni, e tale era nei primitivi, e nei
selvaggi sempre occupati ai loro bisogni, o ad un riposo figlio e padre della
fatica e dell'azione. Ma in ogni modo l'uomo avvezzandosi anche alla pura
inazione, ci si affeziona talmente che l'attività gli riuscirebbe
299 penosissima. Si vedono bene spesso de' carcerati
ingrassare e prosperare, ed esser pieni di allegria, nella stessa aspettazione
di una sentenza che decida della loro vita. Dove anzi l'imminenza del male,
accresce il piacere del presente, cosa già osservata dagli antichi (come da Orazio), anzi famosa tra loro, e provata
da me, che non ho mai sperimentato tal piacere della vita, e tali furori di
gioia maniaca ma schiettissima, come in alcuni tempi ch'io aspettava un male
imminente, e diceva a me stesso; ti resta tanto a godere e
non più, e mi rannicchiava in me stesso, cacciando tutti gli altri
pensieri, e soprattutto di quel male, per pensare solamente a godere, non
ostante la mia indole malinconica in tutti gli altri tempi, e riflessivissima.
Anzi forse questa accresceva allora l'intensità del godimento, o della
risoluzione di godere. Applicate anche questa settima considerazione ai vecchi.
V. p. 121. pensiero 3. e
confrontalo, rettificalo, ed accrescilo con questo, e questo con quello.
(23. 8.bre 1820.).
[3410,1] Gli uomini che vivono in solitudine sono
inclinatissimi al metodo. Ma non tanto quelli che nella solitudine sono
occupati, o che perciò appunto vivono in solitudine, (ne' quali, {+siccome in tutti quelli che sono molto
occupati,} il metodo e l'ordine dell'azioni sarebbe ragionevolissimo,
perchè l'ordine così di luogo come di tempo è sempre risparmio dell'uno o
dell'altro, e il disordine al contrario) quanto in quelli che nulla hanno da
fare, come malati cronici, carcerati, vecchi ritirati per cagionevolezza
dell'età, per debolezza, o per abito di pigrizia. Questi sogliono esser metodici
fino all'ultimo eccesso. Pare che l'uomo sia tanto più
3411 geloso di ordinare la sua vita quanto meno ha da occuparla, o
quanto meno la occupa. {Intendo per occupazioni anche le distrazioni gli spassi
ec.} Non potendo o non volendo impiegare il tempo, si occupa a
regolarlo e partirlo e distinguerlo. L'ordinare le sue operazioni diviene
l'unica sua operazione e occupazione. (11. Sett. 1823.). Io {ho} conosciuto uno di questi che dal capo al piè della
giornata non aveva una sola cosa da fare, e lagnavasi della brevità del tempo, e
che il giorno non bastava alle sue occupazioni quotidiane; e perciò sopportava
di mala voglia qualunque straordinaria distrazione o altro, che gli occupasse
alcun poco di tempo. (11. Sett. 1823.)
[4259,5] Pel manuale di
filosofia pratica. A voler vivere tranquillo, bisogna essere occupato
esteriormente. Error mio nel voler fare una vita, tutta e solamente interna, a
fine e con isperanza di esser quieto. Quanto più io era libero da fatiche e da
occupazioni estrinseche, da ogni cura di fuori, fino dalla necessità di parlare
per chiedere il mio bisognevole (tanto che io passava i giorni senza profferire
una sillaba) tanto meno io era quieto nell'animo. Ogni menomo accidente che
turbasse il mio modo e metodo ordinario (e n'accadevano ogni giorno, perchè tali
minuzie sono inevitabili) mi toglieva la quiete. Continui timori e
sollecitudini, per queste ed altre simili baie. Continuo poi il travaglio della
immaginazione, le previdenze spiacevoli, le fantasticherie disgustose, i mali
immaginarii, i timori panici. Gran differenza è dalla fatica e dalla
occupazione, e dalle cure e sollecitudini stesse, alla inquietudine. Gran
differenza dalla tranquillità all'ozio. Le persone massimamente di una certa
immaginazione, le quali essendo per essa molto travagliati negli affari, nella
vita attiva o semplicemente sociale, e molto irresoluti (come nota la Staël nella Corinna a proposito
Lord Nelvil); e le
quali perciò appunto tendono all'amor del metodo, e alla fuga dell'azione e
della società, e alla solitudine;
4260 s'ingannano in
ciò grandemente. Esse hanno più che gli altri, per viver quiete, necessità di
fuggir se stesse, e quindi bisogno sommo di distrazione e di occupazione
esterna. Sia pur con noia. Si annoieranno per esser tranquille. Sia ancora con
afflizioni e con angustie. Maggiori sarebbero quelle che senza alcun fondamento
reale, fabbricherebbe loro inevitabilmente la propria immaginazione nella vita
solitaria, interiore, metodica. Chi tende per natura all'amor del metodo, della
solitudine, della quiete, fugga queste cose più che gli altri, o attenda più a
temperarle co' lor contrarii; se vuol potere veramente esser quieto. Al che lo
aiuterà poi il giudicare e pensar filosoficamente delle cose e dei casi umani.
Ma certo un uom d'affari {{(senz'ombra di filosofia)}}
ha l'animo più tranquillo nella continua folla e nell'affanno delle cure e delle
faccende; e un uom di mondo nel vortice e nel mar tempestoso della società; di
quello che l'abbia un filosofo nella solitudine, nella vita uniforme, e
nell'ozio estrinseco. (Recanati. 24. Marzo.
1827.)
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