30. Marzo - 4. Aprile 1821.
[872,1] L'amor proprio dell'uomo, e di qualunque individuo di
qualunque specie, è un amore di preferenza. Cioè l'individuo amandosi
naturalmente quanto può amarsi, si preferisce dunque agli altri, dunque cerca di
soverchiarli in quanto può, dunque effettivamente l'individuo odia l'altro
individuo, e l'odio degli altri è una conseguenza necessaria ed immediata
dell'amore di se stesso, il quale essendo innato, anche l'odio degli altri viene
ad essere innato in ogni vivente. {{V. p. 926. capoverso 1.}}
[872,2] Dal che segue per primo corollario, che dunque nessun
vivente, è destinato precisamente alla società, il cui scopo non può essere se
non il ben comune degl'individui che la compongono: cosa opposta all'amore
esclusivo e di preferenza, che ciascuno inseparabilmente
873 ed essenzialmente porta {a} se stesso, ed
all'odio degli altri, che ne deriva immediatamente, e che distrugge per essenza
la società. Così che la natura non può nel suo primitivo disegno aver
considerata, nè ordinata altra società nella specie umana, se non simile più o
meno a quella che ha posta in altre specie, vale a dire una società accidentale,
e nata e formata dalla passeggera identità d'interessi, e sciolta col mancare di
questa; ovvero durevole, ma lassa o vogliamo dir larga e poco ristretta, cioè di
tal natura che giovando agli interessi di ciascuno individuo in quello che hanno
tutti di comune, non pregiudichi agl'interessi {o
inclinazioni} particolari in quello che si oppongono ai generali. Cosa
che accade nelle società de' bruti, e non può mai accadere in una società, così
unita, ristretta, precisa, e determinata da tutte le parti, come è quella degli
uomini.
[873,1] È cosa notabilissima che la società tanto più per una
parte si è allargata, quanto più si è ristretta, dico fra gli uomini. E quanto
più si è ristretta, tanto più è mancato
874 il suo
scopo, cioè il ben comune, e il suo mezzo, cioè la cospirazione di ciascuno
individuo al detto fine. Conseguenza naturale, ma niente osservata, del
corollario precedente, e della proposizione da cui questo deriva. Osservate.
[874,1] Ridotto l'uomo dallo stato solitario a quello di
società, le prime società furono larghissime. Poco ristrette fra gl'individui di
ciascuna società, {e scarse nella rispettiva estensione e
numero;} niente o pochissimo {ristrette} fra
le diverse società. Ma in questo modo il ben comune di ciascuna società era
effettivamente cercato dagl'individui, perchè da un lato non pregiudicava,
dall'altro favoriva, anzi spesso costituiva il ben proprio. {+E il ben comune, risultava effettivamente da dette
società, simili più o meno alle naturali, e conforme alle considerazioni
fatte nel precedente corollario.} Le società si sono ristrette di mano
in mano che veniamo giù discendendo dai tempi naturali; e ristrette per due
capi: 1. tra gl'individui di una stessa società: 2. tra le diverse società. Oggi
questa ristrettezza è al colmo in tutti due questi capi. Ciascuna società è così
vincolata 1. dall'obbedienza che deve per tutti i versi, in tutte le minuzie,
con ogni matematica esattezza al suo capo, o governo, 2. dall'esattissimo
875 regolamento, determinazione, precisazione di tutti i
doveri e osservanze, morali, politiche, religiose, civili, pubbliche, private,
domestiche ec. che legano l'individuo agli altri individui; è, dico, tanto
vincolata, e stretta e circoscritta, che maggior precisione e strettezza non si
potrebbe forse immaginare per questa parte. Le diverse società poi, sono così
strette fra loro (dico le civili massimamente, ma non solamente), che l'europa forma
una sola famiglia, tanto nel fatto, quanto rispetto all'opinione, e ai
portamenti rispettivi de' governi, delle nazioni, e degl'individui delle diverse
nazioni. In questo momento poi, l'europa è piuttosto una
nazione governata da una dieta assoluta; o vogliamo dire sottoposta ad una {quasi} perfetta oligarchia; o vogliamo dire comandata da
diversi governatori, la cui potestà e facoltà deriva e risiede nel corpo intero
di essi ec: di quello che si possa chiamare composta di diverse nazioni.
[875,1] Che è derivato e deriva da tutto ciò?
876 1. L'incamminamento espresso della società ad un
senso tutto e diametralmente opposto al sopraddetto, cioè ad allargarsi tanto
anzi sciogliersi per una parte, ch'è la più importante, quanto per l'altra si
stringe. Cosa ch'è sempre accaduta dal principio della società in poi, in
proporzione del maggiore stringimento di essa. Considerate le antiche lassissime
società, e vedrete che amor di patria, ossia di essa società, si trovava in
ciascun individuo, che calore in difenderla, in proccurare il suo bene, in
sacrificarsi per gli altri ec. Venite giù di mano in mano, e troverete le
società sempre più ristrette e legate in proporzione dell'incivilimento. Ma che?
Osservate i nostri tempi. Non solo non c'è più amor patrio, ma neanche patria.
Anzi neppur famiglia. L'uomo, in quanto allo scopo, è tornato alla solitudine
primitiva. {L'individuo} solo, forma tutta la sua
società. Perchè trovandosi in gravissimo conflitto gl'interessi e le passioni, a
causa della strettezza e vicinanza, svanisce l'utile della società in massima
parte; resta il danno, cioè il detto conflitto, nel quale l'uno individuo, e
gl'interessi
877 suoi, nocciono a quelli dell'altro, e
non essendo possibile che l'uomo sacrifichi intieramente e perpetuamente se
stesso ad altrui, (cosa che ora si richiederebbe per conservare la società) e
prevalendo naturalmente l'amor proprio, questo si converte in egoismo, e l'odio
{verso gli} altri, figlio naturale dell'amor
proprio, diventa nella gran copia di occasioni che ha, più intenso, e più
attivo. 2. Si è perduto in gran parte e si va sempre perdendo lo scopo della
società, ch'è il bene comune, e ciò per la stessa ragione per cui se n'è perduto
il mezzo, cioè la cospirazione degl'individui al detto fine.
[877,1] Dilatiamo ora queste considerazioni, e seguendo ad
applicarle ai fatti, ed alla storia dell'uomo, paragoniamo principalmente gli
antichi coi moderni, cioè la società poco stretta e legata, e poco grande, cioè
di pochi, con la società strettissima, e grandissima, cioè di moltissimi.
[877,2] Ho detto che l'amor proprio è inseparabile
878 dall'uomo, e così l'odio verso gli altri ch'è
inseparabile da esso, e che per conseguenza esclude primitivamente ed
essenzialmente la stretta comunione e società sì degli uomini, che degli altri
viventi. Ma siccome l'amor proprio può prendere diversissimi aspetti, in
maniera, ch'essendo egli l'unico motore delle azioni animali, esso stesso che è
ora egoismo, un tempo fu eroismo, e da lui derivano tutte le virtù non meno che
tutti i vizi; così nelle antiche e poche ristrette società (come pure accade
anche oggi in parecchie delle popolazioni selvagge che si scoprono, o quando
furono scoperte, come alcune Americane) l'amor proprio fu ridotto ad amore di
quella società dove l'individuo si trovava, ch'è quanto dire amor di corpo o di
patria. Cosa ben naturale, perchè quella società giovava effettivamente
all'individuo, e tendeva formalmente al suo scopo vero e dovuto, così che
l'individuo se le affezionava, e trasformando se stesso in lei, trasformava
l'amor di se stesso nell'amore di lei. Come appunto accade nei partiti, nelle
congregazioni, negli ordini ec. massime quando sono nel primitivo
879 vigore, e conservano la prima lor forma. Nel qual
tempo gl'individui che compongono quel tal corpo, fanno causa comune con lui, e
considerano i suoi vantaggi, gloria, progressi, interessi ec. come propri: e
quindi amandolo, amano se stessi, e lo favoriscono come se stessi. Che questo in
ultima analisi è l'unico principio dell'amor di corpo, di patria, di Religione,
universale o dell'umanità, e di qualunque possibile amore in qualunque
animale.
[879,1] Dunque l'amor proprio si trasformava in amor di
patria. E l'odio verso gli altri individui? Non già spariva, ch'è sempre ed
eternamente inseparabile dall'amor proprio, e quindi dal vivente: ma si
trasformava in odio verso le altre società o nazioni. Cosa naturale e
conseguente, se quella tal società o patria, era per ciascuno individuo come un
altro se stesso. Quindi desiderio di soverchiarle, invidia de' loro beni,
passione di render la propria patria signora delle altre nazioni, ingordigia
altresì de' loro beni e robe, e finalmente odio ed astio dichiarato; tutte cose
che nell'individuo trovandosi verso gli altri individui, lo rendono per natura,
880 incompatibile colla società.
[880,1] Dovunque si è trovato amor vero di patria, si è
trovato odio dello straniero: dovunque lo straniero non si odia {come straniero,} la patria non si ama. Lo vediamo anche
presentemente in quelle nazioni, dove resta un avanzo dell'antico
patriotismo.
[880,2] Ma quest'odio accadeva massimamente nelle nazioni
libere. Una nazione serva al di dentro, non ha vero amor di patria, o solamente
inattivo e debole, perchè l'individuo non fa parte della nazione se non
materialmente. L'opposto succede nelle nazioni libere, dove ciascuno
considerandosi come immedesimato e quasi tutt'uno colla patria, odiava
personalmente gli stranieri sì in massa, come uno per uno.
[880,3] Con queste osservazioni spiegate la gran differenza
che si scorge nella maniera antica di considerare gli stranieri, e di operare
verso le altre nazioni, paragonata colla maniera moderna. Lo straniero non aveva
nessun diritto sopra l'opinione, l'amore, il favore degli antichi. E parlo degli
antichi nelle nazioni più colte e civili, e in queste, degli uomini più grandi,
colti, ed anche illuminati e filosofi. Anzi la filosofia di allora (che dava
molto più nel segno della presente) insegnava e inculcava l'odio nazionale e
individuale dello straniero, come di prima necessità alla conservazione
881 dello stato, della indipendenza, e della grandezza
della patria. Lo straniero non era considerato come proprio simile. La sfera dei
prossimi, la sfera dei doveri,
{della giustizia, dell'onesto,} delle virtù,
dell'onore, della gloria stessa, e dell'ambizione; delle leggi ec. tutto era
rinchiuso dentro i limiti della propria patria, e questa sovente non si
estendeva più che una città. Il diritto delle genti non esisteva, o in
piccolissima parte, e per certi rapporti necessari, e dove il danno sarebbe
stato comune se non avesse esistito.
[881,1] La nazione Ebrea così giusta, anzi scrupolosa
nell'interno, e rispetto a' suoi, vediamo nella scrittura come si portasse verso
gli stranieri. Verso questi ella non avea legge; i precetti del Decalogo non la obbligavano se non verso gli Ebrei:
ingannare, conquistare, opprimere, uccidere, sterminare, derubare lo straniero,
erano oggetti di valore e di gloria in quella nazione, come in tutte le altre;
anzi era oggetto anche di legge, giacchè si sa che la conquista di Canaan fu
fatta per ordine Divino, e così cento altre guerre, spesso nell'apparenza
ingiuste, co' forestieri. Ed anche oggidì gli Ebrei conservano, e con ragione e
congruenza, questa opinione, che non sia peccato l'ingannare, o far male
comunque all'esterno, che chiamano {(e specialmente il
Cristiano)}
Goi
882 יֹוגּ ossia gentile, e
che presso loro suona lo stesso che ai greci barbaro:
(v. il Zanolini, il quale dice che,
nel plurale però si deve intendere, chiamano
oggi i Cristiani
צנ؛ס goiìm
*
) riputando peccato,
solamente il far male a' loro nazionali.
[882,1] E con queste osservazioni si deve spiegare una cosa
che può far maraviglia nella Ciropedia. Dove
Senofonte vuol dare certamente il
modello del buon re, piuttosto che un'esatta istoria di Ciro. E nondimeno questo buon re, dopo conquistato
l'impero
Assirio, diventa modello e maestro della più fina, fredda, e cupa
tirannide. Ma bisogna notare che questo è verso gli Assiri, laddove verso i suoi
Persiani, Senofonte lo fa sempre
umanissimo e liberalissimo. Ma egli stima che sia tanto da buon re l'opprimere
lo straniero, e l'assicurarsi in tutti i modi della sua soggezione, come il
conservare una giusta libertà a' nazionali. Senza la qual distinzione e
osservazione, si potrebbe quasi confondere Senofonte con Machiavello, e
prendere un grosso abbaglio intorno alla sua vera intenzione, e all'idea ch'egli
ebbe del buon Principe. Nel qual proposito osserverò che la regola e il metodo
di Ciro (o di Senofonte) di preferire in tutto e per tutto i
Persiani ai nuovi sudditi, e dichiarare per tutti i versi, quella,
883 nazion dominante, e queste, soggette e dipendenti,
non fu seguito da Alessandro, il quale
anzi a costo d'inimicarsi i Macedoni, pare che tra' suoi sudditi di qualunque
nazione volesse stabilire una perfetta uguaglianza, e quasi preferir fino i
conquistati adottando le vesti e le usanze loro. Il suo scopo fu certo quello di
conservarli piuttosto coll'amore che col timore, e colla forza: e non li stimò
schiavi (secondo il costume di quei tempi), ma sudditi. E quanto ai Romani, vedi
in questo particolare la fine del Capo 6. di
Montesquieu, Grandeur etc.
Oltre che i Romani accordando la cittadinanza a ogni sorta di stranieri
conquistati, gli agguagliavano più che mai potessero ai cittadini e compatrioti:
ma questa cosa non riuscì loro niente bene, com'è noto, e come ho detto in altro
pensiero p. 457.
[883,1] Tornando al proposito, Platone nella Repubblica l. 5. (vedilo) dice: i Greci non
distruggeranno certo i greci, non li faranno schiavi, non
desoleranno le campagne, nè bruceranno le case loro; ma in quella
vece faranno tutto questo ai Barbari.
*
E le Orazioni d'Isocrate tutte piene di misericordia verso i mali de' Greci, sono
spietate verso i barbari, o Persiani, ed esortano continuamente la nazione e
Filippo, a sterminarli. {+Sono notabilissime in questo proposito le sue due
Orazioni Πανηγυρικός, e πρὸς Φίλιππον, dove inculca di proposito
l'odio de' Barbari nello stesso tempo e per le stesse ragioni che
l'amore dei greci, e come conseguenza di questo. V. specialmente quel luogo del panegirico, che
comincia Eὐμολπίδαι δὲ καὶ
Kήρυκες
*
, e finisce τῶν αὐτῶν ἔργων ἐκείνοις ἐπιϑυμῶμεν
*
,
dove parla di Omero e de'
Troiani, p. 175.-176. della edizione del Battie, Cambridge
1729. molto dopo la metà dell'orazione ma ancor lungi dal
fine.} E questa opposizione di misericordia e
giustizia verso i propri, e fierezza e ingiustizia verso gli stranieri, è il
884 carattere costante di tutti gli antichi greci e
romani, e massime de' più cittadini, e assolutamente de' più grandi e famosi:
nominatamente poi degli scrittori, anche i più misericordiosi, umani e
civili.
[884,1] È insigne a questo proposito un luogo di Temistio nell'Orazione
scoperta dal Mai πρὸς τοὺς
αἰτιασαμένους ἐπὶ τῷ δέξασϑαι τὴν ἀρχήν In eos a quibus ob
praefecturam susceptam fuerat vituperatus
*
cap. 25.
Eccolo Kαὶ τοῦτον ἄν τις ἐν
δίκῃ προσείποι τὸν ϕιλάνϑρωπον ἀληϑῶς. Tῶν δὲ ἄλλων Kῦρον μὲν ϕιλοπέρσην
καλοῖ, ἀλλ᾽ οὐ ϕιλάνϑρωπον∙ ᾽Aλέξανδρον δὲ ϕιλομακεδόνα, ἀλλ᾽ οὐ
ϕιλάνϑρωπον∙ ᾽Aγησίλαον δὲ ϕιλέλληνα, καὶ τὸν Σεβαστὸν ϕιλορώμαιον, ἄλλον
δὲ ἄλλου γένους ἢ ἔϑνους ἐραστὴν οὗ καὶ βασιλεὺς ἐνομίσϑη.
*
(regium dominatum exercuit. Maius.) Φιλάνϑρωπος δὲ
ἁπλῶς καὶ βασιλεὺς ἁπλῶς, ὁ τοῦτο ζητῶν μόνον εἰ ἄϑρωπος ὁ
χρήζων[χρῄζων] ἐπιεικείας∙
*
(qui clementia indiget. Maius.)
καὶ μὴ εἰ Σκύϑης ἢ
Mασαγέτης, ἢ τὰ καὶ τὰ προηδίκησε
*
(Mediol. regiis typis.
1816. {inventore et interprete Angelo Maio} p. 66. V. tutto quel
capo, e parte del resto, che tutto fa a questo proposito, ma, il luogo riferito
principalmente, e dà gran luce e tutta appropriata, al mio discorso. V. anche l'oraz. 10. di Temistio dell'edizione Harduin. p.
132. B-C. e l'Oraz. 1. p.
885 6. B. citt. qui in
margine dal Mai, come contenenti
luoghi paralleli al riportato.) Così egli lodando Teodosio magno. E infatti la filantropia, o amore
universale e della umanità, non fu proprio mai nè dell'uomo nè de' grandi
uomini, e non si nominò se non dopo che parte a causa del Cristianesimo, parte
del naturale andamento dei tempi, sparito affatto l'amor di patria, e
sottentrato il sogno dell'amore universale, (ch'è la teoria del non far bene a
nessuno) l'uomo non amò veruno fuorchè se stesso, ed odiò meno le nazioni
straniere, per odiar molto più i vicini e compagni, in confronto dei quali lo
straniero gli dovea naturalmente essere (com'è oggi) meno odioso, perchè si
oppone meno a' suoi interessi, e perch'egli non ha interesse di soverchiare,
invidiare ec. i lontani, quanto i vicini.
[885,1] Da tutte queste osservazioni e fatti, risulta un'altra
osservazione e un altro fatto conosciutissimo, e caratteristico dell'antichità;
o piuttosto risulta la spiegazione di questo fatto. Perchè amando l'individuo la
patria sua, e conseguentemente odiando gli stranieri, ne seguiva che le guerre
fossero sempre nazionali. E tanto più accanite, quanto l'individuo era da ambe
le parti più infiammato della sua causa, cioè dell'amor patrio. Massimamente
dunque lo erano quelle de' popoli liberi, o fatte a un popolo libero,
886 per la stessa ragione, per cui, come ho detto, un
popolo libero ama maggiormente la patria, e maggiormente odia lo straniero. Così
che sì la nazione e l'armata straniera, sì l'individuo straniero, era come
nemico privato dell'individuo che combatteva pel suo popolo libero, e per la sua
patria. E questa è una delle principali e più manifeste ragioni per cui i popoli
più amanti della patria loro, e fra questi i liberi, sono stati sempre i più
forti, i più formidabili al di fuori, i più bellicosi, i più intrepidi, i più
atti alle conquiste, ed effettivamente, per così dire, i più conquistatori.
[886,1] Dall'esser le guerre, nazionali, dovea risultare
quest'altro effetto, che avea luogo realmente fra gli antichi, ed ha luogo in
tutte le nazioni selvagge, e proporzionatamente in quelle che conservano
maggiore spirito di nazione, e maggior primitivo, come gli Spagnuoli. Cioè le
guerre dovevano essere a morte, e senza perdono (giacchè tutti e ciascuno erano
nimici fra loro), senza distinzione ec. E l'effetto della vittoria doveva essere
il cattivare intieramente non solo il governo, ma la nazione intiera; (come si
vide principalmente in Asia a tempo de' monarchi
Assiri nelle lor guerre co' Giudei ec. e al tempo di Tito Vespasiano)
887 o certo spogliarla de' costumi, leggi, governatori propri, dei
tempii, de' sepolcri, della roba, del danaio, {delle
proprietà, delle mogli, dei figli ec.} e ridurla se non in ischiavitù,
come si costumò antichissimamente, spogliando il vinto anche del suo paese;
certo però in servitù: e considerarla come nazione dipendente, soggiogata, non
partecipe di nessun vantaggio della nazion dominante, e non appartenente a lei,
se non come suddita, nè avente con lei altro di comune, nè diritti, nè ec. come
se fosse di altra razza d'uomini. E conseguentemente e congruentemente: perchè
insomma tutta quanta la nazione essendo stata {ed
essendo} nemica del vincitore, tutta si trattava come nemica vinta e
domata, {e tutta era preda del nemico trionfante.}
Quindi la disperazione delle guerre l'ostinazione delle resistenze le più
inutili, lo scannarsi scambievolmente le popolazioni intiere, piuttosto che
aprir le porte al nemico, perchè in fatti il vinto andava nelle mani e
nell'assoluta balìa di un nemico mortale, com'egli lo era del vincitore. Quindi
anche il combattere le nazioni intere, e l'essere tutti soldati, quanti potevano
portar armi, e ciò sempre: cioè tanto in guerra quanto (se non in atto certo in
potenza e disposizione) nel tempo di pace. Perchè le nazioni, massime vicine,
erano sempre in istato di guerra, odiandosi tutte scambievolmente, e cercando
l'una di sorpassar l'altra in
888 qualunque modo per
conseguenza necessaria del vero amor patrio. (V. in questo proposito, se però
vuoi, l'Essai sur l'indifférence en matière de
Religion
ch. 10. dove discorre di proposito in questa
materia, sebbene in senso opposto al mio, durante 9. pagg. della traduzione
di Bigoni cioè dalla p. 160.
alla 169. ossia dal periodo che comincia: Ma questo non è tutto ancora.
Quando i rapporti sociali
*
ec. sino a quello che
incomincia: incedo per ignes.
*
Egli trova anche una
conformità di quest'ultimo costume nella moltitudine delle armate odierne, che
fa derivare dalla nazionalità delle guerre di questi ultimi anni. Osservo però
che questo derivò in principio dalla sola ambizione e dispotismo di Luigi 14.)
[888,1] Conchiudo che l'indipendenza, la libertà,
l'uguaglianza di un popolo antico, non solo non importava l'indipendenza, la
libertà, l'uguaglianza degli altri popoli, rispetto a lui, e per quanto era in
lui; ma per lo contrario importava la soggezione {e
servitù} degli altri popoli, massime vicini, e {l'obbedienza de'} più deboli. E un popolo libero al di dentro era
{sempre} tiranno al di fuori, se aveva forze per
esserlo, e questa forza nasceva sovente dalla sua libertà. Nel modo stesso che
un principe, per esser egli indipendente e libero, e non aver legami nè ostacoli
alla sua volontà, non perciò lascia di tiranneggiare il suo popolo. Anzi quanto
più è geloso della sua libertà, tanto più ne toglie a' sudditi, o a' più deboli
di lui. Così quanto
889 più una nazione sentiva ed amava
se stessa, che avviene massimamente ai popoli liberi, tanto più era nemica delle
straniere, e desiderosa di elevarsi sopra loro, di farsene ubbidire, e
conquistate, opprimerle; tanto più invidiosa de' loro beni, ingorda del loro ec:
effetto naturale dell'amor nazionale, come lo è dell'amor proprio rispetto
agl'individui: essendo insomma l'amor patrio, non altro che egoismo nazionale, e
rispetto alla nazione intera, egoismo della nazione. {E così
dite di qualunque amore o spirito di corpo, di parte ec.}
{+Quella nazione dove regna fortemente e
vivacemente ed efficacemente l'amor nazionale, è come un grande individuo: e
alla maniera dell'individuo, amando se stessa, si ama di preferenza, e {desidera, e} cerca di superare le altre in qualunque
modo.} E quanto all'essere un popolo tanto più tiranno di fuori,
quanto più geloso della libertà propria, e nemico della tirannia di dentro, v. l'esempio moderno, che pare all'autore
dell'Essai
ec. di vedere nell'Inghilterra rispetto a'
suoi stabilimenti fuor d'europa. Vedilo, dico,
al luogo citato nella pagina precedente.
[889,1] Questi quadri paiono non solamente disgustosi, anzi
terribili, ma tali che nessun male, {nessun cattivo
stato} si possa paragonare col detto stato delle nazioni antiche. E
ciò avverrà massimamente a quelli che considerano la vita come un bene per se
stessa, qualunque ella sia. Ma passiamo ora ai moderni, e consideriamo il
rovescio della medaglia.
[889,2] 1. L'uomo non si potrà mai (come nessun vivente)
spogliare dell'amor di se stesso, nè {questo} dell'odio
verso
890 altrui. Riconcentrato il potere, tolto
agl'individui quasi del tutto il far parte della nazione, {di
più, spente le illusioni,} l'individuo ha trovato e veduto il ben
comune come diviso e differente dal ben proprio. Dovendo scegliere, non ha
esitato a lasciar quello per questo. E non poteva altrimenti, essendo uomo, e
vivendo. Sparite effettivamente le nazioni, e l'amor nazionale, s'è spento anche
l'odio nazionale, e l'essere straniero non è più colpa agli {occhi dell'}uomo. S'è perciò spento l'odio verso altrui, l'amor
proprio? allora si spegnerà quando la natura farà un altro ordine di cose e di
viventi. La fola dell'amore universale, del bene universale, col qual bene ed
interesse, non può mai congiungersi il bene e l'interesse dell'individuo, che
travagliando per tutti non travaglierebbe per se, nè per superar nessuno, come la natura vuol ch'ei
travagli; ha prodotto l'egoismo universale. Non si odia più lo straniero? ma si
odia il compagno, il concittadino, l'amico, il padre, il figlio; ma l'amore è
sparito affatto dal mondo, sparita la fede, la giustizia, l'amicizia, l'eroismo,
ogni virtù, fuorchè l'amor di se stesso. Non si hanno più nemici nazionali? ma
si hanno nemici privati, e tanti quanti son gli uomini; ma non si hanno più
amici di sorta alcuna, nè doveri se non verso se stesso. Le nazioni sono in pace
al di fuori?
891 ma in guerra al di dentro, e in guerra
senza tregua, e in guerra d'ogni giorno, ora, momento, e in guerra di ciascuno
contro ciascuno, e senza neppur l'apparenza della giustizia, e senz'ombra di
magnanimità, o almeno di valore, insomma senz'una goccia di virtù qualunque, e
senz'altro che vizio {e viltà;} in guerra senza
quartiere; in guerra tanto più atroce e terribile, quanto è più sorda, muta,
nascosta; in guerra perpetua e senza speranza di pace. Non si odiano, non si
opprimono i lontani e gli alieni? ma si odiano, si perseguitano, si sterminano a
tutto potere i vicini, gli amici, i parenti; si calpestano i vincoli più sacri;
e la guerra essendo fra persone che convivono, non c'è un istante di calma, nè
di sicurezza per nessuno. Qual nemicizia dunque è più terribile? Quella che si
ha co' lontani, e che si esercita solo nelle occasioni, certo non giornaliere; o
quella ch'essendo co' vicini si esercita sempre e del continuo, perchè continue
sono le occasioni. Quale è più contraria alla natura, alla morale, alla società?
Gl'interessi de' lontani non sono in tanta opposizione coi nostri (e per quanto
lo sono, si odia adesso il lontano, come e più che anticamente, bensì meno
apertamente e più vilmente). Ma gl'interessi de' vicini essendo co' nostri in
continuo urto, la guerra più terribile è quella che deriva dall'egoismo, e
dall'odio naturale verso altrui, rivolto non più verso lo straniero,
892 ma verso il concittadino, il compagno ec.
[892,1] 2. Per qual cagione l'amore universale sia un sogno,
non mai realizzabile, risulta dalle cose dette in questo discorso, e l'ho
esposto già in altri pensieri pp. 148-51
[pp. 457-58]
[pp. 541-42]. Ora non potendo il vivente senza cessar di vivere,
spogliarsi nè dell'amor proprio, nè dell'odio verso altrui, resta che queste
{passioni} prendano un aspetto, quanto si può
migliore; resta che l'amor proprio dilati quanto più può il suo oggetto (ma non
può troppo dilatarlo senza perdersi il se
stesso ch'è indivisibile dall'uomo, e quindi ricadere inevitabilmente
nell'amor di se solo); e che l'odio verso altrui si allontani quanto più si può,
cioè scelga uno scopo lontano. Questo avviene per la prima parte, quando
l'individuo trova una comunione e medesimezza d'interesse con quelli che lo
circondano; e per la seconda, quando egli non trova la principale opposizione a
questo interesse se non ne' lontani. Ecco dunque l'amor patrio, e l'odio degli
stranieri. E per tutte queste ragioni, io dico, che stante l'amor proprio, e
l'odio naturale dell'uomo verso altrui, passioni che lo rendono per natura
indisposto alla società, una società non può sussistere veramente, cioè essere
effettivamente {ordinata} al suo scopo ch'è il ben
comune di tutta lei, se le dette passioni non prendono il detto aspetto; cioè:
la società non può sussistere senz'amor
patrio, ed odio degli stranieri. Ed essendo l'uomo essenzialmente ed
893 eternamente egoista, la società per conseguenza,
non può essere ordinata al ben comune, cioè sussistere con verità, se l'uomo non
diventa egoista di essa società, cioè della sua nazione o patria, e quindi
naturalmente nemico delle altre. E per tutte queste ragioni, ed altre che ho
spiegato altrove, dico, e segue evidentemente, che la società {ed} esisteva fra gli antichi, ed oggi non esiste.
[893,1] 3. Come senz'amor patrio non c'è società, dico ancora
che senz'amor patrio non c'è virtù, se non
altro, grande, e di grande utilità. La virtù non è altro in somma, che
l'applicazione e ordinazione dell'amor proprio (solo mobile possibile delle
azioni {e desiderii} dell'uomo e del vivente) al bene
altrui, considerato quanto più si possa come altrui, perchè in ultima analisi,
l'uomo non lo cerca o desidera, nè lo può cercare o desiderare se non come {bene} proprio. Ora se questo bene altrui, è il bene
assolutamente di tutti, non confondendosi questo mai col ben proprio, l'uomo non
lo può cercare. Se è il bene di pochi, l'uomo può cercarlo, ma allora la virtù
ha poca estensione, poca influenza, poca utilità, poco splendore, poca
grandezza. Di più, e per queste stesse ragioni, poco eccitamento e premio, così
che è rara e difficile; giacchè siamo da capo, mancando {allora} o essendo poco efficace lo sprone che muove l'uomo ad
abbracciar la virtù, cioè il ben proprio. Talchè anche per questo capo
894 è dannosa la soverchia ristrettezza e piccolezza, o
poca importanza e pregio delle società, dei corpi, dei partiti ec. E riguardo
all'altro capo, cioè la poca utilità delle virtù che si rapportano al bene o
agl'interessi qualunque di pochi, o poco importanti ec. questa è la ragione per
cui non sono lodevoli, anzi spesso dannosi i piccoli corpi, società, ordini,
partiti, corporazioni, e l'amore e spirito di questi negl'individui. Giacchè le
virtù e i sacrifizi a cui questi amori conducono l'individuo, sono piccoli,
ristretti, bassi, umili, e di poca importanza, vantaggio, ed entità. In oltre
nuocono alla società maggiore, perchè siccome l'amor di patria produce il
desiderio e la cura di soverchiare lo straniero, così l'amore de' piccoli corpi,
essendo parimente di preferenza, produce la cattiva disposizione degl'individui
verso quelli che non appartengono a quella tal corporazione, e il desiderio di
superarli in qualunque modo. Così che nasce la solita disunione d'interessi, e
quindi di scopo, e così queste piccole società, distruggono le grandi, e
dividono i cittadini dai cittadini, e i nazionali dai nazionali, restando tra
loro la società sola di nome. {+Dal che
potete intendere il danno delle sette, sì di qualunque genere, come
particolarmente di queste famose moderne e presenti, le quali ancorchè
studiose o in apparenza, o, poniamo anche, in sostanza del bene di tutta la
patria, si vede per esperienza, che non hanno mai fatto alcun bene, e sempre
gran male, e maggiore ne farebbero, se arrivassero a prevalere, e conseguire
i loro intenti; e ciò per le dette ragioni, e perchè l'amor della setta
(fosse pur questa purissima) nuoce all'amore della nazione ec.}
{{V. p. 1092, principio.}} Resta
dunque che l'egoismo sociale, abbia per
oggetto una società di tal grandezza ed estensione, che senza cadere
negl'inconvenienti delle piccole, non sia tanto grande, che l'uomo per cercare
il di lei bene, sia costretto a perdere di vista se stesso;
895 il che egli non potendo fare mentre vive, ricadrebbe nell'egoismo individuale. L'egoismo universale (giacchè anche questo non
potrebb'essere altro che egoismo, come tutte le passioni e tutti gli amori dei
viventi) è contraddittorio nella sua stessa nozione, giacchè l'egoismo è un amore di preferenza, che
si applica a se stesso, o a chi si considera come se stesso: e l'universale esclude {l'idea della} preferenza. Molto più poi è stravagante
l'amore sognato da molti filosofi, non solo di tutti gli uomini, ma di tutti i
viventi, e quanto si possa, di tutto l'esistente: cosa contraddittoria alla
natura, che ha congiunto indissolubilmente all'amor proprio una qualità
esclusiva, per cui l'individuo si antepone agli altri, e desidera esser più
felice degli altri, e da cui nasce l'odio, passione così naturale {e indistruggibile} in tutti i viventi, come l'amor
proprio. Ma tornando al proposito, la detta società di mezzana grandezza, non è
altro che una nazione. Perchè l'amore delle particolari città native è dannoso
oggi, come l'amore de' piccoli corpi, non producendo niente di grande, come non
dà eccitamento nè premio a virtù grandi; e d'altra parte, staccando l'individuo
dalla società nazionale, e dividendo le nazioni in tante parti, tutte intente a
superarsi l'una coll'altra, e quindi nemiche scambievoli. Del che non si può
dare maggior pregiudizio. Le città antiche, se anche erano piccole come le
moderne, e tuttavia servivano
896 di patria, erano però più importanti assai, per la somma
forza d'illusioni che vi regnava, e che somministrando grandi eccitamenti, e
premi grandi ancorchè illusorii, bastava alle grandi virtù. Ma questa forza
d'illusioni non è propria se non degli antichi, che come il fanciullo, sapevano
trar vita vera da tutto, ancorchè menomo. La patria moderna dev'essere
abbastanza grande, ma non tanto che la comunione d'interessi non vi si possa
trovare, come chi ci volesse dare per patria l'europa. La propria nazione,
coi suoi confini segnati dalla natura, è la società che ci conviene. E conchiudo
che senza amor nazionale non si dà virtù
grande. Da tutto ciò deducete il gran vantaggio del moderno stato, che
ha tolto assolutamente il fondamento, anzi la possibilità della virtù, certo
della virtù grande, e grandemente utile; della virtù stabile e solida, e che
abbia una base e una fonte durevole e ricca.
[896,1] 4. Lascio la gran vita che nasce dall'amor patrio,
{e in proporzione della sua forza, ch'è massima ne'
popoli liberi,} e che gli antichi godevano mediante questo; e la morte
del mondo, sparito che sia l'amor patrio, morte che noi sperimentiamo da gran
tempo.
[896,2] 5. Le guerre moderne sono certo meno accanite delle
antiche, e la vittoria meno terribile e dannosa al vinto. Questo è
naturalissimo. Non esistendo più nazioni,
897 e quindi
nemicizie nazionali, nessun popolo è vinto, nessuno vincitore. Chi vince non
vince quel tal popolo, ma quel tal governo. I soli governi sono nemici fra loro.
Dunque la vittoria non si esercita sopra la nazione (la quale come l'asino di
Fedro cambia solamente la soma, o
l'asinaio); ma sopra il solo governo. Una nazione conquistata perde il suo
governo, e ne riceve un altro che presso a poco è il medesimo. Non essendo
nemica della conquistatrice, {non avendo avuto guerra con
essa, nè questa con lei,} partecipa ai di lei vantaggi, alle cariche
pubbliche ec. Non perde le proprietà, nè la libertà civile, nè i costumi ec.
(Alle volte non perderà neppure le sue leggi) Ma come tutto il suo, non era suo,
ma del suo padrone, così tutto questo, senza nuovo danno de' suoi individui,
come presso gli antichi, passa {di peso e senza
scomporsi} ad essere di un altro padrone. {+Anticamente il privato perdeva individualmente le sue
proprietà perchè individualmente ne aveva. Ora non egli che non le ha
individualmente, e non le può perdere, ma il suo principe vinto perde tutte
insieme le proprietà de' suoi sudditi, ch'erano generalmente ed unitamente
sue; e questo per conseguenza accade senza cangiamenti nello stato de'
particolari, e senza nuove violazioni de' diritti privati e
individuali.} S'ella diviene dipendente al di fuori, lo era già al di
dentro. La sua dipendenza non è nuova se non di nome, perchè la sua indipendenza
era pur tale. E se ora dipende dallo straniero, lo straniero è per lei tutt'uno
che il nazionale; perchè la nazione non esisteva neppur prima della conquista;
ed ella non amando se stessa, non avendo amor patrio, non odia dunque lo
straniero, se non come il nazionale, e come l'uomo odia l'altro uomo. Il diritto delle nazioni
898
è nato dopo che non vi sono state più
nazioni. Ella dunque gode gli stessi diritti, che godeva prima della
conquista, e gli gode ora come la conquistatrice. Quanto alle guerre, elle non
sono già nè meno frequenti, nè meno ingiuste delle antiche. Perchè la sorgente
delle guerre, che una volta era l'egoismo
nazionale, ora è l'egoismo
individuale di chi comanda alle nazioni, anzi costituisce le nazioni. E
questo egoismo, non è nè meno cupido, nè meno ingiusto di quello. Dunque, come
quello, misura i suoi desiderii dalle sue forze; (spesso anche oltre le forze) e
la forza è l'arbitra del mondo oggidì, come anticamente, non già la giustizia,
perchè la natura degli uomini non si cambia, ma solo gli accidenti. Questi che
esagerano l'ingiustizia e frequenza delle guerre antiche prima del
Cristianesimo, del diritto delle genti, e del preteso amore universale; mostra
che abbiano bensì letto la storia antica, ma non quella de' secoli Cristiani
fino a noi. Quella storia e questa presentano appuntino le stesse ingiustizie,
le stesse guerre, {lo stesso trionfo della forza ec. nè il
Cristianesimo ha migliorato in ciò il mondo di un punto;} colla
differenza che allora le esercitavano, allora combattevano le nazioni, ora
gl'individui, o vogliamo dire i governi; allora per conseguenza i combattenti o
gl'ingiusti, erano giusti e virtuosi verso qualcuno, cioè verso i proprii,
adesso verso nessuno; allora le nimicizie
899
partorivano le grandi virtù, e l'eroismo in ciascuna nazione, adesso i grandi
vizi e la viltà; allora una nazione opprimeva l'altra, adesso tutte sono
oppresse, la vinta come la vincitrice; allora serviva il vinto, adesso la
servitù è comune a lui col vincitore; {+allora i vinti erano miseri e schiavi, cosa
naturalissima in tutte le specie di viventi, oggi lo sono nè più nè meno
anche i vincitori e fortunati, cosa barbara e assurda;}
allora chi moveva la guerra, era spesso ingiusto colla nazione a cui la moveva,
adesso chi la muove è ingiusto, appresso a poco, tanto con quella a cui la move,
quanto con quella per cui mezzo e forza la muove: e ciò tanto nel muoverla,
quanto in tutto il resto delle sue azioni pubbliche. E i governi oggi tra loro,
sono in istato di guerra (o aperta o no) tanto continua, quanto le nazioni
anticamente.
[899,1] Lascio le atrocità commesse anche ne' {primi e più fervorosi} tempi Cristiani sopra i Capi
delle nazioni vinte: cosa conseguente, perch'essi erano i vinti, e non le
nazioni. E così costumavasi, per naturale effetto, anche anticamente, nella
vittoria di nazioni serve al di dentro e monarchiche. Nè mancano esempi più
recenti nelle storie, di questa naturale conseguenza dello stato presente dei
popoli, cioè dell'odio privato o pubblico fra' loro capi, e delle sevizie usate
sopra i principi vinti o prigioni ec.
[899,2] Vengo all'atto della guerra. Anticamente, dicono,
combattevano le nazioni intere: le guerre de'
900 tempi
Cristiani fatte con piccoli eserciti, hanno meno sangue, e meno danni. Ma
anticamente combatteva il nemico contro il nemico, oggi l'indifferente
coll'indifferente, forse anche coll'amico, il compagno, il parente; anticamente
nessuno era che non combattesse per la causa propria, oggi nessuno che non
combatta per causa altrui; anticamente il vantaggio della vittoria era di chi
avea combattuto, oggi di chi ha ordinato che si combatta. È in natura che il
nemico combatta il suo nemico, {e per li suoi
vantaggi;} e ciò si vede anche nei bruti, certo non corrotti, anche
dentro la loro propria specie, e co' loro simili. Ma non è cosa tanto opposta
alla natura, quanto che un individuo senza nè odio abituale, nè ira attuale, con
nessuno o quasi nessuno vantaggio ed interesse suo, per comando di persona che
certo non ama gran fatto, e {probabilmente} non
conosce, uccide un suo suo simile che non l'ha offeso in nessuna maniera, e che,
per dir poco, non conosce neppure e non è conosciuto dall'uccisore. Anzi di più,
un individuo ch'egli odia per lo più molto meno di quello che gli comanda di
ucciderlo, e certo molto meno di gran parte fra' suoi stessi compagni d'arme,
{e fra' suoi concittadini.} Perchè oggi gli odi, le
invidie le nimicizie, si esercitano coi vicini, e nulla ordinariamente coi
lontani: l'egoismo individuale ci
901 fa nemici di
quelli che ci circondano, o che noi conosciamo, ed hanno attenenza con noi; e
massime di quelli che battono la nostra stessa carriera, e aspirano allo stesso
scopo che noi cerchiamo, e dove vorremmo esser preferiti; di quelli che essendo
più elevati di noi, destano per conseguenza l'invidia nostra, e pungono il
nostro amor proprio. Lo straniero al contrario ci è per lo meno indifferente, e
spesso più stimato {dei conoscenti,} perchè la stima
ec. è fomentata dalla lontananza, e dalla ignoranza della realtà, e dallo
immaginario che ne deriva: ed infatti in un paese dove non regni amor patrio, il
forestiero è sempre gradito, e i costumi, i modi ec. ec. tanto suoi, come di
qualunque nazione straniera, sono sempre preferiti ai nazionali, ed egli lo è
parimente. Così che il soldato oggidì è molto più nemico sì di quelli in cui
compagnia combatte, sì di quelli in cui vantaggio, per cui volere, sotto di cui
combatte, che di coloro ch'egli combatte ed uccide. E tutto ciò per natura delle
cose, e non per capriccio. Talchè, se vorremo una volta considerar bene le cose,
non le apparenze, troveremo molta più barbarie oggidì nella uccisione di un
nemico solo, che anticamente nel guasto di un popolo: perchè questo era del
tutto secondo natura; quello è per tutti i versi contrario alla natura.
[902,1]
902 Voglio andare anche più avanti, e mostrare che
questo preteso vantaggio del poco numero de' combattenti, ha sussistito finora
non per altro se non perchè le nazioni hanno conservato qualche cosa di antico,
e continuato ad essere in qualche modo nazioni; e che ora che hanno cessato
affatto di esserlo, il detto vantaggio non può più sussistere.
[902,2] Certo che le nazioni non essendo più nemiche l'una
dell'altra, e gli eserciti essendo come truppe di operai pagati perchè lavorino
il campo del padrone, e il numero di un esercito non richiedendosi che sia se
non quanto è quello dell'altro, le guerre si potrebbero sbrigare con pochissimo
numero di combattenti, e anche con un compromesso, dove due sole persone pagate
combattessero insieme per decider la causa. Ma l'egoismo dell'uomo porta ch'egli
impieghi ad ottenere il suo fine tutte quante le forze ch'egli può impiegare a
tale effetto.
[902,3] Un grand'esercito, sì per se stesso, sì per le imposte
che bisognano a mantenerlo, non si mantiene senza incomodo e danno e spesa dei
sudditi. Finchè i sudditi non sono stati affatto servi, finchè la moltitudine è
stata qualche cosa, finchè la voce della nazione si è fatta sentire, finchè la
carne umana, eccetto quella di un solo per nazione, non è stata ad intierissima
disposizione di questo solo che comanda, e come la carne, così tutto il resto, e
la nazione per tutti i versi; fino, dico,
903 ad un tal
punto, il principe non potendo adoperare la nazione a' suoi propri fini, se non
sino ad un certo segno, le armate non furono più che tanto numerose. La nazione,
che era ancora in qualche modo nazione, non tollerava facilmente 1. di
guerreggiare pel puro capriccio del suo capo, e in bene di lui solo, 2. le leve
forzate, o almeno eccessive, 3. l'eccesso delle imposte per far la guerra. Non
tollerava, dico, tutto questo, o poneva il principe in gravissimi pericoli e
disturbi al di dentro. Così che era dell'interesse del principe di risparmiare
la nazione, che ancora tanto o quanto esisteva, e risparmiarla, sì nelle altre
cose, sì massimamente dove si trattava del suo sangue, e delle sue proprietà più
care, che sono i figli, i congiunti ec. Dal tempo della distruzione della
libertà, fino ai principii o alla metà del seicento, i sovrani se anche erano
più tiranni d'oggidì, cioè più violenti e sanguinarii, appunto per l'urto in cui
erano colla nazione, non sono stati però mai padroni così assoluti de' popoli,
come in appresso. Basta legger le storie e vedere come fossero frequenti e
facili e pericolose in quei tempi le sedizioni, i tumulti popolari ec. che per
qualunque cagione nascessero, mostravano pur certo che la nazione era ancor
viva, ed esisteva. E non era strano in quei tempi, come dopo,
904 il vedere scorrere il sangue de' principi per mano de' suoi
soggetti. Di più il potere era assai più diviso, tanto colle baronie, signorie,
feudi, ch'era il sistema monarchico d'allora, quanto colle particolari
legislazioni, privilegii, governi in parte indipẽdenti[indipendenti] delle città o provincie componenti le
monarchie. Così che il re, non trovando tutto a sua sola disposizioine, e non
potendo servirsi della nazione per le sue voglie, se non con molti ostacoli, le
armate venivano ad esser necessariamente piccole: ed è cosa manifesta che quando
la signoria di una nazione è divisa in molte signorie, il signore di tutte, non
può prendere da ciascuna se non poco, e infinitamente meno di quello che
prenderebbe s'egli fosse il signore immediato, e se tutto dipendesse
intieramente dall'arbitrio suo. Cosa dimostrata dalla storia, ed osservata dai
politici. Ed anche per questo si stima nella guerra come principalissimo
vantaggio, l'assoluta padronanza di un solo, e la intera monarchia, come quella
di Macedonia in mezzo alla grecia divisa ne' suoi
poteri. {+(Il che però ne' miei principii
si deve intendere solamente nel caso che quelle nazioni combattute da una
potenza dispotica non siano dominate da vero amor di patria, o meno, se è
possibile, di quella nazione soggetta al dispotismo. E tale era la grecia
ai tempi Macedonici, laddove la sola Atene aveva una
volta resistito alla potenza dispotica della Persia, e vintala.
Perchè del resto è certo che un solo vero soldato della patria, val più di
dieci soldati di un despota, se in quella nazione monarchica non esiste
altrettanto o simile patriotismo. E appunto nella battaglia di Maratona, uno si trovò contro dieci, cioè 10.m. contro 100.m. e
vinsero.)} Sono anche note le costituzioni di quei tempi, le carte
nazionali, l'uso degli stati generali, corti ec. come in Francia, in Ispagna ec.
con che o la moltitudine faceva ancora sentir la sua voce, o certo il potere
restava meno indipendente ed uno, e il monarca più legato.
[905,1]
905 Ma da che il progresso dell'incivilimento o sia
corruzione, e le altre cause che ho tante volte esposte, hanno estinto affatto
il popolo e la moltitudine, fatto sparire le nazioni, tolta loro ogni voce, ogni
forza, ogni senso di se stesse, e per conseguenza concentrato il potere
intierissimamente nel monarca, e messo tutti i sudditi e ciascuno di essi, e
tutto quello che loro in qualunque modo appartiene, in piena disposizione del
principe; allora e le guerre son divenute più arbitrarie, e le armate
immediatamente cresciute. Ed è cosa ben naturale, e non già casuale, ma
conseguenza immancabile e diretta della natura delle cose e dell'uomo. Perchè
quanto un uomo può adoperare in vantaggio suo, tanto adopera; ed ora che il
principe può adoperare al suo qualunque scopo o desiderio, tutta quanta è, e
tutto quanto può la nazione, segue ch'egli l'adopri effettivamente senz'altri
limiti che quelli di lei stessa, e delle sue possibili forze. Il fatto lo prova.
Luigi 14. o primo, o uno de' primi
di quei regnanti che appartengono all'epoca della perfezione del dispotismo,
diede subito l'esempio al mondo, della moltitudine delle armate. Dato che sia
questo esempio il seguirlo è necessario. Perchè siccome oggi la grandezza di
un'armata è arbitraria bensì, ma dipende, e deve corrispondere quanto si possa a
quella del nemico,
906 così se quella del nemico è
grande, bisogna che ancor voi, se potete, ancorchè non voleste, facciate che la
vostra sia grande, e superi, potendo, in grandezza la nemica; nello stesso modo
che la potreste far piccola, anzi menomissima per le stesse ragioni, nel caso
opposto, come ho detto p. 902.
Infatti l'esempio di Luigi 14. fu
seguito sì da' principi suoi nemici, sì da Federico secondo, il filosofo despota, e l'autore di molti nuovi
progressi del despotismo, da lui felicemente coltivato e promosso. Ed egli
parimente obbligò alla stessa cosa i suoi nemici. Finalmente la cosa è stata
portata all'eccesso da Napoleone, per ciò
appunto ch'egli è stato l'esemplare della forse ultima perfezione del
despotismo. Non però questo eccesso è l'ultimo a cui vedremo naturalmente e
inevitabilmente arrivare la cosa.
[906,1] Dico inevitabilmente, supposti i progressi o la durata
del dispotismo, e del presente stato delle nazioni, le quali due cose, secondo
l'andamento dei tempi, il sapere che regna ec. non pare che per ora, possano far
altro che nuovi progressi, o pigliar nuove radici. E in questo caso, dico
inevitabilmente, sì per l'egoismo naturale dell'uomo, e conseguentemente del
principe, egoismo il cui effetto è sempre {necessariamente} proporzionato al potere dell'egoista; sì ancora
perchè dato che sia l'esempio, e preso il costume questo andamento, la cosa si
rende necessaria anche a chi non la volesse. E
907 che
ciò sia vero, osservate. Come si potrebbe rimediare a questo costume, ancorchè
egli sia in ultima analisi arbitrario e dipendente dalla volontà? Con un accordo
generale dei principi, di tutti coloro che possono mai guerreggiare? Non ignoro
che questo accordo si tentò, o si suppose che si tentasse o proponesse al
Congresso di Vienna. E certo l'occasione era l'ottima che potesse mai darsi, ed
altra migliore non si darà mai. So però che nulla se n'è fatto. Forse avranno
conosciuta l'impossibilità, che realmente vi si oppone. Primo, qual è oggi la
guarentia de' trattati, se non la forza o l'interesse? Qual forza dunque o quale
interesse vi può costringere a non cercare il vostro interesse con tutte le
forze che potete? Secondo, (e questo prova più immediatamente che, anche
volendo, non si può rimediare) chi si fida di un trattato precedente, in tempo
di guerra? Chi non conosce quello che ho detto qui sopra nel primo luogo? e
generalmente, chi non conosce la natura universale e immutabile dell'uomo? Se
dunque il principe conosce tutto ciò, dunque sospetta del suo nemico; dunque
anche non volendo, è obbligato a tenersi e provvedersi in modo ch'egli sappia
resistere quanto più si può, a qualunque forza {che} il
nemico voglia impiegare per attaccarlo. Chi è colui che possa levar mille
uomini, e ne levi cento, non sapendo se il nemico l'assalterà
908 con cento o con mille, anzi avendo più da creder questo che
quello? E quando si fosse fatto l'accordo generale, e osservatolo per lungo
tempo, tanto maggiore sarebbe il vantaggio proposto a chi improvvisamente
rompesse il patto: e quindi presto o tardi questo tale non mancherebbe. Ciò lo
metterebbe in pieno possesso del suo nemico, e dopo un esempio solo di questa
sorta, ognuno diffiderebbe, nessuno vorrebbe sull'incertezza arrischiare il
tutto, e tutti ritornerebbero al primo costume. {{E ciò si
deve intendere non meno in tempo di guerra che di pace,}}
{+essendo sempre continuo il pericolo che
i governi portano l'uno dall'altro. E ciò ancora è manifesto dal fatto, e
dalle grandi forze che si tengono ora in tempo di pace, così che non c'è ora
un tempo dove un paese resti disarmato, {anzi non bene
armato,} a differenza sì de' tempi antichi, sì de' secoli
cristiani anteriori a questi ultimi.}
[908,1] Da tutto ciò segue che le armate non solo non
iscemeranno più, ma cresceranno sempre, cercando naturalmente ciascuno di
superare l'altro con tutte le sue forze, e le sue forze stendendosi quanto
quelle della nazione: che quindi le nazioni intiere, come fra gli antichi, si
scanneranno scambievolmente, ma non, come fra gli antichi, spontaneamente, e di
piena volonterosità, anzi vi saranno cacciate per marcia forza; non odiandosi
scambievolmente, anzi essendo in piena indifferenza, e forse anche bramando di
esser vinte (perchè, ed anche questo è notabile, perduto l'amor di patria, e
l'indipendenza interna, la novità del padrone, {e delle
leggi, governo ec.} non solo non è odiata nè temuta, ma spesso
desiderata e preferita) non per il proprio bene, ma per l'altrui; non per il ben
comune, ma di uno solo; anzi di quei soli che abborriranno più di qualunque
altro,
909 e più assai di chi combatteranno; insomma non
secondo natura, nè per effetto naturale, ma contro natura assolutamente. E lo
stesso dite di tutte le altre conseguenze del dispotismo, sì rispetto alla
guerra, come indipendentemente da essa. Cioè i popoli, sì per causa delle
proprie e delle altrui armate, sì astraendo da ciò, saranno smunti, impoveriti,
disanguati, privati delle loro comodità, impedita o illanguidita l'agricoltura,
collo strapparle i coltivatori, {e collo spogliarla del
prodotto delle sue fatiche;} inceppato e scoraggiato il commercio e
l'industria, collo impadronirsi che farà del loro frutto, il sempre crescente
dispotismo ec. ec. ec. In somma le nazioni, senza odiarsi come anticamente,
saranno però come anticamente desolate, benchè senza tumulto, e senza violenza
straordinaria; lo saranno dall'interno più che dall'estero, e da questo ancora,
secondo le circostanze ec. ec. E tutto ciò non già verisimilmente, o senza una
stabile e necessaria cagione, ma per conseguenza immancabile della natura umana,
la quale non perchè sia diversa e peggiore ne' principi, ma semplicemente come
natura umana, li porterà inevitabilmente a tutto questo; e il fatto già lo
dimostra in moltissime e grandissime parti. E tutto ciò senza ricavarne
quell'entusiasmo, quel movimento, quelle virtù, {quel valore,
quel coraggio, quella tolleranza dei mali e delle fatiche, quella costanza,
quella forza,} quella vita pubblica e individuale, che derivava agli
antichi anche dalle stesse grandi calamità: anzi per lo contrario, crescendo in
proporzione delle moderne calamità,
910 il torpore, la
freddezza, l'inazione, la viltà, i vizi, la monotonia, il tedio, lo stato di
morte individuale, e generale delle nazioni. Ecco i vantaggi dell'incivilimento,
dello spirito filosofico e di umanità, del diritto delle genti creato,
dell'amore universale immaginato, dell'odio scambievole delle nazioni distrutto,
dell'antica barbarie abolita. {+Queste mie
osservazioni sono in senso tutto contrario a quello dell'Essai ec. loc. cit. da me p. 888 il quale fa derivare la
moltitudine delle armate moderne dallo spirito ed odio nazionale, ed egoismo
delle nazioni, ed io (credo molto più giustamente) dalla totale ed ultima
estinzione di questo spirito, e quindi di quest'odio, e di questo
egoismo.}
[910,1] 6. Non solamente le virtù pubbliche, come ho
dimostrato, ma anche le private, e la morale e i costumi delle nazioni, sono
distrutti dal loro stato presente. Dovunque ha esistito vero e caldo amor di
patria, e massime dove più, cioè ne' popoli liberi, i costumi sono stati sempre
quanto fieri, altrettanto gravi, fermi, nobili, virtuosi, onesti, e pieni
d'integrità. Quest'è una conseguenza naturale dell'amor patrio, del sentimento
che le nazioni, e quindi gl'individui hanno di se stessi, della libertà, del
valore, della forza delle nazioni, della rivalità che hanno colle straniere, e
di quelle illusioni grandi e costanti e persuasive che nascono da tutto ciò, e
che vicendevolmente lo producono: ed ella è cosa evidente che la virtù non ha
fondamento se non se nelle illusioni, e che dove mancano le illusioni, manca la
virtù, e regna il vizio, {nello stesso modo che} la
dappocaggine e la viltà. Queste son cose evidenti nelle storie, ed osservate da
tutti i filosofi, e politici. Ed è tanto vero; che le virtù private si trovano
sempre in proporzione coll'amor patrio, e colla forza e magnanimità di una
nazione; e l'indebolimento di queste
911 cose, colla
corruttela dei costumi; e la perdita della morale si trova {nella storia} sempre compagna della perdita dell'amor patrio, della
indipendenza, delle nazioni, della libertà interna, e di tutte le antiche {e moderne} repubbliche: influendo sommamente e con
perfetta scambievolezza, la morale e le illusioni che la producono, sull'amor
patrio, e l'amor patrio sulle illusioni e sulla morale. È cosa troppo nota qual
fosse la depravazione interna de' costumi in Francia da Luigi 14. il cui secolo, come ho detto,
fu la {prima} epoca vera della perfezione del
dispotismo, ed estinzione e nullità delle nazioni e della moltitudine, sino alla
rivoluzione. La quale tutti notano che ha molto giovato alla {perduta} morale francese, quanto era possibile 1. in questo secolo
così illuminato, e munito contro le illusioni, e quindi contro le virtù: 2.
secondo in tanta, e tanto radicata e vecchia depravazione, a cui la Francia era
assuefatta: 3. in una nazione {particolarmente} ch'è
centro dell'incivilimento, e quindi del vizio: 4. col mezzo di una rivoluzione
operata in gran parte dalla filosofia, che volere o non volere, in ultima
analisi è nemica mortale della virtù, perch'è amica anzi quasi la stessa cosa
colla ragione, ch'è nemica della natura, sola sorgente della virtù. (30.
Marzo - 4. Aprile 1821.)