25. Nov. 1820.
[351,1] A tutto quello che ho detto di Teofrasto, pp. 316-18 si può aggiungere come altra cagione della
qualità che ho notato in lui, il suo sapere enciclopedico, che apparisce dal
catalogo delle sue opere, la massima parte perdute. Il qual sapere, e la quale
speculazione intorno ad ogni genere di scibile, egli non lo faceva servire, come
Platone, all'immaginativa, per
fabbricarne un sistema fondato sul brillante e sul fantastico, ma, come Aristotele, alla ragione, per discorrere
delle cose sul fondamento del vero e dell'esperienza. Nel qual caso
l'estensione, e varietà del sapere, influisce necessariamente sulla profondità
dell'intelletto, e il disinganno del cuore.
[351,2] In somma conviene che il filosofo si ponga bene in
mente, che la vita per se stessa non importa nulla, ma il passarla bene e
felicemente, o se non altro, anzi soprattutto, il non passarla male e
infelicemente. E perciò non riponga l'utilità in quelle cose che semplicemente
aiutano, conservano ec. la vita, considerata quasi fosse un bene per se stessa,
ma in quelle che la rendono
352 un bene, cioè felice da
vero. Ma felice da vero non la rende altro che il falso, ed ogni felicità
fondata sul vero, è falsissima, o vogliamo dire, ogni felicità si trova falsa e
vana, quando l'oggetto suo giunge ad esser conosciuto nella sua realtà e
verità.
[352,1] Ho veduto le lezioni di un tedesco, il sig. Hufeland,
dell'arte di prolungare la vita, lezioni dettate da lui per una cattedra ch'egli
occupava, dedicata espressamente a quest'arte. Prima bisognava insegnare a
render la vita felice, e quindi a prolungarla. Infelicissima com'è, stimerei
molto più chi m'insegnasse ad abbreviarla, perchè non ho mai saputo che sia
degno di lode, e giovi al pubblico colui che insegna a prolungare l'infelicità.
In vece di fondare queste cattedre che sono al tutto straniere anzi contrarie
alla natura dei tempi, i principi dovrebbero proccurare che la vita dell'uomo
fosse più felice, ed allora saremmo grati a chi c'insegnasse a prolungarla. Se
la durata fosse un bene per se stessa, allora sarebbe ragionevole il desiderio
di viver lungamente in qualunque caso.
[352,2] Nominando i nostri antenati, sogliamo dire, i buoni
antichi, i nostri buoni antichi. Tutto il mondo ha opinione che gli antichi
fossero migliori di noi, tanto i vecchi che perciò gli lodano, quanto i giovani
che perciò li disprezzano. Il certo
353 è che il mondo
in questo non s'inganna: il certo è che, senza però pensarvi, egli riconosce e
confessa tutto giorno il suo deterioramento. E ciò non solamente con questa
frase, ma in cento altri modi; e tuttavia neppur gli viene in pensiero di
tornare indietro, anzi non crede onorevole se non l'andare sempre più avanti, e
per una delle solite contraddizioni, si persuade e tiene per indubitato, che
avanzando migliorerà, e non potrà migliorare se non avanzando; e stimerebbe di
esser perduto retrocedendo.
[353,1] Quanto anche la religion cristiana sia contraria alla
natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando
questo solo serve di norma, si può vedere per questo esempio. Io ho conosciuto
intimamente una donna {madre di famiglia} che non era
punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e
negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei
genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e
sinceramente, perchè questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean
liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in
pericolo di perdere i suoi figli nella stessa
354 età,
non pregava Dio che li facesse morire, perchè la religione non lo permette, ma
gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava
in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era esattissima negli
uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell'anima desiderava che
fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava
nell'interrogare o consultare i medici, era di sentirne opinioni o ragguagli di
miglioramento. Vedendo ne' malati qualche segno di morte vicina, sentiva una
gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che la
condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno
allegro ed ameno, nè sapeva comprendere come il marito fosse sì poco savio da
attristarsene. Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi
figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia.
Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi
pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente alla vita nella loro
prima gioventù: se resistevano, se cercavano il contrario, se vi riuscivano in
qualche minima parte, n'era indispettita, scemava quanto poteva colle parole e
coll'opinion sua i loro successi (tanto de' brutti quanto de' belli, perchè
n'ebbe molti), e non lasciava
355 passare anzi cercava
studiosamente l'occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro
difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro
inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce. {Sentiva i cattivi successi de' suoi figli in questo o simili particolari,
con vera consolazione, e si tratteneva di preferenza con loro sopra ciò che
aveva sentito in loro disfavore.} Tutto questo per liberarli dai
pericoli dell'anima, e nello stesso modo si regolava in tutto quello che spetta
all'educazione dei figli, al produrli nel mondo, al collocarli, ai mezzi tutti
di felicità temporale. Sentiva infinita compassione per li peccatori, ma
pochissima per le sventure corporali o temporali, eccetto se la natura talvolta
la vinceva. Le malattie, le morti le più compassionevoli de' giovanetti estinti
nel fior dell'età, fra le più belle speranze, col maggior danno delle famiglie o
del pubblico ec. non la toccavano in verun modo. Perchè diceva che non importa
l'età della morte, ma il modo: e perciò soleva sempre informarsi curiosamente se
erano morti bene secondo la religione, o quando erano malati, se mostravano
rassegnazione ec. E parlava di queste disgrazie con una freddezza marmorea.
Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo, ed era
stata così ridotta dalla sola religione. Ora questo che altro è se non barbarie?
E tuttavia non è altro che un calcolo matematico, e una conseguenza immediata e
necessaria dei
356 principii di religione esattamente
considerati; di quella religione che a buon diritto si vanta per la più
misericordiosa ec. Ma la ragione è così barbara che dovunque ella occupa il
primo posto, e diventa regola assoluta, da qualunque principio ella parta, e
sopra qualunque base ella sia fondata, tutto diventa barbaro. Così vediamo le
tante barbarie delle religioni antiche, se ben queste fossero figlie
dell'immaginazione. E anche senza i principii religiosi, è pur troppo evidente
che la sola stretta ragione, ci porta alle conseguenze specificate di sopra. Non
c'è che la pura natura la quale ci scampi dalla barbarie, con quegli errori
ch'ella ispira, e dove la ragione non entra. S'ella ci fa piangere la morte dei
figli, non è che per un'illusione, perchè perdendo la vita non hanno perduto
nulla, anzi hanno guadagnato. Ma il non piangerne è barbaro, e molto più il
rallegrarsene, benchè sia conforme all'esatta ragione. Tutto ciò conferma quello
ch'io voglio dire che la ragione spesso è fonte di barbarie (anzi barbarie da se
stessa), l'eccesso della ragione sempre; la natura non mai, perchè finalmente
non è barbaro se non ciò che è contro natura, (25. Nov. 1820.)
{{sicchè natura e barbarie son cose contraddittorie, e la
natura non può esser barbara per essenza.}}