[3592,1]
3592 Questa duplicità d'interesse, benchè paia non
ripugnare all'unità (e così credette il Tasso, il quale si persuase poter con essa servire alla varietà e
schivare l'uniformità, senza punto violar l'unità), o benchè paia, se non altro,
ripugnare alla perfetta unità molto meno che non faccia la duplicità d'interesse
nell'iliade, nuoce però molto più di questa al fine per cui
l'unità si prescrive. Il qual fine si è che l'interesse nell'animo de' lettori
non s'indebolisca col dividersi nè col distrarsi, e sia più forte come rivolto a
un segno solo. Ora, come ho mostrato, la duplicità d'Eroe nella
Gerusalemme indebolisce l'interesse nell'animo de' lettori,
molto più che non faccia nell'iliade. E ciò appunto perchè quella
duplicità concorre in una medesima parte, ed è rivolta a un segno medesimo, e
perchè i due interessi son troppo vicini e del tutto concordi, e sono due, senza
esser diversi. Nella iliade dove essi sono tutto l'opposto, essi
non solo s'indeboliscono meno, ma non s'indeboliscono punto, o certo l'interesse
totale risultante dal poema nell'animo de' lettori non pur non è indebolito
dalla duplicità, ma a molti doppi
3593 accresciuto, e
in buona parte assolutamente prodotto. Onde si confermano le mie osservazioni
pp. 3095. sgg. sulla
necessità di un interesse veramente doppio, e di due interessi diversi, alla
maniera che si vede nell'iliade; e sul danno di quella unità che
i precettisti hanno prescritta e che gli epici posteriori ad Omero si sono proposta. Perocchè, come ho mostrato in
questo discorso, essa unità nuoce al suo medesimo fine, che è di far che
l'interesse e l'effetto totale nel lettore sia più vivo essendo uno e indiviso,
e mirando a un sol segno; chè altrimenti la prescritta unità non avrebbe ragione
alcuna, ed il precetto sarebbe arbitrario, laddove il poeta dev'esser padrone
della sua libertà in quanto l'esserlo e il disporne a suo modo non ripugna alla
natura, e alla qualità {e debito} del poema epico.
L'unità dunque da' precettisti prescritta nel poema epico, pregiudicando e
ripugnando al suo medesimo fine, è qualità {+non pur dannosa, ma} vana ed assurda in se stessa
e ne' proprii termini.