[413,1] 10o. Dal sopraddetto segue che il Cristianesimo non
prova che la verità assoluta non sia indifferente per l'uomo, non prova che la
felicità dell'uomo consista nel conoscere. Col prevaler della ragione e del
sapere, l'uomo non potendo più credere quello che credeva naturalmente,
bisognava ch'egli tornasse a crederlo mediante questa medesima ragione e questo
sapere che non si poteva più estinguere. La cognizione del vero gli era dunque
necessaria, non come indirizzata al vero, ma come solo fonte di quella credenza
che gli bisognava per riacquistare quella felicità che la stessa cognizione gli
avea tolta. Verità o errore, bastava ed importava solamente che l'uomo credesse
quelle cose, senza le quali non poteva esser felice. Ma l'errore l'avrebbe
potuto credere stabilmente nello stato naturale, nello stato di ragione, non
poteva credere stabilmente altro che il vero. Bisognava dunque ch'egli trovasse
verità reali in quelle opinioni e in
414 quei giudizi che formano e servono di base alla
vita umana. Ma queste opinioni e giudizi, non poteva trovarli realmente veri, se non supposta una
Religione, e una Religion vera, cioè universalmente e stabilmente credibile. Ecco dunque come la ragione
non poteva condurre alla felicità senza la rivelazione. La verità non era
necessaria all'uomo in quanto verità, ma in quanto stabile credibilità. Ora la
verità sola è stabilmente credibile nello stato di ragione e di sapere. E l'uomo
senza credenza stabile, non ha stabile motivo di determinarsi, quindi di agire,
quindi di vivere.
431,1