Felicità, stimata lode, e segno del favor divino, dagli antichi.
Happiness, considered a praise and a sign of divine favor by the ancients.
2457 3072,3 3097,2 3148,segg. 3342,1 4119,4 4240,1[2456,1] La religion Cristiana fra tutte le antiche e le
moderne è la sola che o implicitamente o esplicitamente, ma certo per essenza,
{istituto,} carattere e spirito suo, faccia
considerare e consideri come male quello che naturalmente è, fu, e sarà sempre
bene (anche negli animali), e sempre male il suo contrario; come la bellezza,
{la giovanezza,} la ricchezza, ec. e fino la stessa
felicità e prosperità a cui sospirano e sospireranno eternamente e
necessariamente tutti gli esseri viventi. E li considera come male
effettivamente, perciocchè non si può negare che queste tali cose non sieno
molto pericolose all'anima, e che le loro contrarie (come la bruttezza ec.) non
liberino da infinite occasioni di peccare. E perciò quelli che fanno professione
di devoti chiamano fortunati i brutti ec. e considerano la bruttezza ec. come un
bene dell'uomo, {una fortuna della società,} e come una
condizione, una qualità, una
2457 sorte
desiderabilissima in questa vita. Similmente dico della prosperità, la quale
rende naturalmente superbi, confidenti in se stessi e nelle cose, e quindi
distratti e poco adattati all'abito di riflettere (ch'è necessarissimo alla cura
della salute eterna), e dà molto attaccamento alle cose di questa terra. E
quindi l'opinione che le disgrazie (o come le chiamano, le croci), sieno favori
di Dio, e segni della benevolenza divina: opinione stranissima e affatto nuova;
inaudita in tutta l'antichità e presso tutte le altre religioni moderne (tutte
le quali considerano {anzi} il fortunato {solo,} come favorito di Dio, onde fra gli antichi beato, μακάριος {ὄλβιος} ec.
era un titolo di rispetto e di lode, e tanto a dire come sanctus, o come vir iustus etc. {L'etimologia di εὐδαίμων è favorito dagli Dei, o che ha
buon Dio cioè favorevole. Al contrario
δυσδαίμων, infelice, che ha mali Dei. v. p. 2463.} V. i Lessici:
e nella stessa religion cristiana da principio si chiamavano beati, anche vivendo, gli uomini più distinti o per
virtù o per dignità, come oggi si chiama Beatitudine
il Papa); inaudita presso qualunque popolo non civile; e finalmente tale ch'io
non so se verun'altra opinione possa esser più dirittamente contraria alla
natura universale delle cose, e a tutto l'ordine dell'
2458 esistenza sensibile. (4. Giugno. 1822.).
[3072,3]
I Romani, che tanto
fecero {con la} virtù, e col sangue,
riconoscevan nondimeno ogni cosa dalla Fortuna; Dea più ch'altro Nume da
loro adorata. Onde Lucio Silla
che vinse la virtù, e i Trionfi, e i sette Consolati di G. Mario, si fè chiamare il
Felice, e teneasi esser della Fortuna figliuolo. Ed Augusto pregò gli Dii, che
*
3073
dessero al nipote la sua fortuna, la quale fu
stupenda.
*
Bern. Davanzati. Orazione in morte del Gran Duca di Toscana Cosimo
primo.
(1. Agosto. dì del Perdono. 1823.).
[3097,2] È proprio degli uomini l'ammirar la fortuna e il
buon successo delle intraprese, l'essere strascinati da questo e da quella alla
lode, e per lo contrario dalla mala sorte e dal tristo esito al biasimo,
l'esaltare chi ottenne quel che cercò, il deprimere chi non l'ottenne, lo stimar
colui superiore al generale, costui uguale o inferiore,
3098 il credersi minor di quello e da lui superato, maggior di questo
od uguale; in somma il distribuir la gloria secondo la fortuna. Questa proprietà
degli uomini {di tutti i tempi} avea maggior luogo che
mai negli antichi. L'esser fortunato era la somma lode appo loro. (V. fra
l'altre p. 4119
p. 4240
p. 4309 la p. 3072. fine
{+e p. 3342.}) E ciò per varie cagioni.
Primieramente la fortuna non si stimava mai disgiunta dal merito, per modo
ch'eziandio non conoscendo il merito, ma conoscendo la fortuna d'alcuno, si
reputava aver bastante argomento per crederlo meritevole. Come negli stati
liberi pochi avanzamenti si possono ottenere senz'alcuna sorta di merito reale,
e come gli antichissimi popoli nella distribuzione degli onori, delle dignità,
delle cariche, dei premi, avevano ordinariamente riguardo al merito sopra ogni
altra cosa, così e conseguentemente stimavano che gli Dei non compartissero i
loro favori, che la fortuna non si facesse amica, se non di quelli che n'erano
degni: talmente che anche i doni naturali come la bellezza e la forza si
stimavano compagni
3099 ed indizi de' pregi dell'animo
e de' costumi, e la stessa ricchezza o nobiltà e l'altre felicità della nascita
cadevano sotto questa categoria. Secondariamente, non supponendo gli antichi
maggiori beni che quelli di questa vita, fino a credere che i morti, anche posti
nell'Elisio, s'interessassero più della terra che dell'Averno, e che gli Dei
fossero più solleciti delle cose terrene che delle celesti, ne seguiva che
considerassero la felicità come principalissima parte di lode, perocchè il
merito infelice come può giovare a se o agli altri? e come può parer {buono e} grande quello ch'è inutile? e se il merito era
infelice, come poteva risplendere? e non risplendendo e non giovando in questa
terra e per questa vita, dove, secondo le antiche opinioni, avrebbe acquistato
luce e splendore? dove e a che cosa avrebbe giovato?
[3147,1] Quello spirito dell'italia e
dell'europa Cristiana verso gl'infedeli (e, diciamolo
ancora, verso il Cristianesimo) che disopra ho descritto, che regnò al tempo del
Tasso e ne'
precedenti, che in lui ancora grandemente potè, che ispirò e produsse la
Gerusalemme, è totalmente sparito e perduto, e le nostre
condizioni a questo riguardo sono affatto cangiate in tutta
l'europa. Nullo è dunque oggidì l'interesse della
Gerusalemme. Dico che la Gerusalemme non ha
più realmente veruno interesse finale e principale, cioè non ispira più
quell'interesse ch'ella principalmente e per istituto si propone d'ispirare;
perocchè esso non ha più luogo negli animi de' lettori, affatto cangiati come
sono, nè può più nascere in alcuno quell'interesse, essendo mutate e quasi volte
in contrario le circostanze. Benchè certo la Gerusalemme al suo
tempo ispirò moltissimo interesse, e forse maggiore che l'Eneide al tempo suo, ed oltre di questo universale
nelle colte nazioni,
3148 dove quello dell'Eneide non potè esser che nazionale. Nè certo la
Gerusalemme mancò del suo fine. Ma ora non per tanto non può
più produrlo. Interessi però episodici e non finali ve n'hanno molti nella
Gerusalemme. V'ha quello di Olindo e Sofronia e nasce dalla
sventura. V'ha quello di Erminia, quello di Clorinda, e nascono dalla
sventura. V'ha quello del Danese, e
nasce dalla sventura, e, quel ch'è notabile, da sventura toccante alla stessa
parte che aveva a {riuscir} vittoriosa e fortunata,
cioè a dire alla Cristiana. Colla quale occasione è da considerare la bella e
straordinaria facoltà che {concedeva} al Tasso lo spirito del
suo tempo, cioè di congiungere la compassione alla felicità, di far nascere
questa da quella, di salvar l'{estrema} unità che si
esigeva ne' poemi epici pigliando un Eroe felice e facendolo non per tanto
compassionevole. Alleanza impossibile anticamente, difficile e di poco buono
effetto oggidì. Ma le opinioni Cristiane (che al suo tempo fiorivano) riponendo
3149 la felicità propria dell'uomo nell'altra vita,
facendola indipendente da quella di questo mondo, considerando le sventure {temporali} come vantaggi e reali fortune, insegnando
massimamente esser felicissimo chi soffre per la giustizia e per la fede e per
Dio, e più chi muore per loro amore e cagione, davano luogo al Tasso di rappresentare
come felice e come giunto al suo desiderio e scopo un personaggio, il quale,
facendolo temporalmente sventurato e nelle sventure magnanimo ec, poteva pur
fare sommamente compassionevole e tenero. Nè altrimenti egli si governò circa il
Danese, il
quale ei non diede {{già}} per infelice, ma per
felicissimo veramente, essendo morto, e generosamente morto per Dio, e nel tempo
stesso il volle fare e il fece oggetto di compassione e di tenerezza per la
temporale sventura e per questa morte fortemente incontrata e sostenuta. Ma ei
non si volle prevalere di tal facoltà nè di tali opinioni e disposizioni del suo
tempo, se non quanto a personaggi secondarii (come questo e Dudone)
3150 e in episodii; e l'eroe principale volle farlo felice non solo
eternamente ma temporalmente altresì, e la principale impresa volle che bene
uscisse non pure secondo il cielo, ma eziandio secondo la terra. Nel che non
m'ardisco però di riprendere il suo giudizio, nè so biasimarlo s'ei credette che
i dogmi metafisici (e poco conformi, anzi contrarii alla natura e che troppa
forza le fanno) non dovessero gran fatto influire sulla poesia, nè potessero
molto giovare a produr con essa un buono, bello e splendido effetto. Siccome
essi poco veramente influivano, anche al suo tempo, sopra le azioni e le quasi
secondarie opinioni degli uomini; nè valsero in alcun tempo a cangiare la natura
umana, alla quale dee mirare in ogni tempo il poeta. In verità due sorti di
opinioni e di dogmi, l'una dall'altra distinta, e che quasi nulla comunicavano
insieme, {tenevano} all'età del Tasso e ne' secoli a lei precedenti gl'intelletti
degli uomini. L'una Cristiana, l'altra naturale; quella quasi del tutto
inefficace
3151 e inattiva, la cui forza non si
stendeva fuori dell'intelletto e ne' termini di questo si restringeva la sua
esistenza; l'altra efficace attiva che dall'intelletto stendevasi a influire e
muovere la volontà, e governare le operazioni e la vita. Perocchè gli uomini
sono sempre mossi dalle opinioni, nè altro che le opinioni può cagionare le loro
azioni volontarie, nè v'ha opera umana volontaria che dalla opinione, ossia
giudizio dell'intelletto, non derivi. Ma l'intelletto umano è capace di
contenere al tempo stesso opinioni e dogmi dirittamente fra se contrarii, e di
contenerli conoscendone la scambievole, inconciliabile contrarietà, come
accadeva ai detti tempi. Ben diversi dalla primissima età del Cristianesimo,
quando un solo genere di opinioni regnava negli animi, cioè quelle della
religione, ed era efficace, e stendevasi alla volontà ed al reggimento delle
azioni interiori ed esteriori, e della vita. Ma questo durò assai meno di quel
che può credere
3152 chi non conosce la storia
ecclesiastica, o chi non ci ha riflettuto, o chi in essa si lascia imporre dai
nomi, e dal linguaggio tenuto in narrarla. Durò pochissimo, o, se non altro,
divenne in breve assai raro. Del resto egli è duopo distinguere in ciascuna età,
nazione, individuo le opinioni efficaci dalle inefficaci che nell'intelletto
puramente si restringono. Quelle talor possono servire alla poesia, talora non
possono (come le presenti, e vedi la pag. 2944-6. ), talor più, talora meno; queste sempre
pochissimo o nulla. {+Parlo delle
opinioni che in se hanno relazione alla pratica e al governo della vita, non
dell'altre, che son fuori del mio discorso. P. e. quelle opinioni, illusioni
ec. antiche o moderne che derivando dalla immaginazione {o dall'esperienza ec.} persuasero e occuparono, o persuadono ec.
l'intelletto, e nondimeno, non avendo nulla che far colla pratica della vita
per lor natura, non influiscono sulla volontà, e sono inefficaci, e queste
possono però, ed anche grandemente, servire alla poesia.}
[3342,1]
3342
Alla p. 3098.
Tutte le nazioni e società primitive, non altrimenti che oggidì le selvagge,
riputarono l'infelice e lo sventurato per nemico agli Dei o a causa di vizi e
delitti ond'ei fosse colpevole, o a causa d'invidia o d'altra passione o
capriccio che movesse i Numi ad odiar lui in particolare o la
sue[sua] stirpe ec. secondo le diverse idee
che tali nazioni avevano della giustizia e della natura degli Dei. Un'impresa
mal riuscita mostrava che gli Dei l'avessero contrariata o per se stessa o per
odio verso l'imprenditore o gl'imprenditori. Un uomo solito a échouer nelle sue intraprese, era senza fallo in ira
agli Dei. Una malattia, un naufragio, altre tali disgrazie provenienti più
dirittamente dalla natura erano segni più che mai certi dell'odio divino. Si
fuggiva quindi l'infelice, come il colpevole; se gli negava ogni soccorso e
compassione, temendo di farsi complice in questo modo della colpa, per poi
divenire partecipe della pena. Qua si dee riferire l'infamia pubblica in cui
erano i lebbrosi appresso gli Ebrei, e lo sono ancora, s'io non m'inganno, appo
gl'indiani. Gli amici {e la moglie} di Giobbe lo
3343
stimarono uno scellerato, com'ei lo videro percosso da tante disgrazie, benchè
testimonii dell'innocenza della passata sua vita. I Barbari dell'isola di
Malta vedendo l'Apostolo S. Paolo naufrago, e pur salvato in terra, e
quivi assalito da una vipera, lo stimarono un omicida che la divina vendetta
perseguitasse per ogni dove (Act. cap. 28. 3-6.) Rimane eziandio nelle
antiche lingue il segno, come d'ogni altra antica cosa, così di queste opinioni.
Tάλας (Aristoph.
Plut.) 4. 5. 19.), κακοδαίμων (ib. 4. 3.
47.), ἄϑλιος e simili nomi tanto valevano infelice, quanto malvagio,
scellerato ec. V. i latini. Onde anche tra noi sciagurato, disgraziato, misero,
miserabile {ec.} hanno l'uno e l'altro significato;
ovvero si attribuiscono altrui anche per avvilimento e disprezzo. Così in
francese malheureux, miserable ec. Cattivo ha perduto affatto il significato di
misero, che prima ebbe, ma non quello di ribaldo, reo, malo ch'è il suo più
ordinario e volgare significato oggidì. (3. Settembre 1823.). {{V. p. 3351.}}
{μοχϑηρός, πονηρός (πόνηρος infelix) μοχϑηρία, πονηρία ec. ec. V. lo Scapula, e p. 3382. κακοδαίμων quegli
che ha nemico τὸ δαιμόνιον cioè la
divinità, o τὸν δαίμονα. Ma e' vuol dire infelice. Luciano congiunge ϑεοῖς ἐχϑροὺς καὶ
κακοδαίμονας. Εὐδαίμων ch'ha gli dei amici, ma e'
vuol dir fortunato, felice. V. lo Scapula in queste voci e in
ἐχϑροδαίμων, e in βαρυδαίμων co' derivati ec. e Aristot.
Polit. l. 3. p. 260. e ivi
il Vettori (ed. Flor. 1576.).}
[4119,4] A quello che ho detto altrove pp. 3097. sgg.
pp.
3342-43
p.
3382 sul proposito che tra gli antichi felicità e bontà si stimavano
per lo più o sempre congiunte, e per lo contrario infelicità e malvagità, v. fra
l'altre cose Senofonte nel fine dei Memorabili e dell'Apologia dove prova che
Socrate fu
fortunato nella morte, mostrando che il provare la sua felicità anche a' suoi
tempi era parte e forma di apologia e di lode. E mille altri esempi se ne
trovano negli antichi, chi ha pratica di loro ed osserva bene. (7. Sett.
1824.).
[4240,1] Circa la stima che gli antichi facevano della
felicità, e il contarla come una delle principali doti dei loro eroi, e come
soggetto principalissimo di lode, è curioso vedere come Giorgio Gemisto
Pletone, nella sua breve ed elegantissima orazione in morte della imperatrice Elena, poi fatta monaca e detta
Ipomone, pubblicata da Mustoxidi e Scinà nella loro συλλογὴ ἑλληνικῶν
ἀνεκδότων, τετράδιον, cioè quaderno γ'., imitando nelle
altre cose, e molto felicemente, gli antichi, gl'imiti anche in questo, di lodar
principalmente quella donna per li favori della fortuna; sentimento alieno da'
suoi tempi. (Recanati. ultimo del
1826.).
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